Il sesso nelle carceri? Divieto che riflette la democrazia malata di Paolo Foschini Corriere della Sera, 16 settembre 2025 Donatella Stasio racconta la storia di un ex detenuto. La sentenza della Consulta rimasta lettera morta “Il deserto affettivo specchio della nostra società”. Roba che “non si fa”, le aveva risposto di getto. Parlava del sesso in carcere: privazione che lui conosceva bene perché dentro c’era stato tanto. Eppure quella clamorosa sentenza della Consulta, la numero 10 del gennaio 2024 che nell’indifferenza collettiva dichiarava “incostituzionale il divieto di affettività per le persone detenute”, a lui non lo aveva scalfito neanche un po’: questione di rispetto e decenza, aveva tagliato corto, perché oggi in galera non ci sono le condizioni. Poi sono seguiti mesi di colloqui. E la questione si è rivelata più ampia. Il dramma del carcere come “deserto affettivo” e dunque “specchio della società di oggi”: niente affetti uguale più odio, più violenza, più guerre. “La gabbia del carcere è il paradigma della gabbia in cui oggi rischia di finire la difesa di tutti i diritti di libertà”. Lui si chiama Gianluca. Lei è Donatella Stasio, giornalista e scrittrice, portavoce della Corte costituzionale con sei presidenti di fila. E a lei che appartiene l’ultimo virgolettato. Conseguenze Il risultato del loro confronto è in effetti il libro L’amore in gabbia dell’editore Castelvecchi, firmato Stasio a cura di Daniela Padoan. Un testo che a sua volta nasce al seguito di un altro, sul rapporto tra diritti e democrazia, scritto dalla stessa autrice l’anno scorso con l’ex presidente Giuliano Amato. La sentenza della Consulta di cui sopra era arrivata proprio allora per dire - a proposito di diritti - che l’articolo i8 dell’Ordinamento penitenziario è sbagliato e che “i detenuti devono poter avere colloqui intimi, anche a carattere sessuale”, “senza controllo a vista a meno di comprovate ragioni di sicurezza”. Perché “la costrizione di emozioni e sentimenti - dice la Corte - è contraria al senso di umanità” prescritto con l’articolo 27 dai padri della nostra Repubblica. A quel punto a Donatella Stasio è tornato in mente Gianluca. Per raccontare la sua storia. “L’avevo conosciuto nel 2009 - racconta lei adesso - quando era appena uscito da Bollate. Non lo sentivo da allora. Gli ho scritto proponendogli l’idea, mi ha risposto subito. Libero da molto tempo, oggi è un imprenditore. Ma tuttora vive in una casa senza porte. Orfano di padre a sei anni e una antologia di prigioni, da Busto Arsizio alla massima sicurezza di Fossombrone: a pena finita continuava a sentirsi le catene addosso, parole sue, e mi ha detto di averci messo dieci anni a capire perché gli fosse impossibile qualsiasi relazione affettiva”. Nato per trattare un tema vasto ma specifico - le relazioni umane in carcere - attraverso una singola storia, il libro è via via diventato “un testo politico: perché la desertificazione affettiva in cui viviamo - insiste l’autrice - ha conseguenze che si chiamano comportamenti aggressivi, odio, volontà di possesso, femminicidi, polarizzazione politica, incapacità di pace. Riaprire gli occhi sulle storie “ai margini” ci fa ritrovare i valori che rischiamo di perdere. E confesso - sorride - che a un certo punto del bellissimo viaggio affrontato con questo libro mi sono ritrovata a ricordare uno slogan in cui i giovani degli anni Sessanta credevano sul serio: fare l’amore per non fare la guerra”. Oggi sembra Marte, ma furono i figli dei fiori a far finire la guerra in Vietnam. Tra i soldati di ogni guerra e il carcere, leggendo il libro di Donatella Stasio, emerge il denominatore comune di una parola: la mancata realizzazione pratica dell’articolo 27 della Costituzione fa sì che “le patrie galere restituiscano alla società non persone libere ma reduci, soldati mutilati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà”. Corpi senz’aria. “E che “intima gioia” questa mancanza d’aria - ricorda l’autrice citando alla lettera - abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo. Il carcere racconta molto dello stato di salute di una democrazia”. Purtroppo “la pax carceraria si nutre di subcultura che più o meno tutti, operatori e detenuti, finiscono per respirare. Ma il carcere che funziona è quello che produce libertà. E la libertà - si legge nel libro - sta dentro i corpi, le menti, i cuori”. Anche se l’ennesima sentenza che doveva trasformare questo principio in realtà è rimasta, finora, una bella sentenza e niente più. Rita Bernardini: “Detenuti in aumento, ma i posti sono gli stessi” di Marco Montini L’Identità, 16 settembre 2025 Rita Bernardini, presidente della associazione “Nessuno tocchi Caino”, è una donna forte, tosta, che quotidianamente opera per i diritti e le tutele dei detenuti: in questa intervista, la Bernardini accende ancora una volta i fari mediatici sulle complesse e delicate condizione delle carceri italiane e su ciò che la politica dovrebbe fare per risollevare una situazione sempre più emergenziale. Al 31 agosto 2025 i detenuti nelle carceri italiane sono 598 in più rispetto ai 62.569 del mese precedente. In un solo mese, perciò, quasi seicento persone si sono aggiunte a un sistema penitenziario ormai al collasso, ed è alla luce di questo che ha intrapreso un altro sciopero della fame. Ma la politica ha dato segnali vista l’urgenza? “Con il mio sciopero della fame, che è terminato pochi giorni fa dopo un mese, ho voluto scandire quotidianamente che i decisori politici si sono fatti le loro belle vacanze senza prima aver mosso un dito nei confronti di una comunità, quella penitenziaria, stremata dal sovraffollamento, dal caldo infernale, dalle gigantesche carenze di personale a partire dagli agenti, dalla riduzione drastica di ogni attività, dalla mancata erogazione di servizi essenziali quali la sanità. Il 9 settembre scorso, con la riapertura del Parlamento, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando ha accettato di venire a discutere con i detenuti del laboratorio di Nessuno tocchi Caino, al G8 di Rebibbia, dell’incarico ricevuto dal Presidente Ignazio La Russa di preparare un testo di legge condiviso tra tutti i gruppi parlamentari che affronti il problema del sovraffollamento e dei suicidi in carcere. È il primo segnale positivo dopo la ripresa dei lavori parlamentari”. Quali sono stati i risultati raggiunti con il “decreto carceri” del luglio 2024? “Che in un anno i detenuti sono aumentati di 1.400 e i posti disponibili sono rimasti gli stessi per cui mancano 16.500 posti per allocare i detenuti. All’epoca la maggioranza di Governo rispedì in Commissione il disegno di legge Giachetti/Nessuno tocchi Caino sulla liberazione anticipata speciale con la falsa affermazione, che avrebbero risolto il problema del sovraffollamento con il loro decreto. Lo abbiamo visto! Nel frattempo, questo Governo ha continuato ad emanare norme liberticide come il cosiddetto “decreto sicurezza” che aumentano il numero delle fattispecie di reato e dell’entità delle pene. I cittadini abboccano e li votano… sino a che non capiterà a loro di trovarsi incastrati nelle maglie della giustizia italiana”. Chi sono i cosiddetti “liberi sospesi? “Finalmente, grazie ad un’interrogazione al ministro della Giustizia, abbiamo saputo del loro numero abnorme: sono ben 92.000, più tutti quelli che devono ancora essere registrati negli elenchi dei magistrati di sorveglianza. Si tratta di oltre centodiecimila persone che sono state condannate definitivamente ad una pena inferiore ai 4 anni e che sono completamente libere in attesa che il magistrato di sorveglianza decida per loro il carcere o una misura alternativa. Questa mannaia pende sulla loro testa spesso per anni perché i giudici sono oberati di lavoro. Sulle loro scrivanie pendono oltre duecentomila istanze all’anno alle quali devono far fronte con un organico complessivo di 275 unità tra Presidenti di Tribunale (29) e magistrati degli Uffici di Sorveglianza (246). Accade così che, quando riescono finalmente a decidere, mandano in carcere persone che si sono completamente riabilitate da sole ma che si ritrovano costrette ad abbandonare lavoro, famiglia e l’equilibrio sociale riconquistato”. Presidente, e del piano di edilizia penitenziaria cosa ci dice? “A parte il fatto che non ci dicono mai con quale personale apriranno gli ipotetici nuovo istituti, quella di implementare l’edilizia penitenziaria è la classica presa in giro di qualsivoglia Governo. Contro il sovraffollamento solennemente dichiarano che non bisogna svuotare le carceri, ma costruirne di nuove dando spazio alle più fantasiose proposte come quelle di riadattare caserme dismesse o di mettere in mare carceri galleggianti. L’ultima di Nordio, con tanto di delega ad un Commissario straordinario, è quella di costruire carceri-container utilizzando i pochi spazi disponibili all’interno dei 190 istituti penitenziari. Davvero un’idea “brillante” che alla fine di quest’anno avrebbe dovuto darci 384 posti in più alla modica cifra di 32 milioni di euro. Poi si sono accorti che avevano sbagliato i conti e che i 384 posti in realtà costano 45 milioni di euro e che, per questo piccolo errore di valutazione, per averli occorrerà aspettare la prossima primavera. Ma ci rendiamo conto? I posti che mancano sono 16.500 e questi ci stanno trastullando con 384 ipotetici posti! Nel frattempo, e per il futuro sempre di più, i detenuti continueranno ad essere degradati in modo sistematico nella loro dignità di persone. Sorte analoga la subiscono gli agenti, costretti a turni massacranti”. Vorrei ci parlasse di altri due temi particolarmente caldi e delicati: i suicidi in carcere e il rapporto carcere-droga... “Le carceri sono luoghi di spaccio e di illegalità sotto molteplici aspetti. Sono dei luoghi oscuri e impenetrabili dove può accadere e accade di tutto. Se noi quando entriamo in visita già possiamo vedere e denunciare le condizioni di degrado, vi figurate cosa accade di notte quando in carcere rimane un solo agente per “governare” una sezione su tre piani per un totale di 150/180 detenuti molti dei quali con problemi psichiatrici o di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti? Se qualcuno dalla disperazione si impicca o sniffa il gas dalla bomboletta chi si occupa di lui? Mancano medici, specialisti psichiatri e psicologhi, i SERD - tranne eccezioni - si limitano il più delle volte a consegnare settimanalmente la terapia sostitutiva. Gli psicofarmaci vengono distribuiti a gogò e si traffica in tutto: medicinali, alcool prodotto in cella e tutte le sostanze stupefacenti illegali dalle più leggere alle più pericolose. Solo che in carcere costano di più e le famiglie dei detenuti sono letteralmente taglieggiate per pagare gli spacciatori interni”. Come si fa a uscire da questa condizione di carenze e criticità in cui si ritrovano gli istituti penitenziari in Italia? “Il primo passo da fare è rientrare nella legalità costituzionale e, quindi, ridurre drasticamente la popolazione ristretta visto che ci sono 16.580 detenuti (tanti quanti sono i posti che mancano) che devono scontare una pena residua sotto i due anni. Fatto questo, occorre riformare il sistema della giustizia e dell’esecuzione penale, magari riprendendo le proposte scaturite dagli Stati generali dell’esecuzione penale, cioè una riforma organica complessiva fatta naufragare dal centrosinistra nostrano per opportunismo politico”. Dal carcere italiano a quello egiziano: doppia criminalizzazione creata ad arte? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2025 Un dato inquietante emerge dall’ultimo rapporto semestrale di Arci Porco Rosso: cittadini egiziani condannati in Italia per essere “scafisti” vengono trasferiti direttamente dai penitenziari ai Centri di permanenza per il rimpatrio. Da lì vengono deportati in Egitto, dove li attende una nuova incarcerazione con le stesse accuse. L’associazione ha documentato negli ultimi mesi diversi casi, concentrandosi su tre uomini deportati nell’autunno 2024 dai Cpr di Milo (Trapani) e Pian del Lago (Caltanissetta). Il contatto mantenuto con loro dopo il rimpatrio ha fatto emergere una realtà paradossale: “le persone detenute in Italia come scafisti vengono nuovamente arrestate all’arrivo in Egitto, in misura cautelare, con l’accusa di traffico di persone”. Due dei tre deportati, arrivati in Italia in momenti e circostanze completamente diverse, sono stati incredibilmente imputati nello stesso processo in Egitto. Grazie all’intervento dell’organizzazione Refugees Platform in Egypt, che ha fornito assistenza legale, i tre uomini sono stati rilasciati a fine maggio, ma il caso ha aperto uno squarcio su un fenomeno che potrebbe avere dimensioni ben più ampie. Diversi avvocati italiani hanno infatti riferito ad Arci Porco Rosso che altri loro assistiti hanno subito la stessa sorte dopo il rimpatrio. Il sospetto è che si tratti di una pratica sistemica, confermata da un’inchiesta del giornale egiziano Mada Masr che ha rivelato come il fenomeno della ‘ rotazione’ - l’arresto ripetuto delle stesse persone - si sia evoluto da metodo per colpire attivisti politici a strumento utilizzato contro i presunti trafficanti. Questo meccanismo servirebbe a un duplice scopo: consentire agli agenti di polizia di guadagnare bonus extra e permettere di gonfiare le statistiche ufficiali sul contrasto alla migrazione. La situazione è così preoccupante che persino un procuratore generale egiziano ha aperto un’indagine su questa vicenda. Il rapporto di Arci Porco Rosso pone una domanda pesante: si tratta di dinamiche interne all’Egitto o di un sistema che si muove su scala transnazionale? Il ri- arresto in patria di persone già condannate in Italia sembra infatti funzionale ad alimentare le statistiche ufficiali, proprio mentre l’Unione europea ha firmato con l’Egitto un accordo da 7,4 miliardi di euro. Emblematico il caso di Mahammad Al Jezar Ezet, arrivato in Italia nel 2018 con la nave Diciotti, quando l’allora ministro dell’Interno Salvini - con il benestare dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte - bloccò lo sbarco per tre settimane. Condannato a sette anni per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, oggi Mahammad si trova nel Cpr di Milo come richiedente asilo, ritenuto “socialmente pericoloso”. Rischia di essere incriminato e detenuto una terza volta in Egitto. Il rapporto analizza anche i dati ufficiali della Polizia di Stato per il 2024, che riporta 240 provvedimenti restrittivi contro ‘ trafficanti e favoreggiatori’, di cui 72 ‘ scafisti’ arrestati al momento dello sbarco. Tuttavia, il monitoraggio indipendente di Arci Porco Rosso ha rilevato 106 persone arrestate dopo gli sbarchi, un numero significativamente più alto. Le incongruenze nei dati suggeriscono che le statistiche ufficiali potrebbero nascondere il vero livello di criminalizzazione in atto. Particolarmente preoccupante è l’applicazione dell’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione in contesti nuovi, come le 160 persone arrestate sul confine sloveno, una situazione che necessita di approfondimenti. Con il decreto “Cutro” del marzo 2023 è stato introdotto l’articolo 12- bis del Testo unico sull’immigrazione, che prevede pene da 15 a 30 anni nei casi più gravi. Le prime condanne stanno arrivando: un cittadino sudanese è stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Agrigento (ridotti a 11 anni e 8 mesi in appello), mentre altri processi sono in corso con richieste di condanna fino a 17 anni e mezzo. Queste sentenze rappresentano, secondo Arci Porco Rosso, “una sconfitta rispetto alla tutela dei diritti delle persone criminalizzate”, anche se nei primi processi l’accusa di articolo 12- bis non sempre ha retto, con alcune assoluzioni significative alla Corte di Assise di Locri. Il rapporto dedica ampio spazio alla vicenda degli otto giovani condannati per la strage di Ferragosto 2015, tre dei quali erano calciatori professionisti libici. Nonostante le numerose irregolarità processuali e nuove testimonianze raccolte, la Cassazione ha dichiarato inammissibili le richieste di revisione di Tarek Jomaa Laamami, Mohammed Assayd e Alaa Faraj. “Pur trovandosi di fronte a un processo decisamente compromesso, per cui ben 8 persone stanno pagando con una vita in carcere, il sistema giudiziario italiano preferisce fare orecchie da mercante”, denuncia l’associazione. La settimana scorsa, dopo dieci lunghi anni, alcuni familiari dalla Libia sono riusciti finalmente a ottenere il visto per visitarli in carcere. Per la strage di Cutro del febbraio 2023, proseguono due filoni processuali paralleli. Da una parte le condanne severe per i cinque migranti accusati di essere i capitani dell’imbarcazione (già definitive per Gun Ufuk con 20 anni, confermate in appello per Abdessalem Mohammed), dall’altra il processo per le responsabilità istituzionali contro quattro finanzieri e due militari della Guardia Costiera. In quest’ultimo procedimento, il Gup di Crotone ha escluso come parti civili due dei migranti condannati, Hasab Hussain e Khalid Arslan, motivando che avrebbero “concorso” nello stesso reato. Una decisione che l’associazione contesta duramente: “Quando un’imbarcazione è in pericolo di naufragare, il salvataggio è un obbligo, non un argomento di dibattito”. Il rapporto si chiude con la storia di Marjan Jamali e Amir Babai, due giovani iraniani processati a Locri per lo stesso viaggio della speranza sulla rotta turca. Posizioni simili, ma destini opposti: Marjan, madre single arrivata con il figlio di otto anni, è stata assolta; Amir invece ha ricevuto una condanna a sei anni e una multa di un milione e mezzo di euro, nonostante il comandante dell’imbarcazione avesse dichiarato in aula che entrambi erano semplici passeggeri. Una sentenza definita dagli avvocati “inspiegabile”, che ha spinto Amir alla disperazione, fino al tentativo di suicidio in carcere pochi giorni dopo la condanna. Gesto che testimonia la disperazione di fronte a quella che l’associazione definisce una ‘ crudele e insensata condanna’. Il quadro che emerge dal rapporto di Arci Porco Rosso è quello di un sistema di criminalizzazione che non si ferma ai confini nazionali, ma si estende in una logica transnazionale dove le stesse persone vengono perseguitate più volte per gli stessi fatti. Un meccanismo che, secondo l’associazione, serve più a “gonfiare le statistiche” che a perseguire reali responsabilità. La doppia detenzione di cittadini egiziani - prima in Italia come “scafisti”, poi in Egitto come “trafficanti” rappresenta forse l’aspetto più inquietante di questa dinamica, soprattutto alla luce degli accordi economici tra Ue ed Egitto. Una spirale di ingiustizia che trasforma le vittime delle politiche migratorie in capri espiatori di un sistema che preferisce criminalizzare chi fugge piuttosto che affrontare le cause strutturali delle migrazioni. “Dal mare al carcere” non è solo il titolo di un rapporto, ma la fotografia di un percorso di sofferenza che troppo spesso non si ferma nemmeno quando le persone vengono rispedite nei paesi di origine. Vite cambiate. “Nel carcere volti e incontri di salvezza” di Giorgio Paolucci Avvenire, 16 settembre 2025 Il percorso di Paolo Amico, che 35 anni fa partecipò all’omicidio del giudice Livatino. “Nella vita di un uomo ci sono volti e incontri che