6.942 detenuti in più da quando c’è il governo Meloni di David Allegranti La Nazione, 15 settembre 2025 Nelle carceri italiane c’erano, al 31 agosto 2025, secondo le statistiche più aggiornate del ministero della Giustizia, 63.167 detenuti, per una capienza regolamentare di 51.274 posti, ai quali però vanno sottratti anche quelli inagibili. Il tasso di sovraffollamento è del 135,5 per cento. La crescita della popolazione detenuta nell’ultimo anno è ormai di 1.409 unità. Ci sono 6.942 persone detenute in più da quando è entrato in carica il governo Meloni, nell’ottobre del 2022. Quando passiamo vicino a una prigione, pensiamoci: lì ci sono persone come noi di Ferruccio Sansa Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2025 Li chiamiamo “detenuti”. Non persone. Questo riflette il sentimento della nostra società verso uomini e donne che vivono dietro le sbarre. La responsabilità è anche della politica che usa espressioni disumane: “Chiudiamoli in cella e buttiamo le chiavi”. Così le nostre carceri sono divenute luogo di disperazione: il tasso di suicidi è 30 volte superiore a chi vive in libertà. Per non dimenticare l’uso di droghe e psicofarmaci che raggiunge il 75% delle persone recluse. Negli anni ho visitato centinaia di volte le carceri. Mi ha cambiato la vita. Qui non voglio negare le responsabilità di chi è condannato. Ma è nostro dovere offrire la possibilità di rieducazione. Quindi spazi decorosi, diritto alla socialità e all’affettività, allo studio. Alla salute. A pensare a un futuro. Lo dico per loro, perché sentire che la propria vita si consuma nel nulla è insostenibile. Lo dico anche per noi. La sicurezza si costruisce così: il tasso di recidiva si riduce del 90% se i detenuti sono trattati in modo umano. Quando passiamo vicino a una prigione, pensiamoci: lì ci sono persone come noi. Oltre alla libertà, li priviamo della speranza. Dentro il carcere si muore e quel carcere non rieduca di Marcello Buttazzo Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2025 Nelle carceri italiane, sovraffollate fino all’inverosimile, si continua a morire. Domenica 7 agosto, all’alba, a Firenze, nel carcere di Sollicciano, s’è impiccata nella sua cella una donna rumena di 26 anni. Dall’inizio dell’anno sono 61 i detenuti che si sono tolti la vita nelle celle di dura ferraglia. La politica attiva, che ritorna dalle vacanze, dovrebbe essere più accorta e più solerte nell’affrontare finalmente in modo pragmatico e umano una situazione gravemente emergenziale. In particolare, ha il dovere morale di adottare qualche misura praticabile e razionale per tentare di decongestionare le invivibili e irrespirabili prigioni nostrane, non restando indifferenti alle sollecitazioni e alle doglianze non solo delle associazioni “Nessuno tocchi Caino”, “Antigone” e “Ristretti Orizzonti”, ma anche dei sindacati di Polizia penitenziaria. Da tempo, Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, lamenta le condizioni assurde del carcere di Sollicciano, uno dei peggiori d’Italia, con sovraffollamento pari al 158%. Nelle prigioni del Belpaese, i detenuti (e i detenenti) attraversano un tempo disumano. Ciò è ammissibile in un Paese civile? I crimini in carcere vanno valutati diversamente di Leo Beneduci* Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2025 Chi comanda davvero nelle carceri? Verrebbe da rispondere che è lo Stato, ma da tempo non è più così. Le carceri, in Italia, non sono più soltanto luoghi di custodia cautelare o di esecuzione della pena. Sono un mondo a parte, un territorio ad altissima densità criminale, dove proprio lo Stato e chi lo rappresenta hanno perso autorevolezza. Dietro le sbarre si spacciano sostanze, si aggredisce, si estorce, si violenta, si ricatta. E ciò che rende tutto più grave è che, assai spesso, chi commette questi reati resta nella fortezza blindata delle sezioni detentive, persino accanto alla persona offesa. Quando un detenuto spara a un altro come è successo a Frosinone, oppure spaccia droga, aggredisce agenti o commette violenza sessuale come accaduto a Prato, non ci sono reazioni immediate. Il detenuto può restare nella sua “comfort zone” e il boss della sezione può continuare a taglieggiare gli altri detenuti. Se la vittima è un altro detenuto, spesso neanche sporge denuncia, per paura e per la consapevolezza che il sistema non è in grado di tutelarlo. Se la persona offesa è un agente deve ingoiare il boccone amaro, perché l’amministrazione tende a minimizzare e, in alcuni casi, a perseguirlo disciplinarmente per non aver saputo “gestire” l’evento. Sono paradossi che generano un circolo vizioso: l’impunità alimenta la violenza, la violenza erode l’autorevolezza dello Stato. La situazione è sotto gli occhi di tutti. Le sostanze stupefacenti entrano