Custodia cautelare: il carcere racconta a cura di Elton Kalica Il Riformista-PQM, 17 settembre 2025 Le storie di chi ha vissuto la custodia cautelare come punizione anticipata. Nel mirino finisce chi è già stigmatizzato. Il termine malagiustizia è spesso evocato per denunciare casi eclatanti di condanne ingiuste. Tuttavia, parlando di questo argomento in carcere, è emersa una questione importante che merita riflessione. Molti detenuti hanno avuto esperienze personali di questo tipo di malagiustizia: sono stati raggiunti da provvedimenti di custodia cautelare mentre si trovavano già in carcere e, al termine del procedimento penale, sono stati prosciolti. Durante una discussione nella redazione di Ristretti Orizzonti, mi sono tornate in mente alcune scene vissute ormai trent’anni fa, quando ero detenuto in attesa di giudizio. Ogni mattina, all’arrivo dell’ufficiale giudiziario, nel reparto detentivo calava un silenzio gelido: si attendeva di scoprire chi sarebbe stato chiamato. Poi, quando le persone convocate tornavano con il foglio in mano, bastava osservare la loro espressione per capire se si trattava di una convocazione per una camera di consiglio o di un mandato di cattura. Oltre alla mia esperienza personale, le testimonianze dei detenuti e numerosi studi, soprattutto Oltreoceano, evidenziano il ricorso eccessivo alla custodia cautelare nei confronti di persone pregiudicate, marginalizzate o razzializzate, spesso senza adeguata documentazione del reale coinvolgimento. Questa prassi trasforma la custodia cautelare in un meccanismo di punizione anticipata, che colpisce in maniera sproporzionata individui già etichettati come “colpevoli”. I detenuti percepiscono che gli inquirenti cercano di attribuire loro episodi irrisolti, sperando di trovare conferme solo in fase dibattimentale. Così, diverse persone si sono viste notificare procedimenti per furti o rapine che non avevano mai commesso, e hanno dovuto lottare per dimostrare la propria innocenza. L’uso del termine “lottare” per descrivere il processo non è casuale. Andare a processo mentre si è già detenuti complica seriamente la difesa: occorre pagare nuovamente l’avvocato e affrontare la perdita di credibilità, con la presunzione di innocenza che risulta già compromessa di fronte alla Corte. Spesso, anche il primo processo risente di questa dinamica: la presunzione d’innocenza viene erosa dai successivi mandati di cattura, percepiti come indizi di colpevolezza. E quando arrivano le assoluzioni, i detenuti devono ancora “combattere” per ottenere qualche forma di risarcimento per l’ingiustizia subita durante la custodia cautelare. La legge prevede, infatti, che il giudice della riparazione accerti se l’incolpato abbia causato o concorso a causare la detenzione con dolo o colpa grave. Dalle testimonianze emerge che, nella maggior parte dei casi, ogni forma di riparazione viene negata. Sbagliare è umano e chiunque può essere coinvolto erroneamente in un procedimento penale. Tuttavia, quando la custodia cautelare colpisce individui appartenenti a categorie socialmente stigmatizzate (stranieri, persone con precedenti penali o tossicodipendenti) lo status sociale diventa determinante nel definire l’interpretazione istituzionale della giustizia e dell’errore giudiziario. La malagiustizia è riconosciuta come tale soltanto quando la vittima appartiene a un gruppo considerato rispettabile e degno di fiducia sociale; in questi casi, anche i media amplificano il caso, denunciando la “rovina di una vita innocente”. Quando le vittime sono già stigmatizzate, invece, l’assoluzione non viene letta come un “disastro” della giustizia, ma come un esito fisiologico, una distorsione accettabile. Le conseguenze, però, restano devastanti per chiunque: vite compromesse, relazioni familiari distrutte, progetti di futuro annientati. La differenza è che, per i cosiddetti “per bene”, la società riconosce la tragedia, mentre per gli altri il danno rimane invisibile. Si può dire che non solo il diritto (e quindi la giustizia) ma anche la malagiustizia non è un concetto neutro: essa è socialmente costruita, selettiva e contribuisce a produrre nuove disuguaglianze. Un pregiudicato non è mai al sicuro Nel 2007 vengo accusato di una rapina a Ravenna, a piede libero. Niente custodia cautelare nonostante il derubato mi avesse riconosciuto nelle foto segnaletiche come l’autore materiale della rapina, ma il riconoscimento era avvenuto dopo sei mesi dalla denuncia, perché prima la vittima aveva dichiarato che il rapinatore armato di pistola e casco integrale non lo aveva mai visto in faccia. Mi fissano il processo dove l’avvocato, per difendermi, faceva avanti e indietro Napoli-Ravenna. Dalle indagini non c’era niente che mi collegasse alla rapina e a quel territorio, l’unica prova era il riconoscimento in questura, ma già smentito. Al processo vengo assolto ma ne esco deluso e sfiduciato. E mi è rimasto anche un forte danno economico per dimostrare la mia innocenza in una “folle indagine” dove si mandava a processo una persona praticamente solo perché pregiudicata. Penso che questa vicenda si è conclusa con due vittime: l’accusato e il derubato. Io sono stato assolto, ma credo che non avrei proprio dovuto arrivare al processo e mi è rimasta la delusione, la paura di non essere mai al sicuro e l’idea che tante indagini non garantiscono in nessun modo gli indagati. Ma c’è una seconda vittima, il derubato, che dopo aver subìto una violenta rapina è stato indotto ad accusare sulla base di foto una persona che non ha mai visto. Quindi mi vengono seri dubbi su come sono condotte alcune indagini e cado in un autentico sconforto al pensare che un pregiudicato non è mai al sicuro. Salvatore Quando la “rete della giustizia” pesca a strascico Gennaio 2001, ho appena diciott’anni, ecco che arriva un blitz direttamente da Torino, un’operazione importante, eclatante: dalla Puglia ci portano tutti al nord, carcere Le Vallette. In Puglia quando buttano la “rete della giustizia” spesso tirano su a strascico tutto quello che capita; io ci finisco dentro con un’accusa di 416 bis, estorsione e traffico internazionale di stupefacenti. Motivo? Avevo una relazione con la figlia di una delle persone arrestate. La vita si interrompe di colpo, vengo sbalzato a più di 1.000 chilometri da casa, prima carcerazione, a dir poco traumatica. I primi giorni passano in un’attesa snervante non so neppure di cosa, tutto è avvolto nell’ansia di non capire cosa mi sta succedendo. Un anno trascorre così. Poi per un vizio di forma a uno a uno veniamo scarcerati, si torna a casa in un misto di incredulità, rabbia e felicità. Settembre 2025: ad oggi nessun processo è stato istruito su quell’indagine, per quel blitz così “maestoso” e importante. Seppur legittima, la custodia cautelare mi interroga sull’ingiustizia che spesso avvolge questo strumento e il suo utilizzo, perché dopo 24 anni nulla è successo da quell’arresto, che mi ha relegato in una nuova dimensione rispetto alla mia vita di allora, bollandomi come un criminale. Non nascondo che quell’esperienza mi ha segnato nel profondo e forse il mio futuro sarebbe stato diverso se non avessi dovuto subire da innocente quel trattamento traumatico e mortificante che ha aperto la strada a scelte sbagliate che sto ancora pagando. Francesco Rabbia e odio nei confronti di quelli che mi tenevano rinchiuso con accuse ingiuste Diceva Filippo Turati in un discorso alla Camera nel 1904: “Noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Ecco, vorrei portare il lettore “per mano” attraverso il racconto di chi, come me, la scuola del crimine l’ha fatta ed è riuscito a laurearsi con il massimo dei voti: l’ergastolo. Ebbene, “la scuola del crimine” io la conobbi appena diciannovenne, nel 2008. Venni tratto in arresto per un mandato di cattura con accusa di porto d’armi abusivo. Mi portarono in un carcere sovraffollato, in pessime condizioni igienico-sanitarie, parcheggiato in attesa dell’ignoto. Sapevo sin da ragazzo che prima o poi sarei dovuto passare per la galera, me lo aveva anticipato mio padre quando avevo appena 13 anni e mi trovò in possesso di una pistola: “La strada che stai scegliendo ti porterà in carcere a vita o morto ammazzato!”. Aveva ragione, ma non riesco oggi a valutare quale delle due opzioni fosse la migliore. Dopo circa dieci giorni mi trasferirono nella mia terra, in Calabria, a Palmi, per affrontare le accuse e il processo. Se molte carceri italiane vengono definite “scuole del crimine”, Palmi è l’università, o perlomeno lo era. Le giornate noi detenuti le passavamo tra il cortile e la cella a discutere di processi, condanne, sentenze, ma quello che più di tutto ci accomunava era la voglia di emergere in un mondo che ai nostri occhi sembrava affascinante: il mondo del crimine, che illudendoci ci prometteva soldi facili, bella vita e potere. Venni scarcerato dopo pochi mesi; l’esperienza detentiva non mi aiutò a redimermi, anzi, fu come se quella breve detenzione mi avesse conferito una medaglia da esibire sul petto per fare vedere ai più giovani che il carcere non mi aveva piegato, bensì mi aveva reso più forte. Gli “affari” andavano bene, fino a quando non si presentò alla mia porta la polizia. Le accuse andavano dall’associazione mafiosa al traffico di droga. Venni portato in carcere in isolamento, dove rimasi per circa dieci giorni prima di essere trasferito in Calabria, dove mi aspettava una nuova esperienza: il reparto di Alta Sicurezza del carcere di Cosenza. Io in quel periodo iniziai a covare una sorta di rabbia e odio nei confronti di tutti quelli che mi stavano tenendo rinchiuso con accuse ingiuste, poiché i reati che mi venivano contestati sapevo di non averli commessi, e l’unica volta che venni convocato da un’educatrice, alla sua domanda riferita al mio coinvolgimento in quei fatti risposi con fermezza: “Io sono innocente.” Da quel momento non venni più chiamato da nessuno perché ritenuto omertoso e quindi mafioso. Le giornate passavano in quella monotonia snervante in cui il pensiero che si affacciava con maggior insistenza alla mia mente era quello della vendetta, della rivalsa per quello che ingiustamente stavo subendo. Ci volle più di un anno per chiarire la mia posizione processuale, ma venni scagionato da tutte le accuse e assolto con formula piena e subito dopo scarcerato. L’esperienza dei reparti differenziati mi insegnò a non mostrare mai le emozioni e mi fece maturare sentimenti di odio e di rabbia. E non a caso, appena uscito dal carcere, il giorno dopo indossai il passamontagna e cominciai a fare quello che sapevo fare, ma con molta più determinazione e violenza nei confronti di tutto e di tutti. Ero diventato una bomba a orologeria e la mia rabbia esplose, trovando conforto nell’azione criminale, nell’adrenalina del rischio e della rivalsa, prendendo con la forza tutto quello che desideravo, senza considerare niente e nessuno. Io ero stato ritenuto colpevole “a prescindere”, ed allora tutti coloro che permettono alla giustizia di operare in questo modo, facendolo anche nel nome del popolo italiano, sono tutti colpevoli, pensavo. In poco meno di un mese mi macchiai di crimini orribili, tra cui una rapina finita nel sangue. Da quel momento in poi il mio percorso autodistruttivo ebbe i giorni contati: ben presto infatti venni arrestato. Era la fine di tutto. Giuliano N., condannato giovanissimo all’ergastolo Detenuti senza domicilio, strutture di accoglienza per le misure alternative di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2025 Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Dm Giustizia 24 luglio 2025, n. 128 che crea un elenco delle strutture disponibili ed i requisiti soggettivi che devono avere i detenuti per proporre istanza. Dal prossimo 30 settembre gli avvocati potranno avviare il procedimento per permettere ai propri assistiti, detenuti senza possibilità di godere di misure alternative per l’assenza di un domicilio, di fare domanda per l’accoglienza in una struttura residenziale volta al reinserimento sociale. È stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 214 del 15 settembre scorso, il D.M. Giustizia 24 luglio 2025, n. 128, che introduce per la prima volta una cornice organica per le case di accoglienza stabilendo criteri uniformi per iscrizione, vigilanza, accesso e sostenibilità. Il decreto prevede l’istituzione di un elenco, aggiorna due volte l’anno, delle strutture per l’accoglienza e il reinserimento, con le caratteristiche che devono avere e le modalità per il recupero delle spese. Vengono poi dettagliati i presupposti soggettivi e di reddito per l’accesso. Possono presentare domanda, direttamente o tramite il proprio avvocato, i detenuti con le seguenti caratteristiche: 1) ammissibili a misure penali di comunità; 2) privi di un domicilio idoneo; 3) con reddito entro i limiti per il patrocinio a spese dello Stato; 4) non destinatari di provvedimenti di espulsione. I requisiti devono essere posseduti congiuntamente. La permanenza massima è di 8 mesi, dopodiché il beneficiario dovrà procurarsi un domicilio autonomo. Presso ogni Istituto penitenziario viene istituito un elenco, con i nomi dei detenuti in possesso dei requisiti che hanno presentato domanda per una misura penale di comunità. Il Direttore dell’istituto, verificati i requisiti, avvalendosi della Relazione dell’Equipe di osservazione e trattamento, trasmette l’istanza per l’attestazione della disponibilità di un posto con oneri a carico dell’Amministrazione. La Relazione, fra l’altro, dovrà verificare: a) l’assenza di sanzioni disciplinari superiori all’ammonizione del Direttore; b) l’assenza di episodi di aggressività etero-diretta; c) le abilità lavorative possedute o acquisite durante lo stato di detenzione; d) la attiva e proficua partecipazione ai percorsi trattamentali; e) ogni ulteriore elemento che possa supportare il raggiungimento dell’obiettivo di inserimento lavorativo e il reperimento di un domicilio autonomo. A questo punto la Direzione dell’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna può rilasciare l’attestazione che viene trasmessa all’Autorità giudiziaria competente a decidere. Le richieste sono istruite secondo l’ordine di acquisizione. La decisione dell’Autorità giudiziaria, anche in caso di rigetto, è comunicata immediatamente, a cura della cancelleria, all’Ufficio. Se l’Autorità giudiziaria non decide alcunché entro due mesi, l’attestazione perde i suoi effetti e l’Ufficio interdistrettuale assegna il posto ad un altro detenuto. Se invece la decisione è negativa l’attestazione perde immediatamente i suoi effetti. Per il programma vengono stanziati 7 milioni di euro l’anno a decorrere dal 2024; le risorse sono ripartite fra gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (UEPE). In caso di domanda superiore alle risorse, verrà data priorità alle strutture con migliori programmi di reinserimento e risultati documentati. Al termine della misura, lo Stato può procedere al recupero delle spese sostenute, applicando le norme del Testo Unico sulle spese di giustizia (D.P.R. 115/2002). Gli avvocati avranno dunque un’arma in più per tutelare i propri assistiti redigendo una istanza motivata, evidenziando che l’assenza di domicilio è un ostacolo superabile grazie al D.M. 128/2025; oltre alla condizione di indigenza e quindi il diritto alla copertura a carico dello Stato; infine, l’indicazione della struttura disponibile (se individuata) ed eventuali percorsi di reinserimento già avviati. Quei “gessetti colorati”, un filo invisibile che lega padri detenuti e figli liberi oltre le mura del carcere di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 17 settembre 2025 Pacche sulle spalle, battute al vetriolo, litigi goliardici per una partita di calcio o di tennis, cazzeggio continuo: la vita delle persone detenute non è improntata alla tristezza, ma a una rozza e virile sfida alle avversità della vita e alle difficoltà carcerarie. Non tutti: ci sono anche i “morti viventi”, quelli che hanno gettato la spugna e vivono in uno stato quasi vegetativo, buttati sulle brande o seduti davanti alle loro celle. Parlano a stento, se non per qualche vago lamento, sono passivi e inespressivi. Ma la maggioranza ride e scherza, a volte fanno i duri e i menefreghisti, per dimostrare, innanzitutto a sé stessi, di essere più forti di ogni dolore. Io mi sono adeguato, e quando, insieme a Fabio Falbo, non siamo impegnati a dare risposte sui problemi politici, sociali e legali della vita carceraria, ci divertiamo con la maggioranza sfrontata, scambiando sorrisi sornioni, pacche sulle spalle, battute e frasi di incoraggiamento. Come se fossimo parte di una squadra che sta affrontando una dura prova e i cui componenti si incoraggiano a vicenda. C’è però qualcosa che, anche dopo otto mesi di cella, mi colpisce allo stomaco e mi piega nella commozione, una luce che nessuno può vedere, se non entra qua dentro: il rapporto delle persone detenute con i loro familiari e in particolare con i loro figli. Vi ricordate la stucchevole retorica dei “gessetti colorati”? Quella che voleva adulti e bambini disegnare insieme con questi gessetti colorati nelle piazze italiane e attribuiva a questo rito artistico meravigliosi poteri salvifici per tutta l’umanità? Uno dei tanti modi “buonisti” per esorcizzare le sfide della vita individuale e sociale, per far dimenticare i conflitti in cui bisogna combattere ogni giorno. Beh, anche il carcere ha i suoi “gessetti colorati”, anche se meno retorici: sono mazzi di matite di tanti colori che i padri detenuti, non so come, riescono a raccogliere, custodiscono gelosamente e si scambiano tra di loro. Anch’io ho uno di questi tesori - un enorme astuccio nero con un’ottantina di matite di ogni tipo - che mi è stato lasciato da Valerio, mio ex- compagno di cella proveniente da Ostia e padre di una bella bambina, quando finalmente è riuscito a uscire dal carcere. Non potendolo condividere con mio figlio Manfredi, che ha trent’anni, questo tesoro colorato lo uso per sottolineare i libri di politica che sto leggendo, ovviamente in attesa di poterlo trasmettere a qualcun altro quando arriverò a fine pena. A cosa servono, insomma, questi mazzi di matite? A far giocare i figli più piccoli quando i padri li incontrano nelle ore d’aria. Questi padri detenuti si attrezzano minuziosamente, con fogli di carta, le matite colorate, qualche pallone, altri semplici giochi, per tentare di far vivere spensieratamente ai loro figli quel poco di tempo che