possono dare una direzione nuova all’esistenza”. Gli anni passati finora in galera sono trentacinque, diciassette dei quali in regime di carcere duro. Sta scontando l’ergastolo nella Casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano. Condanna pesante, come pesante è il reato, come pesante è il fardello che continua a gravare sul cuore per ciò che ha fatto. Paolo Amico aveva 23 anni quando partecipò al gruppo di fuoco che il 21 settembre del 1990 uccise il giudice Rosario Livatino mentre andava al lavoro in auto lungo la statale Caltanissetta-Agrigento. “Ero un giovane spavaldo e incosciente, nel nostro ambiente circolava voce che lui era nemico della Stidda (il gruppo mafioso dominante nella zona di Agrigento, ndr) ed era invece benevolo nei confronti di Cosa Nostra: per questo dovevamo ucciderlo. Non era vero, ma accettammo di farlo in obbedienza cieca alle leggi del mondo malavitoso nel quale vivevamo”. A 35 anni dal delitto, riavvolge il nastro della sua vita per raccontare il percorso che l’ha portato a diventare un’altra persona. Senza nulla cancellare del passato - “cosa impossibile”, come lui stesso riconosce - ma per testimoniare che “nella vita di un uomo ci sono volti e incontri decisivi che possono dare all’esistenza una direzione nuova”. Lui li chiama “volti e incontri di salvezza”. Li ricorda bene, e li mette in fila. “Il primo è legato ai miei genitori e ai miei fratelli, al dono di un affetto senza limiti che si è rivelato decisivo negli anni più difficili, quelli passati nel carcere di massima sicurezza di Pianosa in regime di 41 bis. In quel luogo era facile cadere nella disperazione, sia per le condizioni di detenzione particolarmente severe, sia per la prospettiva di una carcerazione che non avrebbe mai avuto fine. Ma la vicinanza dei familiari è stata lo scoglio a cui mi sono aggrappato durante la lunga tempesta che stavo attraversando”. Nel 2013 il trasferimento al carcere di Voghera, la partecipazione a un laboratorio teatrale che lo costringe “a uscire dalla tana in cui mi ero rifugiato, a mettermi in gioco di fronte agli altri e a scoprire i miei talenti”. Dopo un lungo periodo di osservazione, nel 2018 l’educatrice che lo segue propone i primi permessi premio. Sempre in quegli anni, la decisione di riprendere gli studi. “Da piccolo odiavo la matematica, con i professori avevo un rapporto molto conflittuale, l’abbandono della scuola è stata una delle cause che mi ha portato a entrare in giri malavitosi”. In carcere si iscrive al corso di ragioneria e incontra Daniela, l’insegnante di lettere con la quale nasce un’amicizia intensa, che non viene interrotta neppure dal trasferimento alla casa di reclusione di Tolmezzo. “Il rapporto con lei era diventato una ventata d’aria fresca nella mia condizione di recluso, mi aiutava ad alzare lo sguardo, a guardare alla detenzione come un kayròs, un tempo opportuno per iniziare un cambiamento. La speranza tornava a fare capolino nella mia vita”. Con il passare dei mesi l’amicizia con Daniela diventa amore, e accade una coincidenza che lui rilegge come il segno di un destino buono: “Ero diventato così certo della solidità dei miei sentimenti che decisi di scriverle una lettera in cui mi dichiaravo apertamente. E grande fu la sorpresa nel riceverne una da parte sua, spedita nello stesso giorno e in cui mi scriveva la stessa cosa”. Dopo tre anni arrivano la fine della detenzione in regime di 41 bis e il trasferimento alla casa di reclusione di Opera, dove il 14 luglio 2010 Paolo sposa Daniela, che da allora è compagna fedele del suo cammino. Un’altra tappa decisiva del percorso di cambiamento è l’amicizia con i volontari che frequentano il carcere di Opera, in particolare quelli dell’associazione Incontro e Presenza, nata dal carisma di don Luigi Giussani. “Ho conosciuto uomini che mettono a disposizione tempo ed energie per fare compagnia ai detenuti, la cosa più preziosa per chi vive una condizione di reclusione. È un dono sentirsi guardati come persone e non come autori di reato, condividere la convinzione che l’uomo non è il suo errore, scoprirsi tutti - noi e loro - bisognosi di misericordia. Ho incontrato un bene offerto gratuitamente, un amore speso per chi porta sulle spalle un carico di male. È stato grazie a loro che ho cominciato a capire il significato del sacrificio di Cristo”. Un cammino che lo ha condotto fino a portare la croce, come segno di espiazione, durante un pellegrinaggio a piedi fatto insieme ai volontari di Incontro e presenza da Milano a Trivolzio (Pavia), dove è custodito il corpo di San Riccardo Pampuri, medico e membro della congregazione dei Fatebenefratelli, canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1989. Altro, fondamentale incontro, quello con l’educatrice che l’aveva preso in carico a Opera e che in considerazione del suo percorso lo ha candidato ai benefici previsti dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario: dopo trentatré anni la possibilità di tornare a vedere e toccare il mondo, svolgendo un lavoro all’esterno e rientrando in carcere la sera, un’esperienza che sta facendo da due anni e che ha segnato un’altra importante tappa del suo percorso. C’è una presenza silenziosa eppure tangibile che ha accompagnato l’odissea di Paolo Amico: ha il nome e il volto di Rosario Livatino, di cui il 21 settembre si celebra il trentacinquesimo anniversario della morte e che il 9 maggio 2021 è stato proclamato beato, primo magistrato a ricevere questo riconoscimento nella storia della Chiesa. “È diventato una presenza stabile nella mia vita, continuo a implorare perdono, tocco con mano che la sua intercessione ha alimentato la mia volontà cambiamento. Sembra un paradosso eppure è accaduto, forse per un disegno misterioso che ho visto prendere forma in questi anni: dal grande male di cui sono stato responsabile si è generato un percorso di bene”. Alcuni eventi hanno segnato questa presa di coscienza: il 2 ottobre 2023 Amico si è raccolto in preghiera davanti alla reliquia del magistrato (la camicia intrisa di sangue indossata il giorno dell’attentato) che aveva fatto tappa nel carcere di Pavia nell’ambito della “peregrinatio” della reliquia. E il primo giugno 2024 ha raccontato per la prima volta pubblicamente il suo percorso di cambiamento nel teatro del carcere di Opera, in occasione della presentazione di una mostra dedicata a Livatino (“Sub tutela Dei”, inaugurata nel 2022 al Meeting di Rimini e in seguito allestita in molte città). “È stata una testimonianza che sentivo il dovere di dare come assunzione di responsabilità, pubblica richiesta di riconciliazione e condivisione del mio cammino di ravvedimento. Desideravo raccontare che il sepolcro in cui mi ero seppellito si era aperto, e una nuova luce era penetrata nel buio della mia esistenza”. In quell’occasione ha ricordato anche la commozione suscitata in lui dalle parole pronunciate dalla mamma del magistrato, Rosalia, dopo la morte del figlio: “Al giornalista che le chiedeva cosa provasse nei confronti di chi lo aveva ucciso, quella donna rispose che si metteva nei panni delle loro madri e condivideva il loro dolore per il dolore che i figli avevano procurato. Ancora nel mio cuore brucia il rammarico per non avere chiesto perdono ai genitori di Livatino: non lo feci quando erano ancora in vita, quando maturai la decisione di farlo erano già morti”. A trentacinque anni dal delitto, Paolo Amico continua a fare i conti con l’abisso di male in cui era sprofondato, ma è cambiato lo sguardo sulla vita: “Sento che la misericordia di Dio ha accompagnato il mio percorso. Sono convinto che quel giorno, su quella strada, non è morto solo il giudice Livatino, è morto anche quel ragazzo spavaldo di ventitré anni, schiavo della rabbia e con il cuore avvelenato. Ho sperimentato sulla mia pelle che ci sono incontri di perdizione e incontri di salvezza che possono dare all’esistenza una direzione nuova. Il mio cammino continua, sotto lo sguardo buono del beato Livatino. E oso sperare che un giorno ci incontreremo di nuovo”. L’Anm lancia la sfida: 500mila euro per far promuovere il no al referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 16 settembre 2025 Il sindacato delle toghe ufficializza il Comitato e investe mezzo milione per la campagna contro la separazione delle carriere. Vanificato ogni barlume di speranza di vedere il testo del ddl sulla separazione delle carriere modificato in Parlamento, l’Anm è scesa ufficialmente in campo in vista del referendum costituzionale che dovrebbe tenersi nella prossima primavera. Lo ha fatto nel tardo pomeriggio di sabato quando alcuni membri del “parlamentino”, compreso il presidente Cesare Parodi, si sono recati da un notaio per formalizzare ufficialmente la nascita del Comitato “A difesa della Costituzione e per il No al referendum”. Il Comitato è aperto a tutti i cittadini ma non a esponenti di partito o a ex politici. Parodi su questo punto ha chiarito il ruolo dell’Anm: “Condivido assolutamente il pensiero del ministro Nordio quando dice che noi non dobbiamo affiancarci ai partiti politici. Ha assolutamente ragione. Se noi davvero veniamo identificati con qualsiasi partito politico snaturiamo il nostro ruolo”. Concetto ribadito anche dal segretario generale Rocco Maruotti quando gli abbiamo fatto notare che partecipare ad incontri del Pd o dei sindacati fa subito pensare ad uno schiacciamento partitico: “Le cose che ho detto alla festa dell’Unità e che ho ripetuto anche ad un evento organizzato dall’Università di Bologna e dalla Cgil le ripeterei, o le potrà ripetere il presidente Parodi, anche sul palco di Atreju. Andiamo dove si parla di Giustizia, andiamo dove c’è la possibilità di informare anche l’ultimo dei cittadini sui contenuti reali di questa riforma”. Maruotti ha precisato: “Non c’è adesione alle posizioni degli altri, ma la scelta di intervenire in tutti i contesti in cui si può parlare ai cittadini”. Nell’Anm, da quanto percepito e ascoltato, prevale la volontà di voler puntare alla critica ai contenuti della riforma e non ad uno scontro “pro o contro Meloni” che porterebbe dietro con sé inevitabilmente uno scontro “pro o contro magistratura”, con argomenti che potrebbero danneggiare la corporazione. La consapevolezza però non manca: “Il confronto sarà molto duro” ha sostenuto Parodi e gli altri sono d’accordo con lui. In ogni modo paradossalmente, ad esempio, Gianrico Carofiglio, ex magistrato ma anche ex senatore, e volto molto spendibile contro la riforma Nordio, non potrà iscriversi al Comitato. Sarà comunque possibile delegarlo per partecipare ad iniziative pubbliche o tribune politiche. La quota di iscrizione dei sostenitori sarà di 20 euro. “L’obiettivo è coinvolgere molti giovani”, ci dice la tesoriera Giulia Locati. A proposito di soldi, il Comitato direttivo centrale dell’Anm ha deliberato (con l’astensione di Natalia Ceccarelli e di Andrea Reale del gruppo dei CentoUno) che il Comitato potrà spendere massimo 500mila euro per la campagna referendaria. Somma che potrà essere oggetto di revisione. In questo momento l’Anm sta, infatti, valutando a quale società di comunicazione conferire un incarico. Tra le toghe del Cdc si è discusso parecchio sabato a porte chiuse per valutare se comunicare questo dato ai microfoni di Radio Radicale e ai giornalisti presenti. Alla fine si è optato per la trasparenza. La ragione di preoccupazione derivava dal fatto che il cittadino medio potrebbe non comprendere una tale previsione di spesa messa a bilancio dai magistrati, accusabili di essere una casta privilegiata. Ma poi è anche prevalso il buon senso e la convinzione che si sarebbe saputo per vie traverse. Ciononostante, come ci hanno detto alcuni magistrati, “alla fine può sembrare una cifra elevata, ma non lo è se pensiamo al valore che ha questa battaglia per tutti noi”. Ed è per questo che ora l’Anm vuole sentirsi compatta più che mai. “È arrivato il momento di fare una scelta: sì o no a tutta la riforma?”, ha detto Rocco Maruotti nella sua relazione rivolto al gruppo dei CentoUno, che si è espresso in questi mesi favorevolmente rispetto al sorteggio per i membri dei due possibili futuri Csm. Ma Andrea Reale per il momento non si sbottona: “Noi andiamo a votare come cittadini e per questo il voto è segreto. Riparliamone dopo che sarà pubblicato il quesito referendario”, ci dice. Qualche malcontento nei corridoi della Cassazione è emerso quando si è saputo che Margherita Cassano, da poco ex presidente di Piazza Cavour, ha fatto sapere che non potrà ricoprire la carica di presidente onorario del Comitato in quanto avrebbe deciso di far parte già di quello promosso dal costituzionalista Renato Balduzzi. “Proprio lei invece di stare con l’Anm va altrove?”, ha mugugnato qualcuno. Sta di fatto che entro 60 giorni sarà eletto un presidente onorario del Comitato. L’Anm comunque si ritroverà a Roma il 25 ottobre per una assemblea generale durante la quale si voteranno modifiche allo Statuto ma soprattutto sarà l’occasione per rilanciare ancora più fortemente la campagna referendaria. Proprio in quella data potrebbe già essere stata approvata in via definitiva in Parlamento la separazione delle carriere. Domani la norma arriverà nell’Aula di Montecitorio: l’opposizione minaccia un forte ostruzionismo con decine di iscritti a parlare. Il centrodestra punta a chiudere giovedì. Inoltre, da quanto appreso, sembra che il governo e la maggioranza vogliano accelerare sulla road map che ci porterà al referendum: si parla infatti della metà di aprile. Per questo l’Anm ha anche fretta di decidere quando terrà il prossimo congresso che sarà l’ultimo grande appuntamento prima del voto plebiscitario. “L’esito del referendum non è scontato. Sulla riforma adesso i politici si fermino” di Michele Cozzi Corriere del Mezzogiorno, 16 settembre 2025 Intervista a Franco Cassano, presidente della Corte di Appello di Bari: “L’obiettivo è colpire il Csm”. La riforma della giustizia ha avuto già diversi passaggi parlamentari, e sembra in dirittura di arrivo. Una battaglia ormai finita? “I sondaggi dicono che l’esito del referendum non è scontato. Stanno nascendo tanti Comitati referendari per contrastare la riforma. Nella società, a destra come a sinistra, c’è una forte tradizione attenta ai valori dell’onestà in politica e nell’amministrazione pubblica, e alla necessità di combattere le organizzazioni criminali, che s’interroga sull’opportunità di una riforma che, per ammissione di chi la propugna, non affronta i problemi della giustizia, e mira solo a limitare i poteri della magistratura. La politica dovrebbe interrogarsi sull’opportunità di andare avanti così, spaccando il Paese col referendum, e con il rischio di esiti inaspettati”. La riforma contempla la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Il ministro Nordio afferma che “il vantaggio per tutti sarà di avere veramente un giudice terzo e imparziale”. È così? “È uno slogan. La separazione è già un dato di realtà, perché ogni anno passano dalla funzione giudicante a quella requirente, e viceversa, pochissimi magistrati, e il passaggio è consentito una sola volta in tutta la carriera. L’obiettivo vero è un altro, cioè di indebolire il Csm, l’organo costituzionale preposto alla tutela dell’indipendenza della giustizia dalla politica. Con la riforma lo si indebolisce smembrandolo in due, uno per i pm e uno per i giudicanti, e sorteggiando i componenti provenienti dalla magistratura, mentre quelli provenienti dalla politica saranno sorteggiati nell’ambito di liste precostituite dalla politica”. E la questione disciplinare? “La materia disciplinare sarà sottratta ai Csm e demandata ad un nuovo organo costituzionale, Csm, al quale partecipano anche l’Alta Corte, dai poteri incerti e i pubblici ministeri. Un pubblico composto da magistrati che sono, ministero isolato diventa un organo o sono stati, in Cassazione, pericoloso, autoreferenziale, ritenuti più affidabili. E la riforma incontrollabile cui si affidano nel disciplinare riguarda solo poteri che non hanno bilanciamenti i magistrati ordinari, sebbene i e controlli istituzionali. problemi più delicati si pongano Quanto può reggere una situazione di frequente per le magistrature del genere? Prima o poi si speciali. Si stanno creando precedenti introdurranno forme di controllo pericolosi: il sorteggio da parte dell’Esecutivo sul pm, diverrà il paradigma costituzionale e lo si priverà del controllo sulla anche per la composizione polizia giudiziaria, mettendone dei consigli di presidenza delle in discussione indipendenza e magistrature amministrativa e imparzialità. Si faranno solo le contabili. A me pare che sarebbero indagini che vorranno i potenti state possibili scelte riformatrici di turno. È questo che i cittadini più equilibrate”. vogliono veramente?”