con facilità, insieme a telefonini e armi prodotte artigianalmente, mediante droni o complicità interne. Le estorsioni ai familiari dei detenuti rivelano un sistema parallelo di potere che si estende oltre le mura. Negli istituti penitenziari c’è il racket dei posti di lavoro e delle celle. Gli agenti subiscono aggressioni e minacce. Il personale della Polizia Penitenziaria lavora in condizioni estreme. Non ha le stesse opzioni della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri che possono intervenire con armi, cani antidroga e reparti antisommossa. Nei penitenziari non si può agire allo stesso modo. Dopo ogni denuncia, l’agente deve continuare a operare accanto agli stessi soggetti denunciati che dovrebbero essere trasferiti in sezioni a massima sicurezza penitenziaria. Ma è lo stesso crimine ad essere valutato diversamente. Se un carabiniere viene aggredito in una piazza cittadina, l’autore viene arrestato e separato dalla vittima. In carcere, no. Le procure ordinarie non trattano i reati dietro le sbarre con la stessa urgenza. I magistrati spesso non percepiscono la gravità del contesto. Si parla di centinaia se non migliaia di fascicoli giacenti. Eppure, il carcere è un ambiente ad altissimo rischio criminale, dove ogni episodio ha ripercussioni amplificate e il personale di Polizia Penitenziaria è esposto, isolato, ignorato. Assimilato più a carnefici che a vittime, mentre la catena di comando amministrativa è inconsistente. Esiste la magistratura di sorveglianza, del tutto insufficiente dal punto di vista organico. A tale magistratura competono solo il controllo sull’esecuzione penale e sulle misure alternative, mentre la giurisdizione sui reati commessi in carcere permane in capo alla magistratura ordinaria. Due le conseguenti valutazioni: i reati commessi in carcere non sono l’inevitabile risultato della detenzione e possono determinare effetti ben peggiori di quelli esterni; per affrontare pienamente il problema occorre avere una approfondita conoscenza del contesto e la possibilità di intervenirvi celermente. Non costituisce un mero intento repressivo auspicare che i reati in carcere pesino di più. Chi aggredisce un agente o devasta celle e sezioni deve affrontare aggravanti specifiche. La devastazione di una struttura penitenziaria è un attacco diretto allo Stato. Lo spaccio dietro le sbarre viola non solo la legge, ma l’ordine costituito e la legittima aspirazione della maggioranza dei detenuti di scontare il proprio debito e di rientrare nella società civile. Servono pene più severe e l’esclusione automatica dai benefici penitenziari. Negli Stati Uniti, le procure federali agiscono con rigore. Le pene per i reati in carcere sono aggravate automaticamente. Nel Regno Unito esistono aggravanti specifiche per i crimini in prigione. Serve una riforma che tuteli chi lavora in carcere e chi ci vive onestamente. Lo Stato deve tornare ad essere autorevole anche dietro le sbarre ed è necessario istituire specifiche sezioni presso le procure della repubblica, composte da magistrati esperti delle dinamiche carcerarie e che agiscano in coordinamento con la magistratura di sorveglianza per la decadenza immediata dai benefici e l’inserimento dei soggetti peggiori in circuiti di massima sicurezza detentiva. Il carcere deve tornare ad essere un luogo di giustizia, non di sopraffazione. Il tempo delle mezze misure è finito. Dietro le sbarre non possono comandare i criminali: deve essere rispettata la legge e tutelata la collettività. *Segretario sindacato Polizia penitenziaria Zuncheddu e il risarcimento bloccato dalla burocrazia di Lorenzo Mottola Libero, 15 settembre 2025 Da quasi due anni Beniamino Zuncheddu è tornato un uomo libero. Non è bastata, però, la prova della sua innocenza, dopo oltre tre decenni trascorsi ingiustamente in carcere, accusato di tre omicidi che il pastore sardo non ha commesso, per far scattare un reale senso di colpa nello Stato “colpevole” - lui sì - di aver tenuto in cella un uomo dai 27 ai 60 anni d’età senza ragione. Il risarcimento ancora non si vede nemmeno all’orizzonte. A bloccarlo, per un tempo ad oggi ancora indeterminato, pare siano imprecisate lungaggini burocratiche. “Nel 1991 mi hanno preso e non mi hanno più riportato a casa. Così durante tutto il tempo trascorso ho perso tutto. In 33 anni ho perso tutto. Non ho più niente e sto vivendo sulle spalle di dei miei familiari”. Questa l’allarmante denuncia che il pastore ha reso ieri ai microfoni del Tg5. A poche ore dalla liberazione, all’inizio del 2024, l’ex detenuto, intervistato da Libero, usava parole di perdono addirittura verso il superstite della strage, Luigi Pinna, che dopo averlo accusato per decenni, ha ritrattato la testimonianza, divenendo proprio lui l’elemento chiave della