passano insieme. Strumenti semplici e disperati per recuperare un poco di paternità e di rapporto con i propri bimbi e i propri ragazzi. E li vedi aggirarsi per l’“area verde” (lo spazio aperto a lato della Chiesa centrale, in cui si svolgono la maggioranza dei colloqui) questi padri detenuti, che spesso sono degli omoni tatuati, che corrono, giocano, strillano, con i loro figli sulle spalle, presi per mano, inseguiti e abbracciati. Bimbetti stupiti, bambine bionde, ma anche ragazzi chiaramente provati dalla tristezza e dalla noia della situazione che stanno vivendo. E i loro genitori che cercano in ogni modo di distrarli e di coinvolgerli. Quando vedo tutto questo, allora - lo confesso - sento un pugno sullo stomaco e mi commuovo di fronte a questo disperato tentativo di essere una famiglia, di essere padri, nonostante le sbarre e la separazione. E questo vale anche per le mogli, le ragazze, i fratelli, le sorelle e i genitori che vengono a trovare le persone detenute. Con le giovani mogli e le ragazze prevalgono le effusioni, con genitori e fratelli le lunghe chiacchierate, spesso cercando argomenti sempre nuovi per alimentarle. E le madri incerte e con gli occhi lucenti, che guardano con amore i loro figli scapestrati o sfortunati. Se per i bimbi prevale la preoccupazione di trovare il modo di farli giocare, per gli altri parenti i miei colleghi si concentrano nelle colazioni da mangiare insieme. Già dai giorni precedenti fervono i preparativi, si ordinano i dolci o le pizze (abbiamo qui al G8 un’ottima pizzeria gestita da persone detenute, coordinate dall’ottimo Luca, un vecchio militante del Fronte della Gioventù di Latina), si prepara l’immancabile caffè. Poi, nei giorni prestabiliti, a prima mattina si leggono gli elenchi dei colloqui appesi in bacheca e, se si trova il proprio nome, si fa la barba, la doccia e ci si veste con i vestiti migliori. E poi, quando si viene chiamati, spesso con ritardi di ore, si va veloci, visibilmente emozionati, verso i cancelli dell’area verde. Perché, vedete, quando una persona viene reclusa, a pagare il prezzo non è solo lui, ma è tutta la sua famiglia. E in particolare sono i suoi figli, che vengono privati, anche per tutta la loro fanciullezza e adolescenza, di un genitore. Certo, il padre o il figlio recluso poteva pensarci prima, prima di compiere i suoi reati (se li ha commessi veramente), ma la Società e lo Stato ci devono pensare dopo, non regalando niente a nessuno, ma neanche negando i benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario, quando sono state maturate le condizioni per accedervi. Perché, cari amici liberi che mi leggete, ricordatevi sempre che una buona parte del sovraffollamento carcerario è provocato anche dalla sconcertante severità, o prudenza, o dimenticanza nelle pile di pratiche accumulate, con cui vengono trattate le tante richieste di permessi premio, di affidamenti in prova, di semilibertà e di arresti domiciliari. Ed è un serpente che si morde la coda: più sovraffollamento c’è, più si accumulano le pratiche da trattare, più aumentano queste pratiche in giacenza, più cresce il numero di persone che rimangono ingiustamente ad affollare gli istituti di pena. Ricordatevi, cari cittadini, magistrati e politici: quando volete “gettare la chiave” di una persona detenuta, quando non gli date una possibilità di riabilitazione e una speranza di uscita, gettate via anche le esistenze dei loro familiari e dei loro figli. Che non hanno fatto nulla, ma che pagano lo stesso. Le maranzine e il carcere per minori: “A 16 anni senza denti, distrutte da eroina e alcol” di Allegra Ferrante Corriere della Sera, 17 settembre 2025 Intervista a Domenica Belrosso, dirigente del ministero della Giustizia, per anni alla guida del penitenziario femminile di Pontremoli e del Beccaria di Milano: “Queste giovani fanno gruppo perché spinte da un’intensa infelicità. Non rubano per ragioni economiche, ma per dire: io esisto”. “Sono kitsch, si mostrano spavalde. In realtà si sentono fragili, fuori posto. Il gruppo le salva, o almeno così credono. Per molte adolescenti diventare maranzine non è una scelta di stile, ma l’unico modo per esistere”. A raccontarle è Domenica Belrosso, una colonna del sistema penitenziario minorile in Italia; ha iniziato da educatrice in carcere, oggi guida l’Ufficio dei Servizi sociali per minorenni del ministero della Giustizia, è stata a lungo vicedirettrice del Beccaria di Milano e poi direttrice dell’Istituto penale femminile per minorenni più noto d’Italia, quello di Pontremoli. Come si formano questi gruppi di ragazzi che aggrediscono e rapinano i loro coetanei? “Che i ragazzi si aggreghino, è normale. Che lo facciano per comporre un gruppo musicale in uno scantinato, anche. Che si radunino nei quartieri periferici o centralissimi di Milano per delinquere, è inammissibile. Ridurre il fenomeno alle cosiddette "baby gang" è un’illusione. Un’etichetta carica di pregiudizi e stereotipi che rischia di semplificare un problema dilagante e stratificato”. Cosa c’è allora dietro l’etichetta? “Giovani che si avvicinano l’uno all’altro perché motivati da un’intensa infelicità: tante infelicità messe insieme e condivise si trasformano in una piccola felicità. Come pezzi di un mosaico frantumato, provano a costruirsi un’identità. Anime confuse, spezzate, accomunate da dolori silenziosi che, aggregandosi, sperano di trovare un senso di appartenenza”. Però rubano. Girano armati. Spaventano. “I reati che commettono vanno oltre il furto o l’aggressione. Esprimono una dimensione più complessa: sono un modo per esercitare potere, un controllo sull’altro. La dinamica di gruppo accentua il senso di intimidazione. Il loro agire feroce, prepotente, vigliacco non nasce dal desiderio economico. Non esiste alcun vantaggio nel rubare un cellulare al solo scopo di rivenderselo pochi istanti più tardi. È l’impellente bisogno di colmare un vuoto di riconoscimento. È il dolente caos emotivo che li decompone”. Fare del male per essere visibili? “Diventare pericolosi è la risposta più immediata all’essere invisibili, ghettizzati, emarginati. Sono piccoli, brutti, sporchi, cattivi, stranieri, psichiatrici, drogati. A modo loro, provano a dire: io esisto”. Questa esigenza di riconoscimento vale anche per le ragazze? “È come un femminismo esasperato che pretende che le ragazze siano uguali ai maschi, passando attraverso le stesse storture, le stesse scelte insensate. Le maranzine al traino dei compagni, i maranza. Delinquere per loro. Con loro. Meglio di loro”. Dunque un’inadeguatezza analoga, ma quasi esasperata? “Si vestono in modo vistoso, ma si percepiscono brutte, marcatamente distanti dal modello della ragazzina della Milano bene. Lontane da quell’estetica raffinata, da un paradigma sociale idealizzato, da simboli di status irraggiungibili, economicamente inaccessibili. In questa non-logica, diventare maranza, anzi, maranzina, è percepito come l’unica salvezza”. Resta spazio per l’incertezza, la debolezza, la preoccupazione nelle loro vite? “Esibiscono una libertà sessuale (“Vado con chi voglio, nessun mi può fermare”) che rivela, in realtà, una inconsapevolezza della propria corporeità. Nel caso di un semplice riferimento alla clitoride, la reazione è sorprendente: diventano rosse, impacciate. E’ paradossale: pur essendo donne sotto tutti gli aspetti, sono ancora bambine. Alternano la rivendicazione di un’autonomia assertiva e trasgressiva (“Non mi puoi tenere in galera, comando nel quartiere”), a gesti di regressione all’infanzia, come dormire con l’orsacchiotto. Il desiderio di maternità, a volte inconscio e deluso, rivela un bisogno irrefrenabile di riversare tutto l’affetto e l’attenzione mai ricevuti”. Come diventano “maranzine”? “Si stringono a figure maschili che fanno reati, attratte dal ribelle con il coltello in tasca. Ne condividono ogni sorta di pratica trasgressiva, usi e abusi compresi. E in questa relazione disfunzionale provano a rintracciare un illusorio senso di valore, di protezione. “Solo lui mi potrà amare”, solo un uomo così. Un circolo vizioso che le àncora ai maranza e le definisce in un ruolo subalterno (“la donna di tizio”). È comunque una rivincita: non importa che provengano da contesti relazionali devianti e marginali. Desiderano essere amate”. Desiderano affermarsi e scelgono un’identità che le porta a un’ulteriore marginalizzazione? “Certo, ma è una strategia esistenziale ineludibile. Se non ti identifichi con qualcosa, sei invisibile. Non esisti. È una scelta obbligata. Lo ripeto: le ragazze di cui parliamo non hanno abbastanza fiducia in se stesse. Paradossalmente, in questa accettazione dell’inadeguatezza si cela una forma di rassegnazione attiva: la convinzione di non valere nulla si trasforma in una sorta di auto-convalida, per cui si può essere felici di sentirsi infelici. In assenza di modelli alternativi, di fronte alla prospettiva dell’invisibilità, l’adesione a questi gruppi diviene un orgoglio, l’unica via per rivendicare una propria presenza nel mondo”. Che ragazze ha conosciuto a Pontremoli? “Il quadro è di una complessità dolorosa. Una buona porzione di queste ragazze appartiene alle seconde generazioni, sono figlie di unioni miste, dove la madre ha spesso un passato da maranza. Una sorta di filiazione, una trasmissione quasi genetica di condotte e destini. Nonostante l’intenzione delle madri di desiderare un futuro migliore per le figlie, le vicende si replicano, creando “microfamigliole” con madri single, padri assenti ed il fidanzatino maranza della figlia al seguito”. Il contesto sociale è sempre lo stesso? “No, altre ragazze provengono dal cosiddetto “malessere del benessere”, dalla borghesia urbana. In questo caso c’è una paradossale assenza di gerarchia familiare, i genitori - spesso di elevato livello culturale e con un buon tenore di vita - si pongono su un piano di assoluta reciprocità. I parametri sono saltati, e ciò che sarebbe l’autorità dei genitori si dissolve, lasciando i giovani senza guida e contenimento”. Ha notato qualche aspetto comune, al di là del background sociale? “Un filo conduttore lega gran parte di queste giovani: molte di loro hanno già manifestato disagi a scuola, o sono seguite dai servizi di neuropsichiatria infantile o dall’assistente sociale per storie pregresse di fragilità. A ciò si aggiungono gravi problemi di tossicodipendenza, con scene desolanti di ragazzine di sedici anni senza denti, segnate dall’abuso di eroina mista a cocaina e alcol”. Ricorda in particolare una di loro? “Quella che appena arrivata a Pontremoli mi disse: “Non ho mai visto il mare”“. Qual è il ruolo del sistema penitenziario minorile, come si interviene su queste ragazze? “Bisogna spingerle di fronte al dolore che provocano all’altro, che sia un anziano, un coetaneo o una giovane donna: è l’umanità che si è persa. Che hanno perso. Non sono capaci di mettersi in relazione con l’altro, è una sofferenza difficile da gestire. E la soluzione è solo lì, nel riprendersi questo pezzettino. Tutti questi ragazzi hanno dei talenti, nessuno glieli vede. Bisogna cercarglieli, a costo di infilarsi dentro, di tenerli attaccati a qualcosa di buono. Spesso è troppo tardi. La frase “meno male che mi hanno arrestato, così vi ho incontrato”, che mi è capitato di sentire, è inaccettabile. Continuerò a lavorare per cercare di rimanere disoccupata. Dovremmo essere l’estrema ratio di situazioni marginali, dove proprio non sai più che altro fare. E invece…”. Alcune di loro si salvano? “Nonostante noi, direi di sì”. Carriere dei giudici, la destra verso il terzo sì alla Camera di Marina Della Croce Il Manifesto, 17 settembre 2025 Il voto entro domani, poi l’ultimo passaggio in Senato. Ultimi fuochi alla Camera, prima dell’inevitabile via libera alla riforma della giustizia voluta dal governo, con la separazione delle carriere. Le opposizioni hanno messo in campo tutti gli strumenti possibili, comprese le dichiarazioni di voto in massa nella serata di ieri, per tentare di rallentare il percorso della riforma costituzionale. Con il secondo sì della Camera, che dovrebbe arrivare entro domani, la riforma è alla terza lettura: manca solo l’ultimo sì del Senato, che potrà arrivare dopo il 22 ottobre, tre mesi dopo il primo voto dell’aula di palazzo Madama, come prevede l’articolo 138 della Costituzione. Le destre puntano a chiudere la partita entro fine anno: la giustizia è l’unica riforma costituzionale che Meloni e soci possono approvare entro il 2027, visto che il premierato non ha chance di arrivare in porto visto che è fermo alla Camera dopo il primo sì del Senato a giugno 2024. Ieri il testo ha ricevuto il via libera della commissione Affari Costituzionali di Montecitorio, che ha approvato il mandato ai relatori. “La nostra battaglia continuerà dentro e fuori il Parlamento contro questo attacco ai principi della Costituzione e alla separazione dei poteri”, ha detto uscendo dalla commissione la capogruppo Pd Chiara Braga Le destre hanno votato a favore, Pd, Avs e M5S contro, mentre i centristi di Italia Viva, + Europa e Azione non hanno partecipato al voto. In Aula è iniziata la discussione generale nel pomeriggio. Maggioranza e opposizione hanno ripetuto le loro ragioni, con un copione abbastanza prevedibile. Qualche scintilla quando il deputato dei 5S Federico Cafiero De Raho (ex procuratore nazionale antimafia) ha ricordato che la separazione delle carriere “era il progetto della P2 di Licio Gelli”. “Gelli pensava che fosse il metodo per indebolire e rendere condizionabile la magistratura. Ai tempi della costituente non fu approvata proprio perché uno stato liberale si fonda sulla tripartizione dei poteri. E non si volle indebolire l’ordine giudiziario, rendere la magistratura succube della politica”, ha detto De Raho. “Noi vogliamo che i magistrati continuino a fare il proprio dovere senza guardare in faccia a nessuno”. Igor Iezzi, della Lega, ha aperto il fuoco: “Autonomia e indipendenza della magistratura è togliere le toghe dalle grinfie del Pd”. E ha attaccato anche De Raho a proposito della sua nomina alla guida dell’antimafia e di inesistenti dossieraggi “contro i partiti avversari”. Il deputato 5S ha reagito con una querela: “Iezzi mi ha calunniato e diffamato in modo vergognoso, la sua è violenza verbale”. Filiberto Zaratti, di Avs, ha replicato alla destra che citava l’ex giudice Luca Palamara a proposito delle vicende correntizie delle toghe. “In quest’aula non bisogna citare Palamara, ma i magistrati assassinati” e ha elencato molti nomi di vittime di mafia e terrorismo. E ha aggiunto: “La destra intende sferzare il primo grande attacco alla Costituzione: la creazione di due corpi di magistratura separati, con due Csm governati da persone scelte per sorteggio, è un modo per rompere l’unitarietà della funzione giurisdizionale e creare le premesse per un pm più legato alle logiche del governo che a quelle del diritto”. Il dem Federico Gianassi ha parlato di una “riforma pericolosa che si accanisce sull’autonomia e l’indipendenza della magistratura”. “Tra la Costituzione scritta da Calamandrei e la proposta di Nordio e Delmastro non abbiamo dubbi: difendiamo la Costituzione italiana”. E se la destra ha citato alcune passate proposte Pd che prevedevano la separazione delle carriere, Federico Fornaro ha replicato: “Si trattava della mozione congressuale di Maurizio Martina, che non ha vinto il congresso e dunque non è passata. Noi a differenza di altri i congressi li facciamo per davvero”. Ormai gli occhi di tutti i partiti, più che sulle aule parlamentari, sono puntati sul referendum, che potrebbe tenersi già nella primavera 2026. La destra ostenta sicurezza: “Siamo pronti, senza alcun imbarazzo andremo strada per strada”, dice Iezzi. Così anche Forza Italia. Per le opposizioni è l’occasione per assestare un colpo alla maggioranza. Ma il tema è assai scivoloso e il risultato non scontato. “Non ci fermerete”. Il centrodestra rivendica in Aula la riforma Nordio di Valentina Stella Il Dubbio, 17 settembre 2025 Il ddl costituzionale per la separazione delle carriere è sbarcato ieri per la seconda volta nell’Aula della Camera dei deputati. Com’è noto siamo nella seconda fase di deliberazione, precisamente alla terza lettura. Ma chi pensava che le opposizioni avrebbero rubato tutta la scena si è sbagliato. Infatti ieri ha deciso di farsi sentire anche la maggioranza, che al Senato aveva scelto nella maggior parte delle occasioni il silenzio. Al momento in cui andiamo in stampa, su trentadue interventi da massimo trenta minuti ciascuno, infatti, se ne contano tredici di deputati dei partiti che sostengono il governo: quattro di FdI, tre di FI, cinque della Lega, uno di Noi Moderati. E oltre al viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che segue i lavori fin dall’inizio dell’iter parlamentare, è stato presente in Aula sin dall’apertura della seduta anche il guardasigilli Carlo Nordio, che a Palazzo Madama non aveva partecipato a tutte le discussioni. L’attenzione sul tema è cresciuta nelle ultime settimane, con gli interventi di ministri diversi da quello responsabile di via Arenula come Musumeci e Zangrillo. Di conseguenza, anche le opposizioni e l’Anm si erano fatte sentire. Di qui la volontà di azzurri, Carroccio, del partito della premier Meloni e di quello di Maurizio Lupi di non lasciare vuoti comunicativi a Montecitorio, anche se la scelta potrebbe comportare lo slittamento di un giorno, vale a dire a domani, dell’approvazione. È chiara la volontà di rendere visibile la mobilitazione collettiva per una riforma che impegnerà ogni singolo parlamentare sul proprio territorio, quando si avvicinerà il referendum. Sono state previste quasi trenta ore di discussione. Stasera o domani arriverà il via libera da parte di Montecitorio. Sisto ha confermato quanto da ipotizzato su queste pagine nei giorni precedenti, ossia che l’ok definitivo in seconda deliberazione al Senato potrebbe arrivare già a ottobre: “È possibile approvare definitivamente la riforma prima della sessione di Bilancio”. Il che avvalora l’impressione di un serrate le fila da parte della maggioranza, con relativa stretta sui tempi. L’obiettivo è arrivare al voto popolare confermativo il più lontano possibile dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento, e magari prima di eventuali pronunce giudiziarie sulla capo Gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi, indagata per la vicenda Almasri. Durante la mattinata, la commissione Affari costituzionali