. Intravede il tentativo della politica di “sottomettere” i magistrati al Governo? “Il discorso è complesso, ed è qui l’inganno per i cittadini. Vede, ad esempio in Spagna le carriere di giudici e magistrati del pubblico ministero sono separate ma è stato conservato un unico Il governo afferma che la riforma, “ridurrà i poteri delle correnti e libererà la magistratura dai condizionamenti interni”. Che ne pensa e nella sua lunga carriera ha avvertito un clima “condizionato” nelle aule di giustizia? “Sono entrato in magistratura nel 1983 e allora i rapporti tra alcuni magistrati e la politica erano ancora intensi, ed occulti. A partire dagli anni 70 del secolo scorso, la battaglia dell’Anm, e delle sue correnti interne, è stata quella di abbattere le gerarchie interne alla magistratura e di rendere il magistrato un uomo “senza speranza e senza timori” rispetto alla politica. Le correnti sono state uno strumento culturale essenziale in questo percorso, ma l’organo che ha dato attuazione all’indipendenza interna ed esterna dei magistrati è stato il Csm. Non è un caso se oggi si attaccano le correnti e il Csm”. Il decreto sicurezza introduce 14 nuovi reati. È la tendenza al panpenalismo, cioè creare reati per incapacità di affrontare le questioni sociali? “I bisogni di sicurezza di una società complessa e frammentata sono sicuramente cresciuti. Eppure riscontriamo la volontà di cambiare i rapporti tra i poteri dello Stato, di ridimensionare il controllo esercitato dalla magistratura, rendendolo meno incisivo, in particolare sull’attività politica e amministrativa (penso in particolare all’abrogazione dell’abuso in atti d’ufficio). Se a questo si aggiunge anche la riforma della Corte dei conti, si coglie un disegno generale di ridimensionamento di tutti i poteri di controllo. Gli esecutivi, in tempi di nazionalismi, ed in clima di guerra, vogliono sempre più le mani libere”. Cosa occorrerebbe alla giustizia per funzionare? “Le riforme non mirano a risolvere i problemi reali della giustizia, quali la durata dei processi, la informatizzazione degli atti, le udienze ormai solo virtuali, la necessità di rivedere il sistema delle garanzie nel processo penale, il problema della intelligenza artificiale, ma solo a ridimensionare il controllo esercitato dalla magistratura, Occorrerebbe innanzi tutto un ministero che funzioni. Ad esempio, c’è un numero intollerabile di suicidi nelle carceri, 62 da gennaio ad oggi, e si continua a sminuire il problema. Sul Pnrr si è arrivati in ritardo a capire che rischiamo di non raggiungere gli obiettivi concordati; il Csm ha indicato una serie di possibili rimedi, ma il Ministero in un decreto agostano in larga parte li ha disattesi. Si sarebbero dovuti stabilizzare i funzionari dell’Ufficio del processo, che in mancanza optano per altre amministrazioni. Solo per l’edilizia giudiziaria si registra un’attenzione positiva, ma in generale il ministero manca di progettualità, sembra indifferente alle esigenze degli uffici e propenso ad occuparsi solo di riforme dal sapore ideologico”. Comunicati e petizioni online: manuale per indebolire la giustizia di Simona Musco Il Dubbio, 16 settembre 2025 Violenza sulle donne, continuano le polemiche per la sentenza di Torino. Il cortocircuito dell’Anm che difende i colleghi sotto attacco (e in realtà li bacchetta). Il comunicato diffuso dalla Giunta dell’Anm di Torino, teoricamente nato per difendere i giudici finiti nel mirino dopo la controversa sentenza sui maltrattamenti, si è trasformato in un boomerang. Più che protezione, appare come una bacchettata. Il testo, che in apparenza suona come una manifestazione di solidarietà, prende infatti - nemmeno troppo tra le righe - le distanze dal collegio di primo grado parlando di “considerazioni superflue e ultronee rispetto al profilo decisorio”. Una frase che, in piena tempesta mediatica, suona come una censura interna. E non basta: l’auspicio che le giurisdizioni superiori possano rimediare a un “fallace esercizio della giurisdizione”, denuncia il deputato di Forza Italia Enrico Costa, sembra un messaggio diretto alla Corte d’appello, composta da colleghi iscritti alla stessa associazione. In pratica: la sentenza è sbagliata, punto. Si può e si deve discutere, tra i cultori del diritto, di come quel linguaggio giudiziario rischi di scivolare in stereotipi e vittimizzazione secondaria. Ma non era compito dell’Anm sottolinearlo. Bastava ribadire un principio semplice: i giudici si difendono dagli attacchi esterni, gli eventuali errori si correggono con gli strumenti previsti dall’ordinamento. Trasformare una difesa in un atto d’accusa significa indebolire la magistratura proprio quando dovrebbe fare quadrato. Costa, su X, parla di “un capolavoro di ipocrisia e di condizionamento della Corte d’appello”. Per il deputato azzurro, infatti, il comunicato “non tutela il collegio, lo isola” e lascia intendere quale debba essere l’esito dell’impugnazione. Un paradosso e un gesto forse inopportuno, dato che - evidenzia ancora - il presidente nazionale dell’Anm è anche procuratore aggiunto della procura appellante. Alle critiche ha replicato proprio Cesare Parodi, presidente del sindacato delle toghe, rispondendo nel Comitato direttivo centrale a una domanda della nostra Valentina Stella: “La convocazione in sede parlamentare non è qualcosa di vietato - ha detto, riferendosi all’ipotesi di audire in Commissione femminicidio il giudice estensore della sentenza - ma sarebbe inquietante se non fosse per chiarire, bensì per condizionare. C’è una grossa differenza: se è per capire, è un conto; se è per indirizzare le scelte, non lo condivido. Se il giudice ha sbagliato c’è l’appello, c’è la Cassazione: utilizziamo gli strumenti previsti dal sistema”. Parole nette e condivisibili, almeno in parte, perché cosa debba chiarire un magistrato in sede parlamentare, relativamente ad una propria decisione, non è dato sapere. Appare inopportuno, un’invasione di campo. Ma la vicenda ha ormai rotto ogni argine. E come se non bastasse, nella giustizia italiana che qualcuno immagina gestita dal televoto, è comparsa anche una petizione su Change.org per chiedere la rimozione del giudice Paolo Gallo. Ha già raccolto oltre 8.700 firme. A prescindere dal merito della sentenza, l’iniziativa rischia di trasformare l’indipendenza della magistratura in un concorso popolare a colpi di clic, in un periodo in cui il tema è caldissimo e lo scontro tra toghe e politica infiammatissimo. Comunicati, polemiche, raccolte firme: un turbine che amplifica il clamore e lascia sullo sfondo l’essenziale. La giustizia non si fa con gli slogan né con le petizioni online. Si fa nei tribunali, con le impugnazioni, le regole processuali, i gradi di giudizio. Tutto il resto è rumore che mina la fiducia nelle istituzioni. Anm, interventi strutturali o si falliscono obiettivi Pnrr Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2025 L’Associazione: “Grazie ai magistrati arretrato abbattuto con largo anticipo del 95% nel settore civile e del 25% nel settore penale”. “I magistrati continueranno a fare la loro parte, ma senza una presa d’atto chiara e senza interventi strutturali effettivi, il Paese rischia di fallire non solo l’appuntamento del 2026 ma anche, in prospettiva, l’obiettivo di rendere realmente efficiente il servizio giustizia: di ciò non si potrà addossare alcuna responsabilità alla magistratura”. È quanto si legge in un documento sul “dl Giustizia Pnrr” approvato a maggioranza dal Comitato direttivo centrale dell’Anm. “Spetta al legislatore e al Governo dimostrare che l’efficienza della giustizia è davvero una priorità per il Paese e non terreno di propaganda” si sottolinea. “I magistrati, nella piena consapevolezza dell’importanza di questa sfida, non hanno fatto mancare il proprio contributo: grazie a un impegno straordinario, l’arretrato ultra triennale è stato abbattuto con largo anticipo rispetto alle scadenze Pnrr nei termini del 95% nel settore civile e del 25% nel settore penale” spiega l’Anm. “Senza l’impegno quotidiano dei magistrati - sottolinea l’associazione nel documento approvato stamattina - non sarebbe stato possibile raggiungere i risultati straordinari sull’arretrato, ma non si può chiedere all’istituzione giudiziaria di supplire a vuoti che sono innanzitutto di responsabilità politica e ministeriale. Il Pnrr non è mai stato concepito come un insieme di numeri da raggiungere, ma come un’occasione storica per costruire una giustizia più efficiente, moderna e sostenibile. Se oggi si ricorre a strumenti emergenziali è perché quello spirito originario non ha trovato effettivo spazio”. Per l’Associazione nazionale magistrati sono “necessarie scelte strutturali e coraggiose”. Tra queste: coperture degli organici dei magistrati e del personale amministrativo: i magistrati mancanti erano 1.126 nel 2019, oggi le vacanze superano le 1.800 unità, pari a oltre il 17% della pianta organica; la carenza di personale è drammatica e strutturale e si aggira intorno al 40%; razionalizzazione della geografia giudiziaria e revisione delle piante organiche; stabilizzazione dell’ufficio per il processo e dotazioni informatiche efficienti e applicativi funzionali alle esigenze processuali. Lo sciopero dei precari della giustizia: in 9 mila rischiano di perdere il posto di Conchita Sannino La Repubblica, 16 settembre 2025 Grazie al progetto del Pnrr erano stati assunti a tempo determinato 12 mila addetti agli staff dei giudici. Le loro storie: “Preziosi per gli uffici, invisibili ai diritti”. Preziosi, ma inesistenti per le piante organiche di domani. Indispensabili per far andare avanti fascicoli e dibattimenti, civili e penali: al punto che a tanti di questi collaboratori dei magistrati è sostanzialmente impedito, oggi, di partecipare alla loro prima giornata nazionale di mobilitazione. La motivazione? “Purtroppo non si possono far saltare le udienze”. E tuttavia: invisibili ai diritti, destinati a uscire, come hanno ammesso il ministro Carlo Nordio e il suo vice Francesco Paolo Sisto. Verso l’ennesima precarietà. È la clamorosa beffa che tocca ai 12mila addetti dell’Ufficio del processo: nati grazie al progetto del Pnrr, assunti a tempo determinato fino al 30 giugno 2026, si tratta di donne e uomini, giovani laureati o maturi professionisti, giuristi o operatori data-entry o funzionari amministrativi, statistici e contabili, che si occupano di tutte le attività di supporto al lavoro del giudice. Sono quelli che stanno svolgendo da tre anni un lavoro ordinario e cruciale in centinaia di procure, corti e tribunali del Paese affette da arretrati e lungaggini: scongiurando la paralisi, come riconosciuto dalle toghe. Che, per inciso, anche nei documenti ufficiali dell’Associazione nazionale magistrati o negli incontri con il Guardasigilli, ne chiedono con toni preoccupati l’assunzione definitiva. Ma il ministero di via Arenula, per ora, ha stanziato risorse per trattenerne solo un quarto. Per novemila non ci sono certezze. Un paradosso tutto italico, che sfocia oggi in una giornata di astensione e sit-in indetta dalla funzione pubblica Cgil. Presìdi e proteste da Roma a Trieste, da Genova a Catanzaro, da Reggio Calabria a Firenze, da Napoli a Torino. Parabola del tradimento del Pnrr: grande progetto, ottima esecuzione, finale grottesco. Con la giustizia, che in questi anni ha recuperato con enormi sforzi collettivi una parte dei ritardi, pronta a ricadere nelle inefficienze del passato. È una battaglia che rischia di scomparire tra le pieghe burocratiche dell’asse Roma-Bruxelles. O sotto l’eco della lotta politico-istituzionale sulla riforma della giustizia: sì o no alla separazione delle carriere. In fondo, l’acronimo stesso dà un suono respingente, Aupp (addetti all’ufficio per il processo). E invece i fatti sono chiari: questo esercito silenzioso ha ridotto gli arretrati della giustizia civile e penale, quasi dimezzando i tempi di chi é in attesa di sentenza, e avviando la digitalizzazione degli atti di giustizia cartacei, che erano accatastati negli archivi. Un film che ha la faccia e le storie di lavoratori come tanti, il padre o la laureata della porta accanto, che sono legali o aspiranti magistrati, ex docenti o ex precari laureati da una vita che hanno creduto e investito in un servizio allo Stato, hanno imparato e sono cresciuti, abbattendo chilometri di carte e di attese. Gente come Bruna Albano, avvocatessa di lungo corso, due figli, origini al sud, al fianco dei giudici di tribunale: “Ho iniziato questa avventura tra i primi, quasi 4 anni fa, quando esercitavo la professione. Ero attratta dal desiderio di contribuire al miglioramento dell’efficienza del sistema giustizia, e l’esperienza si è dimostrata stimolante e molto positiva: anche se sono stata costretta sospendermi, come tutti, dall’ordine degli avvocati e dalla cassa forense. E oggi, in prossimità della scadenza, mi sembro davvero assurda la prospettiva di un balzo all’indietro del sistema che tutti noi abbiamo contribuito ad elevare. Significherebbe perdere tutto il lavoro fatto: loro e noi”. Oppure come Simone Rossi, 29 anni, laureato in Giurisprudenza, al lavoro presso la prima sezione penale del tribunale di Roma: “Quando siamo arrivati, c’erano corridoi interi stracarichi di carte, armadi che scoppiavano, e dove nessuno poteva mettere le mani. Ho imparato tanto, sono nella sezione che si occupa di stalking, di revenge porn, di violenze sui fragili. E adesso vedo un salto nel vuoto, tanti che avevano vinto altri concorsi sono andati verso altre amministrazioni, io ho voluto sperare che il nostro ufficio potesse avere un futuro: in tutta Europa funziona lo staff che assiste il magistrato, e in Italia c’è una carenza assurda di assistenti, di cancellieri, di funzionari. Pensare che tutti insieme abbiamo abbassato la durata media dei processi penali da 498 giorni, rapporto del 2020, a 355 giorni, resoconto del 2024”. O, ancora, lavoratori come Elisabetta Romito, 46 anni, laureata in Scienze Politiche, addetta al tribunale di Bari, sezione migranti. Una vita di lavoro sempre senza futuro: “Ho 21 anni alle spalle come precaria: 15 anni nel call center dell’Inps, 3 anni come navigator nei Centri per l’impiego e ora alla giustizia. E tra sei mesi appena, tutto sarà vanificato: lo Stato se lo può consentire? Chiediamo che nella prossima legge di bilancio si programmi la totale stabilizzazione” Per ora, invece, le risorse bastano appena per 3mila. Una giustizia che va controsenso. “Quei 12mila donne e uomini, alcuni giovani e giovanissimi, altri in età avanzata e con famiglia a carico, si sono trasferiti a centinaia di chilometri dalle proprie abitazioni per servire lo Stato - puntualizza Florindo Oliverio, il segretario nazionale della Funzione Pubblica - Per il ministro Nordio e il governo Meloni sono fantasmi di cui disfarsi dal 30 giugno prossimo. Salvo impedirgli di scioperare, oggi, con ordini di servizio che motivano la precettazione con la carenza di personale, che non permette il regolare svolgimento delle attività ordinarie e delle udienze. Quindi si può essere fondamentali al lavoro: purché immeritevoli di diritti”. Colpito con il taser muore in ospedale: era stato fermato dalla polizia di Adriano Arati Corriere della Sera, 16 settembre 2025 Il terzo caso in un mese. Claudio Citro, 41 anni, è morto dopo essere stato colpito con il taser: avrebbe dato in escandescenze e gli agenti sarebbero intervenuti usando la pistola elettrica. Morto in ospedale poche ore dopo essere stato colpito da un taser nel tentativo di trattenerlo. Claudio Citro, 41 anni, residente a Reggio Emilia e originario di Salerno, è spirato nella mattinata di lunedì 15 settembre all’ospedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, dove era stato ricoverato verso le 6 al termine di una colluttazione con alcuni agenti della Polizia di Stato. L’uomo aveva diversi precedenti ed era stato coinvolto negli anni scorsi in un’operazione su fatti di usura ed estorsione. La pattuglia è intervenuta alle 5.30 a Massenzatico, una frazione di Reggio Emilia a alcuni chilometri dal capoluogo, dove il 41enne camminava agitatissimo, in stato di escandescenza, vicino al forno di via Beethoven, la lunga strada che taglia in due l’abitato del paesino. I poliziotti, dopo averlo intercettato, hanno cercato di calmarlo, l’uomo avrebbe reagito con violenza e uno degli agenti avrebbe quindi tirato fuori il taser, la pistola a impulsi elettrici, in dotazione, per cercare di frenarlo. Una volta colpito dal taser, l’uomo si è sentito male ed è crollato al suolo. Gli agenti hanno richiesto subito il soccorso medico, a Massenzatico è arrivata l’automedica del 118 assieme ad un’ambulanza. I sanitari hanno cercato di rianimare il 41enne, le cui funzioni vitali erano al minimo, e hanno provveduto al ricovero d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale cittadino reggiano. L’uomo è morto nella struttura sanitaria pochissimo tempo dopo il ricovero. È impossibile a ora capire cosa sia accaduto, se vi fossero problemi pregressi, se il taser abbia provocato la crisi fatale o altri dettagli. La Procura della Repubblica di Reggio Emilia ha aperto un fascicolo, come da prassi, e per il momento né la magistratura né i principali dirigenti della questura si sono espressi. Ogni ulteriore informazione, è stato fatto sapere, sarà fornita direttamente dalla magistratura nei tempi e nei modi ritenuti opportuni. La Procura di Reggio Emilia sta verificando i tempi e le modalità dell’intervento della pattuglia che è venuta a contatto con il 41enne. Una dinamica che sarebbe stata abbastanza complessa, in diverse fasi, e si stanno facendo sopralluoghi. Saranno probabilmente disposti esami per verificare se l’uomo avesse assunto alcol o stupefacenti. Sulla vicenda interviene il Siulp che esprime “il proprio sostegno e la propria vicinanza al collega che è stato coinvolto nel recente intervento di polizia che ha tragicamente portato alla morte di un giovane. Siamo fiduciosi che l’azione sia stata condotta in pieno rispetto delle procedure e della formazione ricevuta”. Il sindacato ribadisce il proprio sostegno all’utilizzo del taser come strumento operativo: “Se impiegato correttamente, rappresenta un’alternativa valida rispetto all’uso dell’arma da fuoco in determinate circostanze”. “Confidiamo nel lavoro della magistratura per fare piena luce sull’accaduto e siamo certi che la verità emergerà”, conclude il sindacato reggiano. Anche da parte del Sim Carabinieri c’è vicinanza al poliziotto coinvolto: “Il taser non è uno strumento che uccide le persone, anche nel recente caso di Olbia è stato dimostrato in sede di autopsia. Auspichiamo che non ci sia il classico atto dovuto e si aspetti prima gli esiti medico legali, per poter fare le giuste valutazioni”. Usmia Carabinieri esprime “vicinanza agli operatori intervenuti e cordoglio per il decesso dell’uomo coinvolto. In queste ore sono in corso gli accertamenti coordinati dalla Procura e i rilievi della Polizia Scientifica: è dovere di tutti attendere gli esiti ufficiali prima di formulare giudizi”, dice il segretario generale Alfonso Montalbano. Sul fronte politico a farsi sentire chiedendo di fermare subito l’uso del taser sono invece Avs e Più Europa. “Ancora una vittima del taser, cosa altro deve accadere affinché questo strumento sia sospeso alle forze dell’ordine che lo hanno in dotazione? Avevamo già chiesto a Piantedosi un intervento di tutela, torniamo ad insistere, e non dica il ministro dell’Interno che non esistono problemi, perché significherebbe che le morti non sono un problema”, sottolinea Filiberto Zaratti, capogruppo di Avs nella commissione Affari costituzionali della Camera. “Un’altra scossa di taser, un’altra “imprescindibile morte durante un’operazione di polizia?. Dopo i tre casi di questa estate, stavolta succede a Reggio Emilia. Pochi giorni fa, il ministro Piantedosi rispondendo a una mia interrogazione al Question Time, aveva ribadito che si tratta di uno strumento appunto imprescindibile. Probabilmente imprescindibile per morire, perché se tre casi fanno un indizio, il quarto è la prova che il taser dovrebbe essere sospeso a tutte le forze dell’ordine che lo hanno in dotazione”, dichiara il segretario di Più Europa Riccardo Magi. A Più Europa e ad Avs replica la vice segretaria della Lega Silvia Sardone. “La sinistra continua a strumentalizzare delle tragedie per fare propaganda criminalizzando il taser, come nell’ultimo caso di Reggio Emilia. Da Avs a Più Europa chiedono la rimozione di uno strumento importantissimo e ritenuto essenziale da uomini e donne in divisa. Queste persone forse dimenticano che avevano gridato allo scandalo anche nel caso del 57enne morto ad Olbia, non per colpa del taser come affermato inizialmente ma per un infarto presumibilmente legato all’assunzione di sostanze stupefacenti. La conclusione è sempre e solo una: l’opposizione vuole solo alimentare un clima inaccettabile di sfiducia verso le forze dell’ordine”, scrive in una nota Sardone. Caso Almasri, il governo deposita la sua difesa di Simona Musco Il Dubbio, 16 settembre 2025 In giunta per le autorizzazioni la memoria di Nordio, Piantedosi e Mantovano. Ribadita la linea dello stato di necessità. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, hanno depositato in Giunta per le Autorizzazioni a Montecitorio la loro memoria difensiva sul rilascio del generale libico Almasri, vicenda per la quale il Tribunale dei ministri ha chiesto l’autorizzazione a procedere. Si tratta di circa 23 pagine, come confermato dal presidente della Giunta, Devis Dori, che ha sottolineato il carattere di segretezza del documento, non rendibile pubblico sul sito della Camera. “Il contenuto si apprenderà dalle relazioni del relatore”, ha precisato il deputato dem Federico Gianassi. La memoria ripercorre sostanzialmente i concetti già espressi in Aula lo scorso febbraio da Nordio e Piantedosi, difendendo le azioni del Governo come necessarie per tutelare l’interesse dello Stato. Si fa riferimento alla “sussistenza dello stato di necessità”, sancita dall’articolo 25 del Responsibility of State for Internationally Wrongful Acts 2001 della International Law Commission delle Nazioni Unite, norma che, secondo i vertici di Governo, legittimerebbe sul piano del diritto interno le condotte di tutti i politici coinvolti, al fine di salvaguardare un interesse essenziale dello Stato da un pericolo grave e imminente. Nordio, Piantedosi e Mantovano, questa la linea dell’avvocata Giulia Bongiorno, avrebbero agito motivati da un “interesse pubblico”, ovvero salvaguardare “la sicurezza nazionale e l’incolumità delle centinaia di cittadini” italiani in Libia. La stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la cui posizione è stata archiviata, aveva già citato ragioni di sicurezza nazionale nella decisione di espellere Almasri. Nell’incartamento trasmesso alla Giunta viene citato anche l’articolo 9 della legge Costituzionale n. 1 del 1989, secondo cui l’Assemblea può negare l’autorizzazione a procedere se ritiene che l’inquisito abbia agito per tutelare un interesse dello Stato o un preminente interesse pubblico. L’atto conferma inoltre quanto sostenuto nella prima memoria di febbraio: Nordio aveva respinto le accuse, affermando di non essere un “passacarte” e richiamando lo stato di necessità. Sull’atto di espulsione firmato da Piantedosi si citano motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato, evidenziando che l’intervento è stato rapido a causa della pericolosità del soggetto e dei rischi derivanti dalla sua permanenza in Italia. Nella memoria difensiva, i tre esponenti di governo attaccano anche il Tribunale dei ministri, accusato di aver condotto l’intera procedura con “violazioni di legge gravi e numerose” e di aver prodotto una richiesta di autorizzazione a procedere piena di “anomalie”. In primis per il fattore tempo, dal momento che la richiesta di autorizzazione a procedere è arrivata dopo più di sei mesi, senza alcuna spiegazione sul ritardo. Non meno contestato il mancato ascolto di Alfredo Mantovano, che si era reso disponibile a rispondere ai magistrati. Una mancanza che, per la difesa, mina il diritto alla piena partecipazione al procedimento. “Non esistono precedenti”, si legge nelle carte. Il tutto mentre il procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, è stato sentito in due occasioni. L’indagati, inoltre, hanno potuto accedere agli atti solo pochi giorni prima della richiesta di autorizzazione. Ma non solo: secondo la memoria, le dichiarazioni rese in aula da Nordio e Piantedosi sul caso Almasri sarebbero state trasformate dal Tribunale in un vero e proprio interrogatorio, senza difensore e usate contro i due ministri. Insomma, da parte del Tribunale dei Ministri ci sarebbe stato una sorta di pregiudizio: per questo motivo i testimoni istituzionali come il capo della Polizia e il direttore dell’Aise sono stati tacciati di inattendibilità, mentre sarebbero state molto valorizzate le dichiarazioni dei funzionari del Dipartimento Affari di Giustizia. Destino diverso per Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, la cui versione è stata bollata come mendace, cosa che ha consentito di aprire un procedimento parallelo a suo carico. Ma non solo. Nella memoria l’arresto del generale libico viene definito ancora una volta “irrituale”, mentre l’organo giudicante avrebbe mostrato “scarsa dimestichezza” con questioni delicate come il diritto penale internazionale. Nemmeno l’impiego di un volo di Stato per il rimpatrio di Almasri è esente da critiche: secondo la memoria, i giudici non avrebbero compreso la normativa di riferimento. Gli indagati si spingono a un paragone con il rientro in Italia della giornalista Cecilia Sala dall’Iran: “Perché in quel caso non si denuncia l’uso del volo di Stato?”, chiedono. La posizione di Bartolozzi viene difesa a parte. Indagata per false dichiarazioni, secondo la memoria la sua vicenda è “assolutamente connessa” all’inchiesta principale e non potrebbe essere separata, motivo per cui anche per lei si invoca lo scudo parlamentare. Infine, i tre indagati richiamano la ricostruzione del direttore dell’Aise Giovanni Caravelli, che aveva avvertito i giudici sui rischi di rappresaglie in Libia dopo l’arresto di Almasri, con circa 500 italiani presenti nel Paese. Su questo punto la memoria è tagliente: “Il tribunale non ha spiegato come sarebbe stato possibile, per evitare ritorsioni sugli italiani, farli rientrare tutti in Italia nel giro di mezza giornata: trovando all’istante i mezzi per farli convergere tutti all’aeroporto di Mitiga, controllato dalla Rada Force di cui il generale libico era al vertice, e confidando che sarebbe stato agevole organizzare, sempre in poche ore, un ponte aereo per il loro ritorno in Italia? Vi è difficoltà a leggere questo passaggio della domanda di autorizzazione, perché è veramente il più apodittico e irrazionale”. Durante la scorsa seduta di Giunta, Gianassi aveva letto la lunga relazione, ma parte della discussione si era concentrata sul ruolo di Giusi Bartolozzi, iscritta sul registro degli indagati dalla procura di Roma per false dichiarazioni davanti al Tribunale dei Ministri. In quell’occasione, il deputato di FdI Dario Iaia ha richiamato il tema della “ministerialità” del reato e il ruolo della Camera nell’accertarla, sottolineando che il reato ipotizzato “si sarebbe verificato soltanto sulla base di fatti precedenti”, cioè le condotte attribuite al ministro Nordio, configurando una connessione teleologica. Iaia ha citato la sentenza n. 241/2009 della Consulta per ribadire che la Camera può valutare la natura ministeriale dei reati e perfino sollevare conflitto di attribuzione: “Non può essere sottratta all’organo parlamentare la propria autonoma valutazione”. Sulla stessa linea Enrico Costa di FI, secondo cui “non vi è un impedimento all’esame da parte delle Camere dei casi di connessione tra reati contestati ai ministri e ai co-indagati laici”. Per Laura Cavandoli della Lega, l’articolo 4 della legge 219/1989 e l’articolo 110 c.p. offrono spunti per approfondire il tema del concorso o della connessione. Enrica Alifano (M5S) ha invece precisato che la Giunta non può allargare il perimetro oltre la richiesta del Tribunale dei ministri: “Il thema decidendum è quello posto dalla richiesta del Tribunale, non dalle voci di stampa”, richiamando il dato letterale della legge 219/1989: “Il comma 2 dell’articolo 4 tratta di fattispecie che riguardano concorrenti: qui non vi sono concorrenti nei reati contestati ai ministri”. Caso Lucano, no del Tar di Reggio Calabria: confermata l’incandidabilità di Simona Musco Il Dubbio, 16 settembre 2025 Il Tar di Catanzaro, invece, ha dichiarato improcedibile il ricorso. E lui annuncia: “Vado in Palestina”. Nulla da fare: il Tar di Reggio Calabria ha confermato l’incandidabilità di Domenico Lucano, sindaco di Riace e candidato di Avs a supporto di Pasquale Tridico per le regionali in Calabria del 5 e 6 ottobre. Secondo le motivazioni, stando alla lettera d) dell’articolo 7 della Legge Severino, basta una condanna definitiva per qualsiasi reato commesso “con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio”, per una pena superiore a sei mesi, per stabilire l’incandidabilità. Si tratta di un’ipotesi “inabilitante, aperta e residuale”, il cui perimetro applicativo risulta delineato dalla soglia della pena (superiore a sei mesi) e dall’individuazione di condotte “non previste ex ante ma ritenute, sulla scorta di un criterio valoriale, aventi un grado di offensività incompatibile con la candidatura a cariche elettive, giacché implicanti “abuso dei poteri” ovvero “violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio”, come tali potenzialmente idonee ad interferire con i compiti connessi alla carica ambita”. In nessuna parte della sentenza penale viene stabilito un abuso di potere, pure escluso con la cancellazione delle pene accessorie, come sottolineato dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Saitta. Per i giudici, però, si tratterebbe di una censura “del tutto fuori fuoco”. Stando al ricorso dei due legali, “l’Ufficio centrale circoscrizionale presso il Tribunale di Reggio Calabria si sarebbe limitato a presumere l’esistenza della suddetta connotazione della condotta (abuso dei poteri ovvero violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione), desumendola dal mero titolo di reato ascritto (art. 479 c.p., contestato in relazione all’art. 476 comma 2 c.p.) e, dunque, ritenendola ontologicamente connaturata alla fattispecie penale della falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, senza tener conto del comportamento concretamente posto in essere dall’odierno ricorrente/imputato/condannato e, dunque, degli accertamenti penali di cui alla sentenza adottata nei confronti di quest’ultimo ed anzi contra le risultanze di tali accertamenti penali che, viceversa, sia pure implicitamente, escluderebbero qualsivoglia abuso di potere/violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione/il pubblico servizio (stante la mancata contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61 c. 9 c.p. e la mancata comminazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 31 c.p.)”. Ma “astraendosi, per un momento, dal comportamento concretamente posto in essere dall’odierno ricorrente, in qualità di sindaco del Comune di Riace, nella vicenda attinente la gestione del flusso dei migranti - si legge ancora - la condotta tipizzata, in via generale ed astratta, dall’art. 479 (a carico del “pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”) comporta ex se quell’abuso di poteri/violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione/pubblico servizio, ostative alla candidabilità ex lettera d) dell’art. 7 D.lgs. n. 235/2012”. I giudici del Tar si rifanno al capo di imputazione, che contestava ben 56 determine relative ai rendiconti di spesa dei tre progetti. “Al fine di affermare la responsabilità di Lucano - continua la sentenza - il Tribunale, con valutazione confermata nei successivi gradi di giudizio, ne ha innanzitutto premesso la qualità di pubblico ufficiale (quale Sindaco del Comune di Riace), oltre che di incaricato di pubblico servizio, quale responsabile dei progetti di accoglienza”. La sentenza di appello ha però stravolto la portata di quel capo d’imputazione, ritenendo legittime 55 determine e cancellando l’interdizione dai pubblici uffici. Il Tar evidenzia però quanto scritto dai giudici d’appello, secondo cui “deve escludersi che le finalità solidaristiche che hanno sorretto il percorso di Lucano (dunque certificate dalla sentenza, ndr) siano di particolare valore morale e sociale”, pur avendo le stesse “animato, in linea generale, il suo approccio al tema dell’accoglienza”. Da nessuna parte viene però indicato l’abuso di potere nel compimento di un reato finalizzato a recuperare somme già spese e mai restituite (nemmeno dopo la determina, come più volte accaduto in passato). Poco importa, perché per il Tar ciò basta a certificare la violazione dei doveri inerenti alla funzione di pubblico. Ed è irrilevante, scrivono i giudici, che non sia stata comminata la pena accessoria dell’interdizione, “trattandosi di istituti che, pur muovendo dagli stessi presupposti, operano su piani giuridici autonomi e paralleli ed hanno effetti non pienamente coincidenti”. I giudici di Catanzaro - che si sono pronunciati sull’altra sentenza di incandidabilità -, poche ore dopo, hanno dichiarato improcedibile il ricorso, proprio in virtù della pronuncia della Sezione di Reggio Calabria. E in base al principio della “ragione più liquida”, la pendenza di due atti identici ha reso superflua una nuova decisione. Nessuna condanna alle spese, data la mancata costituzione dell’amministrazione. Dal canto suo, Lucano ha annunciato di volersi recare in Palestina. “Devo andare lì perché mi manca il respiro - ha dichiarato - quel senso di vedere, di toccare con le proprie mani, di essere utile senza rimanere in disparte”. Un impegno che, dice, nasce dal bisogno di coerenza: “La politica alle parole deve far seguire i fatti. Le parole non contano”. Assolti ma colpevoli: il caso Cavallotti e la sfida alla presunzione d’innocenza di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 16 settembre 2025 La Corte Edu è chiamata a stabilire se si possa essere giudicati due volte per gli stessi fatti e puniti senza condanna: arriva un “assist” da una sentenza della Cassazione civile. Uno degli aspetti discussi nel ricorso Cavallotti c/Italia, pendente davanti alla Corte Edu riguarda l’esatta latitudine della presunzione di innocenza come declinata dall’art. 6 comma 2 della Convenzione europea dei diritti umani. In particolare, in base ai quesiti preliminari posti dalla Corte, le parti dibattono se una persona assolta nel processo penale possa essere considerata incidentalmente colpevole nel procedimento di prevenzione. Tale visione, più che su questioni attinenti al giudicato e al “ne bis in idem” (princìpi sino ad ora rifuggiti in forza della predicata autonomia tra i procedimenti), riposa sul principio di non contraddizione ordinamentale. Un valido sostegno alle autorevoli argomentazioni spese dal parere indipendente del professor Pinto De Albuquerque - offerto alla Cedu a sostegno dei ricorsi della famiglia Cavallotti per delineare gli esatti confini della presunzione d’innocenza e della vincolatività del giudicato assolutorio nella sede della prevenzione - proviene dalla giurisprudenza di legittimità civile. La sentenza numero 3368/ 23, della terza sezione civile della Corte di Cassazione, compie un’accurata e assai persuasiva analisi della presunzione d’innocenza, collegandola non solo alla giurisprudenza della Corte Edu, ma anche a quella della Corte di Giustizia dell’Unione europea, alle Direttive Ue e ai decreti attuativi delle stesse, affermando che il diritto alla presunzione di innocenza, come declinato dalla giurisprudenza della Cedu e della “Cgue”, trova applicazione “in tutti i casi in cui l’accertamento della responsabilità penale ha avuto un esito negativo e il processo penale si sia concluso con la decisione diversa dalla sentenza di condanna”. L’Autorità giudiziaria investita di un procedimento diverso da quello penale, ma ad esso inscindibilmente legato quoad factum, successivamente alla sua conclusione nei confronti di una persona che sia stata “prosciolta sia in merito che nel rito” deve “trattare questa persona come innocente” in relazione al reato precedentemente ascritto. Principio che deve essere rispettato da ogni giudice di merito, chiamato a pronunciarsi in tutti i procedimenti “che presentino un legame qualificato con il procedimento penale, da cui derivi la necessità di esaminare l’esito dello stesso, o di apprezzare le prove in esso assunte, o di valutare la partecipazione dell’interessato agli atti e agli eventi che erano stati posti a fondamento dell’imputazione penale”. In questi procedimenti, scrive la Corte di Cassazione, l’autorità investita del diverso giudizio vede limitati i propri poteri cognitivi, poiché ha l’obbligo di trattare la persona come “innocente agli occhi della legge” e non può emettere provvedimenti che presuppongano un giudizio di colpevolezza o che siano fondati “su un nuovo apprezzamento della responsabilità penale della persona in ordine al reato precedentemente contestatole”. A sostegno della applicabilità del principio della presunzione di innocenza a tutti i procedimenti successivi diversi da quello penale che vedano la persona “accusata” sugli stessi fatti, la Cassazione civile invoca l’autorità delle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea, emesse sia in relazione all’articolo 48 comma 1 della Carta dei diritti fondamentali (norma corrispondente all’articolo 6 § 2 della Convenzione Edu), sia in relazione agli articoli 3 e 4 della direttiva 2016 / UE/ 343 del Parlamento europeo e del Consiglio, sul rafforzamento della presunzione di innocenza. Da tali pronunce, in particolare, emerge pacificamente che, nell’ambito dell’ordinamento europeo, viene protetto il diritto della persona a non essere presentata come colpevole nelle decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, finché questa non sia stata legittimamente provata. Particolarmente significativo, poi, è il richiamo alla Direttiva 2016/ 343, cui è stata data attuazione in Italia con il Decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 188, che fornisce copertura legislativa al principio appena esposto e che, secondo la Cassazione, fa diventare la presunzione di innocenza, “da garanzia destinata ad operare non soltanto sul piano processuale”, un “diritto della personalità, inteso come diritto della persona a non essere presentata come colpevole, prima che la sua responsabilità sia stata legalmente accertata”. Il principio di diritto, che la Corte di Cassazione ha elaborato e fatto proprio, attiene dunque alla necessità di conformare l’accertamento giudiziale al rispetto del canone costituzionale della presunzione di non colpevolezza, che non può essere circoscritto all’ipotesi in cui la responsabilità penale sia stata esclusa con una sentenza di proscioglimento, assoluzione o non doversi procedere, ma deve trovare applicazione in tutte le fattispecie in cui l’indagine sul reato, ritualmente condotta dal giudice penale, abbia dato esito negativo Essendo incontestabile, ormai, che il giudizio sulla pericolosità sociale, semplice o qualificata, presupponga il riscontro incidentale di condotte delittuose, la corretta interpretazione della presunzione di non colpevolezza deve allora condurre a concludere che sia impedita l’applicazione di misure di prevenzione, in tutti i casi in cui il fatto storico contestato sia già stato esaminato in un procedimento penale concluso con provvedimento diverso da una sentenza di condanna, come è purtroppo accaduto nella ormai nota vicenda Cavallotti. L’auspicio è che a Strasburgo non siano insensibili alle motivazioni di questa sentenza, ne recepiscano le indicazioni e riparino, anche se tardivamente e in misura parziale, a un danno a persone che la giustizia ha già dichiarato innocenti e che, solo un sistema estraneo ai nostri principi costituzionali ha privato dei loro beni, senza una condanna. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell’UCPI Divieto di ne bis in idem per il reato già punito in uno Stato Ue anche se con diversa qualificazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2025 La nozione di medesimi fatti che fa scattare il divieto di celebrare un nuovo giudizio va applicata dal giudice che ne deve affermare la ricorrenza quando siano identiche le azioni sub iudice a quelle già oggetto di condanna. La Corte di giustizia Ue - con la sentenza sulla causa C-802/23 - ha affermato che in base al principio del ne bis in idem una persona non può essere sottoposta a un procedimento penale in un Paese Ue per un atto terroristico per cui è già stato condannato in un altro Stato membro, nonostante lì la qualificazione del reato sia diversa. Il caso a quo- La vicenda riguarda una persona che apparteneva alla dirigenza dell’organizzazione inquadrata come terroristica dell’Eta ed era stata consegnata dalla Francia alle autorità spagnole in esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso dalla Corte centrale spagnola nell’ambito di un procedimento penale relativo a un attentato terroristico alla caserma della polizia di Oviedo del 1997. L’accusa era di aver commesso dalla Francia i reati di distruzioni con finalità di terrorismo, di tentativo di omicidio premeditato con finalità di terrorismo nonché di percosse e lesioni. Con la conseguenza di una condanna a 30 anni di reclusione. La persona consegnata aveva però già subito in Francia una pena di 20 anni di reclusione. Conformemente alla normativa spagnola, le pene risultanti da condanne pronunciate dai giudici francesi e dai giudici spagnoli non possono essere cumulate: l’accusata dovrebbe allora scontare un totale minimo di 50 anni di reclusione, senza che sia possibile fissare una durata massima di pena. Il dubbio interpretativo dei giudici spagnoli - In particolare la Corte centrale spagnola rilevava che le azioni giudiziarie promosse in Spagna fossero attinenti ai medesimi fatti oggetto delle sentenze di condanna francesi. Ciò faceva emergere un “caso di bis in idem” da cui il rimpallo tra Corte suprema spagnola e Corte centrale che ha deciso per il rinvio pregiudiziale alla Cgue. Il giudice spagnolo del rinvio faceva rilevare che la nozione di “medesimi fatti” ricomprende la sola materialità dei fatti, pertanto le qualificazioni giuridiche divergenti dei medesimi fatti in due Stati membri diversi oppure il perseguire interessi giuridici diversi in tali Stati non possono ostare all’applicazione del principio del ne bis in idem. La Cgue afferma che spetta alla Corte centrale spagnola determinare se i fatti oggetto del procedimento penale instaurato di fronte a essa a partire dalla consegna della persona imputata siano gli stessi di quelli che sono stati giudicati in via definitiva dai giudici francesi. Tuttavia, la Corte precisa che la nozione di “medesimi fatti” comprende i fatti contestati a una persona nell’ambito di un procedimento penale promosso in uno Stato membro per atti terroristici qualora tale persona sia già stata condannata in un altro Stato membro, a causa dei medesimi atti, per la sua partecipazione a un’associazione terroristica finalizzata alla preparazione di un attentato. La pena comminata nel primo Stato fa scattare il divieto di ne bis in idem se questa è stata eseguita, se è in corso di esecuzione o se non è più eseguibile in base al diritto dello Stato che l’ha comminata. In caso diverso il principio di non essere giudicati due volte per lo stesso fatto non opererebbe. Padova. Carcere Due Palazzi, allarme degli avvocati: “Tasso di sovraffollamento del 155%” di Matilde Bicciato Corriere del Veneto, 16 settembre 2025 Il presidente Rossi: “Le condizioni di vita in molti istituti di pena nel nostro paese sono insostenibili e l’Italia è anche stata condannata dalla corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti quotidiani, con suicidi sia dei detenuti che delle guardie carcerarie. Aumentano le persone dentro in carcere, diminuiscono i soldi, con una situazione che è critica. Padova non fa eccezione”: il drammatico bilancio che parla della popolazione detenuta è stato raccontato per primo dall’avvocato Francesco Rossi, in occasione della presentazione di “Le mie prigioni”, il recital prodotto dall’ordine degli avvocati e dalla camera penale di Padova. Il dato più impattante è stato quello del sovraffollamento, in relazione proprio al carcere della città del Santo, con un tasso del 155%: con una disponibilità di quattrocento posti effettivi per la Casa Circondariale, la struttura ospita in tutto 620 detenuti. “È in un contesto come questo che i suicidi dei detenuti e delle guardie carcerarie continuano ad aumentare”, ha ribadito Rossi. “E che i suicidi in carcere - raddoppiati negli ultimi dieci anni - non siano dovuti alla congenita fragilità degli individui o a un loro disagio che prescinde dalle condizioni di detenzione, è dimostrato dal fatto che la percentuale delle persone che si suicidano in carcere è venticinque volte più alta di quelle che si tolgono la vita fuori. Una sordità che fa pensare che non si tratti di un problema di risorse, ma di una scelta” ha detto l’avvocato, rivolgendosi anche alla direttrice del Due Palazzi, Maria Gabriella Lusi, presente al tavolo. “Una scelta che deriva dalla convinzione che in carcere ci sia quella parte di umanità indegna e comunque colpevole. Colpevole prima di tutto di essere tossicodipendente, immigrato, povero, fragile o contestatore”. Una richiesta di attenzione che comunque è stata accolta dalla direttrice del carcere, Lusi: “La strada del successo è quella della sinergia, tra le istituzioni ma anche tra le attività interne al carcere. Un sistema che vuole il detenuto in carcere lo vuole far vivere, e non sopravvivere. In seicento detenuti interni alla Reclusione, abbiamo in tutto settantuno permessi premio: è un dato che testimonia il lavoro fatto e che deve essere rilevante”. Un numero che però ha subito richiamato anche una precisazione dell’avvocata Paola Rubini, presidente della camera penale di Padova, che ha ribadito come uno dei dati meno digeribili sia quello relativo alla casa circondariale, l’istituto penitenziario di via Due Palazzi destinato alla custodia di persone in attesa di giudizio o per l’esecuzione di pene detentive di breve durata, generalmente inferiori a cinque anni: “Il sovraffollamento fa sì che là dentro vi siano 256 persone, di cui due terzi con pene definitive, al di sotto dei cinque anni. Quello non sarebbe il loro posto”. Firenze. Presunti pestaggi a Sollicciano, al processo di appello chieste 9 condanne La Nazione, 16 settembre 2025 La Procura Generale va dritta: la pena più alta per l’ispettrice capo della Polizia penitenziaria. In primo grado il giudice aveva riqualificato il reato in lesioni gravi. Tra sette giorni si torna in aula. Al processo d’appello in abbreviato per i presunti pestaggi nel carcere fiorentino di Sollicciano, il procuratore generale Ettore Squillace Greco ha chiesto la condanna per i nove imputati, tra cui una ispettrice capo e otto agenti di penitenziaria, a vario titolo per lesioni gravi e per tortura. Le pene richiesta vanno da 5 anni e 7 mesi a 3 anni e 10 mesi. Al centro del procedimento, le due presunte aggressioni a un detenuto marocchino e a un recluso italiano, rispettivamente nel 2018 e nel 2020, anche nell’ufficio della ispettrice capo, a seguito di contrasti maturati con gli agenti della penitenziaria. La procura aveva contestato ai nove imputati - difesi dagli avvocati Filippo Cei e Luca Maggiora - a vario titolo, il reato di tortura, falso e calunnia. La gip Silvia Romeo nel 2022, aveva invece riqualificato il reato di tortura in lesioni gravi per otto imputati, e assolto tutti dall’accusa di falso e da quella di calunnia la ispettrice capo. Per il giudice, insomma, non furono torture quelle perpetrate ai danni di due detenuti del penitenziario fiorentino, ma episodi certo non edificanti ma non ripetitivi e crudeli. La sentenza è stata impugnata dalla pm Christine von Borries. Ieri al processo d’appello, il procuratore generale Squillace Greco ha sollecitato, in relazione al pestaggio del detenuto marocchino, la condanna per tortura, mentre per l’aggressione al recluso italiano ha chiesto la condanna per lesioni. L’inchiesta esplose nel gennaio 2020, con l’arresto della ispettrice, un agente e un assistente capo. Per altri sei agenti, scattarono le misure interdittive. Al centro dell’inchiesta, tre presunti pestaggi, avvenuti tra il 2018 e il 2020. Nell’ufficio dell’ispettrice sarebbe avvenuto il più violento degli episodi contestati, il 27 aprile 2020, vittima un detenuto marocchino, colpevole di aver protestato insultando un agente. L’uomo sarebbe stato portato nell’ufficio e poi, davanti all’ispettrice, picchiato da sette agenti con pugni e calci fino a lasciarlo a terra senza fiato e procurandogli la frattura di due costole. Prima di essere portato in infermeria, sarebbe stato inoltre condotto in una stanza di isolamento, costretto a togliersi i vestiti e lasciato nudo per alcuni minuti per umiliarlo. Foggia. Presunte torture in carcere, slitta l’udienza preliminare: 14 gli imputati di Maria Grazia Frisaldi foggiatoday.it, 16 settembre 2025 Per un difetto di notifica, l’udienza preliminare è slittata al 6 novembre quando le difese potranno sollevare eccezioni, tecniche o di merito, dinanzi alla Gup Massarelli. Pervenuta una sola istanza di costituzione di parte civile: si tratta dell’associazione Yairaiha Onlus. Per un difetto di notifica, slitta al prossimo 6 novembre l’udienza preliminare del processo sulle presunte torture avvenute nel carcere di Foggia. La vicenda, sfociata nel blitz dell’Arma del marzo 2024, ha portato all’arresto di 10 agenti della polizia penitenziaria dell’istituto di via delle Casermette, accusati a vario titolo di tortura, abuso d’ufficio, abuso di autorità contro arrestati o detenuti, omissione di atti d’ufficio, danneggiamento, concussione, falsità ideologica commessa da un pubblico ufficiale in atti pubblici, soppressione, distruzione e occultamento di atti veri. Gli agenti sono ritenuti responsabili di aver partecipato, con profili diversi di responsabilità, ad un violento pestaggio, compiuto l’11 agosto 2023, nei confronti di due detenuti; a questi 10 imputati, si aggiungono - per presunti reati legati alla sfera professionale - anche tre medici e una psicologa all’epoca dei fatti in servizio nell’istituto penitenziario foggiano. Tutto rinviato al 6 novembre, quindi, dinanzi alla gup Cecilia Massarelli, quando le difese degli indagati potranno sollevare eccezioni, tecniche o di merito, rispetto a quanto formulato dalla pubblica accusa. “Il mio primo passo sarà contestare le accuse nel merito ed evidenziare la erronea qualificazione giuridica dei fatti contestati: per noi non si è trattato di tortura, non si è trattato di un ‘brutale pestaggio’ ma di turbolenze all’interno del carcere”, spiega l’avvocato Pio Gaudiano (nella foto in basso), che rappresenta la metà degli agenti penitenziari imputati. “Ancora, proverò ad epurare il materiale probatorio dagli atti contestati”. Il riferimento è ai video su cui fonda l’accusa “per i quali la difesa non ha possibilità di valutare la fonte originaria né il contesto: su una registrazione di circa 2 ore, infatti, sono stati estrapolati meno di 2 minuti relativi ai fatti contestati. Sul punto - aggiunge l’avv. Gaudiano - la difesa ha già posto una questione molto articolata e tecnica e sulla quale dovrà ovviamente pronunciarsi il giudice”. Contestata anche la possibilità di una “spedizione punitiva” contro i detenuti: “Ipotesi inconsistente che abbiamo già contestato in fase cautelare”, aggiunge il legale, “atteso che nessuna spedizione punitiva poteva essere organizzata nell’ambito di una perquisizione ordinaria disposta dall’ufficio direttivo poche ore prima l’espletamento dei controlli”. Le immagini video sotto inchiesta - Le indagini, lo ricordiamo, sono scattate all’indomani di una missiva fatta pervenire in Tribunale di Foggia, proveniente da via delle Casermette 22, ossia l’indirizzo della casa circondariale. L’incartamento, oltre al foglio di un detenuto che si diceva pronto a testimoniare “nel massacro, sanguinoso pestaggio”, conteneva un manoscritto firmato da un recluso della provincia di Bari, segnatamente di Bitonto, una delle due vittime della spedizione punitiva insieme al compagno di cella originario di Taranto (qui i dettagli dell’inchiesta). “Urla di dolore e rumore delle botte” - Nelle carte dell’inchiesta coordinata dalla Procura, il Gip Carlo Protano, aveva riservato ampio spazio ai tentativi di occultamento della notizia di reato da parte degli arrestati, a partire dalle false dichiarazioni spontanee dei reclusi, evidentemente indotte dai principali indagati: dai falsi verbali alla costrizione al silenzio, dai falsi certificati medici alla pagina strappata dal registro, dal tentativo di distruzione delle videoregistrazioni alla falsa relazione di servizio (clicca qui per leggere l’approfondimento completo). “Questa storia non mi piace” - Nel procedimento, ha presentato istanza di costituzione di parte civile l’associazione Yairaiha Onlus, rappresentata dall’avvocato Vito Daniele Cimiotta. “La nostra è l’unica associazione che ha depositato costituzione di parte civile” spiega rammaricato il legale. “È sconcertante, ma non certo sorprendente, che né il Garante nazionale né quello regionale abbiano scelto di costituirsi parte civile nel processo per le presunte torture nel carcere di Foggia. Parliamo di pestaggi brutali su due detenuti, uno di loro con disabilità al 100%, con accuse pesantissime: torture, abusi, falsi referti e tentativi di insabbiamento. È l’ennesima conferma di come chi dovrebbe difendere i diritti dei detenuti spesso scelga di voltarsi dall’altra parte. Ciò dimostra il totale disinteresse delle istituzioni per la situazione delle carceri”, conclude. Parma. Riconfermata la Garante dei detenuti: il centro-destra ne aveva chiesto la rimozione parmatoday.it, 16 settembre 2025 La professoressa Veronica Valenti: “Ho sempre agito nel pieno rispetto della Costituzione, delle leggi nazionali e dei regolamenti comunali”. Con diciassette voti contrari, due favorevoli e una astensione, il Consiglio Comunale di Parma ha rigettato la mozione di revoca della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, professoressa Veronica Valenti. La richiesta, primo firmatario il capogruppo di Fratelli d’Italia, Priamo Bocchi, poggiava su presunti “comportamenti assai gravi”, che sarebbero consistiti in “ingerenze nel dibattito politico” da parte della professoressa Valenti. Con il voto, il Consiglio Comunale, non solo ha formalmente rinnovato la propria fiducia alla professoressa Valenti, ma ha anche sostanzialmente confermato, sulla base di precisi e dettagliati riscontri documentali, l’assoluta correttezza dell’operato della Garante. In particolare, è stato ribadito che chi ricopre l’Ufficio di Garante può: avere colloqui riservati e ricevere corrispondenza da parte dei detenuti; visitare e ispezionare l’Istituto penitenziario senza necessità di autorizzazione preventiva; essere destinatario di istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa. “Ringrazio il Consiglio comunale di Parma per la rinnovata fiducia nella mia persona e nel mio mandato, che continuerò a svolgere con la determinazione e la professionalità di sempre. A tal proposito, ricordo che ho sempre agito nel pieno rispetto della Costituzione, delle leggi nazionali e dei regolamenti comunali” - ha commentato la professoressa Valenti - “L’ho fatto, in pieno inverno, quando mi sono pervenuti reclami collettivi con cui i detenuti lamentavano mancanza di acqua calda e di riscaldamento, oltre che muffe e infiltrazioni d’acqua nelle celle, condizioni per cui la Magistratura di sorveglianza ha condannato l’Istituto di Parma al risarcimento dei danni nei confronti dei detenuti reclamanti ed al ripristino di condizioni dignitose di detenzione. L’ho fatto anche nel corso di questa estate” - ha ricordato la Garante - “quando, in collaborazione con la nuova Direzione penitenziaria e con la Città di Parma, ho attivato una catena di solidarietà per far arrivare congelatori, ventilatori e beni di prima necessità per resistere alle elevatissime temperature che si sono registrate nei mesi di luglio ed agosto o il materiale e il mobilio per arredare lo spazio per l’affettività. E l’ho fatto anche” - ha concluso la Garante - “tutte le volte in cui si è trattato di rendere effettivo il diritto costituzionale di difesa in giudizio, il diritto inviolabile alla salute delle persone ristrette e di contribuire ad una corretta narrazione pubblica sull’esperienza detentiva, per favorire effettivi percorsi di reinserimento sociale e lavorativi”. Novara. Dal carcere al lavoro, la “seconda chance” dei detenuti di Fabio Albanese La Stampa, 16 settembre 2025 Grazie a una onlus i primi quattro sono stati assunti in aziende del territorio. Uno sta dietro il bancone di un fast food a servire i clienti, un altro fa l’infermiere degli animali, altri due fanno i manovali nel cantiere del castello. Sono i primi detenuti del carcere di Novara ammessi al lavoro esterno grazie al progetto di “Seconda Chance”, un’associazione no profit del terzo settore nata 3 anni fa a opera della giornalista romana Flavia Filippi e che ha già dato un’opportunità di rinascita a centinaia di detenuti delle carceri di tutta Italia facendo incontrare domanda e offerta. Questi quattro sono i primi ad uscire con questo progetto di lavoro dal carcere di via Sforzesca che, peraltro, è una struttura super protetta perché ospita condannati in regime di 41 bis, anche se questi sono detenuti “comuni”. Per operare abbiamo un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - spiega la presidente Filippi - e rapporti con molte carceri italiane. Cerchiamo di dare il nostro contributo all’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione che stabilisce il valore rieducativo della pena, anche facendo conoscere agli imprenditori la legge Smuraglia del 2000 che prevede agevolazioni e sgravi fiscali a chi assume detenuti”. In Piemonte il lavoro di Seconda Chance riguarda quasi tutti gli istituti di pena: “Su Novara in particolare - spiega il referente regionale della onlus, Matteo Zordan - abbiamo ottimi rapporti sia con la direzione del carcere sia con l’area educativa, a volte sono loro a cercarci”. In questo contesto sono maturate le assunzioni dei 4 detenuti in 3 aziende, ognuna con missioni e attività diverse. “Funziona così, prima ci sono i colloqui in carcere - spiega Zordan -. I potenziali datori di lavoro incontrano i detenuti aspiranti al lavoro esterno, ognuno dei quali a sua volta è stato selezionato dagli esperti del carcere. Poi ci sono i corsi di preparazione. Infine, col via libera del magistrato di sorveglianza, il datore di lavoro sceglie chi assumere e per quanto tempo”. Capita così che già lo scorso inverno due detenuti siano stati assunti in prova dalla Lares, un’impresa che ha cantieri in tutta Italia e che a Novara sta lavorando al restauro delle mura del castello. “Uno si è inserito molto bene - spiega Donata Cherido, amministratrice e direttrice tecnica dell’azienda - e gli abbiamo già rinnovato il contratto che, al termine dei 24 mesi, potrebbe diventare a tempo indeterminato”. Cherido, come gli altri datori di lavoro, dice di essere molto soddisfatta di questa esperienza: “Abbiamo molto a cuore questo progetto, la consideriamo un’occasione, per loro e anche per noi”. Lo pensa anche Luca Grassi che col papà Maurizio è il gestore dei Mc Donald’s della città e di altri tra Piemonte e Lombardia: “Avevamo fatto 6-7 colloqui - dicono - e ne abbiamo scelti un paio, uno in particolare è con noi da 4 mesi e sta facendo molto bene al punto che, ora che ha scontato la pena, lo assumeremo a tempo indeterminato. Anche su Vercelli stiamo facendo colloqui ma ci siamo trovati difronte a procedure burocratiche lente”. A Granozzo c’è la clinica veterinaria AniCura che fa parte di un circuito di 40 strutture in tutta Italia. Da mesi vi lavora part time, due giorni a settimana, un altro dei