aveva dato mandato ai tre relatori: Nazario Pagano per FI, Francesco Michelotti di FdI e Simona Bordonali della Lega. Proprio il presidente della commissione ha rivendicato con “orgoglio” la “qualità dell’istruttoria svolta”, con decine di audizioni. Ha replicato Gianni Cuperlo del Pd: “Avete imposto una riforma costituzionale blindandola dall’inizio. Non basta dire che il Parlamento è sovrano e non esiste l’obbligo della maggioranza di modificare una norma. In una democrazia la sintesi la fa il Parlamento, non la maggioranza”. Ma il dibattito è stato caratterizzato dal continuo rinfacciarsi a vicenda presunte incoerenze. Roberto Giachetti, deputato di Iv, ribadendo il giudizio positivo sul merito della riforma, ha criticato l’impossibilità di modificare il testo e, rivolto in particolare a Sisto, ha detto: “Il governo ha costretto anche Forza Italia a ritirare i propri emendamenti. Mi sono chiesto perché questa accelerazione”. Per Giachetti, ironicamente, il motivo risiederebbe nel fatto che “avendo il ministro della Giustizia contraddetto gran parte delle cose che ha scritto e detto nella sua vita, nella sua carriera, voi avevate paura che se non vi affrettavate alla terza e quarta lettura, Nordio potesse ripensarci, come ha fatto sul panpenalismo, come ha fatto sulle carceri, come ha fatto su tante altre cose, anche su questa riforma, e voi vi sareste trovati con la frittata”. Poi ha concluso: “Basta con questa litania, con questo storytelling in cui intestate la riforma a Berlusconi. Non è che in questo Paese Berlusconi abbia al massimo governato un consiglio di amministrazione o una Regione: è stato il presidente del Consiglio per alcuni anni, non ci siamo accorti di questo spirito riformista da parte sua e di tutta Forza Italia quando aveva una maggioranza, quella sì super blindata, e poteva fare queste riforme”. La pentastellata Patty L’Abbate ha ricordato che tanti anni fa “era stato lo stesso Nordio a firmare una petizione contro la separazione delle carriere”. Ma a propria volta la severissima Sara Kelany, deputata molto vicina a Giorgia Meloni, nel suo lungo intervento ha riletto quasi per intero un articolo del quotidiano Il Foglio intitolato “Un’idea di sorteggio per il Csm: è in gioco la libertà”, in cui si leggeva tra l’altro che “le correnti si comportano come piccoli partiti”. “Questo pezzo non lo ha scritto il sottosegretario Sisto, non lo ha scritto il ministro Nordio, non lo ha scritto Giorgia Meloni, lo ha scritto Luciano Violante nel 2015”, ha chiarito Kelany tra gli applausi del suo partito. Ha quindi ricordato la famosa mozione del dem Maurizio Martina in cui si scriveva: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo ed imparziale”. Ha poi concluso: “Non ci fermerete, non arretreremo, potete usare tutte le armi che volete ma andremo avanti. Lo abbiamo promesso agli italiani e questo vostro arroccarvi su posizioni ideologiche, trincerarvi dietro le toghe di quei pochi giudici che vogliono mantenere intatto lo status quo non ci spaventa”. Ne vedremo delle belle. Contraddittorio cautelare, la lunga marcia incompiuta di Eriberto Rosso Il Riformista-PQM, 17 settembre 2025 La vera soluzione è sempre la stessa: un Giudice effettivamente terzo che sia davvero separato sul piano ordinamentale dal Magistrato del PM. Il codice del 1930 prevedeva la carcerazione preventiva dell’accusato come fatto ordinario e la libertà provvisoria come eccezione. Ovviamente diverso lo scenario, che finalmente tentava di uniformarsi al dettato costituzionale, realizzato con il codice di procedura penale del 1989, ispirato ai principi dell’accusatorietà. Fin dall’entrata in vigore del nuovo Codice, però, le vicende della cautela penale sono state oggetto di scontro tra l’effettività delle esigenze di garanzia da un lato e le mai sopite spinte inquisitorie dall’altro. Il Legislatore, sorretto da diverse maggioranze, è intervenuto più volte al fine di tentare di preservare i diritti di libertà e l’effettività delle garanzie di difesa, in alcune altre occasioni, cedendo invece a pulsioni emergenziali. Neppure i nuovi diritti processuali previsti dall’art. 111 della Costituzione riformato sono stati in grado di stabilizzare il quadro. Il risultato è ad oggi una disciplina a dir poco asistematica, frutto della stratificazione di novelle legislative intervenute anche per contrastare certi orientamenti della giurisprudenza. Si è ritenuto di procedere per via normativa al fine di “difendere” il concreto esercizio del diritto al silenzio che non può essere indice di pericolo di inquinamento della prova e si sono rimodulati i presupposti della specifica esigenza cautelare (legge 332/95); si è estesa per legge la regola di giudizio ordinaria anche alla fase cautelare e individuata la inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato quando non venga indicata la fonte diretta (legge 63/2001). Ancora, si è prevista la condivisione scritta del Procuratore della Repubblica alla richiesta di applicazione della misura cautelare da parte del P.M. assegnatario del procedimento (D.lgs. n. 106/2006). Si è indicata per via legislativa la specificazione di concretezza e attualità dei pericula e previsto il rafforzamento dei rimedi cautelari (legge 47/2015). Non può essere dimenticato in questo elenco il referendum del 2022, il cui risultato è noto, che aveva l’obiettivo di limitare l’incidenza del pericolo di reiterazione quale giustificazione per la misura del carcere ai soli reati più gravi. Da ultimo ha provato a mettere ordine il Parlamento con la legge 114 del 9/08/2024 (c.d. riforma Nordio). Tra le diverse previsioni interessa qui sottolineare il meccanismo per il quale, per la sola custodia in carcere, il Giudice debba procedere preventivamente all’interrogatorio della persona nei confronti della quale è richiesta tale misura. Di per sé la previsione è corretta e parrebbe destinata a realizzare il fondamentale principio del contraddittorio che deve attenere anche alla fase cautelare. La modalità però non riguarda ogni accusa, essendo previste deroghe, nella tradizione del doppio e triplo binario che oramai caratterizza la nostra legislazione penale, che ne escludono l’operatività per un lungo catalogo di reati ed è inoltre limitata al solo pericolo di recidiva. Non si tratta dunque di un contraddittorio preventivo sui presupposti e sulle ragioni della misura: il Giudice lo disporrà solo dopo aver valutato la richiesta dell’accusa, e aver ritenuto la stessa evidentemente fondata sia in ordine alla gravità indiziaria sia alla prospettazione del pericolo di reiterazione. All’indagato è riservata la mera resistenza alla complessa valutazione del fatto per come costruita dal Pubblico Ministero prima e dal Giudice poi. I pochi dati disponibili relativi all’anno di vigenza della nuova disciplina - empiricamente raccolti nell’attività professionale e in parte rilevabili dalle pronunce della Cassazione - danno conto di come la discussione dinanzi al Giudice sia per lo più limitata a resistere il fondamento del pericolo di reiterazione, o la intervenuta sua modificazione in senso favorevole, raramente sulla gravità indiziaria. Anche questa riforma, dunque, più che realizzare un vero e proprio contraddittorio si limita a introdurre un ulteriore filtro contro “l’appiattimento del Giudice delle indagini preliminari sulle richieste dell’Ufficio del Pubblico Ministero”. A riprova di come sia ancora lunga la strada per realizzare in sede cautelare il contraddittorio, vicende recenti mostrano come l’intervento del Giudice per le indagini preliminari si risolva in un mero controllo della tenuta di quanto prospettato dal Pubblico Ministero. È oramai imprescindibile considerare che la realizzazione del contraddittorio cautelare non può che prevedere un Giudice effettivamente terzo, separato sul piano ordinamentale dal Magistrato del Pubblico Ministero, portatore di una cultura dei diritti, in grado di considerare autonomamente gli elementi di prova e le eventuali ragioni di cautela, lontano da ogni condizionamento investigativo. Interrogatorio preventivo, un primo bilancio di Luca Marafioti Il Riformista-PQM, 17 settembre 2025 Da sempre avamposto nell’applicazione poco garantista degli istituti del processo penale, Milano non pare smentirsi neppure questa volta. La recente inchiesta sull’urbanistica, tra l’altro, autorizza a riparlare su queste colonne dell’interrogatorio “preventivo” introdotto dalla Riforma Nordio, cui il destinatario va sottoposto prima di emettere una misura cautelare e utilizzato a piene mani per quegli indagati, con tanto di battage mediatico. Sterile ribadire rilievi sull’angusta portata della previsione, limitata ad una fascia di reati meno gravi ed esclusa se il periculum libertatis riguardi l’inquinamento probatorio o la fuga dell’indagato. Innovazione mal vista da quanti temono sgretolata la segretezza investigativa e minato l’effetto “sorpresa” dalla discovery degli atti alla base della richiesta cautelare del P.M. Salutata, per contro, con giubilo da chi ne apprezza la dimensione garantistica, come significativo momento di previa autodifesa dinanzi al giudice chiamato a decidere il sacrificio della libertà personale. Soltanto prassi applicative che ne valorizzino la dimensione di previo contraddittorio anticipato possono impedirne la riduzione a mero passaggio burocratico, smaltito svogliatamente nell’imminenza di misure cautelari. Neppure serve auspicare un revirement in un G.I.P. oggi privo di poteri istruttori. Basta un ruolo attivo e scrupoloso, anziché distaccato e prudente, nella verifica dei presupposti, a tutela del bene inviolabile della libertà personale. All’apparenza, perciò, nulla di male nella chance offerta all’indagato per stornare da sé indizi e/o esigenze cautelari, scongiurando una misura altrimenti imminente, attraverso il consapevole esercizio della facoltà di rendere dichiarazioni. Ogni iniziale ottimismo rischia puntualmente di scemare dinanzi alle prime applicazioni, come testimoniato dalla vicenda milanese, in cui tutto questo clima di libertà e garanzia non si respira affatto. Eloquenti le parole spese dal G.I.P., davanti al quale gli indagati si erano fiduciosamente presentati per rendere interrogatorio. Poche righe in centinaia di pagine dell’ordinanza: “Nei rispettivi interrogatori preventivi … nessuno ha ammesso le proprie responsabilità, né tantomeno l’esistenza di un ‘sistema’ quale quello sino ad ora descritto”; “La scelta di tale strategia difensiva - che, sia ben chiaro, è legittima e insindacabile - è tuttavia sintomatica del fatto che nessuno degli indagati abbia voluto prendere le distanze dal meccanismo che li trova, sostanzialmente, accomunati da interessi convergenti, sia sul piano economico, sia su quello politico”. Addirittura, uno degli indagati sembra pagare con la custodia in carcere la scarsa aderenza tra dichiarazioni rese e dati acquisiti con la perquisizione eseguita contestualmente alla notifica proprio dell’avviso di fissazione dell’interrogatorio preventivo. Il Tribunale della Libertà ha, nel frattempo, annullato le misure: “Giustizia (cautelare) è fatta”? Residua, invece, l’amarezza verso un istituto mosso da intenzioni nobili ma foriero di inopinati scivoloni in termini di garantismo, per la coercizione nemmeno tanto implicita sul diritto al silenzio o, quantomeno, per l’inutilità, se non, addirittura, pericolosità per la sfera immediata e futura dell’indagato. Resta, comunque, da chiarire se ciò dipenda solo dalle norme, vale a dire da struttura e inquadramento sistematico di un istituto il cui innesto non riesce a scalfire la posizione di un G.I.P. incapace di controbilanciare, meno che mai in sede cautelare, il macroscopico sviluppo a tutto campo dei poteri riconosciuti al P.M. Ovvero, la risultante della stratificata abitudine a prossimità culturali e pregiudizi cognitivi nell’esercizio di una “cultura della giurisdizione” tuttora in cerca d’autore. In attesa di sapere se davvero “le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”, una fetta minoritaria ma tutt’altro che insignificante di indagati continua a rischiare ogni giorno di rimanere impigliata nel “purgatorio” cautelare. Il paradosso del taser, quell’arma “non letale” che continua a uccidere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2025 Tra gare d’appalto (che non richiedono studi clinici) e perizie emerge un sistema in cui le fragilità umane diventano un rischio accettato. E lo strumento in uso è già obsoleto. La notizia è arrivata all’alba di lunedì scorso, come un tragico déjà vu che riporta in primo piano un dibattito mai chiuso. A Reggio Emilia, in periferia, un uomo di 41 anni è morto dopo essere stato colpito dal taser della polizia. Era in evidente stato di alterazione psicofisica, la stessa condizione che ricorre in altre vicende simili degli ultimi mesi. La Procura ha aperto un’inchiesta, ma la domanda resta sempre la stessa: un’arma definita “non letale” può davvero dirsi sicura? Per capirlo bisogna tornare indietro di un mese, al 16 agosto, quando a Olbia i carabinieri usarono il taser contro Gianpiero Demartis, 57 anni, in preda a un forte stato di agitazione. L’uomo si accasciò a terra e morì poco dopo, nonostante i soccorsi. L’autopsia ha parlato di “scompenso cardiaco in cardiopatia ischemica”, una patologia preesistente aggravata da uno stent coronarico. Il Partito Radicale, con il segretario Maurizio Turco, ha sollevato il dubbio più scomodo: se la scarica elettrica, colpendo un corpo già fragile, abbia avuto un ruolo decisivo nel precipitare la situazione. Non si tratta di episodi isolati. A giugno, a Pescara, era morto anche il trentenne Riccardo Zappone, e il copione si ripete con una regolarità inquietante. Le vittime non sono criminali in fuga, ma quasi sempre persone in pieno stato di alterazione psicofisica. Corpi già provati da patologie cardiovascolari, come nel caso di Demartis, o sotto l’effetto di sostanze e adrenalina, come per Elton Bani. È proprio in queste situazioni che la polizia ricorre al taser, considerato l’alternativa intermedia tra lo scontro fisico e l’arma da fuoco. Eppure la letteratura scientifica, come gli stessi manuali d’uso, avvertono: è proprio in queste condizioni che il rischio di arresto cardiaco aumenta in modo significativo. Il cuore del problema si trova nelle avvertenze che accompagnano l’utilizzo del taser. Sebbene venga promosso come strumento “non letale”, la realtà tecnica e medica è ben più complessa e ambigua. L’arma rilascia una scarica elettrica capace di provocare una contrazione muscolare istantanea che immobilizza il soggetto. Eppure, studi medici hanno certificato che questa scarica può causare aritmia cardiaca, e in alcuni casi arresto cardiaco, anche in soggetti sani. Questo rischio aumenta esponenzialmente in presenza di cardiopatie pregresse, come nel caso di Gianpiero Demartis, o quando l’organismo è saturo di catecolamine e droghe che influiscono sulla circolazione sanguigna, come nel caso di Elton Bani. La stessa Axon, azienda produttrice del Taser, ha dovuto ammettere un rischio di morte nello 0,25% dei casi. Non è una nota a piè di pagina: queste avvertenze sono nero su bianco nei manuali operativi consegnati agli agenti. Le Linee guida tecnico-operative adottate nel 2018 per la sperimentazione del modello X2 in Italia - come riportò allora Il Dubbio - prescrivono di puntare alle gambe o alla parte bassa del torace, evitando zone vitali come testa, genitali e soprattutto l’area cardiaca. Lo stesso manuale raccomanda di chiedere immediato supporto sanitario dopo ogni scarica, e in particolare se la persona colpita diventa non responsiva. Nonostante ciò, le perizie medico-legali che seguono i decessi tendono a sollevare l’operatore e lo strumento da responsabilità, archiviando la morte come fatalità legata a pregresse patologie. Ma proprio quelle condizioni di vulnerabilità sono indicate dal manuale come terreno fertile per un esito letale. Il risultato è un cortocircuito: il Taser viene impiegato contro soggetti aggressivi o in stato di alterazione perché considerato l’unica alternativa, ma sono proprio questi soggetti ad avere le maggiori probabilità di morire in seguito a una scarica. L’arma non uccide “direttamente”, ma può trasformarsi in detonatore di una crisi fatale in un organismo già compromesso. I bandi per la fornitura - La scelta del modello non è frutto del caso. Dietro c’è una procedura amministrativa ben definita. Nel 2021 lo Stato avvia una grande procedura nazionale che porta all’aggiudicazione ad Axon per la fornitura del Taser X2: il lotto quadro riguarda in totale 4.482 dispositivi, destinati a Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza. Quella fornitura di massa ha segnato la diffusione su scala nazionale del modello X2. Negli anni successivi la macchina degli approvvigionamenti procede a lotti. Per esempio, sul sito del Comando Generale dei Carabinieri risulta la determinazione di aggiudicazione per la fornitura di 414 Taser X2 (2024), comprensiva di custodie, batterie e cartucce di ricambio. Sono atti protocollati, con codici gara e riferimenti Anac: numeri e documenti che spiegano non solo quanto è stato comprato, ma come. Accanto alle gare per i dispositivi “pesanti”, la gestione dei consumabili (cartucce, batterie, sagome per addestramento) passa spesso per procedure negoziate o lotti separati, come si legge in bandi e avvisi FA02 2024 della Polizia di Stato. In pratica: la strategia d’acquisto è mista — contratto quadro centrale per i device, forniture successive e ordini per i ricambi in procedure diverse. I capitolati tecnici allegati ai bandi elencano i componenti richiesti: il dispositivo con doppia cartuccia, custodie tattiche, pacchi batterie supplementari, kit per addestramento (sagome e cartucce di prova), manualistica e certificati di conformità. Nei requisiti sono indicate prove funzionali da effettuare in fase di accettazione: test di sparo a distanza, verifica di compatibilità elettrica e test di robustezza. Quello che i capitolati non contengono, però, è la pubblicazione di test clinici indipendenti sulla sicurezza cardiovascolare in popolazioni vulnerabili. I documenti tecnici si occupano di conformità, performance elettrica e affidabilità operativa; raramente entrano nel campo medico con studi su cardiopatici, persone con pacemaker o soggetti in stato di “excited delirium”. Su questo punto i bandi restano silenti. Il taser usato è obsoleto? Il dibattito non si