detenuti di Novara: “Fa l’assistente veterinario, una sorta di infermiere per gli animali - spiega il direttore sanitario Eric Zini - somministra terapie, fa bendaggi, coccola gli animali e da quando è qui ha dimostrato ogni giorno di essere bravo ed entusiasta. Il nostro obiettivo è di cambiare il suo contratto e trasformarlo a tempo indeterminato”. L’identikit di questi uomini che cercano una seconda chance è spesso simile: condannati per reati contro il patrimonio, la voglia di lasciare la vita del carcere il prima possibile e di ricominciare. E a prescindere dall’età, a 30 o a 50 anni, come questi “pionieri” di Novara. Verona. Violenza di genere: al via i “corsi rieducativi” nel carcere Corriere di Verona, 16 settembre 2025 Il Centro Nav, grazie all’accordo tra Comune e carcere di Montorio, offrirà ai detenuti condannati per reati di violenza di genere dei percorsi psico-educativi di recupero. Sottoscritto l’accordo di collaborazione tra Comune di Verona, approvato dalla Giunta su proposta della vicesindaca e assessora alla parità di genere, Barbara Bissoli, e la Casa Circondariale di Montorio, alla presenza del Garante delle Persone Detenute, don Carlo Vinco, per l’attivazione ad opera del Centro N.A.V. - Non Agire Violenza dei Servizi Antiviolenza del Comune di percorsi psico-educativi rivolti agli uomini detenuti, condannati per reati sessuali, per maltrattamenti contro familiari e conviventi e per atti persecutori per i quali sia stato formulato un programma di trattamento individualizzato con finalità di recupero e di sostegno a carico del sistema penitenziario. Con questo accordo, il Comune di Verona intende partecipare attivamente all’azione rieducativa degli uomini condannati per reati di violenza di genere, tramite il servizio del Centro N.A.V, coordinato dal dott. Filippo Saccardo, dipendente comunale, impegnandosi a svolgere attività di sostegno psico-educativo presso gli spazi individuati dalla Direzione del Carcere, in diretto contatto informativo con questa e con gli operatori penitenziari e partecipando alle riunioni periodiche del Gruppo allargato di Osservazione e Trattamento (G.O.T.), così come disciplinato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria al fine di discutere il percorso intrapreso dalla persona detenuta e di confrontarsi, attraverso un lavoro “di rete”, sull’andamento del programma di recupero. Il percorso offerto dal Centro N.A.V., che prevede una durata indicativa minima di 60 ore nell’arco temporale di almeno 12 mesi con gruppi di massimo 8 persone, è proposto ai detenuti per i quali sia stata predisposta l’Osservazione scientifica della personalità ai sensi del combinato disposto dell’art. 13 e 4-bis, comma 1-quater, l. n. 354 del 1975, attraverso un intervento psico-educativo individuale e di gruppo che mira a responsabilizzare la persona riguardo agli atti violenti commessi e a stimolare una riflessione sulle conseguenze del reato, in conformità con quanto previsto dall’art. 13-bis l. n. 354 del 1975. “Grazie alla disponibilità della Direttrice della Casa Circondariale di Montorio, dott.ssa Mariagrazia Bregoli - dichiara la vicesindaca Barbara Bissoli - sarà ora possibile per il Centro Non Agire Violenza N.A.V. del nostro Comune partecipare attivamente all’azione rieducativa dei condannati per reati di violenza di genere, così come previsto dall’ordinamento penitenziario, in attuazione dell’art. 27 della Costituzione, che assegna alla pena un ruolo rieducativo del condannato e della Convenzione di Instanbul che chiede agli Stati aderenti di attivare programmi di trattamento per chi abbia agito violenza di genere, con l’obiettivo specifico di prevenire la recidiva e proteggere l’integrità delle donne vittime della violenza. Abbiamo raccolto l’input di portare in carcere l’esperienza e la competenza dei Servizi Antiviolenza comunali emerso dal Tavolo del Carcere, istituito presso il Comune, coordinato dalle assessore Luisa Ceni e Stefania Zivelonghi e partecipato anche dal Garante dei Detenuti, offrendo con questo innovativo accordo una risposta convinta al bisogno rappresentato; questo accordo si è reso possibile grazie al percorso di ristrutturazione interna dei Servizi Antiviolenza avviato dalla nostra Amministrazione e oggi arrivato a buon punto”. “Considerato che sono reati particolari - dichiara la Direttrice dott. Mariagrazia Bregoli - perché sovente nascono all’interno del contesto familiare, è assolutamente importante attivare dei percorsi che possano aiutare il detenuto condannato a ritornare positivamente non solo all’interno del contesto sociale ma soprattutto all’interno del contesto familiare, garantendo il benessere psico-fisico anche di tutti i componenti della famiglia e giovando, quindi, anche con riferimento alla prevenzione della recidiva”. Milano. A San Vittore un convegno nazionale sui suicidi in carcere di Carmela De Rose Corriere della Sera, 16 settembre 2025 La Casa Circondariale di San Vittore ospiterà martedì 30 settembre, dalle ore 15.30, il convegno nazionale dal titolo “Suicidi dentro e fuori il carcere: strumenti psicologici e giuridici di prevenzione e cura”. L’iniziativa è promossa da Anthea Group Milano, in collaborazione con l’Ufficio del Difensore Regionale di Regione Lombardia, e si terrà nella Sala Polivalente dell’istituto penitenziario. L’evento sarà moderato da Marina De Rose, referente per gli eventi culturali e area psico-criminologica di Anthea Group Milano. Suicidi in carcere: un dramma silenzioso e allarmante - La questione dei suicidi legati agli istituti penitenziari italiani resta una ferita aperta del sistema giudiziario e penitenziario. Con 191 istituti e un indice di sovra-affollamento del 129%, unitamente all’uso eccessivo della detenzione provvisoria, alla carenza di personale e a una gestione spesso inefficace dei disturbi mentali, la situazione è allarmante. Le statistiche parlano chiaro: nel 2024 si sono verificati 89 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli agenti penitenziari, mentre da gennaio 2025 ne sono già stati registrati 55, di cui uno nel Carcere minorile di Treviso, il primo caso tra detenuti minorenni dal 2003. Dopo la conferenza stampa/convegno del 27 febbraio scorso in Senato, Anthea Group Milano, in collaborazione con l’Ufficio del Difensore Regionale di Regione Lombardia, torna a porre l’attenzione su questo tema drammatico, con l’obiettivo di fornire strumenti psicologici e giuridici di prevenzione e cura, e di sensibilizzare la società civile sull’urgenza di riforme e interventi concreti. Tra gli ospiti che interverranno sul tavolo nazionale figurano esperti di rilievo provenienti da tutta Italia: Dr. Pier Pietro Brunelli, psicologo e psicoterapeuta, esperto di comunicazione, su “Il suicidio e l’anima” secondo la psicologia di James Hillman; Dr. Paolo De Pasquali, psichiatra e criminologo, su “Psicopatologia della vita carceraria: analisi dei fattori di rischio e prevenzione dei suicidi”; Dott.ssa Cinzia Mammoliti, criminologa clinica e psicologa, su “Sindromi di prisonizzazione e di Ganser”; Dr. Gaetano Marchese, psicologo, psicoterapeuta e gruppo-analista, su “Il grido che si perde nella notte”; Dr. Maurizio Montanari, psicoanalista, su “Liberi dall’altro. Il suicidio dalla cella alla divisa”; Avv. Gianluca Barbiero, avvocato penalista Foro di Modena, su “Umanità e certezza del diritto: la solitudine oltre il carcere. Storia di Douglas Dall’Asta”; Avv. Corrado Limentani, avvocato penalista e consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano, su “Suicidi in carcere: i diritti del detenuto, i doveri del difensore”; Dr. Settimio Monetini, già dirigente del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, su “I servizi psicologici per i detenuti e gli internati: trattamento delle dipendenze e promozione della salute mentale negli istituti penitenziari”; Dr. Roberto Ranieri, direttore S.C. Direzione Coordinamento Carceri U.O. Sanità Penitenziaria Regione Lombardia, su “L’organizzazione dei servizi sanitari penitenziari in Lombardia”; Dssa Simona Silvestro, psicologa, psicoterapeuta e criminologa, consigliera segretaria dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, su “L’impegno dell’O.P.L. per la psicologia penitenziaria: la figura dello psicologo tra riabilitazione e cura”; Don Domenico Cambareri, cappellano dell’Istituto Penale per i minorenni di Bologna, su “Ti sogno fuori”. Gli interessati a partecipare alla conferenza stampa/convegno dovranno inviare una richiesta di accredito all’indirizzo accreditamenti@antheagroup.it entro il 25 settembre 2025. Il biennio stragista, gli ostacoli alle indagini e la pista da esplorare: quella nera di Luca Tescaroli Il Domani, 16 settembre 2025 Il magistrato Luca Tescaroli racconta in un volume, pubblicato per Paper First, i fatti accertati sul biennio stragista 1993-1994 che ha insanguinato l’Italia, ma evidenzia anche i punti oscuri e le domande alle quali bisogna ancora dare risposta. Una volta esposte le verità accertate nel corso degli anni, occorre evidenziare che, in ordine ai fatti stragisti terroristico-eversivi del biennio 1993-94, dai processi celebrati, sono emersi spunti investigativi che hanno imposto e impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione dei delitti in questione. Vanno ricordati sicuramente alcuni interrogativi rimasti tali, le cui risposte potrebbero squarciare i veli che avvolgono i cosiddetti “mandanti a volto coperto”, come li ha chiamati Piero Luigi Vigna, in una importante conferenza sulle stragi tenuta a Firenze nel salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio. Tutto questo fa parte di altri filoni di indagini, che impongono di continuare a indagare non solo perché questo è un obbligo giuridico, ma perché è la memoria delle vittime innocenti e dei tanti feriti, unitamente al condizionamento provocato da tali attentati alla nostra democrazia, che lo richiede. Lo esige la coscienza critica e morale della società civile: senza verità completa non c’è giustizia. E ci auguriamo di trovare il filo conduttore che ci consenta di individuare tali responsabilità, ove esistenti. Pur collocandosi le investigazioni espletate in tale direzione - negli ultimi quattro anni e mezzo - nel solco di quanto prima di noi i colleghi fiorentini avevano fatto e nel quadro di un coordinamento con la Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e altre Procure della Repubblica, il nostro ufficio è stato oggetto di attacchi istituzionali e mediatici a ogni livello, senza precedenti, derivanti dai doverosi approfondimenti, il che ha reso più difficoltoso il cammino compiuto alla ricerca della verità. Nel soffermarsi specificatamente sui quesiti rimasti aperti, sulla base delle risultanze dibattimentali, va sottolineato quanto segue. Se si è dimostrato che il momento genetico del disegno criminoso attuato nel biennio terribile del 1993-94 affonda le sue origini nel 1992, occorre chiedersi come mai Paolo Bellini, appartenente ad Avanguardia Nazionale, di recente condannato con sentenza di primo e secondo grado per aver partecipato alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, s’incontrava con Antonino Gioè, mentre erano in corso i preparativi della strage di Capaci (alla quale Gioè contribuì attivamente), e perché istillava il proposito di colpire la Torre di Pisa, secondo le indicazioni di affidabili collaboratori di giustizia? Un proposito che ha avuto un concreto principio di esecuzione. Se piuttosto evidente è stata la spinta ad agire degli esponenti di Cosa nostra, più difficile da decifrare appare quella di Bellini. Si noti che il progetto di colpire detto obiettivo aveva trovato un principio di esecuzione, come ha riferito il collaboratore Pietro Romeo, per averlo appreso da Giuliano. Questi ha, infatti, dichiarato che erano stati effettuati dei sopralluoghi a Pisa, quando ancora Salvatore Riina era latitante. Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993, sono rimaste oscure, tanto più se si considera che lasciava una sorta di lettera testamento nella quale, fra l’altro, menzionava Paolo Bellini, scrivendo che era un infiltrato. Bellini era anche un sicario della ‘ndrangheta. Se il 12 agosto 1992 Bellini incontrava il maresciallo Roberto Tempesta, il giorno seguente a Cutro uccideva Paolo Lagrotteria. Quali i suoi rapporti con gli esponenti della destra eversiva e gli esponenti dei servizi segreti? Come mai le anticipazioni sulle intenzioni degli appartenenti a Cosa nostra veicolate a esponenti delle Forze dell’Ordine da Bellini, prima, circa il progetto di colpire la Torre di Pisa, e da Angelo Siino poi sul fatto che l’esecuzione delle stragi sarebbero state effettuate al Nord non hanno consentito di impedire l’escalation di violenza del 1993? Il 15 gennaio 1993, Salvatore Riina e Salvatore Biondino quel mattino si stavano recando presso l’abitazione di Biondino. Il collaboratore di giustizia Fabio Tranchina, infatti, ha riferito di aver accompagnato quel giorno Giuseppe Graviano in via Tranchina, per incontrarsi con Salvatore Riina, ove lo aveva lasciato alle 8,30 dinanzi al portone d’ingresso del locale in cui doveva partecipare a un “summit” e dove lo aveva già accompagnato diverse altre volte in precedenza; aggiungendo che, dopo l’arresto di Riina, lo stesso Graviano gli aveva comunicato che ci sarebbe stata molto probabilmente una guerra, nel senso che con il loro agire mediante attentati avrebbe dovuto far capire come si sarebbero dovute fare le leggi (anche se già vi erano assicurazioni). Sulla stessa linea, Giovanni Brusca ha dichiarato che il giorno dell’arresto di Totò Riina, avrebbe dovuto esserci una riunione con la partecipazione, oltre che dello stesso Brusca, di altri capi mandamento, tra i quali Salvatore Biondino e Matteo Messina Denaro, nel corso della quale si sarebbe dovuto decidere sulla prosecuzione della strategia stragista. Se fosse stata effettuata tempestivamente la perquisizione a casa Biondino o se l’arresto fosse avvenuto a destinazione e non lungo il tragitto sarebbero stati, dunque, catturati Giuseppe Graviano, Giovanni Brusca, Matteo Messina Denaro e altri e verosimilmente non vi sarebbero state le stragi del 1993-94. Migranti. Oltre 200 Ong chiedono alla Ue di non varare regole repressive sui rimpatri di Francesca Ghirardelli Avvenire, 16 settembre 2025 Tra i promotori ci sono realtà internazionali ma anche locali. Per l’Italia hanno firmato Asgi, Ics di Trieste e Naga di Milano: “Il testo presentato dalla Commissione delinea misure coercitive”. Rimpatriare, mandare via in fretta, a casa loro, gli stranieri che non hanno diritto legale di restare nel territorio dell’Unione europea, e se non è possibile farlo, trasferirli altrove, anche verso Paesi dove non hanno mai messo piede prima. L’obiettivo della nuova proposta di Regolamento sui rimpatri nell’Ue, ripetuto di continuo ad ogni occasione pubblica, è di “avviare procedure più rapide, semplici ed efficaci” per allontanare le persone. Quello cioè che ancora oggi sembra non riuscire ai Paesi dell’Unione, visto che nel primo trimestre del 2025, secondo Eurostat, sono stati rimpatriati 28.475 cittadini extra-Ue a fronte di 123.905 a cui era stato intimato di lasciare un Paese membro (con l’Italia che fa meno degli altri, ottava per volumi di trasferimenti da gennaio a marzo, tredicesima nel secondo trimestre 2025). Mentre si avvicina la data di entrata in vigore, il 12 giugno del prossimo anno, del Patto sulla migrazione e l’asilo, entra nel vivo la discussione sulla nuova proposta di Regolamento per un sistema comune di rimpatri presentata dalla Commissione europea lo scorso marzo. In vista del voto del Consiglio dell’Ue, con la prima “posizione di compromesso” del Consiglio che sarà pubblicata questa settimana, c’è chi torna a far sentire la propria voce profondamente critica. Ieri, in un documento diffuso congiuntamente, 207 organizzazioni per i diritti umani sono intervenute per invitare la Commissione europea a ritirare la proposta e per sollecitare il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue a respingerla nella sua forma attuale. Tra i firmatari, ci sono oltre 100 Ong internazionali come Amnesty International, Msf, la Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants (Picum) e Avocats Sans Frontières (Asf). A queste si aggiunge una lunga lista di un altro centinaio di organizzazioni locali. Per l’Italia, tra gli altri, hanno firmato l’Asgi Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione di Torino, il Consorzio Italiano di Solidarietà (Ics) di Trieste e il Naga di Milano. “La proposta delinea misure coercitive, traumatizzanti e che violano i diritti, basate sull’imperativo di aumentare i tassi di espulsione” si legge nel documento congiunto. “Invece di concentrarsi su protezione, alloggio, assistenza sanitaria e istruzione, il Regolamento si basa su politiche punitive, centri di detenzione, espulsioni e misure repressive. (…) Spingerà un numero sempre maggiore di persone in un limbo giuridico”. Secondo i firmatari, la proposta renderebbe possibile, per la prima volta, espellere una persona contro la sua volontà verso un Paese al di fuori dell’Unione con cui non ha alcun legame personale, attraverso il quale ha solo transitato brevemente o in cui non è proprio mai stato. Il Regolamento proposto consente inoltre l’istituzione dei cosiddetti “centri di rimpatrio” (return hubs), centri di detenzione che ospiteranno chi attende l’espulsione, al di fuori dell’Ue. Quello che l’Italia cerca di fare in Albania. “In linea con i passati tentativi di delocalizzare o esternalizzare le responsabilità in materia di asilo, come quelli di Australia, Regno Unito o Italia, tali proposte rischiano di avere costi esorbitanti, comportare significativi rischi diplomatici e ampliare i divari e le divergenze tra le politiche di asilo e migrazione dei paesi Ue”. E proprio dai Balcani, una delle organizzazioni firmatarie, il Border Violence Monitoring Network, attraverso il portavoce Anas Ambri, commenta: “Con la sua proposta di hub per il rimpatrio, la Commissione europea dimostra, ancora una volta, di non essere in grado di trattare le persone in transito con umanità e dignità. Al contrario, l’Ue sembra intenzionata a trasformare i paesi dei Balcani in depositi per individui di cui vuole liberarsi, a scapito delle sue cosiddette relazioni di buon vicinato”. Altra pesante critica è che il nuovo Regolamento, se approvato, promuoverebbe “l’uso sistematico della detenzione” estendendone “significativamente la durata massima, da 18 a 24 mesi”. E, aggiunge il documento congiunto, oltre a contemplare che anche i minori possano essere detenuti, amplierebbe “i motivi di detenzione, includendo criteri che, di fatto, coprono la maggior parte delle persone entrate in Europa irregolarmente o che si trovano in una situazione di irregolarità. Ad esempio, la mancanza di documenti o la condizione di senzatetto sarebbero motivi sufficienti”. Così, questo Regolamento “aprirà la strada a un regime distopico di detenzione e deportazione, con decine di migliaia di persone rinchiuse nei centri detentivi per migranti in tutta Europa, famiglie separate e persone inviate in Paesi che non conoscono nemmeno” commenta Silvia Carta, advocacy officer del Picum di Bruxelles. Mentre, in un trilaterale il 29 agosto a Roma, i ministri dell’Interno di Italia, Francia e Germania avevano definito la proposta “un progresso nella direzione auspicata”, le organizzazioni firmatarie del documento diffuso ieri sono lapidarie: “Questo Regolamento deve essere respinto”. Il testo proposto: fra novità e strette: dal 2027 diventerà obbligatorio I critici parlano di “regolamento per le deportazioni”. In effetti il testo proposto a marzo dal commissario europeo agli Affari Interni Magnus Brunner per un regolamento sui rimpatri - in sostituzione dell’attuale direttiva rimpatri - segna davvero un pesante stretta per i migranti. Spicca la “possibilità giuridica” di inviare persone oggetto di foglio di via in return hub, centri di rimpatrio in Paesi terzi. Le condizioni e la durata della permanenza dei migranti saranno regolati da accordi bilaterali. Altra novità è la creazione di un “ordine di rimpatrio europeo”: il foglio di via emesso da uno Stato Ue vale per tutta l’Unione, il migrante non potrà sottrarsi spostandosi in un altro Stato membro. Previsto un periodo di transizione: il riconoscimento reciproco sarà volontario fino a metà 2027 quando la Commissione lo renderà obbligatorio. Altro punto: la possibilità di estendere fino a 24 mesi (dai 18 attuali) la detenzione di migranti oggetto di foglio di via che cerchino di nascondersi, o anche oltre per ragioni di sicurezza. Il testo dovrà ora essere approvato dagli Stati membri e dal Parlamento Europeo. Quello del conflitto “ineluttabile” è un falso mito, dobbiamo ribellarci di Franco Vaccari Avvenire, 16 settembre 2025 La guerra non è un destino, ma una scelta. Una scelta folle, costruita giorno dopo giorno, passo dopo passo, comportamento dopo comportamento. Non rassegniamoci a questa logica. “Ineluttabile”. Ecco la parola che si sta insinuando, silenziosa e vischiosa, nei nostri pensieri. Prima come una paura indistinta, poi come dubbio sussurrato nei discorsi, infine come una certezza cupa che ci sembra ragionevole accettare: “La guerra è inevitabile”. È questo il virus che sta infettando le nostre coscienze. Lo si dice sottovoce, tra una sigaretta e un caffè: “Hai visto? Sta succedendo di nuovo”. “Eh, temo proprio di sì”, risponde l’altro. E quel cenno, quel consenso mormorato, è il primo mattone di una resa. Poi, alla conversazione successiva, la voce si alza, l’opinione si fa posizione, e la posizione si trasforma in fatalismo cinico. Ed ecco che la guerra - qualunque guerra - smette di essere una tragedia e diventa un destino. Ma la guerra non è un destino. È una scelta. Una scelta folle, costruita giorno dopo giorno, passo dopo passo, comportamento dopo comportamento. Lo ha ricordato, con la lucidità che gli è propria, il presidente Mattarella: “Ci si muove su un crinale in cui, anche senza volerlo, si può scivolare in un baratro di violenza incontrollata”. È quel “senza volerlo” che ci chiama in causa. È lì che si annida il rischio più grande: non nel fragore dei cannoni, ma nella distrazione e nell’apatia quotidiana, nella rinuncia alla responsabilità, nel fatalismo comodo di chi pensa che non ci sia più nulla da fare… Non è vero. Quel 1914 può non replicarsi in un tragico 2025. La storia lo dimostra: non è sempre andata così. Ci sono stati momenti in cui l’umanità si è fermata a un passo dal disastro. Ottobre 1962: crisi di Cuba. Due superpotenze con il dito sul grilletto nucleare. Non scoppiò nessuna guerra. Ottobre 1956: crisi di Suez. La politica mondiale sembrava impazzita, eppure si trovò una via d’uscita. E poi, più tardi, la più grande sorpresa della Storia: il Muro di Berlino che cade senza sparare un colpo. Chi lo avrebbe detto? Chi ci avrebbe scommesso? E invece accadde. Perché l’ineluttabile, a volte, si disintegra sotto il peso della volontà, dell’intelligenza, della responsabilità. Si scioglie nelle correnti calde e sotterranee delle coscienze che si sono tenute deste anche senza poter comunicare. Perché anche l’abisso, se guardato con lucidità, può diventare un limite oltre il quale si decide di non andare. È questo il punto. La guerra è una costruzione collettiva, e quindi può essere anche una rinuncia collettiva. Un rifiuto - un ripudio! - che inizia da ognuno di noi. Non si tratta di illusioni da anime belle. Nessuno pretende di cancellare la violenza dalla faccia della Terra. Ma la guerra, come istituzione, come strumento della politica, come automatismo della Storia, quella sì, possiamo sperare di eliminarla. Kant scriveva come se la pace fosse possibile. Noi viviamo come se la guerra fosse certa. È questo il rovesciamento da operare. E allora, che fare? Resistere al cinismo. Rifiutare la narrazione dell’inevitabile. Spegnere il chiacchiericcio e accendere la coscienza. “Sì, parole giuste, ma purtroppo non le ascolta nessuno…”: quante volte l’abbiamo detto di papa Francesco, di papa Leone, di tutti coloro che, nella storia, hanno provato a indicare un’altra strada. Ma chi lo dice, chi lo ripete, ha già abdicato. Ha scelto il silenzio, la comodità dell’irrilevanza. La convinzione dell’ineluttabilità genera impotenza. Ma no, non siamo impotenti. Possiamo decidere come parlare, come pensare, come agire. Possiamo - dobbiamo - conservare quell’inquietudine morale che distingue il cittadino dal suddito. Perché i governanti del nostro tempo rischiano di diventare dominatori anziché servitori, se si spegne l’inquietudine dei cittadini. E questa inquietudine deve essere viva, deve disturbare, deve far male. Non basta più commentare con sarcasmo le grottesche pantomime crescenti del potere. I duemila anni passati dall’imperatore Caligola, che nominò senatore il proprio cavallo, ci fanno sorridere. Ma oggi - oggi - chi governa non ha bisogno di cavalli. Gli basta che noi diventiamo spettatori passivi, commentatori senza coraggio, cinici senza idee. È questo il nuovo potere: un’autorità che prospera sull’assenza di responsabilità. E allora, no: la guerra non è inevitabile. È possibile, certo. Ma proprio per questo deve essere combattuta: non con le armi, ma con la lucidità, con l’impegno, con la voce. Con la politica, nel suo senso più alto. Con la cultura, con la memoria, con il coraggio di non abituarsi. Si può resistere allo scivolamento verso l’abisso. Si deve. Perché l’ultima eco del fatalismo non è la saggezza, ma il vuoto. Il vuoto morale. Il vuoto spirituale. È lì che finisce tutto: quando ci convinciamo che la guerra non si può fermare. È questa convinzione - non le bombe - che segna la nostra sconfitta. I pezzi della terza guerra mondiale si ricompongono in un unico pensiero sull’inevitabilità della guerra. E invece, oggi più che mai, serve qualcuno che abbia il coraggio di credere che la guerra si può cancellare. Non da soli. Non in un giorno. Ma cominciando da qui, da ora, da noi. “Il mondo sarà salvato da chi non si rassegna”. E noi, vogliamo essere tra questi. “La nostra Europa non si rassegna alla guerra” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 16 settembre 2025 Paolo Ciani, Vicepresidente del gruppo Pd-Idp alla Camera dei deputati, è tra i promotori di Rete Civica Solidale: “Non semplicemente una associazione pacifista. Abbiamo proposte per contrastare le disuguaglianze, reagire ad una società individualista. Vogliamo essere l’alternativa ad una politica che si nutre dello scontro sociale”. Rete Civica Solidale. La stampa mainstream l’annovera nel sempre più variegato arcipelago correntizio del Partito democratico e dintorni. Di Rete Civica Solidale, lei è uno dei promotori... Rete Civica Solidale nasce da persone e soggetti diversi, tutti eletti nella coalizione di centrosinistra ma nessuno iscritto al Partito Democratico: Demos, Basilicata Casa Comune, Persone e Comunità, l’eurodeputato Marco Tarquinio, la Presidente dell’Umbria Stefania Proietti, il sindaco di Udine Alberto De Toni ed altri. Ora si stanno aggregando altri eletti in liste civiche, autonomisti e associazioni. Le nostre idee sono: contrastare antipolitica e astensionismo, rafforzare i principi della democrazia parlamentare, offrire una casa politica a tanti cittadini che ancora non si ritrovano nelle proposte dei partiti in campo, infine dare rappresentanza a realtà civiche spesso messe ai margini delle dinamiche politiche. Non siamo eterodiretti da nessuno e non nasciamo come esperimento di laboratorio: abbiamo le nostre idee, proposte, priorità. Pensiamo che per arrivare ad essere maggioranza di fronte alla destra sia necessario allargare partecipazione e consenso. Siamo convinti che nel centrosinistra ci sia uno sforzo nuovo di unità nella diversità (il cui merito va soprattutto alla segretaria Elly Schlein) che apprezziamo e vogliamo contribuirvi respingendo vecchi schemi interpretativi. Siamo rispettosi di tutti, per ottenere visibilità non parliamo male degli altri. Uno dei problemi dell’informazione attuale è suscitare attacchi in cambio di spazi (più pesante e plateale, meglio è) invece di chiedere chi sei o cosa fai. Rete Civica Solidale ha posto al centro la questione quanto mai attuale e dirompente della pace. In Europa si respira una aria che definire brutta è peccare di ottimismo. I droni russi abbattuti nel cielo polacco, Varsavia che si appella all’articolo 5 della Nato…. Non dobbiamo cedere all’idea che al nostro continente non rimanga altro che prepararsi alla guerra: dobbiamo reagire a questa aria avvelenata con aria buona. È evidente che oggi, dinanzi al dramma, che il mondo e la nostra Europa stanno vivendo, sentiamo la grande responsabilità di provare a fare qualcosa per non cadere nel baratro della guerra. Purtroppo, la vita degli ucraini è martoriata da bombardamenti quotidiani e ora anche i droni che raggiungono la Polonia; la Germania investe in armi e vuole diventare “il primo esercito della Nato” e la Francia attraversa una crisi difficile. Noi di Rete Civica Solidale abbiamo un’altra idea di Italia e di Europa. Tra di noi (anche tra i promotori) ci sono ‘militanti’ di vecchia data del dialogo tra persone, popoli e religioni, per i diritti umani, per la pace, per la non violenza. Ancora prima di candidarci ed essere eletti abbiamo vissuto e lavorato per costruire relazioni, ponti, dialogo. E al riguardo mi lasci aggiungere una parola sulla cronaca di questi giorni: apprezzo molto chi oggi invita ad abbassare i toni dinanzi ad episodi di violenza politica; certo trovo fuori luogo alcune parole aggressive dei leader di destra che hanno basato il loro consenso sulla logica della costruzione del nemico e ora scoprono la violenza verbale… Certo, Rete Civica Solidale non è semplicemente una associazione pacifista. Abbiamo idee e proposte per contrastare le crescenti disuguaglianze, per reagire ad una società individualista che va verso una darwinizzazione delle scelte, dove i più deboli rimangono schiacciati. Vogliamo essere l’alternativa ad una politica che si nutre della polarizzazione e dello scontro sociale, che demonizza poveri e migranti, senza occuparsi dei veri problemi del Paese: la criminalità organizzata, i suoi metodi e le sue infiltrazioni finanziarie; l’evasione fiscale che pesa come un macigno sulle tasse dei cittadini onesti. Conosciamo il dramma della solitudine di troppi nostri concittadini; la fatica (non riconosciuta) dei caregiver familiari; cosa vuol dire precarietà e lavoro povero; l’insicurezza e la paura di tante ragazze e donne ancora vittime di molestie e violenze. La realtà di tanti anziani che faticano, tra voglia di vivere bene e vita che diventa fragile. La giusta preoccupazione dei giovani per l’ambiente derisa da “adulti predatori”. Abbiamo un’altra idea di società. E siamo persone con i piedi per terra, consapevoli che se i prezzi degli alimentari sono aumentati del 30% in cinque anni (con il pane che ha raggiunto un prezzo medio di 4,5 euro al kilo!) e gli stipendi sono rimasti gli stessi, le persone stanno peggio e le giovani generazioni sono schiacciate tra solitudine, rassegnazione e paura del futuro. Altro fronte esplosivo è quello mediorientale. La mattanza di Gaza continua, mentre Israele ha aggiunto il Qatar alla lista dei Paesi bombardati (Iran, Libano, Siria, Yemen). In tutto questo l’Europa brilla per la sua inesistenza. Quello che sta accadendo a Gaza è drammatico e ciò che sta mettendo in atto il governo Netanyahu è frutto del tempo che viviamo: trionfa la logica del più forte; si delegittimano le istituzioni sovranazionali; le azioni che violano i diritti umani e il diritto internazionale non provocano reazioni adeguate. Ormai non è più una situazione di ‘doppio standard’ - come abbiamo visto per tanti anni rispetto a guerre o crisi umanitarie che avvenivano lontano da noi - ora siamo ad un ‘cambiamento di standard’: si tollerano cose che fino a ieri non si sarebbero tollerate. Ed è ancora più grave che questo cambiamento sia accettato o ignorato dall’Europa. È evidente che la nuova presidenza Usa ha cambiato tanto dell’Occidente per come lo abbiamo considerato fino ad oggi, ma accettare quello che sta facendo il governo israeliano è intollerabile. Un primo timido passo vi è stato con l’approvazione della Risoluzione del Parlamento Europeo dell’11 settembre. È evidente che sia ancora troppo poco ed il fatto che il governo italiano, a parte frasi di circostanza, non prenda decisioni - nemmeno rispetto alla collaborazione militare con Israele - è molto grave. A mobilitarsi è il mondo solidale, pacifista che, puntualmente viene accusato dalla stampa mainstream e non solo, di essere “filo-Putin” o “pro-Pal”. Lei si sente un servitore, per quanto in buona fede, dello zar del Cremlino o di Hamas? Non scherziamo con le cose serie. Non solo non mi ci sento ma non mi sono mai sognato di esserlo! Uno dei segni dell’imbarbarimento di questi anni è stato quello di trattare la guerra come una partita di calcio: tutti tifosi, tutti esperti, tutti a parlarne e sparlarne. Con il risultato che se non dici quello che dicono “tutti quelli che contano”, sei “amico del nemico”. La realtà è che, come dimostrato dalla grande accoglienza data dai nostri concittadini ai profughi ucraini, così come in questi giorni dalla mobilitazione per Gaza della Global Sumud Flotilla, tanti nostri concittadini rimangono umani, solidali, contrari alla guerra e alla logica delle armi e della forza. La rappresentazione di tutti questi come di fiancheggiatori dei cattivi è macchiettistica e legata alla narrazione bellicista. Da cattolico, sulla pace trova una linea di continuità tra il pontificato di Papa Francesco e quello, agli inizi, di Leone XIV? Trovo una grande continuità tra i due pontefici sul tema della pace. Sin da subito Papa Leone ha offerto il Vaticano come luogo per possibili trattative tra Russia e Ucraina; allo stesso tempo si è trovato ad affrontare il peggioramento della situazione di Gaza sulla quale si è espresso con grande chiarezza. D’altronde il pensiero e l’azione di Papa Francesco e di Papa Leone sulla pace sono perfettamente in linea con tutto il magistero dei pontefici dal ‘900 ad oggi. Ogni uomo ha il suo carattere e il suo “stile”, ma la fretta con cui tanti - anche cattolici - hanno provato ad archiviare la stagione di Papa Francesco, è la riprova di quanto la sua azione e predicazione sia stata efficace. Credo che Papa Leone continui con il suo stile tante scelte evangeliche del suo predecessore e non solo sulla pace: basta ascoltare le sue parole sull’accoglienza a Lampedusa (primo luogo visitato da Papa Francesco) “baluardo di quell’umanità che le ragioni gridate, le paure ataviche e i provvedimenti ingiusti tendono ad incrinare” … Quello che sta per aprirsi è un autunno caldo anche sul piano elettorale. Si inizia con le Marche. Il centrosinistra si è attrezzato per vincere? Penso che la prima novità importante sia il fatto che dopo tanti anni il centrosinistra si presenti unito all’appuntamento elettorale. Lo fa con candidati noti, solidi, rappresentativi nella diversità della coalizione (anche se per ora sono espressione di soli due partiti, ma bisogna tener conto che in Umbria fu candidata alla presidenza una esponente civica). Stupisce quanto alcuni giornali e politici abbiano insistito e ironizzato sulle divisioni della sinistra nell’individuazione dei candidati, quando la destra ancora non ce li ha. Uno dei problemi che ho riscontrato è che in un tempo di disaffezione verso la politica, anche il voto regionale è presentato tutto spinto sui leader nazionali. Sono stato più volte nelle Marche dove abbiamo candidati nella lista Progetto Marche per Ricci, come in Calabria dove abbiamo candidati nella lista del Presidente Tridico e ho visto le liste della destra: Meloni, Berlusconi (!), Salvini premier (!!). Ma sono Acquaroli e Occhiuto i loro candidati, che hanno già governato per 5 anni. È su di loro, il loro operato e il progetto che hanno per le loro regioni che i cittadini dovranno esprimersi. Noi dovremo avere la capacità, nelle Marche, in Calabria come ovunque, di raggiungere (anche fisicamente) più cittadini possibile. Se si alzerà la partecipazione al voto sono sicuro che potremmo fare buoni risultati ovunque. Stati Uniti. Quella ballata macabra sul cadavere di Charlie Kirk di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 16 settembre 2025 Allo State Farm Stadium di Glendale (Arizona), teatro di tre Super Bowl, fervono i preparativi per la cerimonia di domenica per ricordare Charlie Kirk, l’attivista assassinato lo scorso 10 settembre in un dibatto pubblico all’università dello Utah. Si chiamerà Building a Legacy, Remembering Charlie Kirk, sono attesi migliaia di attivisti e i principali esponenti della destra MAGA, Donald Trump in primis. Sarà un evento “grandioso”, promette lo stesso presidente, uno show mediatico- politico da ricordare per intere generazioni, la canonizzazione pubblica del protomartire della nuova destra americana. Ma anche una tragedia da sfruttare per imprimere ancora più forza all’azione politica del presidente Usa che ieri ha minacciato la proclamazione dello stato d’emergenza nella città di Washington. Ed è a questo intreccio tra propaganda politica interessata e commozione reale che bisogna guardare per cogliere il senso della beatificazione di Kirk. “Dio aveva altri piani per lui”, aveva detto J.D. Vance, amico personale di Kirk, poche ore dopo il suo assassinio. Il vicepresidente ha accompagnato il feretro da Salt Lake City a Phoenix a bordo dell’Air Force One visibilmente turbato e le sue parole intrise di misticismo messianico offrono alla comunità MAGA il linguaggio della fede assieme a quello del lutto. Vance, da scrittore di talento qual era, interpreta il bisogno di sacralità di una base che non vede nella morte di Kirk solo un omicidio, ma il sacrificio di un eroe e di un patriota. È questa tonalità mistica da raduno collettivo a rendere la cerimonia del 21 settembre qualcosa di più di un funerale: un rito di massa in cui una comunità politica si riconosce, si unisce e rafforza la propria identità. Forse proprio quella “Woodstock al contrario” evocata più volte dallo stesso Kirk che sognava una rivoluzione conservatrice per la gioventù americana. Lo stadio aprirà le porte alle otto del mattino, con l’inizio ufficiale degli interventi fissato per le undici. Una scaletta pensata per accogliere decine di migliaia di persone, con registrazioni online e accesso regolato fino a esaurimento posti. Donald Trump sarà naturalmente il protagonista