limita più alle denunce di associazioni e medici indipendenti: oggi arriva anche da dentro le istituzioni. Dopo le morti di Olbia e Genova, il Sindacato Indipendente Carabinieri (Sic) ha inviato una richiesta formale ai ministeri dell’Interno e della Difesa per sostituire il modello attuale, l’X2, con il più recente T10. Una presa di posizione significativa: chi lo utilizza ogni giorno ammette, di fatto, le criticità di un’arma considerata insicura. Lo stesso segretario del Partito Radicale, richiamando un’inchiesta della Rivista Italiana Difesa, ha ribadito che “non aiuta la verità, e nemmeno i Carabinieri coinvolti, la difesa ad oltranza di uno strumento obsoleto che interferisce con le attività cardiache”. Per capire il senso della richiesta del Sic bisogna guardare ai dati tecnici. L’Italia ha adottato il Taser X2, evoluzione del modello X26 che l’Onu aveva definito a suo tempo “equiparabile a uno strumento di tortura”. Dopo la sperimentazione avviata nel 2018, l’X2 è entrato stabilmente in dotazione: funziona a un voltaggio di picco compreso tra 840 e 1440 volt, con un picco massimo di 50.000, scarica a 19 impulsi al secondo per una durata standard di 5 secondi. Il nuovo T10, lanciato da Axon nel 2023, viene presentato come un’arma di nuova generazione, concepita proprio per correggere le carenze del predecessore. Abbiamo davanti tre piani che si intrecciano e non vanno separati: il piano amministrativo (bandi, quantitativi, capitolati), il piano tecnico (specifiche X2 vs T-10, logica di funzionamento) e il piano medico-forense (autopsie, tossicologia, perizie). Dalle carte dei bandi emerge che lo Stato ha scelto l’X2 e ha speso per dotarsene su larga scala; dai rapporti clinici emerge che, in alcune circostanze, la scarica può concorrere ad eventi fatali; dai sindacati arriva la richiesta di valutare strumenti più recenti. Il risultato è un campo di tensione: acquisti pubblici su larga scala fatti senza che la letteratura medica fornisse certezze assolute. Quei taser bocciati perché senza “caratteristiche tecnico-funzionali minime” di Rita Rapisardi Il Manifesto, 17 settembre 2025 Le pistole elettriche in dotazione alle forze dell’ordine erano state escluse dai bandi. “Uno strumento imprescindibile”, lo ha definito il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, riferendosi al taser. Ma c’è un’altra morte sospetta, questa volta poco fuori Reggio Emilia, in cui un 42enne ha perso la vita. Dopo i due casi, uno a Olbia (dove l’autopsia ha escluso il taser come causa) e l’altro a Genova, che avevano riportato al centro la questione, ora bisognerà attendere l’autopsia sul corpo di Claudio Citro e i rilievi per ricostruire la dinamica dei fatti e chiarire se esiste legame o meno tra il decesso e l’utilizzo del dispositivo elettronico. Piantedosi, una settimana fa, al question time alla Camera ha annunciato che il Viminale sta lavorando a una gara per acquisire altre 4.780 pistole a impulsi elettrici per le forze dell’ordine, informando che la procedura di gara svolta nel 2024, si era conclusa “con l’esclusione dell’unico partecipante, a causa della non aderenza dell’offerta tecnica presentata dall’impresa al capitolato”. Piantedosi però non ha fatto riferimento all’azienda, si tratta della Axon, di origine statunitense, inventrice del taser, che fornisce a oltre 100 paesi, compresa l’Italia. I modelli prodotti da Axon sono gli unici in mano alle forze dell’ordine. L’appalto in questione, una gara europea per la fornitura di 10.300 armi a impulsi elettrici, 2300 per la Polizia, 8000 per i Carabinieri, è stata pubblicata il 17 settembre 2024, per un valore stimato complessivo dell’accordo della durata quadriennale di 61,7 milioni di euro, a cui vanno aggiunte eventuali opzioni, modifiche, pari a 12,3 milioni per un importo complessivo di 74 milioni. I test effettuati il 4 e 5 marzo 2025 al Banco nazionale di prova a Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, hanno bocciato Axon perché “l’offerta tecnica non risponde alle caratteristiche minime tecnico-funzionali”, come si legge nella relazione del ministero dell’Interno dell’aprile scorso. Durante le prove balistiche e di resistenza previste nel test di accuratezza sono stati riscontrati difetti sia da tre metri, sia da sette metri: “Riprovando più volte ad azionare il grilletto, il dispositivo non era in grado di sparare. La prova è stata sospesa ed è stato necessario spegnere il dispositivo”, si legge nelle carte. Inoltre in diversi casi il display mostrava un numero di dardi maggiore o minore di quelli effettivamente presenti nel caricatore. Riscontrati errori anche nei test di efficienza che riguardano il sistema di memorizzazione: nello specifico, tramite il software dedicato, è stato effettuato il download del report delle attività svolte che però presentavano incongruenze, come non l’aver mostrato i colpi che avevano fallito lo sparo. C’è poi anche la questione che riguarda il mancato aggancio dei dardi al bersaglio, diventando potenzialmente pericolosi per i cittadini e per gli stessi agenti, come ad esempio è avvenuto di recente nel caso di una morte sospetta fuori Genova, dove il taser è stato usato tre volte, nella prima è stato colpito anche un Carabiniere di striscio. Non è la prima volta che Axon viene esclusa, sia nel 2019 che nel 2021 le due gare indette sono andate a vuoto dopo che l’azienda di origine statunitense era stata respinta per “non conformità delle stesse ai requisiti ed ai parametri prestazionali previsti”. Ma il giorno dopo l’ultima esclusione, il ministero dell’Interno ha pubblicato un nuovo documento, una fornitura d’urgenza, questa volta una procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara: l’appalto va “all’offerta economicamente più vantaggiosa”, senza test. Se l’aggiudica Axon, che diventa la prima e unica azienda a fornire taser in Italia, con 4482 dispositivi. L’azienda interpellata dal manifesto non ha rilasciato per il momento dichiarazioni. Intanto a Genova la sindaca Salis ha deciso di abbandonare la sperimentazione dell’arma avviata nel 2022 ed arenata nel 2024, sotto la giunta Bucci, con due dispositivi, mentre il Partito radicale invoca una commissione d’inchiesta. Intanto dal governo il sottosegretario leghista all’Interno Nicola Molteni, da quello stesso ministero che ad aprile ha bocciato Axon, annuncia che i taser non saranno mai bloccati. La memoria del governo su Almasri è un atto di accusa contro Tribunale dei ministri, Cpi e procura di Roma di Ermes Antonucci Il Foglio, 17 settembre 2025 Nel documento inviato alla Giunta per le autorizzazioni, Nordio, Piantedosi e Mantovano contestano al Tribunale dei ministri "violazioni di legge gravi e numerose". Il rimpatrio del generale libico "è avvenuto nell’interesse dello Stato". Bordate anche contro la Corte penale internazionale e il procuratore Lo Voi. Più che una memoria difensiva, quello inviato da Nordio, Piantedosi e Mantovano alla Giunta per le autorizzazioni della Camera sul caso Almasri è un atto di accusa pesantissimo che non risparmia nessun attore giudiziario in campo: Tribunale dei ministri, Corte penale internazionale, procura di Roma. Le “bordate” principali riguardano il Tribunale dei ministri, che per i tre esponenti del governo ha chiesto l’autorizzazione a procedere per i reati di favoreggiamento (per tutti), peculato (per Piantedosi e Mantovano) e omissione di atti d’ufficio (per Nordio). L’avvocato Giulia Bongiorno, difensore di tutti gli indagati, contesta al Tribunale “violazioni di legge così gravi e numerose” che sarebbero sufficienti per dichiarare l’inammissibilità della domanda di autorizzazione senza neanche “entrare nel merito” della stessa. Si parte dal mancato rispetto del termine di novanta giorni per definire il procedimento, secondo quanto previsto dalla legge costituzionale n. 1 del 1989: “Il Tribunale di Roma ha definito la questione dopo oltre sei mesi, senza curarsi di giustificare il ritardo”, si legge nella memoria. Si prosegue con il rifiuto espresso dal Tribunale dei ministri di fronte alla disponibilità del sottosegretario Mantovano (cioè di colui che aveva coordinato le varie fasi della vicenda Almasri) a presentarsi e a fornire tutti i chiarimenti sul caso: “Non esistono precedenti. In qualsiasi giudizio, un indagato che mette per iscritto di aver coordinato ogni passaggio della vicenda oggetto di accertamento, si offre al giudice per esporre la propria difesa, e per contribuire alla ricostruzione e magari alla comprensione di essa, trattandosi di materia non facile, non riceve mai un rifiuto”. L’avvocato Bongiorno contesta poi al Tribunale “l’assoluto difetto di contraddittorio” e la grave decisione di considerare come “versione difensiva degli indagati” il contenuto delle informative rese dai ministri Piantedosi e Nordio al Parlamento: “Un atto di riguardo istituzionale verso il Parlamento è stato trasformato dal Tribunale in un interrogatorio, peraltro - come era ovvio - senza difensore”. Dichiarazioni, dunque, inutilizzabili (anche se vere, si sottolinea), a maggior ragione se si considera che “quando un ministro riferisce alla Camera o al Senato non può rispondere giudizialmente delle dichiarazioni rese”. Nella memoria si accusa poi il Tribunale dei ministri di nutrire un “pregiudizio” ai danni degli esponenti del governo, confermato dallo “screditamento dei testimoni ritenuti non in linea con la tesi accusatoria”, dalla “forzatura delle dichiarazioni dei testimoni che confermerebbero le imputazioni”, in particolare quelle rese dai magistrati che all’epoca lavoravano al ministero della Giustizia, dalla “totale invenzione di elementi fattuali, e quindi lo stravolgimento della realtà”. L’“emblema del pregiudizio” sarebbe costituito dalla decisione di escludere la posizione di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministro Nordio, dalla richiesta di autorizzazione a procedere al Parlamento: “È evidente l’assoluta connessione del reato ipotizzato nei suoi confronti (false dichiarazioni al tribunale, ndr) e la vicenda in esame”. Al di là delle gravi violazioni di metodo, nel merito la memoria difensiva è chiara: tutte le decisioni prese in quei giorni - dalla mancata convalida dell’arresto di Almasri (in concomitanza di una richiesta di estradizione dalla Libia) all’espulsione del generale, fino al volo di stato - sono stati atti frutto di “scelte politiche”. Scelte assunte al massimo livello per proteggere cittadini italiani e interessi strategici dello stato. In particolare, a guidare le decisioni del governo furono le prospettazioni provenienti dal direttore dell’Aise (i servizi segreti per l’estero), Giovanni Caravelli, sulle ritorsioni che l’arresto di Almasri avrebbe potuto generare ai danni degli italiani in Libia e delle aziende italiane (in primis l’Eni). In conclusione, il governo ha agito “per tutelare l’interesse dello stato”. Nella memoria si rintraccia anche una critica alla Corte penale internazionale, che “soltanto dodici giorni dopo l’inizio del giro di Almasri per l’Europa ha emesso il mandato di arresto”. Il generale libico era infatti giunto a Torino dopo essere stato a Londra, Bruxelles, Bonn e Monaco. “La Cpi ha accelerato l’iter per giungere all’emissione del mandato di arresto nei suoi confronti soltanto quando è emerso che egli si stava recando in Italia”, si nota polemicamente. Infine non manca una frecciata al procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, che ha avviato la procedura giudiziaria inviando gli atti al Tribunale dei ministri. Il procedimento è infatti stato segnato da “inammissibili fughe di notizie”, seguite da denunce dello stesso Tribunale. Eppure, nota Bongiorno, “l’interlocutore esclusivo del Tribunale” è stato Lo Voi, il quale è stato anche “il solo ad aver detenuto gli atti al di fuori della cassaforte in uso dal Tribunale”: “Non si ha però notizia di seguiti giudiziari alle denunce del collegio di Roma, sì che al momento appare certa l’impunità di quello che probabilmente è il solo reato che emerge in questa vicenda, cioè la violazione del segreto di indagine”. Gratuito patrocinio, no all’innalzamento della soglia di reddito per ciascun processo a carico di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2025 La Cassazione ha respinto il ricorso della difesa dove si sosteneva che il parametro del reddito che, dà accesso all’assistenza legale a spese dello Stato, deve tener conto della sottoposizione del richiedente a più procedimenti. Non passa il vaglio di legittimità il motivo di ricorso con cui l’imputata intendeva far rilevare l’incostituzionalità e la contrarietà al diritto Ue della soglia di reddito fissata per l’ammissione al gratuito patrocinio nella parte in cui non riduce il reddito rilevante proporzionalmente al numero di procedimenti a carico del richiedente. Quest’ultimo di fatto sosteneva che per ogni processo pendente cui era sottoposto andava ridotto il reddito - rectius, innalzata la soglia di accesso - come già previsto per i familiari conviventi. Infatti è stabilito che per ogni familiare convivente il reddito che dà diritto a ottenere il gratuito patrocinio si innalzi di oltre mille euro. Con la sentenza n. 30574/2025 la Cassazione penale ha respinto i rilievi di parte ricorrente contro la tesi che siano per così dire deducibili le spese processuali cui è posto chi è imputato in plurimi procedimenti. Secondo il ricorso chi si trovi in una tale situazione di più procedimenti pendenti dovrebbe avere accesso al gratuito patrocinio anche se il reddito del proprio nucleo familiare supera la soglia di concedibilità del beneficio in quanto per ogni processo a carico andrebbe scomputata l’eguale quota di reddito che viene detratta per le persone conviventi a carico del medesimo nucleo familiare come prescrive l’articolo 92 del Dlgs 115/2002. La cassazione nega l’equiparazione tra la situazione di chi domandi il gratuito patrocinio in base all’innalzamento della soglia di reddito per l’ammissione calcolata per ogni familiare “a carico” del richiedente e quella in cui il richiedente per tale innalzamento intenda far valere la pluralità di processi nei suoi confronti. Afferma la Cassazione che non vi è alcuna violazione di diritti fondamentali nella lamentata mancata equiparazione: in quanto non qualificabili come elemento reddituale pari a un costo deducibile. Veneto. Emergenza carceri: sovraffollamento al 140% e 9 suicidi nel 2024 di Sandy Fiabane Il Dolomiti, 17 settembre 2025 Approvata in Consiglio regionale la rendicontazione sull’attività 2024 dal Garante regionale dei diritti della persona. I toni si sono fatti però accesi soprattutto sul tema carceri. "La relazione ha fatto emergere un quadro di gravi criticità, in particolare sulla tutela di minori e persone detenute. Dai banchi di FdI, il consigliere Formaggio ha però teorizzato la necessità di trasformare le carceri in inferno e parlato di cittadini di serie A e B: un grave, inaccettabile attacco alla democrazia e ai valori costituzionali” afferma la consigliera Chiara Luisetto (Partito democratico), correlatrice del report. Anzitutto i dati. Il Garante definisce il 2024 un annus horribilis per il sistema penitenziario italiano: al 31 dicembre la popolazione detenuta ha raggiunto 61.861 presenze rispetto alle 60.166 del 2023. Il Veneto registra un tasso di affollamento del 140,45%, superiore alla già grave media nazionale (120,56%), con picchi al 183% a Treviso e 179% a Verona (qui 4 suicidi in un anno). “A proposito del sovraffollamento - ha evidenziato il relatore Marzio Favero (intergruppo Lega-Liga Veneta) - il Veneto ha superato il 140% dei posti utilizzabili, con 2.722 detenuti, di cui oltre 1.400 stranieri, a fronte di una carenza di 158 unità di personale carcerario e del picco dei suicidi: 83 in Italia, 9 in Veneto. Suicidi che sono la cartina di tornasole di ambienti tossici”. Le criticità sono dunque diffuse e l’appello è alla responsabilità politica. “Se il Garante ha soprattutto un ruolo di raccolta dati ed elaborazione di analisi - sostiene Luisetto - la Giunta regionale ha invece un potere d’azione che può essere tradotto in atti politici, sulla scorta di un quadro che sarebbe irresponsabile sottovalutare. Il rischio più grande è infatti l’assuefazione, accettare che sia normale vivere in celle sovraffollate, che un ragazzo appena maggiorenne finisca per strada o che un minore fragile viva la violenza in famiglia senza che nessuno lo raggiunga”. Di diverso avviso il consigliere Joe Formaggio (Fratelli d’Italia), le cui riflessioni in Consiglio non passano inosservate. “Per arrivare al carcere - afferma, rivolgendosi ai banchi dell’opposizione - bisogna combinarla grossa e allora preferisco che siano sovraffollate piuttosto che avere i delinquenti in giro per il Veneto. La maggior parte dei detenuti è poi di origine straniera, anche se sono una piccola percentuale in Italia, anche se per me comunque troppi. Vi farete qualche domanda o andate lì solo per vedere se dobbiamo mantenere il malato di mente con disturbi psicopatici che arriva dall’Africa con i soldi che togliamo alla signora Maria, che è in lista d’attesa per un tumore? Io differenzio i cittadini di serie A e gli altri di serie B: basta con il buonismo, la gente vuole sicurezza e il carcere deve essere un inferno. Nessuno mi ha mai detto ‘sono preoccupato perché ghe se dosento detenuti in più nel carcere a Vicenza’: gli unici preoccupati sono le guardie carcerarie e lì dobbiamo lavorare. Se non riusciamo a trovare il prete, Pippo, Pluto, Paperino, l’educatore per questa gente, pensiamo prima ai nostri disabili, alle famiglie venete”. Rapida la replica della minoranza. “Vergognoso che un esponente del partito ‘Giorgia donna e cristiana’ si affidi alle sconcertanti dichiarazioni rese dal consigliere Formaggio. Queste dichiarazioni - afferma il consigliere Renzo Masolo (Alleanza verdi e sinistra) - hanno veramente poco di cristiano e sono contrarie allo Statuto regionale, che istituendo il Garante regionale ha inteso promuovere, proteggere e facilitare il perseguimento dei diritti delle persone private della libertà personale". Come già sul tema sanità (qui l’articolo), speriamo solo che questo tipo di dibattito serva almeno a mantenere l’attenzione sulle carceri, in Veneto come in tutto il Paese. È infatti dovere di uno Stato civile tutelare le persone detenute, come affermato da Alberto Quagliotto, direttore della Casa circondariale di Belluno: “C’è qualcosa che codice e leggi non prevedono ed è la crescita personale. Una struttura chiusa come il carcere ha l’obiettivo di mettere in sicurezza la persona dal rischio di regressione: è un compito privilegiato, che nessun’altra amministrazione ha. Osserviamo le persone anche nel loro riflettere sulle scelte fatte, perciò dobbiamo fornire loro un patrimonio di competenze sotto forma di autonomia e responsabilità”. Sardegna. Detenuti 41 bis nell’isola, confronto Nordio-Todde La Nuova Sardegna, 17 settembre 2025 Il ministro: “Nessuna decisione definitiva”. La presidente: “Avviato un dialogo costruttivo”. Nessuna decisione definitiva sul trasferimento di detenuti ristretti al 41-bis nelle carceri sarde. Lo ha dichiarato il ministro di Giustizia Carlo Nordio nell’incontro avuto questa mattina 16 settembre con la presidente della Regione Alessandra Todde. “La riunione con il Ministro Nordio - ha dichiarato la Presidente Todde - è stata utile e costruttiva e ha consentito di gettare le basi per un dialogo continuativo tra Regione e Ministero, nel pieno rispetto delle posizioni e dei ruoli istituzionali. Ho ribadito come la Sardegna, individuata quale area a rischio di insediamento e sviluppo mafioso, sia particolarmente esposta agli effetti negativi derivanti dalla presenza di un numero elevato di detenuti al 41-bis. Ciò potrebbe favorire il consolidamento di legami tra la criminalità organizzata tradizionale e quella locale, con ricadute sociali e sanitarie che non possono essere sostenute in assenza di un piano strutturato di interventi. La Sardegna non può e non deve essere considerata terreno di sperimentazioni pericolose. Dal colloquio col Ministro Nordio, si rileva che allo stato attuale non è stata ancora assunta alcuna decisione definitiva”, ha concluso Todde. Il Ministro ha confermato l’impegno a mantenere costantemente informata la Regione in merito alla collocazione dei detenuti in regime di 41-bis in Sardegna. Torino. "Pericolo radicalizzazione islamica nelle carceri”, l’allarme del sindacato di Gianluca Ottavio giornalelavoce.it, 17 settembre 2025 Dopo l’arresto di un presunto jihadista, il sindacato penitenziario denuncia strutture fragili e personale impreparato, chiedendo programmi mirati e rinforzi. L’arresto a Torino di un cittadino tunisino, accusato di partecipazione a un’organizzazione terroristica jihadista, riaccende i riflettori su un tema che da tempo preoccupa sindacati e osservatori della sicurezza: il rischio di radicalizzazione islamica nelle carceri italiane. A dirlo è Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato F.S.A.-C.N.P.P.-S.PP., che parla di “un nuovo campanello d’allarme da non sottovalutare”. Il caso torinese arriva a poche settimane dall’espulsione del presunto imam del carcere di Alessandria, Bouchta El Allam, marocchino di 46 anni, arrestato nel 2021 e condannato nel 2022 dal Tribunale di Torino a sei mesi per propaganda e istigazione all’odio etnico e religioso. Due episodi ravvicinati che, secondo il sindacato, dimostrano come le nostre prigioni possano trasformarsi in terreno fertile per il proselitismo jihadista. Secondo i dati citati da Di Giacomo, nelle carceri di Piemonte, Lombardia e Lazio la presenza di detenuti musulmani arriva in alcuni istituti a toccare punte del 60% della popolazione carceraria. In totale, i detenuti di fede islamica sarebbero circa 10 mila in tutta Italia, anche se molti non dichiarano apertamente la propria religione per timore di conseguenze. Il sindacato denuncia una gestione ancora troppo superficiale del problema: la cosiddetta classificazione in detenuti “segnalati”, “attenzionati” e “monitorati” non sarebbe più sufficiente a fronte di un fenomeno in continua evoluzione. Di Giacomo insiste sulla necessità di avviare programmi specifici di formazione del personale penitenziario, capaci di distinguere tra la pratica religiosa e i segnali reali di radicalizzazione. “Il carcere - osserva - funziona come una vera e propria scuola di reclutamento, esattamente come avviene con l’affiliazione ai clan mafiosi. Lì dentro si formano legami che, una volta fuori, possono trasformarsi in appartenenze a cellule terroristiche o in nuove gang criminali, specie quelle nigeriane”. La denuncia riguarda anche la carenza cronica di polizia penitenziaria. Secondo Di Giacomo, gli istituti con una maggiore concentrazione di detenuti extracomunitari ed islamici continuano a registrare episodi di aggressioni al personale, senza che siano stati previsti i rinforzi necessari. Il tema, ribadisce il sindacalista, non è nuovo. Già il Copasir aveva lanciato l’allarme almeno due anni fa, parlando del carcere come di un luogo particolarmente esposto al rischio di reclutamento jihadista. Per Di Giacomo, continuare con l’attuale impostazione significa sottovalutare un pericolo concreto che, soprattutto in questa fase di guerra in Medio Oriente, trova ulteriore linfa in un clima di odio verso l’Occidente. L’appello è chiaro: servono programmi mirati, risorse per la formazione e un rafforzamento delle strutture. Altrimenti, avverte, il rischio è quello di vedere uscire dai nostri istituti “nuovi terroristi pronti ad agire”. Venezia. Infestazione di cimici, carcere “chiuso” a nuovi detenuti di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 17 settembre 2025 Stop dallo scorso 28 agosto, gli arrestati “dirottati” a Padova. Il direttore: disinfestazione in corso. Non si è ancora risolta l’emergenza sanitaria in diverse sezioni del carcere maschile di Venezia, tanto che dallo scorso 28 agosto non si accolgono più nuovi detenuti, che vengono “dirottati” a Padova. Il problema riguarda l’invasione di cimici da letto e va avanti da due mesi. Già lo scorso luglio molti detenuti avevano riportato i morsi dell’insetto, difficile da debellare perché si riproduce velocemente. La direzione aveva avviato specifici interventi che però non hanno portato i risultati sperati, come conferma il recente divieto di portare nuove persone a Santa Maria Maggiore, scritto in una circolare inviata dal Provveditorato regionale del Veneto che avvisa della momentanea sospensione della ricezione di nuovi arrestati al maschile “per emergenza sanitaria”. “Questa direzione ha avviato un piano di intervento strutturato per fronteggiare il problema delle cimici - spiega il direttore Enrico Farina - È stata infatti acquistata una macchina del calore, tecnologia della quale il nostro Istituto risulta probabilmente l’unico in Italia a dotarsi in autonomia, con un risparmio medio di circa 1.800 euro per ogni singola camera trattata. Grazie a questo investimento, ammortizzato nei primi quattro giorni di utilizzo, si è già completata la bonifica della prima sezione e si sta proseguendo con il trattamento di tutte le stanze”. Farina ha assicurato che i casi vengono costantemente monitorati dal servizio di medicina penitenziaria che interviene tempestivamente in collaborazione con il personale dell’Istituto per la bonifica immediata degli ambienti. “Il fenomeno riguarda anche altri luoghi come alberghi e comunità - aggiunge - Nel nostro caso, a fronte di oltre 450 nuovi ingressi registrati nell’ultimo anno, è fisiologico che si verifichi qualche episodio, poiché gli insetti possono essere introdotti involontariamente negli indumenti delle persone”. Lo stop a nuovi ingressi, in un carcere che tra l’altro è già sovraffollato con circa 270 detenuti per una capienza di un centinaio in meno, è stato ordinato per consentire con continuità l’attività di bonifica. “L’obiettivo - conclude il direttore - rimane quello di mantenere un livello costante di igiene all’interno dell’istituto”. Ieri il Garante dei diritti della persona, l’avvocato Mario Caramel, ha snocciolato dei dati sul sovraffollamento in Veneto: “Al 31 dicembre 2024 nelle carceri venete si trovavano 2.722 detenuti dei quali 1400 stranieri, pari al 140% dei posti utilizzabili. Si registra una carenza di 158 unità di personale carcerario e i suicidi sono stati nove, sugli 83 in Italia”. L’attenzione allo stato delle carceri è stata anche oggetto giorni fa di una giornata di iniziative sulla giustizia minorile, realizzata da una delegazione congiunta della Camera Penale Veneziana e di quella napoletana con diversi interventi tra i quali l’avvocata veneziana Annamaria Marin. Tra i dati emersi il forte sovraffollamento nel carcere minorile di Treviso. Per un costituzionalismo globale di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 17 settembre 2025 Un contributo del giurista e filosofo del diritto che sarà domani protagonista delle Salvatore Veca Lectures organizzate dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli con un intervento dal titolo “Dalla crisi alla cura. Una democrazia planetaria per il nostro mondo comune”. Per la prima volta nella storia l’intera umanità è minacciata da aggressioni e catastrofi globali che richiedono risposte globali: il riscaldamento climatico, il pericolo di guerre nucleari, il dramma dei migranti, la crescita nel mondo delle disuguaglianze e delle violazioni dei diritti umani, garantiti soltanto nei paesi ricchi e lettera morta per la gran parte dell’umanità. La globalizzazione ha d’altro canto cambiato, nel mondo, la geografia dei poteri: i poteri politici ed economici che contano, quelli dal cui esercizio dipende il futuro dell’umanità, si sono in gran parte dislocati fuori dei confini degli Stati nazionali, sottraendosi al loro controllo politico e giuridico. Se vogliamo che l’umanità sopravviva, è necessario un salto di civiltà, cioè un’espansione del costituzionalismo oltre lo Stato, all’altezza dei poteri globali da cui provengono le minacce al futuro dell’intero genere umano. Dobbiamo infatti prendere atto dell’inadeguatezza del costituzionalismo odierno a fronteggiare queste minacce globali. A causa dei loro limiti spaziali, le nostre costituzioni statali, al pari dei nostri governi nazionali, sono impotenti di fronte sia alle violazioni dei diritti fondamentali della grande maggioranza degli esseri umani, sia alle catastrofi planetarie in atto, destinate tutte ad aggravarsi. Solo un nuovo contratto sociale di carattere globale può pattuire, in forma vincolante, le garanzie della pace, dei diritti fondamentali di tutti gli esseri umani e dei beni vitali della natura Quel contratto fu stipulato all’indomani della seconda guerra mondiale mediante quell’embrione di costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante carte internazionali dei diritti umani. Ma esso è fallito - e non poteva non fallire - per due ragioni. La prima è stata la mancanza di rigidità di tali carte, non sopraordinate alle altre fonti, statali e internazionali. È chiaro che la pace e l’uguaglianza nei diritti fondamentali, pur proclamate in tante carte dei diritti umani, restano promesse non mantenute se non sono rese effettive e vincolanti attraverso la rigida sovra-ordinazione della loro prescrizione alle sovranità statali e alle diverse e disuguali cittadinanze. La seconda e ancor più grave ragione del fallimento di queste carte è stata la mancata previsione di quelle che possiamo chiamare istituzioni di garanzia primaria dei diritti di libertà e dei diritti sociali in esse stabiliti. I principi della pace e dell’uguaglianza e i diritti fondamentali delle persone, stipulati nelle tante carte dei diritti, sono perciò rimasti sulla carta per la grande maggioranza del genere umano. Per questo è urgente una rifondazione del patto di convivenza tra tutti i popoli e gli Stati, onde dar vita a un costituzionalismo globale che rimedi ai difetti della Carta dell’Onu e delle tante carte dei diritti fondamentali. Non basta, infatti, proclamare la pace e i diritti umani. E’ necessario introdurre, in una Costituzione della Terra, le loro garanzie, senza le quali pace e diritti sono destinati a restare enunciazioni retoriche: la rigidità della Costituzione globale, cioè la sua sopra-ordinazione a tutte le altre fonti, statali e internazionali; la garanzia della pace, mediante la previsione come crimini contro l’umanità della produzione e del commercio di tutte le armi; la garanzia dei beni vitali della natura, mediante la loro sottrazione al mercato, in quanto demanio planetario; le garanzie dei diritti sociali alla salute, all’istruzione e alla sussistenza tramite la trasformazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’Unesco e della Fao in effettive istituzioni globali che garantiscano salute, istruzione e alimentazione di base; un’organizzazione mondiale del lavoro che assicuri garanzie tendenzialmente uguali a tutti i lavoratori; garanzie della sussistenza attraverso un reddito di base universale; un fisco globale progressivo, in grado di finanziare le istituzioni globali di garanzia; garanzie giurisdizionali, infine, a cominciare dall’istituzione di una Corte costituzionale planetaria in grado di censurare e rimuovere tutte le violazioni della Costituzione della Terra. Non si tratta di un ordinamento nuovo. Si tratta dell’attuazione di principi e diritti già scritti nelle carte internazionali vigenti: un’attuazione non solo giuridicamente dovuta, ma anche necessaria ed urgente, dato che da essa dipende la sopravvivenza dell’umanità. Mercoledì 17 settembre ore 18:30 incontro con Luigi Ferrajoli, Maria Rosaria Marella, Don Mattia Ferrari, Fondazione Feltrinelli, Viale Pasubio 5, Milano. "Salvatore Veca Lectures. Dalla crisi alla cura". In un presente di crisi sistemiche ed erosione dei diritti, quali scelte è urgente intraprendere per curare il nostro mondo comune? Cinque voci del pensiero critico ci aiutano a capire come tenere in equilibrio sostenibilità e giustizia sociale, dal locale al globale. Cinque incontri per celebrare la visione di Salvatore Veca, a 10 anni dal Laboratorio Expo Milano 2015. Il calendario completo delle Salvatore Veca Lectures è disponibile su: www.fondazionefeltrinelli.it Esercitare conflitto per diritti e spazi democratici di Sergio Segio Il Manifesto, 17 settembre 2025 Si è tenuto dal 12 al 14 settembre il seminario nazionale "Gli spazi del dissenso. Leggi criminogene e restringimento della dialettica democratica". Organizzato dalla Società della Ragione presso la Sala del Consiglio comunale di Paluzza (Ud), è il primo che si è svolto in assenza di Grazia Zuffa, scomparsa il 9 febbraio scorso, che dell’associazione impegnata per la difesa delle libertà e dei diritti dei cittadini e delle cittadine era stata, con Franco Corleone, anima e fondatrice. Il suo ricordo e il suo pensiero critico hanno però traversato gli interi lavori e sono stati richiamati in diversi dei tanti interventi, di cui è qui impossibile dare conto rimandando all’ascolto sul sito della SdR. Si può intanto evidenziare una preziosa caratteristica di quest’iniziativa e, complessivamente, delle attività di Società della Ragione: quella di riunire generazioni diverse attorno a un tavolo o a una campagna, come quella sulle detenute con bambini in carcere, “Madri fuori”, o a una ricerca, come l’ultima su misure di sicurezza e case-lavoro, “Un’ossimoro da cancellare”. Anche questa è un’eredità di Grazia e della rara capacità che ha avuto, e che condivide con Corleone, non solo di creare reti e sollecitare movimenti ma, assieme, di coinvolgere, formare e promuovere giovani. Le decine di relazioni e interventi si sono articolate in tre sessioni: Il restringimento della dialettica democratica; Strumenti e spazi per il dissenso; Le forme delle resistenze. Il confronto con la società civile. Trasversali e comuni le preoccupazioni sullo stato della democrazia in Italia espresse e argomentate con analisi, valutazioni e bilanci dai giuristi, docenti, esponenti di associazioni, comunità terapeutiche, sindacato, istituzioni e attivisti intervenuti. Da questi ultimi, in particolare, che più direttamente e immediatamente hanno sostenuto e sostengono il peso della repressione fisica e penale con i loro corpi e la loro disobbedienza, è venuta la risposta e l’esempio su quali siano gli spazi possibili per il dissenso nel quadro di autoritarismo crescente e di deterioramento dello spazio pubblico e democratico. Esistono indubbiamente - e sono stati sottolineati in alcuni interventi - elementi di continuità con precedenti governi, anche di centrosinistra, nelle logiche di populismo penale e nelle norme tese a criminalizzare i migranti, le marginalità urbane e sociali, i movimenti critici e il dissenso politico, ma dalla disamina dell’operato dell’attuale esecutivo emergono peculiarità e pericolosità inedite, un salto di qualità repressivo, un preciso disegno e una strategia (della tensione) determinata. Tra le tante esemplificazioni possibili, da ultimo lo sgombero del Leoncavallo, la pesante repressione di Ultima Generazione ed Extinction Rebellion, la vicenda delle infiltrazioni di poliziotti nel partito Potere al popolo; una pratica, quest’ultima, tipica dei regimi autoritari che la nuova legge sulla sicurezza ha ora perfezionato e che non consentirà più di scoprire, poiché i poliziotti-infiltrati-provocatori potranno mantenere i nomi di copertura persino in tribunale. L’Italia è così diventata un paese in cui le leggi sull’ordine pubblico vengono suggerite, se non dettate, da forze dell’ordine e servizi di intelligence e quelle sul carcere da sindacati di polizia penitenziaria. Non è dunque casuale che all’imponente manifestazione milanese contro lo sgombero del Leoncavallo vigilassero sul corteo tre osservatori sui diritti umani di Amnesty International. Perché non è solo la legge sulla sicurezza, ma l’intera produzione normativa del governo Meloni che testimonia della volontà di comprimere diritti e di scardinare garanzie ed equilibri costituzionali. Di fronte a ciò, lo spazio possibile e necessario per il dissenso è quello di resistere e di esercitare conflitto radicale e nonviolento. Video e documenti su www.societadellaragione.it/glispazideldissenso Chi migra e chi accoglie, ci si salva insieme di Mons. Matteo Zuppi* L’Unità, 17 settembre 2025 Non è facile vivere questo tempo contrassegnato da fragilità, individualismo, paure e indifferenza. Ciascuno si affanna per salvarsi da solo, credendo - e dimenticando - le dolorose lezioni contrarie a perché questo sia possibile. Non ci si salva da soli e, anche, non c’è futuro senza accoglienza. Nella polarizzazione colpevole e ignorante, alimentata nei dibattiti pubblici e in particolare sul tema dell’emigrazione, si creano luoghi comuni distorcenti, pericolosi perché non permettono di comprendere i veri rischi, fanno perdere l’umanità e il rispetto per