assoluto della giornata. La sua presenza, annunciata con enfasi, darà alla cerimonia il rango di evento fondativo. L’ex presidente, che ha definito la morte di Kirk “un attacco all’America stessa”, ha ordinato bandiere a mezz’asta e ha promesso di celebrare il giovane attivista come un patriota caduto in battaglia. Per lui e per la sua base, l’immagine del martire è un’arma da sbattere in faccia agli avversari: serve a rafforzare l’idea di un movimento sotto assedio (gli immigrati? gli antifasciti?), a cementare la fedeltà dei sostenitori, a trasformare il dolore in energia politica se mai ce ne fosse bisogno nell’epoca della destra trionfante. Ma sarebbe riduttivo vedere in tutto ciò solo un calcolo propagandistico una cinica operazione per aumentare il consenso. Il trauma nella base e nei vertici MAGA è reale, palpabile nelle parole e nei messaggi degli attivisti, che parlano di Kirk come di un “guerriero della fede, della famiglia e della libertà”, stravoti dalla morte violenta del loro paladino. Ogni comunità politica si è sempre nutrita dei propri caduti e la commemorazione è un evento centrale per la crescita di quella comunità. Dalla rivoluzione francese alle lotte del movimento operaio, dai martiri risorgimentali alle figure della resistenza, ma anche tra le fila degli “sconfitti” della Storia il ricordo di chi muore per la propria tribù è un collante identitario; la brutale uccisione di Kirk non fa eccezione e darà occasione all’America trumpiana di celebrare se stessa e di compattarsi contro il “nemico”. Nelle parole del tycoon e degli altri leader torneranno i temi dell’assedio: i confini da difendere, i media ostili, la sinistra accusata di complicità morale con la violenza. La morte di Kirk diventa così la prova che la battaglia è reale, che il nemico non è un fantasma agitato nei comizi ma una forza che colpisce davvero, poco importa che a ucciderlo sia stato un social confuso tutt’altro che di sinistra. Il sito memoriale dedicato a Kirk, fightforcharlie.com, invita i sostenitori a “rendere omaggio alla vita straordinaria e l’eredità duratura di un’icona americana”. Turning Point USA, l’organizzazione che lui stesso aveva fondato a soli diciott’anni, ha diffuso il programma come fosse un pellegrinaggio collettivo per celebrare i propri valori: fede, famiglia e libertà. La vedova Erika ha promesso di portare avanti quell’opera, confermando che i tour universitari che lo hanno reso una star planetaria riprenderanno presto. In questa narrazione, Kirk diventa ciò che i militanti chiamano un “primo testimone”, colui che apre una strada con il proprio sacrificio. Domenica allo State Farm Stadium non si assisterà a un semplice funerale, ma a una canonizzazione laica. La platea di Glendale, le bandiere a mezz’asta, le preghiere e i discorsi politici comporranno il mosaico di un’America conservatrice che vuole mostrare la propria forza e legittimarsi attraverso il dolore. Charlie Kirk sarà ricordato come il primo martire di una generazione, il simbolo di un sacrificio che non si consuma nel silenzio, ma diventa narrazione collettiva. La beatificazione politica di un caduto che, nella retorica dei suoi, continuerà a vivere come guida spirituale e politica. Stati Uniti. Caso Kirk: Meloni si smarchi da Trump, è una follia evocare le Br di Benedetta Tobagi La Stampa, 16 settembre 2025 Dopo l’omicidio Kirk, vediamo che in Italia, Meloni, con vari altri esponenti della destra di governo, e la stampa di destra che il governo sostiene, non solo appoggia e sposa acriticamente la retorica della vendetta del governo Trump, ma la estende alla situazione italiana, in maniera del tutto priva di fondamento. Anche questo è pericolosissimo e irresponsabile. “C’è un clima d’odio” dice Meloni. Questo è indubbio, l’estrema destra negli Usa e nel resto del mondo è in prima fila nell’alimentare un discorso pieno di odio, razzista, islamofobo, misogino, e nei fatti sostiene leader che disprezzano e calpestano il diritto internazionale praticando violenza indiscriminata sui civili e invasioni territoriali! Meloni però non prende le distanze dai suoi amici politici e dalla loro retorica virulenta. Accusa fantomatici altri. Alla festa dell’Udc, il 13 settembre, ha detto “Io vengo da una comunità politica che è spesso stata accusata ingiustamente di diffondere odio dagli stessi che oggi minimizzano o addirittura giustificano l’omicidio intenzionale di un ragazzo 31 anni che aveva la colpa di difendere le sue idee”. Ma di chi parla Meloni? Chi, chi, giustifica e difende? Non si capisce proprio, visto che dall’opposizione politica, anche in Italia, la condanna dell’omicidio è stata a dir poco unanime. E se parla dell’”odio social”, anonimo e fluviale, beh, su che pianeta apparterrebbe solo alla galassia di sinistra e non alla destra? Suvvia! Si evoca un fantomatico clima da ritorno delle Br (!), in un Paese, l’Italia, dove il tasso di omicidi in generale per fortuna non è mai stato così basso (allarmante eccezione all’interno del dato rassicurante: i femminicidi), dove la violenza politica pure, per fortuna, è residuale. E se vogliamo parlare della violenza politica residuale, parliamo dell’aggressione dell’estrema destra alla sede della Cgil per esempio. Parliamo delle frange estreme e dei discorsi d’odio ovunque e da qualunque parte si manifestino, senza generalizzazioni mistificanti! Medio Oriente. Se anche le parole vanno in guerra di Francesca Mannocchi La Stampa, 16 settembre 2025 Attraverso l’uso del linguaggio che disumanizza l’altro, Israele riesce a giustificare le violenze inflitte al popolo palestinese. Ieri il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha pubblicato sui suoi social un video che mostra una torre bombardata nella Striscia di Gaza, e la didascalia: “la torre del terrore al Ghafri si schianta in mare. Stiamo soffocando i focolai di terrorismo”. Il giorno prima aveva pubblicato un video che mostra la distruzione dell’Università Islamica a Gaza City, la cui didascalia recita: eliminare le fonti di incitamento e terrorismo. Mentre l’esercito israeliano si prepara a un’occupazione su vasta scala di Gaza City, intensificando le operazioni nel cuore urbano della Striscia, distruggendo torri residenziali e sedi universitarie che fungevano da rifugio per gli sfollati, emerge con sempre maggiore chiarezza che anche il linguaggio usato dal governo israeliano è un tassello dell’arsenale. Un linguaggio che non si limita, cioè, ad accompagnare l’avanzata militare ma la precede, ne costruisce la narrazione, ne plasma la legittimità e ne previene il dissenso, un linguaggio che è dispositivo della guerra in grado di tradurre un’invasione annunciata in una misura difensiva, e la distruzione sistematica di un’intera città in un’operazione chirurgica di “sicurezza”. Un linguaggio per cui ogni crimine è nascosto dietro la retorica della guerra al terrore. Sempre due giorni fa, sempre il ministro della Difesa Katz, pubblicando il video dell’ennesimo palazzo residenziale disintegrato dalle bombe israeliane, aveva scritto: “House of cards. The skyline of Gaza is changing”. Il profilo urbano di Gaza, ci dice Katz, sta cambiando. Un messaggio (all’opinione pubblica interna e agli alleati) che va oltre la retorica bellica: Gaza non è più una città, ma un obiettivo da demolire, non più spazio urbano abitato, ma materiale da spianare. Quella che Katz chiama “trasformazione” è in realtà l’annientamento di Gaza City e il cambiamento dello “skyline” è la distruzione della sua identità. “House of cards. The skyline of Gaza is changing” è una frase che sintetizza la brutalità della strategia militare, un lessico che non è un sottoprodotto della violenza, una sua conseguenza, al contrario è essa stessa azione bellica, non accidentale ma sofisticata, pervasiva. Precede l’attacco, lo legittima e lo spettacolarizza. Chi controlla le parole, controlla la realtà percepita, lo sa bene Netanyahu come lo sapevano i suoi predecessori. Negli anni, ma con particolare spudoratezza negli ultimi 23 mesi, la politica israeliana - guidata da Benjamin Netanyahu e sostenuta da alcune delle frange più estreme del suo governo - ha operato una sistematica manipolazione linguistica con un obiettivo preciso: piegare il linguaggio per giustificare atti di occupazione, di repressione e sfollamento. Questo uso strategico della parola, che non è neutro, rappresenta una forma sofisticata di violenza simbolica: serve cioè a ridefinire la realtà in termini accettabili per l’opinione pubblica interna ed esterna, dissimulando la portata morale e giuridica delle azioni compiute e - nel caso dell’offensiva a Gaza - cercando di mascherare i veri obiettivi della guerra, non liberare la Striscia da Hamas, ma occuparla militarmente e sfollare forzatamente i palestinesi che la abitano. È sullo slittamento tra parole e realtà che si gioca da anni la legittimazione della condotta di Israele, uno slittamento che ha paralizzato la comunità internazionale, incapace troppo a lungo di trovare il coraggio per smascherare un inganno. Nella narrazione israeliana dominante, da decenni, i territori palestinesi occupati sono territori “contesi”, così da delegittimare lo status giuridico dell’occupazione, le barriere di separazione sono “muri di sicurezza” per i cittadini israeliani, la detenzione senza processo diventa “arresto amministrativo” per rendere l’abuso un tecnicismo, le aggressioni dei coloni diventano incidenti per rimuovere la disparità di potere, celare la violenza unilaterale e creare l’impressione di una simmetria che, però, non esiste. La parola uccidere viene sostituita da “neutralizzare”, per disumanizzare l’avversario e rendere accettabile, persino neutro, l’uso della forza. Per decenni questa torsione del linguaggio ha reso accettabile l’inaccettabile, trasformando la segregazione, l’annessione, gli abusi e l’uso sproporzionato della forza in necessità. Oggi Netanyahu, che si rivolge a due pubblici diversi - quello interno, sempre più radicalizzato, e quello internazionale, sempre più scettico - modula la sua retorica in modo bifronte. Parla internamente di “diritto storico” di “conquista biblica” mentre all’esterno, ripete gli slogan della “lotta al terrorismo”, della “legittima difesa”. Ma entrambi i registri hanno lo stesso obiettivo: normalizzare l’eccezione, rendere dicibile l’indicibile e far apparire inevitabile ciò che è, in realtà, una scelta politica precisa: il controllo permanente di Gaza, la cancellazione della prospettiva di uno Stato palestinese, l’annientamento dell’autodeterminazione. Le parole definiscono ciò che è normale, ciò che è deviante, ciò che è accettabile, ed è soprattutto in tempi di crisi che il potere accentua il controllo discorsivo, che non si limita a bombardare ma costruisce prima l’idea che ciò che sta bombardando sia il male assoluto. Così e solo così il campo semantico si può restringere (e con lui la morale), chi muore non è più un bambino ma un danno collaterale, chi fugge non più un profugo ma un potenziale scudo umano. Michel Foucault, filosofo della genealogia del sapere e del potere, ci ha insegnato che non c’è verità innocente, che ogni discorso è l’effetto di una relazione di potere, e che ciò che chiamiamo realtà è, spesso, una costruzione linguistica. Questo vale anche - forse soprattutto - in tempo di guerra. Quando Netanyahu o i portavoce dell’Idf parlano di “zona umanitaria” per riferirsi a un’area bombardata e poi destinata a ricevere migliaia di civili sfollati, stanno manipolando il linguaggio: non è una zona umanitaria, è una zona di deportazione forzata, spesso non sicura. Quando si parla di “migrazione volontaria” da Gaza, si omette deliberatamente che i civili vengono indotti con la minaccia della morte a lasciare le proprie case. Quando si definisce ogni struttura ospedaliera come “centro operativo terroristico”, si disumanizza la funzione medica per legittimare il bombardamento. In questa cornice, Gaza City è stata recentemente descritta come un “rifugio di terroristi”. In realtà, è una città con oltre mezzo milione di abitanti, molti dei quali civili, donne, bambini. Definirla solo come un “nido di Hamas” serve a costruire una narrazione in cui ogni colpo sparato è giustificato. È la teoria foucaultiana del potere: si tratta di produrre una verità, una verità che autorizzi l’abuso, che neutralizzi il dissenso e che, venendo ai nostri giorni, trasformi una campagna militare in una missione moralmente legittima. Il linguaggio del potere agisce così: costruendo categorie morali, creando gerarchie di umanità, e distinguendo tra chi può essere ucciso e chi va protetto. È questo il cuore del potere discorsivo. E non metterlo in discussione significa esserne complici. “L’Iran ha paura delle donne, qualsiasi intesa col regime è contro il popolo” di Francesca Paci La Stampa, 16 settembre 2025 Intervista alla premio Nobel per la Pace Narghes Mohammadi a tre anni dalla morte di Mahsa Amini: “La sfida delle ragazze a capo scoperto Gaza? La Repubblica islamica utilizza le tensioni internazionali e le guerre regionali per reprimere ancora di più”. Quando il 16 settembre di tre anni fa il mondo scopriva che la ventitreenne iraniana Mahsa Jina Amini era morta dopo tre giorni di coma per le percosse della polizia religiosa accanitasi su una ciocca sfuggita al chador, pareva che sarebbe finita nel silenzio, l’ennesima vittima inghiottita dal gorgo cieco della teocrazia sciita. Non è andata così, decine di migliaia di donne e di uomini hanno riempito le strade al grido di “donna, vita, libertà” sfidando, con i pasdaran, il sistema dell’apartheid di genere. La paladina dei diritti Narghes Mohammadi era in carcere quel giorno, lo stesso carcere di Evin dove l’anno successivo avrebbe saputo di essere stata insignita del Nobel per la Pace. “Le donne iraniane non si fermano” dice al telefono dalla casa in cui vive in attesa che la arrestino e da cui oggi parlerà in videoconferenza alla sala stampa della Camera dei deputati. Dopo mesi di entusiasmo globale, la lotta delle donne iraniane e degli uomini al loro fianco è uscita di scena, scalzata via dall’Ucraina e da Gaza. A che punto è il percorso cominciato allora? “Da tre anni, da quando ha lanciato il grande e significativo movimento “donna vita libertà”, il popolo iraniano continua nella sua battaglia per i diritti fondamentali dell’essere umano: non si è mai fermato. Uno dei risultati di questa determinazione popolare è che la Repubblica islamica si trova oggi in una situazione di isolamento, tanto sul piano regionale quanto globale. E anche all’interno, la forza delle donne ha messo in scacco il regime che affronta ora una massiccia perdita di legittimità”. Girano video che mostrano ragazze senza velo, come se, non potendo arrestarle tutte, la polizia religiosa si fosse arresa al cambio di stagione. È così? Oppure è solo un dettaglio del quadro più grande dove per le poche che sfuggono ai controlli ce ne sono troppe picchiate, incarcerate? “La legge sull’obbligatorietà del velo non è stata abolita. Tuttavia, la resistenza delle iraniane l’ha disinnescata. La stretta prevista per le ribelli, voluta dal Parlamento, era stata inviata al Consiglio di Sicurezza Nazionale per l’approvazione ma non è andata avanti. Ciò non vuol dire che la Repubblica islamica abbia cambiato idea, ma, di fronte al mutamento sociale avvenuto, si è dovuta fermare. Continua invece la repressione delle forze di sicurezza e della polizia morale che in molte parti del paese attaccano le donne a capo scoperto e multano o chiudono i locali che le accolgono. Eppure, nelle strade delle città maggiori come Teheran, dove il regime non ha più la forza necessaria a contenere le donne, la presenza di quelle senza velo è imponente”. L’emancipazione delle donne passa per una metamorfosi politica della società ma anche culturale. Gli ayatollah hanno provato di non essere pronti: lo sono invece i padri e i fratelli o lo sono solo quelli più ricchi e alfabetizzati? “Credo che il movimento “donna vita libertà” sia filtrato in modo capillare dentro la società iraniana e che a distanza di tre anni gli uomini abbiano una sensibilità maggiore nei confronti di mogli, figlie e sorelle. Prima una parte dei più religiosi ostacolava le donne della famiglia che non volevano portare velo, oggi capita spesso che le accompagnino quando decidono di avvalersi del diritto di scegliere il proprio abbigliamento. Il movimento non ha solo cambiato il rapporto con la politica ma ha ribaltato strati sociali fino ad ora impenetrabili”. Amnesty International e Human Rights Watch denunciano un inasprimento della repressione dopo le ostilità con Israele ai danni di dissidenti, giornalisti, minoranze etniche e religiose. Cosa sta succendendo dentro il paese? “In seguito alla cosiddetta guerra dei 12 giorni, la situazione dei diritti umani si è aggravata ulteriormente. Il numero delle esecuzioni capitali è lievitato e ogni giorno in diversi carceri vengono impiccati uomini e donne. Giungono notizie molto preoccupanti da parecchie città, dove le persone, in particolare i più giovani, vengono arrestate senza alcun rispetto per le leggi vigenti. Molti sono finiti in cella semplicemente per aver condiviso foto e video delle contraerei e degli attacchi missilistici o addirittura per aver diffuso le immagini delle città vuote durante la guerra”. Come hanno vissuto gli iraniani i raid israeliani e come li hanno vissute le sue compagne di cella a Evin? “Dopo il bombardamento israeliano di Evin, i prigionieri sono stati trasferiti altrove in modo molto violento, mani e piedi legati, attraverso macerie e cadaveri, con i cecchini che li seguivano dall’alto. Sono stati caricati in auto e portati in alcuni penitenziari vicino Tehran, come Fasciafuieh, dove le condizioni sono disumane. Qualche giorno fa i detenuti politici sono stati riportati a Evin, ma le donne si trovano ancora a Qarchak. Sono stata rinchiusa in quel carcere due volte, 3 e 4 anni fa: la situazione è intollerabile e so che di recente è addirittura peggiorata rispetto a Evin. Ho appena saputo che un gruppo di secondini ha fatto irruzione nella sezione delle prigioniere politiche incontrando forte resistenza, sono molto preoccupata”. Come impatta sul regime iraniano il contesto internazionale, dalla guerra di Putin a quella di Netanyahu fino all’America di Trump? “La Repubblica islamica utilizza la situazione internazionale e le guerre regionali per la repressione nei confronti del popolo iraniano, sbandierando la sicurezza nazionale spinge così per accrescere il suo dominio sulla società”. Crede che la ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano possa portare qualcosa di buono agli iraniani o finirà, come già successo, per rafforzare il regime che Shirin Ebadi giudica irriformabile? “Qualsiasi accordo o negoziato con la Repubblica islamica che non garantisca i diritti fondamentali degli iraniani, a partire da quello di decidere del proprio destino, danneggia il popolo e incoraggia la dittatura religiosa. L’esperienza degli ultimi 47 anni dimostra che i negoziati tra il regime e i governi o gli organismi come le Nazioni Unite non hanno mai avuto esito positivo per il popolo iraniano e anzi si sono tenuti senza alcuna attenzione ai diritti fondamentali degli iraniani. Con il risultato che la Repubblica islamica ne ha approfittato”.