qualsiasi vita, fondamento del cristianesimo, ma anche dell’umanesimo che da questo è scaturito. Non si combatte l’illegalità usando l’illegalità stessa (pensiamo alle condizioni di vita dei campi in Libia, che Papa Francesco definì ‘lager’) e l’unico modo per contrastare l’illegalità, con i terribili rischi che questa comporta, è una politica - seria, lungimirante - di accoglienza. Le operazioni di salvezza di chi rischia di morire di speranza e si mette comunque in viaggio sono la conseguenza di questo umanesimo. Un umanesimo che non ha niente a che vedere con il ‘dentro tutti’, perché è solo salvare la vita, scelta impostaci dalla legge del mare, quella che con professionalità e competenza è applicata ad esempio dalla Guardia costiera o, come è accaduto, a turisti o ad altre imbarcazioni. Il numero di morti è ancora così elevato (anche se basta che uno solo perda la vita) che ci impone di coinvolgere l’Europa, in primo luogo, e quanti possono aiutare a salvare la vita, senza alcuna complicità con gli scafisti. È così che annegano molti nostri fratelli e, con loro, la nostra umanità. Tra i tanti interventi di Papa Francesco a riguardo - come dimenticare che il suo primo viaggio da Papa, fuori dal Vaticano, fu proprio a Lampedusa? - desidero ricordare quello del 28 agosto del 2024, quando volle rimandare la consueta catechesi proprio per fermarsi e fermarci a pensare alle persone che - anche in questo momento - stanno attraversando mari e deserti per raggiungere una terra dove vivere in pace e sicurezza: “Migranti, mare e deserto. Le rotte migratorie di oggi sono spesso segnate da attraversamenti di mari e deserti, che per molte, troppe persone - troppe! -, risultano mortali” (Francesco, 2024). Continuava: “E la tragedia è che molti, la maggior parte di questi morti, potevano essere salvati. Bisogna dirlo con chiarezza: c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti”. Non si tratta di morti, aggiunse, “natural “. “A volte nel deserto ce li hanno portati e abbandonati”. Perché non sia messa in pericolo la vita delle persone non servono “leggi più restrittive” o la “militarizzazione delle frontiere” o i “respingimenti”. “Lo otterremo invece ampliando le vie di accesso sicure e le vie di accesso regolari per i migranti, facilitando il rifugio per chi scappa da guerre, dalle violenze, dalle persecuzioni e dalle tante calamità; lo otterremo favorendo in ogni modo una governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà. E unendo le forze per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano la miseria altrui”. In quell’occasione Papa Francesco lodò l’impegno di “tanti buoni samaritani che si prodigano per soccorrere e salvare i migranti feriti e abbandonati sulle rotte di disperata speranza, nei cinque continenti. Questi uomini e donne coraggiosi sono segno di una umanità che non si lascia contagiare dalla cattiva cultura dell’indifferenza e dello scarto”. C’è speranza, come dimostrano le storie raccontate in questo libro. Storie di giovani donne migranti che si sono salvate e ci consentono di salvarci, di riscoprirci migliori. Queste donne non si sono salvate da sole ma con gli altri, assieme a chi le ha aiutate, altra forma di buoni samaritani. Da parte loro, le donne hanno lottato con tutte le loro forze per sopravvivere in condizioni disumane. È sicuramente per gran parte merito loro se si sono salvate. Se non avessero avuto questo atteggiamento proattivo, questa resistenza fisica e spirituale, non ce l’avrebbero fatta. Dall’altro, qualcuno, a un certo punto del percorso migratorio, ha teso loro inaspettatamente la mano, in maniera fraterna. Hanno potuto incontrare e far conto sull’aiuto di persone esperte, interessate esclusivamente al loro bene, che hanno proposto loro un programma di migrazione che contiene all’interno la parola ‘umanità’, quella che non vogliamo perdere e che dà senso alle nostre vite. Mi riferisco ai corridoi umanitari, una via di migrazione legale e in sicurezza, frutto all’inizio anche della collaborazione ecumenica tra la Comunità di Sant’Egidio, la Chiesa Valdese, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e che vari soggetti della Chiesa cattolica hanno sostenuto. Questo programma consente di salvarsi insieme, chi migra e chi accoglie. In Italia sono tante le esperienze virtuose di accoglienza e questo libro le racconta dando voce sia alle donne migranti che ne hanno beneficiato, sia alle comunità che si sono messe in gioco attivandosi nella prossimità. Le storie: e quelle che nessuno potrà mai raccontare? Quel mondo che si è perso e di cui non abbiamo più saputo nulla? Ci convinciamo di come tutti i migranti hanno il diritto di essere salvati, non solo alcuni, mediante politiche migratorie più lungimiranti. Quando muore una persona, qualunque essa sia, in realtà annega la nostra umanità. Paradossalmente, quei pochi che si salvano, come coloro che partecipano ai corridoi umanitari, vengono considerati dei privilegiati! Solo perché hanno percorso un pezzo della loro migrazione in sicurezza, dimenticando quanto hanno vissuto prima. L’intuizione dei corridoi umanitari è proteggere la vita delle persone, ma anche dimostrare che si può disciplinare un fenomeno che è mondiale ed epocale, e richiede solo di passare dal paradigma difensivo a quello della solidarietà, del lavoro, del futuro. Queste donne non sono affatto delle privilegiate, sono donne a cui sono state riconosciute gravi forme di vulnerabilità, ingestibili nei loro Paesi di provenienza o di transito. Per loro migrare ha voluto dire realmente salvarsi, curarsi, ricominciare a vivere in maniera dignitosa, nonostante le ferite e le cicatrici. Queste giovani donne sono fari nella notte, sono segni di speranza. Ma ci interpellano anche, qui e ora, a fare di più per chi è ancora altrove, e rischia di annegare e di fare annegare la nostra umanità. *Cardinale, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei Migranti. “Ci dicevano criminali, Francesco ci ha voluti” di Giansandro Merli Il Manifesto, 17 settembre 2025 Vogliamo scrivere la storia del Mediterraneo. Quella di vittime e testimoni. A Gaza si uccidono i giornalisti, in mare si mandano via soccorritori che mostrano cosa accade. Luca Casarini, capomissione di Mediterranea: come parteciperete all’incontro dei movimenti popolari interno al Giubileo? Già dai tempi di Papa Francesco Mediterranea ha sostenuto questa Assemblea permanente dei movimenti popolari delle tre T: terra, tetto e trabajo (lavoro, ndr). Nella prima fase di criminalizzazione di Mediterranea Bergoglio ha voluto che la nostra organizzazione entrasse nel coordinamento di questa rete. Dentro ho ritrovato tanti, come i Sem terra brasiliani, che avevo conosciuto ai tempi del Forum di Porto Alegre. Così, soprattutto insieme a Don Mattia, abbiamo lavorato su questo percorso. Come può facilitare la mobilitazione sulle migrazioni la presenza di attivisti da vari paesi africani? Questo è fondamentale. Ma non verranno solo attivisti, dall’Africa ci saranno anche i vescovi. Spesso dicono che la Chiesa in Africa è rappresentata da chi è contrario all’emigrazione. Nessuno può essere a favore del fatto che la gente sia costretta a emigrare per sopravvivere. Qui non ci sono tifosi delle migrazioni. Sarebbe folle. Noi vogliamo creare reti di sostegno alle persone che restano e reti di sostegno alle persone in movimento. Dobbiamo trasformare ogni nostra casa, anche se è una parrocchia, in un rifugio: le presenze africane, di chiesa e di movimento, sono fondamentali. Sta già succedendo negli Usa. Dobbiamo farlo anche nel Mediterraneo. Andiamo in quel mare. Avete presentato un esposto sostenendo che i miliziani che hanno lanciato tra le onde 10 persone vicino alla vostra nave, nell’ultima missione, sono inseriti nel ministero della difesa di Tripoli. Su che base? Li abbiamo subito identificati per le modalità di azione. Gente addestrata, in mimetica, con passamontagna e armi. Abbiamo riconosciuto la stessa imbarcazione che, insieme ad altre, ci aveva intimato di andarcene alcune ore prima. Poi un lavoro pregevole è stato fatto dall’inviata di Repubblica a bordo, Alessia Candito. Attraverso le toppe sulle tute mimetiche ritratte nelle foto è venuto fuori che quegli uomini appartengono alla centoundicesima brigata di Zawyia. Erano tornati proprio lì, come visto nei radar. Quel battaglione appartiene alla Difesa. Cosa vi aspettate dall’esposto considerando che il governo italiano nel caso Almasri non ha rispettato un mandato della Corte penale internazionale? Non molto, ma vogliamo continuare a scrivere la storia del Mediterraneo per quella che è. Non la storia dei vincitori, ma quella di vittime e testimoni. A Gaza si uccidono i giornalisti, in mare si mandano via navi da soccorso e aerei civili che mostrano cosa accade. In un’integrazione all’esposto affermate che la dinamica di quanto accaduto quella notte è “peculiare”, è ancora “più preoccupante” del solito. In che senso? Non siamo investigatori né giudici ma vediamo due ipotesi plausibili. La prima è che volevano allontanarci da lì perché doveva succedere qualcosa. Se avessero solo voluto scoraggiare il soccorso sarebbe bastato affiancarci. Sappiamo che nella zona del pattugliamento ci sono traffici di petrolio, armi, droga ed esseri umani. La seconda ipotesi è che proveranno a criminalizzarci dicendo che siamo complici degli scafisti. Noi con questo esposto affermiamo che gli unici rapporti veri gli scafisti li hanno con il governo italiano e i suoi servizi segreti. Il tentativo di criminalizzare le ong è di lunga data, ma per Mediterranea si intreccia anche al caso dello spyware Paragon installato nei nostri telefoni e mai chiarito del tutto. Il tentativo sarebbe particolarmente grave se ci fosse una montatura internazionale, anche dal lato libico, che desse modo a Tripoli di intervenire in acque internazionali per un presunto reato che ha origine nel suo territorio. Perché questo metterebbe in pericolo la protezione garantita dalle bandiere delle nostre navi portando a un innalzamento dei rischi senza precedenti. Innalzamento già registrato negli spari libici contro Ocean Viking. Perché il governo non ha detto nulla? Spero non dipenda dalla volontà di legittimare uno scontro militare. Quel giorno hanno sparato per uccidere, ma non c’è stata nessuna reazione. In un caso meno grave che ha riguardato noi, Piantedosi ha riferito in Aula facendo la difesa d’ufficio della sedicente guardia costiera di Tripoli ma due giorni dopo l’ambasciatore italiano in Libia ha convocato l’ammiraglio della marina chiedendo di evitare ulteriori incidenti. Per Ocean Viking non è successo nulla. Spero che il governo Meloni non voglia legittimare la trasformazione della zona di ricerca e soccorso che la Libia si è attribuita in una zona franca dove vale qualsiasi cosa. Migranti. Justin deve dire solo la verità di Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 17 settembre 2025 L’odissea di un giovane camerunense accolto nella comunità arbëreshë di Acquaformosa, scampato a tutto tranne che alle difficoltà per ottenere la protezione internazionale. È una drammatica simulazione d’esame quella che si svolge in una stanzetta dell’associazione “Don Vincenzo Matrangolo” a Acquaformosa, in provincia di Cosenza. Due giovani donne di origini arbëreshë preparano un ragazzone camerunense che tra pochi giorni sarà chiamato a ricostruire la propria esistenza davanti alla Commissione territoriale per il riconoscimento della Protezione internazionale. Di prassi il colloquio propedeutico tra l’operatrice e interprete Lucia Anna Grillo, l’avvocata Lidia Vicchio e il 28enne Justin dovrebbe durare al massimo un’oretta. Invece il tempo si ferma e per un’abbondante mezza giornata gli sguardi a volte cercano riparo verso il soffitto; lacrime sgorgano, labbra si contraggono in espressioni di sconforto. “Dovrai dire tutta la verità, senza saltare un solo istante della tua vita”, spiega la legale difensora Vicchio. Il ragazzo annuisce, parla un ottimo francese e capisce l’italiano: “Sono nato in Camerun e cresciuto con i miei nonni, perché mia madre mi abbandonò dopo la nascita. Quando avevo 6 anni, morirono anche loro e mi ospitò mia zia, a Bafia. Spesso mi picchiava. Dovevo lavorare molto, in casa e fuori. Per strada vendevo acqua. Una sera tornai senza averla venduta tutta, lei mi ordinò di uscire e continuare a lavorare, ma io mi rifiutai perché ero stanchissimo, allora mia zia provò a legarmi. Cercai di scappare, lei mi tratteneva e cadde dalle scale. Scappai e mi rifugiai da un amico”. Il giorno dopo, una cugina informa Justin che la zia è morta. Per la famiglia, più che un assassino ora lui è uno stregone. Qualche anno prima, infatti, anche il nonno, in sua presenza, era morto di vecchiaia. “Cercai mio padre - sospira il ragazzo - lo trovai e per un po’ rimasi con lui. Facevo il venditore di libri per strada. A 11 anni mi mandò da mia nonna paterna che abitava a Obala. Vendevo vestiti con mio zio che però non mi dava niente. Intanto mio padre morì e rimasi lì fino a 16 anni. A 17 mi trasferii a Yaoundé e mi guadagnai da vivere con una bancarella; vendevo noci di cocco. Conobbi un signore che mi propose di lavorare nel giardinaggio. Rimasi con lui per qualche anno. Un giorno incontrai una zia che mi condusse da mia madre, ma quando lei mi vide, mi scacciò. Ormai aveva un’altra famiglia. E io non ne facevo parte. Poco tempo dopo, conobbi la ragazza che diventò mia moglie. Rimase incinta. Nacque nostra figlia. Decidemmo di partire, andammo in Nigeria, poi in Niger”. Il passaggio delle frontiere, com’è noto, si rivela sempre un valico infernale. Ai passeur la coppia deve sborsare una prima tangente. Al confine tra Niger e Algeria i trafficanti aggrediscono la ragazza, cercano di violentarla, Justin reagisce e lo picchiano selvaggiamente. Il viaggio prosegue a piedi e in pickup, dopo aver consegnato il telefono e i pochi soldi rimasti. “Chiedemmo aiuto a una famiglia algerina che ci ospitò. In cambio lavoravo per loro, facevo l’imbianchino. Dopo un anno e mezzo partimmo per la Libia, una delle due possibili soluzioni per arrivare in Italia. Piansi la prima volta quando mi costrinsero a rannicchiarmi nel furgone, picchiandomi con una mazza di ferro. Non erano soltanto le botte a farmi male, non sopportavo che mia figlia mi vedesse umiliato. Giunti in Libia, a Zawiya, ci lasciarono liberi. Lavorai per un uomo, all’inizio mi pagava solo con pane e latte. Ci trovò una casa e vi rimanemmo per quasi tre anni. Qui nacque il nostro secondo figlio. Feci tutti i lavori che mi offrirono, di notte e di giorno. Misi da parte i soldi e cercai il contatto giusto con dei libici che organizzavano la traversata”. Una sera, all’improvviso, la famiglia di Justin è avvisata che ha pochi minuti di tempo per salire su un gommone diretto in Italia. Il ragazzo balbetta: “Un attimo prima di infilarci nella macchina che ci avrebbe portato verso il mare, i trafficanti mi hanno urlato che non potevamo imbarcarci tutti e quattro, ma solo due di noi. E che dovevo scegliere quale figlio portare con me. Eravamo terrorizzati, non volevamo separarci, sapevamo che le donne in Libia diventano schiave sessuali. E per di più, mia moglie aveva il sospetto di essere di nuovo incinta. Fu lei a darmi coraggio, mi disse che insieme a me la nostra bambina avrebbe avuto qualche probabilità in più di farcela, e che una volta giunto in Europa, avrei trovato il modo di fare arrivare anche lei e l’altro nostro figlio. Così rimase a terra. Partimmo io e la bimba. In mare fummo avvistati quasi subito dalle motovedette libiche. Ci intimarono l’alt e spararono. Il gommone affondò, cademmo in acqua, il mare era mosso, nella concitazione persi la manina di mia figlia, mi aggrappai a una corda. Poi non ricordo più niente. Quando mi svegliai, ero in una prigione. Seppi che mia moglie stava rinchiusa nel braccio femminile del carcere. Ma la bambina era annegata”. La galera libica è luogo di torture ed abusi. Il racconto prosegue con voce tremante: “Mia moglie aveva continue emorragie, fu trasferita in un’altra prigione dove partorì. Le altre donne si ribellarono per la presenza del neonato. Io rimasi dov’ero. Dopo tre mesi uscii e ci ritrovammo. Conobbi un altro datore di lavoro. Stavolta ebbi un piccolo compenso. Riprovammo a partire, ma ancora una volta non c’era posto per mia moglie. Così decidemmo che mi sarei imbarcato col bambino e lei mi avrebbe raggiunto in Europa, appena possibile. In cambio di lavoro domestico, trovò ospitalità da alcuni conoscenti. Affrontai il viaggio con un altro giovane camerunense, Emanuel, insieme a sua figlia. Anche lui è stato costretto a lasciare la moglie e a scegliere quale figlio portare con sé. Viaggiavamo in 76 sul gommone. Dopo due giorni di traversata, ci sorvolò un aereo. Avevamo il terrore che ci riportassero in Libia, eravamo pronti a buttarci in mare. Quando vedemmo le insegne della Croce Rossa, tornammo a vivere. Adesso Emanuel e la sua bimba sono entrambi qui, con noi”. Non sarà facile per loro ottenere la protezione. Nelle Commissioni territoriali subentrano funzionari provenienti dalla graduatoria del concorso espletato dal Mef, quindi privi di formazione ed esperienza sul campo. Secondo Mariafrancesca D’Agostino, docente di Sociologia Politica e Migrazioni e Cittadinanza Globale nell’università della Calabria, “non vi è alcuna coerenza fra politiche di chiusura dei porti ed esternalizzazione dei corpi. I diversi espedienti a cui il governo Meloni sta ricorrendo per rispondere ai bisogni del mercato del lavoro, come i decreti flussi record degli ultimi due anni, le proroghe ai rifugiati ucraini, l’istituzione di corridoi lavorativi per rifugiati - prosegue - sono propaganda, servono gli interessi del governo, ma lo mostrano anche debole di fronte a un enorme paradosso: costruire consenso più su percezioni che su contenuti è una strategia di breve respiro, perché disconosce anzitutto che il Paese ha disperato bisogno di forza lavoro migrante. Inoltre c’è un attivismo dal basso che non smette di denunciare, e le corti nazionali e internazionali non fanno sconti ai trafficanti libici”. Justin e suo figlio sono due delle 4.100 persone accolte a Acquaformosa negli ultimi 15 anni. “Insieme ai comuni di San Basile, San Sosti, Cerzeto, San Benedetto Ullano, Vaccarizzo Albanese, Bisignano, Cerchiara e Plataci, abbiamo realizzato il sogno di garantire dignità a circa 1000 famiglie provenienti da 57 nazioni e 142 etnie diverse - spiega Giovanni Manoccio, già sindaco di Acquaformosa. Almeno un centinaio di queste persone oggi risiedono, lavorano, frequentano le scuole del nostro territorio”, aggiunge. Gli esseri umani oggi in fuga sono accolti dai discendenti degli albanesi che cinque secoli or sono fuggirono dalle guerre. All’epoca però non c’era sanzione per chi prestava soccorso in mare. L’altro è nemico, mai controparte: la violenza torna arma politica di Paolo Delgado Il Dubbio, 17 settembre 2025 Da almeno una quindicina d’anni, ma con accelerazione estrema a partire dal Covid, si è sempre più diffusa una modalità di confronto, anzi in realtà di conflitto sempre meno latente, che non ammette il riconoscimento reciproco delle parti in causa. Forse, più che di esagerazione calcolata a freddo, si tratta di riflesso condizionato: quando si parla di violenza politica, in Italia, è obbligatorio evocare gli anni 70. Così il ministro Ciriani se ne esce come se nulla fosse con le Brigate rosse, riferendosi peraltro alle parole di un parlamentare neppure di sinistra ma di Italia Viva, moderato e centrista. Così il collega Tajani chiama in causa la campagna martellante contro il commissario Calabresi, poi ucciso in uno dei primi attentati non indiscriminati degli anni di piombo. In realtà persino a loro, o almeno a Tajani, deve essere chiaro quanto il paragone sia infondato. È lo stesso ministro degli Esteri, infatti, a mettere le mani avanti chiarendo che le campagne d’odio possono armare la mano anche di picchiatelli apolitici, disadattati in cerca di una vittima purchessia, squilibrati senza ideologie o colore politico. La precisazione era indispensabile. Tajani, che non è nato ieri, sa perfettamente che a insanguinare gli anni ‘ 70 furono organizzazioni che si consideravano a tutti gli effetti politiche e che con la violenza, armata o meno, intendevano fare politica. Di organizzazioni simili nell’Italia di oggi non ce ne sono e del resto anche allora non erano sorte dal nulla o dalle allucinazioni di alcuni: erano comunque il frutto di una fase tumultuosa e spesso traumatica, di un Movimento e probabilmente del più imponente e longevo in Occidente dal dopoguerra in poi. Ma certo, se discorsi politicamente troppo fiammeggianti possono spingere a imbracciare il fucile anche psicolabili privi di qualsiasi obiettivo politico tutto diventa effettivamente possibile. Solo che, messe così le cose che così sembrano essere effettivamente messe negli Usa delle frequenti stragi insensate, anche un eventuale e per la verità improbabile colpo di freni sui toni dello scontro politico servirebbe a ben poco. I disturbati in questione prenderebbero di mira altri obiettivi con esiti non meno letali, come appunto capita spesso nel Paese della Libertà e delle armi libere. Il problema è che il riferimento indebito agli anni 70 rischia di fuorviare o peggio di nascondere un rischio reale che invece c’è e che deriva dalla realtà di questi anni e da quella, sideralmente distante, di mezzo secolo fa. Da almeno una quindicina d’anni, ma con accelerazione estrema a partire dal Covid, si è sempre più diffusa una modalità di confronto, anzi in realtà di conflitto sempre meno latente, che non permette mediazioni perché non ammette il riconoscimento reciproco delle parti in causa. Non si confrontano opzioni diverse su singoli elementi o anche in generale ma visioni del mondo incompatibili, tanto pervasive da spuntare in ogni singola e specifica questione, ciascuna delle quali ritiene di essere ‘il bene’ contrapposto al ‘male’. Il linguaggio della comunicazione politica e della propaganda che prende di mira gli avversari o il singolo avversario demonizzandolo è conseguenza, in sé neppure troppo rilevante, di un’abitudine ormai invalsa di considerare lo scontro e il conflitto politico come guerre di religione. Se gli Usa, come viene spesso ripetuto, sono davvero in una pericolosissima situazione di guerra civile latente è proprio perché è venuto meno il collante che permetteva anche nei conflitti più cruenti di riconoscere nell’altro almeno alcuni elementi comuni e non solo un’alterità totalmente antagonista.Più che invocare una peraltro molto improbabile attenuazione dei toni, leader politici e commentatori dovrebbero affrontare il vero nodo, appunto la capacità di riconoscere anche nelle opinioni più distanti qualcosa in comune, fosse pure solo la piena libertà di esprimerle. Da questo punto di vista il caso Kirk è esemplare. La destra accusa la sinistra di fomentare la violenza “diffondendo odio”, cioè delegittimando la libera espressione di opinioni anche estreme ma comunque lecite. La sinistra risponde esattamente allo stesso modo, cercando di ritorcere l’accusa: a “diffondere odio” cioè a essere illegittimi, sono in realtà i discorsi della destra. È probabile che a edificare questo clima mefitico non sia stata la politica. I social, che come mezzo di comunicazione di massa spingono in quel senso e che nella tradizionale distinzione di Marshall Mc Luhan tra ‘media freddi’ e ‘media caldi’ sono incandescenti. Il declino della democrazia sostanziale e dunque di un agire politico fondato sulla ricerca della mediazione. La crescente frustrazione dei singoli per una realtà che si presenta come insoddisfacente ma anche del tutto impermeabile. Non è affatto detto che questo clima di guerra di religione latente sbocchi realmente in grandi scoppi di violenza. Ma da ogni punto di vista basta a fare danni enormi. Europa, verso la guerra come sonnambuli di Domenico Quirico La Stampa, 17 settembre 2025 La non belligeranza italiana e le bugie che portano al fronte. Quelle similitudini con il 1939. Siamo diventati da poco orfani di una bugia. Purtroppo. Perché era una bugia utile, che ci ha miracolato da un abisso, bugia condivisa tra nemici e quando le bugie sono così diventano quasi pseudoverità che si possono far bere ai sudditi facendole gestire da manichini parlanti sugli schermi. Se l’interesse reciproco lo richiede il bianco può persino diventare nero. Lo rimpiangeremo questo “adminiculum” un po’ losco che permetteva di socchiudere gli occhi sulle cose sconvenienti. Hanno strappato il velo alla guerra europea: è ufficiale, dichiarato, garantito: siamo, noi, in guerra con la Russia. Se vi attardate tra coloro che attendono di ottenere una spiegazione del perché in nell’età della ragione si sia aperta, in piena luce, questa abominevole voragine nella cerniera d’Europa, se siete affaticati dal disagio indefinibile di fronte a tanti fantasmi guerreschi, a tanti illuminati spiriti che son lì ogni giorno a sobillarci perché il tempo dei deliri guerrafondai è tutt’altro che passato, anzi deve impegnare le nostre midolla per i prossimi decenni, almeno avete un po’ di chiarezza. Ora le sole domande reali sono quelle che la realtà ci pone e non più quelle che ci ponevamo per evitare di rispondere al presente. Tutta colpa del prosaico portavoce della presidenza russa Peskov: “Di fatto siamo in guerra con l’Alleanza atlantica”. “Di fatto” vuol dire che manca solo il ritiro degli ambasciatori. Non è rozza propaganda alla Medvedev, è una secca constatazione della realtà. Mentre diecimila soldati Nato si schierano alla frontiera con quarantamila polacchi e dall’altra parte, a vista, decine di migliaia di russi con i vassalli bielorussi “manovrano”. Tutto ciò che da tre anni funzionava “normalmente”, come numerazione decimale, quotidiana di missili vittime e insulti, è ammutolito. Il fruscio della parola maledetta si è levato: siete in guerra. Lo scenario è perfetto per provocazioni, incidenti pilotati, errori fatali: sono tutti gli armamentari che precedono e scatenano sempre le guerre grosse. La guerra indiretta si reggeva dunque su una condivisa, reciproca bugia: intendo la bugia che significa banalizzazione, normalizzazione, viatico alla indifferenza. Tutti d’accordo a Mosca, a Washington, a Roma che il conflitto fosse solo tra Kiev e Russia. Punto e basta. Nel leggero show della classe politica e propagandistica occidentale era una aggressione che si legava alla ancestrale bulimia di conquiste, l’ossessione dello spazio vitale ex sovietico e zarista che farebbe parte della “aggressività” russa, con un Putin replica in miniatura delle caldane di Caterina la grande e di Stalin. Da Mosca invece si predicava la necessità di punire i “nazisti” di Kiev e difendere i fratelli del Donbass. Entrambi anno dopo anno hanno omesso per reciproco utile di dichiarare la verità: che lo scontro era diretto, un duello di potere e di status, e che gli sventurati ucraini erano solo protagonisti e vittime per procura. In realtà la guerra non dichiarata, neppur troppo nascosta, con armi sofisticate, informazioni satellitari, “istruttori”, specialisti travestiti da contractor o volontari in azione sul campo perché gran parte degli armamenti navali terrestri e missilistici sono fuori portata per i soldati ucraini, procedeva e cresceva anno dopo anno. Entrambi fingevano perché ne hanno ricavato vantaggi interni, oltre che il poter posticipare il baratro del possibile conflitto globale e soprattutto atomico. I leader occidentali potevano servire alle proprie perplesse, indifferenti, talora ostili opinioni pubbliche ed elettorali il fiabesco menu a la carte: noi non siamo in guerra con la Russia, per carità!, semplicemente aiutiamo con armi e sanzioni l’eroica Ucraina a resistere. Si poteva sdilinquire con l’Ucraina fino alla pace giusta! senza dover affrontare l’incandescente furore non delle lillipuziane minoranze dei pacifisti tolstoiani ma delle moltitudini dei richiamati mediante cartolina precetto e relative famiglie. Ecco: si capitalizzava il diffuso rifiuto di prevedere e prepararsi, eloquente testimonianza sia della forza che della debolezza delle democrazie. Manca la abitudine alla tragicità. Ma chi ne ha voglia di parlarne in Paesi, Europa e Stati Uniti, che sono un gran teatro di attriti economici, sociali, razziali? Quindi: minacce, esecrazioni, pacchetti di soldi e di sanzioni, proiettili e propaganda ma nessun atto che potesse far superare la linea della guerra diretta. Nelle retrovie gli sciacalli ingordi del riamo intanto arrotavano i denti. Putin a sua volta, poteva prolungare il raccontino della “operazione militare speciale”, insaporendola, visti gli imprevisti tempi lunghi, con gli spartiti di nuovi ordini mondiali. Che la tenace resistenza ucraina sia una conseguenza del sostegno occidentale i russi lo sanno benissimo: non è come dice il presidente un’altra prova del subdolo assedio nemico iniziato nel disgraziato ottantanove? Perché Mosca ha scelto di annunciare la guerra diretta? Forse perché dopo il vertice di Anchorage sa che di fronte non ha la Nato, ma la Nato senza Trump. Come ha dimostrato la levità con cui Washington ha osservato la vicenda dei droni in volo sulla Polonia. La Nato degli europei non vale neppur la pena di reticenze nello scavalcare il Rubicone. Reagirà a chiacchiere, eserciti futuribili e i soliti pacchetti di sanzioni, ovvero con il niente. A rinunciare candidamente alla semantica dell’eufemismo è stato il ministro della difesa italiano Crosetto: “In caso di attacco non siamo in grado di difenderci”. Queste singolari impotenze valgono anche per i sedicenti Grandi del continente, Francia e Gran Bretagna. Allo scoppio della guerra nel 1939, dopo vent’anni di quadrati legioni e di milioni di baionette, anche Mussolini dovette annunciare che non eravamo pronti. Adotteremo anche noi la scorciatoia della non belligeranza? Gaza, il doppio tradimento di Antonio Polito Corriere della Sera, 17 settembre 2025 Due grandi democrazie stanno tradendo in queste ore alcuni dei valori che ce le hanno rese così care: Israele e gli Stati Uniti. La prima è Israele. Con l’invasione di Gaza City, ciò che era cominciata come una guerra ad Hamas si trasforma definitivamente in un’operazione di espulsione (presumibilmente per sempre) dei suoi abitanti palestinesi e di ripulitura del luogo. La distruzione non basta più, siamo ora entrati nella fase Caterpillar: la rimozione dei laterizi con i giganteschi bulldozer D9 che spianano il terreno, un efficiente lavoro di movimento-terra. Come mostrano le immagini satellitari, lì dove c’erano le macerie create dai bombardamenti ora stanno facendo un deserto. L’obiettivo è ormai chiaramente quello al quale ci eravamo finora rifiutati di credere davvero: cacciare quanti più palestinesi è possibile, e mettere il resto nelle “città umanitarie”, praticamente prigioni a cielo aperto. “Il mio piano, una volta conclusa la vittoria di Gaza — ha detto il ministro della sicurezza di Israele, Ben Gvir, e non c’è ragione di non credergli — è costruire lì un quartiere di lusso per i poliziotti, con vista sul mare. Sarà uno dei posti più belli del Medioriente”. Seppure in versione securitaria, con meno cocktail e più divise, è l’altra faccia della Gaza Riviera che sogna Trump. Al posto di una qualsiasi soluzione politica con i palestinesi, Israele ha dunque scelto il loro esodo. È il capovolgimento totale della linea “pace in cambio di territori” che portò Ariel Sharon, venti anni fa, a ritirarsi dalla Striscia. Uomo di destra, spaccò il suo partito, il Likud, se ne fece uno nuovo e si alleò con il laburista Peres pur di lasciare Gaza. Cacciando con la forza migliaia di coloni ebrei che resistevano allo sfratto, lasciò ai palestinesi un primo lembo di Stato da amministrare. La morte di Sharon, e la sciagurata vittoria elettoral-militare di Hamas nella Striscia, ci hanno portato fin qui. A Netanyahu non sembrò infatti vero di poter trasformare Gaza in un grande ghetto, praticamente consegnandola agli islamisti, in cambio della sconfitta della Autorità Nazionale che era stata di Arafat, di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, e dunque del fallimento del sogno di uno Stato palestinese. Strategia rivelatasi suicida, perché ha avuto la sua parte di responsabilità nel disastro di sicurezza del 7 ottobre, con il feroce “pogrom” perpetrato dai terroristi di Hamas. Ora, dopo aver trasformato il ghetto in una fossa comune, Netanyahu si riprende la Striscia con una guerra senza quartiere che identifica il popolo palestinese con Hamas, e che per questo durerà per generazioni. L’obiettivo storico di Israele, difendersi con le armi dai suoi nemici per fare con loro la pace, come era avvenuto con l’Egitto o con la Giordania, si è capovolto nel suo contrario: la guerra permanente su sette fronti, colpendo anche chi, come l’Oman o il Qatar, si presentava come mediatore. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la tacita, magari sofferta, ma indiscutibile acquiescenza degli Stati Uniti di Trump. E qui veniamo all’altra grande democrazia che sta tradendo la sua storia in Medioriente. La visita del segretario di Stato Rubio è apparsa chiaramente un sostanziale via libera all’operazione di Gaza City. Ricordiamo che l’ultima tregua nella Striscia è stata firmata durante gli ultimi giorni della presidenza Biden. Il cessate-il-fuoco andò in vigore il 19 gennaio di quest’anno. Il giorno dopo The Donald è entrato alla Casa Bianca, e da allora Netanyahu ha avuto carta bianca (più meno come Putin in Ucraina). Ma gli Stati Uniti, grandi protettori di Israele e del suo sacrosanto diritto a esistere, sono stati sempre anche grandi moderatori di Israele. Nel 1956 fermarono la guerra di Suez, e alla presidenza c’era un repubblicano, Eisenhower. Nel 1978 ottennero la pace tra Israele ed Egitto in cambio della restituzione del Sinai occupato, e alla presidenza c’era il democratico Carter. Nel 1993 fu Clinton l’artefice degli accordi di Oslo, la pace tra Israele e i palestinesi, tra Rabin e Arafat. Perfino Bush Jr, con la sua road map for peace, riuscì a fermare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania e a Gaza, fino al vero e proprio ritiro da parte di Sharon. Anche Trump, nella prima presidenza, inseguì una ipotesi di pacificazione del Medioriente, seppur basata su una sua idea “commerciale”, e cioè sulla convenienza comune allo sviluppo dell’area e alle opportunità di affari che può aprire. Gli accordi di Abramo, firmati con Emirati Arabi, Bahrein, Sudan e Marocco, furono il primo passo. L’ipotesi di conquistare l’Arabia Saudita a questo processo di trasformazione del Golfo in crocevia dei traffici tra Asia ed Europa e in nuovo hub globale dell’Intelligenza Artificiale, in cambio di mille miliardi di dollari di investimenti sauditi negli States (più un golf club, qualche affare alberghiero per la famiglia e un lussuoso Jumbo in regalo dal Qatar) era al centro del suo viaggio recente nei Paesi più ricchi del Golfo. Ma richiedeva, e richiede, se non la pace almeno la tregua a Gaza. La fine dell’offensiva militare di Israele. Disinnescare l’odio. Forse il problema di Trump è proprio questo: disprezza troppo la politica per capire che in Medioriente finirà per avere sempre il sopravvento anche sugli affari, perché in gioco ci sono i popoli, il loro sangue, le storie, la cultura, e il potere. Cosa che Netanyahu capisce meglio di lui. Purtroppo per tutti noi. Gaza. Non solo un simbolo: l’inchiesta Onu sul genocidio avrà effetti di Micaela Frulli e Triestino Mariniello Il Manifesto, 17 settembre 2025 Palestina Dal Ruanda al Darfur, i precedenti ci dicono che i rapporti delle Commissioni delle Nazioni unite hanno conseguenze e riverbano nei tribunali internazionali. Nel caso israeliano, la Corte penale potrebbe allargare il suo raggio d’azione. Con il rapporto rilasciato il 16 settembre 2025, la Commissione d’inchiesta indipendente nominata dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu conclude che le autorità israeliane stiano commettendo un genocidio a Gaza. Secondo la Commissione, le violazioni in atto integrano quattro delle cinque condotte previste dalla definizione di genocidio data dalla Convenzione Onu del 1948, commesse con l’intento di distruggere in tutto o in parte un determinato gruppo nazionale, etnico, razziale, o religioso in quanto tale: (i) l’uccisione di membri del gruppo, (ii) la lesione grave della loro integrità fisica o mentale, (iii) il sottoporre il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, e (iv) il prendere misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo. La Commissione sostiene che i veri obiettivi dell’aggressione militare alla Striscia di Gaza siano quello di “uccidere più palestinesi possibile” e rendere Gaza un luogo invivibile per i sopravvissuti. Si tratta di conclusioni analoghe a quelle raggiunte da numerosi rapporti di organizzazioni governative e non governative, incluse alcune organizzazioni israeliane. La Commissione conclude anche che il primo ministro Netanyahu, il presidente Herzog e altri ministri quali Smotrich e Ben-Gvir sono responsabili di incitamento diretto e pubblico a commettere atti di genocidio. Nelle conclusioni, la Commissione ribadisce non soltanto gli obblighi di Israele, ma anche gli obblighi che incombono sugli Stati terzi, che sono vincolati da un obbligo stringente di prevenzione del genocidio e dal divieto di complicità in atti di genocidio. La Commissione dice chiaramente che almeno a partire dal 26 gennaio 2024, quando la Corte internazionale di giustizia (Cig) ha ordinato le prime misure provvisorie su richiesta del Sudafrica, tutti gli Stati sono a conoscenza del grave rischio di genocidio e che quindi già da più di un anno e mezzo hanno l’obbligo di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione per prevenire il genocidio. La Commissione quindi richiama tutti gli Stati ai loro obblighi e alle loro precise responsabilità. La Commissione fornisce agli Stati anche indicazioni molto precise sull’impegno che essi devono mettere nell’accertamento delle responsabilità e nel sostegno alla giustizia internazionale. Si raccomanda agli Stati di intervenire come terzi nel procedimento intentato dal Sudafrica contro Israele per violazione della convenzione sul genocidio di fronte alla Cig. Il divieto di genocidio è una norma di carattere imperativo e la sua violazione colpisce non solo i palestinesi, ma ogni membro della comunità internazionale e tutti gli Stati sono invitati a far sentire la propria voce di fronte alla Cig. La Commissione poi invita anche gli Stati a sostenere e cooperare pienamente con l’Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) con l’obiettivo di far valere le responsabilità anche sul piano penale. Un invito tutt’altro che simbolico: i report delle Commissioni d’inchiesta delle Nazioni unite, pur non avendo valore formalmente vincolante per la Cpi, esercitano una forte influenza sulle corti internazionali. Le commissioni d’inchiesta, che nel tempo hanno assunto sempre più la fisionomia di “organi giudiziari”, raccolgono testimonianze, acquisiscono prove e le valutano secondo standard rigorosi, sistematici e dettagliati. Non è un caso che a guidare l’attuale Commissione sia una ex giudice del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, invitata a ricoprire quella funzione direttamente da Nelson Mandela: proprio in quel ruolo si occupò del genocidio in Ruanda, maturando una competenza giudiziaria senza precedenti in materia del più “grave crimine internazionale”. La loro autorevolezza è dimostrata dai precedenti. Già in passato i rapporti delle Commissioni hanno costituito un punto di riferimento decisivo per la Corte: basti ricordare la Commissione d’inchiesta sui crimini in Darfur del 2005, presieduta da Antonio Cassese, che aprì la strada al primo referral del Consiglio di sicurezza Onu alla Cpi e contribuì a identificare i presunti responsabili dei crimini internazionali commessi nella regione. Nell’emanare il mandato di arresto contro l’ex presidente sudanese Omar Al Bashir, la Camera preliminare della Cpi fece ampio riferimento a quel report. Lo stesso accadde con la Costa d’Avorio: la Procura della Cpi fondò in larga parte le sue indagini sull’ex presidente Laurent Gbagbo proprio sulle risultanze della Commissione d’inchiesta Onu. Questi precedenti mostrano come, seppur formalmente non vincolanti, i rapporti delle Commissioni possano costituire per la Cpi delle prove indirette, spesso ritenute sufficienti in fase pre-investigativa per aprire indagini fino ad arrivare all’emissione di mandati di arresto contro sospettati di crimini internazionali. In questo senso, anche l’attuale rapporto potrebbe fornire alla Procura elementi per allargare il raggio d’azione delle indagini, riformulando i capi di imputazione già pendenti nei confronti di Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant, includendo l’accusa di genocidio e ampliando la lista degli indagati. Il richiamo alla cooperazione degli Stati con la Cpi acquista un peso particolare in questa fase, segnata da durissime sanzioni imposte dal governo statunitense contro i tre procuratori e giudici della Corte. Colpiti anche la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese e le tre principali organizzazioni palestinesi per i diritti umani (Al-Haq, Al-Mezan e Pchr), con conseguenze pesanti per chiunque interagisca con la Corte e un effetto paralizzante sul suo operato. Da qui l’urgenza che gli Stati - compreso il nostro - diano seguito all’appello, adottando misure concrete per contrastare queste sanzioni, illegittime alla luce del diritto internazionale, e per garantire il corretto funzionamento della giustizia penale internazionale proprio laddove oggi è più necessaria. Il piano per portare Hamas a Tunisi che preoccupa il Governo italiano di Francesco Grignetti e Ilario Lombardo La Stampa, 17 settembre 2025 La prospettiva è di avere il potente gruppo islamista a poche miglia di mare dalla Sicilia. C’è una ipotesi “tunisina” per evacuare da Gaza quel che resta della dirigenza di Hamas. Ed è molto concreta. È un vero e proprio piano su cui si stanno confrontando diversi governi, tra Europa, mondo arabo, Stati Uniti e Israele. L’idea è di trasferire a Tunisi i vertici sopravvissuti di Hamas, garantendo la loro sicurezza nel trasferimento, pur di costringerli a mollare la presa su Gaza e così di fatto eliminando la causa scatenante dell’invasione israeliana. Le diverse intelligence stanno analizzando l’ipotesi e presentano ai rispettivi governi i pro e i contro del piano. Così è anche per l’Italia che non fa salti di gioia all’idea di trovarsi di colpo tanto vicino un potente gruppo terroristico. Il trasferimento di Hamas a Tunisi potrebbe trasformarsi in un incubo per il governo di Giorgia Meloni, che comunque non pare intenzionato a mettersi esplicitamente di traverso. Il primo timore riguarda la tenuta della Tunisia, un Paese che da anni è sul filo del rasoio e che può precipitare da un momento all’altro nel caos come è accaduto alla Libia nel 2011. Già solo questo scenario non può non spaventare gli apparati italiani che da anni cercano di stabilizzare quella realtà, anche attraverso accordi, formalizzati da Meloni, con il governo di Kais Saied reputati controversi sul lato dei diritti umani, e avviati per frenare l’esodo dei migranti. L’arrivo di un gruppo politico-militare così potente e strutturato in Tunisia, poi, fa temere lo sviluppo di nuove dinamiche criminali: i miliziani palestinesi ci metterebbero poco a impadronirsi delle ricche rotte dell’immigrazione clandestina, fonte di enormi guadagni illeciti e temibile arma di ricatto, soprattutto un Paese così prossimo come l’Italia. Infine, ma non ultima preoccupazione, Hamas potrebbe fare proselitismo tra tanti disperati provenienti dall’Africa musulmana e creare reti terroristiche in Nord Africa e in Europa. I servizi segreti temono una ripresa del terrorismo islamista in Occidente, innescato facilmente dalla strage in atto a Gaza. Come è ovvio, insomma, il governo Meloni è spaventato da questo piano. Ad opporvisi, però, si rischia di far fallire l’unica soluzione che la diplomazia è riuscita a inventare in extremis e lasciare così che i tank israeliani vadano avanti nella distruzione di Gaza City con l’effetto di uccidere migliaia di civili. E perciò a Roma non se ne parlerà pubblicamente, ma tra Farnesina e Palazzo Chigi si fanno scongiuri, sperando che il piano “tunisino” si riveli impraticabile e abortisca da sé. Alcune condizioni andranno comunque rispettate, precisano le fonti contattate. L’Italia non potrà certo affossare una decisione che verrebbe condivisa dalla Tunisia e da altri potenti alleati, ma di sponda con l’Europa potrà provare a fissare paletti umanitari, contro magari le tentazioni israeliane (sostenute da Donald Trump) di deportare centinaia di migliaia di profughi palestinesi, e non soltanto le poche centinaia di miliziani che dominano su Gaza. Lo scenario di trasferimenti di massa della popolazione gazawi vorrebbe creare a pochi chilometri dalla costa siciliana un avamposto di altri potenziali disperati pronti a fuggire verso l’Italia. L’idea ricalca quanto accadde nel lontano 1982, quando Yasser Arafat e il gruppo dirigente dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) furono aiutati a lasciare Beirut, in Libano, un attimo prima che arrivasse l’esercito israeliano e ci fosse un bagno di sangue. Ma c’è un’enorme differenza: i palestinesi dell’epoca erano nazionalisti laici, non islamisti; stringere accordi con Arafat era possibile; e anzi gli italiani avevano segretamente siglato il famoso Lodo Moro con l’Olp anni prima. Anche allora, nel 1982, era in corso un’invasione degli israeliani: dopo anni di guerra civile, le forze di Tel Aviv erano intervenute nelle dinamiche libanesi in aiuto dei loro alleati, i cristiano-maroniti. L’obiettivo vero era di regolare i conti definitivamente con Arafat e l’Olp, lì rifugiati da anni dopo essere stati espulsi dalla Giordania, e contrastare l’influenza siriana che in quel momento era dominante. L’assonanza tra l’invasione odierna di Gaza City con quella di Beirut di quarantatré anni fa, a qualcuno ha fatto tornare alla mente il precedente di Arafat. Non si sa esattamente chi abbia partorito il piano. È un fatto però che l’autoritario presidente della Tunisia, Saied, ultimamente si sia molto avvicinato all’Iran e che alcuni giorni fa il ministro degli Esteri di Teheran fosse in visita a Tunisi. Ufficialmente per parlare di cooperazione economica. Secondo la stampa francese il confronto sarebbe virato su altro: gli iraniani avevano sondato il rais sull’ipotesi di accogliere gli ultimi capi di Hamas. Si sarebbe parlato di passaporti iraniani e di una cospicua contropartita finanziaria per Tunisi, notoriamente in affanno economico. Secondo altre versioni, l’idea sarebbe nata a Washington. Nel 1982 non a caso furono truppe statunitensi, francesi e italiane (c’era l’indimenticato generale Franco Angioni) a garantire l’evacuazione di Arafat. Ora si tratterebbe di un bis di quell’operazione. In un caso come nell’altro, ci sarebbe il “placet” di Israele a questo trasferimento concordato in Tunisia. Gli israeliani sembrano d’accordo all’evacuazione purché quelli di Hamas liberino gli ostaggi e se ne vadano in esilio. Probabilmente l’isolamento e le pressioni internazionali cominciano a pesare anche sul governo di Benjamin Netanyahu, oltre alle spaccature interne al Paese Iran. Nella prigione di Evin noi dissidenti usati come scudi umani di Reza Khandan* Il Dubbio, 17 settembre 2025 Il 16 giugno stiamo passeggiando nel cortile della sezione 8 quando si sentono colpi di contraerea: i proiettili esplodono sopra le nostre teste, seguiti da detonazioni violente. Le urla dei compagni si mescolano al rombo dei colpi, la polvere sollevata dall’onda d’urto cade sugli occhi e sulle spalle. La paura si diffonde come una corrente elettrica tra di noi, in un istante tutti siamo consapevoli della fragilità del nostro rifugio. L’attacco all’edificio della televisione di Stato iraniana è il più vicino e devastante dall’inizio della guerra che percepiamo dalle sbarre di Evin. Mi precipito alla sala 10, al quarto piano: da una finestra vedo l’enorme colonna di fumo che si innalza verso il cielo grigio. Molti compagni assistono in diretta all’interruzione delle trasmissioni televisive. Tra i detenuti esplodono reazioni contrastanti: paura, incredulità, panico; scoppiano litigi, spintoni, e cinque vengono portati in isolamento nella sezione 209, quella consacrata agli interrogatori. Nei giorni seguenti moltiplichiamo le battute sull’eventualità di un attacco diretto alla prigione. Faccio scorte di pane e acqua, raccomando ai compagni di allontanarsi dalle finestre al primo boato. Sembra ancora un gioco. Alcuni ipotizzano come aprire porte e finestre con strumenti improvvisati, ridiamo nervosamente. Una ragazza, per rassicurare la madre, cerca su internet e le dice: “Mamma, non ti preoccupare, non hanno mai bombardato una prigione in guerra”. Illusione: alle atrocità non c’è limite. Dopo l’ordine di evacuazione dei residenti di Teheran, nostra figlia Mehraweh si dispera. In un post che ha pubblicato su Instagram protesta tra lacrime e rabbia contro la decisione di trattenere i detenuti, esponendoli ai bombardamenti. Il 22 giugno, poco prima delle 11, entro in biblioteca. Quattro o cinque persone leggono in silenzio. Mi immergo in un romanzo. All’improvviso esplosioni tremende scuotono il terreno e l’edificio: stanno bombardando Evin. I detenuti fuggono in panico, io rimango solo. L’edificio vecchio e fatiscente trema, il soffitto lascia cadere polvere e calcinacci. Mi rifugio sotto una scrivania, ma è piena di oggetti. L’onda d’urto mi travolge. Sento l’aria sibilare, polvere negli occhi e orecchie che fischiano. Mi vedo a un passo dalla morte. Per un attimo penso ai miei familiari: capisco che chi muore perde tutti, mentre i sopravvissuti perdono solo una persona. Tutto dura pochi secondi, ma l’effetto rimane per sempre nell’animo. Quando il bombardamento sembra cessato, esco dalla biblioteca: l’avevo scelta perché senza finestre, con scaffali di libri che attutiscono i rumori, ma l’intensità dell’attacco va oltre ogni calcolo. I prigionieri corrono giù per le scale, gridano, cercano di aprire le porte: sono chiuse. Anche il personale del carcere è preso dal panico, blocca l’uscita e impedisce di portare i feriti all’infermeria. Nel cortile trovo macerie, fumo e schegge. Le ultime bombe cadono vicino alle sezioni 7 e 8, colpendo anche l’edificio dei colloqui, la procura e gli impianti circostanti. Molti feriti sono colpiti da pietre e vetri nel cortile e in palestra. Alcuni svenuti vengono trascinati fuori a forza. Quando le urla non ottengono nulla, i prigionieri sfondano una porta e ci riversiamo all’esterno. Trasportiamo i feriti all’infermeria comune, anch’essa invasa da polvere, schegge e vetri. Un detenuto muore per mancanza di cure tempestive. Molti feriti gravi ricevono solo fasciature provvisorie, lamentandosi per ore tra dolore e sangue rappreso. Alcuni detenuti tentano di scappare dal carcere: vengono colpiti. Un gruppo di prigionieri politici della sezione 4, che avrebbe potuto approfittarne per fuggire, esce invece per soccorrere i feriti, ma un’ora dopo viene costretto con le armi a rientrare. L’onda d’urto scaraventa a terra molti: un amico cade dal terzo letto della cuccetta, un detenuto nigeriano rovescia una pentola bollente su un compagno, altri svengono. Schegge di vetro feriscono decine di persone, il tetto della palestra si apre in più punti. Paura e panico si impadroniscono di tutti, amplificando urla e pianti. Le colline di Evin prendono fuoco, esplodono mine intorno al carcere. Ciò che stupisce è che un regime che proclama da decenni la guerra con Israele non abbia né sirene né rifugi. Nessun colpo parte contro gli aerei: siamo indifesi, e chi tenta di fuggire viene trattato come evaso. Una delle stragi peggiori avviene all’ingresso principale: muoiono personale, soldati, detenuti prossimi alla liberazione con i loro familiari, altri che stanno entrando per la registrazione. La sera, durante il trasferimento al carcere di Teheran Grande, vediamo file di sacchi con cadaveri caricati su camion. Mio fratello e un parente, arrivati alla sala colloqui, trovano corpi davanti all’edificio e decine di auto esplose. La magistratura e l’Organizzazione carceraria, ignorando i nostri avvertimenti, mettono a rischio detenuti, personale e visitatori: l’attacco a Evin diventa uno degli episodi più sanguinosi della guerra di dodici giorni. Secondo alcuni agenti, il direttore Farzadi impone la presenza forzata di tutti, mentre Teheran è quasi evacuata. Lui però si trova in un luogo sicuro. Le famiglie delle vittime vogliono denunciarlo, ritenendolo responsabile del massacro. Le linee telefoniche funzionano ancora: chiamo subito Nasrin e Nima, dico loro di non preoccuparsi. Poco dopo il regime taglia internet: invece di facilitare la comunicazione, blocca la popolazione nell’angoscia, lasciando tutti in balia dell’incertezza e della paura. A mezzanotte sono passate dodici ore dal bombardamento. Siamo riuniti nella nostra stanza, senza cibo né acqua: gas e forniture sono interrotti. Poco dopo ci annunciano che verremo trasferiti al carcere di Teheran Grande: inizia un’altra tragedia, con ansia e sconforto che ci accompagna mentre il carro armato della realtà travolge ogni pensiero di speranza. Come dichiarano Amnesty International e Human Rights Watch, l’attacco a Evin è senza dubbio un crimine di guerra. Non c’è alcun obiettivo militare: le vittime sono civili, prigionieri, famiglie, personale, persino passanti. Più di 119 persone muoiono e decine restano ferite. Quaranta sono membri ufficiali del carcere. Tra i morti il capo della procura di Evin. Nessuna sezione è colpita direttamente, ma molti detenuti muoiono nei cortili e lungo gli ingressi. Le autorità occultano i dati reali e non rendono pubblico nemmeno un nome. Dopo 45 giorni torniamo a Evin: la prigione è in rovina. Hanno solo rimesso il portone principale con la sua targa, lasciando auto esplose, macerie e polvere. Il personale vaga smarrito, senza organizzazione. Solo una parte della sezione 7 viene ripulita per ospitare circa 500 prigionieri politici, privati di biblioteca e palestra. Il pane è immangiabile, la paura di un nuovo attacco serpeggia ovunque. Ci riportano a Evin per mostrare che il carcere non è vuoto, ma in realtà sembra un avamposto distrutto, simbolo di un Paese incapace di proteggere i suoi cittadini. L’Evin di oggi è la miniatura di un Paese che avrebbe potuto essere prospero e libero, e che invece vive tra rovine e repressione. Postilla. Qualche giorno fa, un gruppo di soldati feriti fisicamente e psicologicamente dal bombardamento è stato portato in infermeria per visite psichiatriche. Alcuni sono rimasti ore sotto le macerie, vivendo esperienze dolorose e terrificanti. Nonostante amputazioni e gravi traumi, non sono esonerati dal servizio. Quattordici dei loro compagni sono stati uccisi davanti ai loro occhi. Se avessero potuto scegliere, nessuno avrebbe optato per il servizio militare obbligatorio. Ognuno avrebbe potuto diventare un artista, un atleta, un artigiano di talento. *Prigione di Evin, 9 settembre 2025