scarcerazione di Beniamino. “Per Pinna non provo odio - ci disse Zuncheddu -Anzi provo pena, perché ho capito che anche lui è stato vittima di chi ha voluto che venissi accusato”. A fianco all’ex pastore è rimasto da sempre il Partito Radicale, in particolare attraverso la sua tesoriera, Irene Testa, che è anche garante dei detenuti in Sardegna. “Irene ha rappresentato una cosa immensa che mai mi sarei aspettato” dichiarò ancora Zuncheddu al nostro giornale. “Quello che le ho chiesto è di continuare ad aiutare tutti i detenuti che soffrono come ho sofferto io. Perché le carceri sono luoghi di sofferenza e dolore, sia per i detenuti sia per i familiari. Averla incontrata è stata una grandissima fortuna”. Una missione che proprio Testa e il Partito Radicale hanno davvero preso alla lettera. È infatti possibile sottoscrivere in tutti i comuni d’Italia la proposta di legge di iniziativa popolare intitolata proprio a Beniamino Zuncheddu. “Con la nostra proposta - ha spiegato Irene Testa - chiediamo che si arrivi sia a una accelerazione per poter ottenere i risarcimenti dei danni subiti da chi ha patito una ingiusta condanna, ma soprattutto che ci sia una provvisionale economica a favore delle vittime di un sistema di giustizia che non ha funzionato” ha concluso l’esponente radicale. Il referendum della verità: lasciare il potere ai pm o ridarlo al Parlamento? di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2025 Nel 2011, certo, in Italia si è votato per l’acqua come bene comune. Un referendum abrogativo, il solo che abbia raggiunto il quorum negli ultimi trent’anni. Ma il voto sulla separazione delle carriere sarà un’altra cosa. Sarà uno scontro di civiltà, a suo modo. Un conflitto fra diverse visioni della democrazia. Una conta finale sulle istituzioni della Repubblica assai più di quanto non lo sia stato il referendum Renzi di nove anni fa. È un aspetto da non sottovalutare. Soprattutto perché il pronunciamento degli elettori sulla legge Nordio sarà il momento della verità dopo 33 anni di equivoci sul primato fra poteri. Dal 1993, da Mani pulite, la sovranità sarà anche rimasta formalmente attribuita al popolo, ma è difficile dissentire da chi, come il professor Tullio Padovani ironizza e definisce l’Italia una Repubblica fondata sull’esercizio dell’azione penale in cui, a ben guardare, la sovranità appartiene ai pubblici ministeri. È un’iperbole, che racconta molte cose. Sublima lo sbilanciamento fra politica e magistratura derivato dalla fine della Prima Repubblica. E di qui a pochi mesi, dopo 33 anni, di fatto gli italiani saranno chiamati a dire se per loro va ancora bene così. Se sono convinti di lasciare la politica subordinata alla magistratura. O se invece preferiscono tornare al disegno originario della Costituzione. Non c’era bisogno della riforma sulle carriere di giudici e pm, in realtà, per affermare che, nella visione dei Costituenti, il primato del legislativo era indiscutibile. Certo, poi proprio l’uragano di Mani pulite provocò un effetto collaterale che ha scalfito l’impalcatura della Repubblica: la modifica dell’articolo 68, l’eliminazione della “vera” autorizzazione a procedere, dell’immunità parlamentare così com’era stata concepita dopo il fascismo. Non c’era mai stata, da allora, una chiamata alle urne paragonabile a questa. Mai. Potremmo definirlo il referendum della verità. Chiarirà se gli italiani sono ancora convinti che serva un controllore potentissimo, per tenere in piedi il nostro sistema democratico. Se deve restare così potente, quel controllore - il pubblico ministero -, da poter controllare persino la carriera di colui, il giudice, dinanzi al quale dovrebbe essere una semplice parte, al pari della difesa. Vediamo se gli italiani vogliono mantenere un assetto del genere. Vediamo se preferiscono tenere ancora in vita un sistema in cui la magistratura requirente ha, nei confronti della politica, dei partiti politici, una postura da implacabile giustiziere, da censore che garantisce la repressione di un altro potere intrinsecamente inaffidabile, naturalmente portato al malaffare: i politici, appunto. Sappiamo bene che a decidere l’esito del voto sulle carriere separate sarà probabilmente il prevalere di un odio anticasta sull’altro. È indiscutibile che, se nelle urne di primavera vincesse il Sì alla riforma Nordio, si dovrà attribuirne buona parte del “merito” alla diffidenza che nel frattempo il caso Palamara ha suscitato, negli elettori, anche nei confronti della magistratura. Fino a rendere tale disprezzo almeno pari a quello avvertito nei confronti della casta principale, cioè della politica. Magari a decidere sarà semplicemente questo. E poi sappiamo bene un’altra cosa: che il centrosinistra, in particolare, tenderà, più o meno volontariamente, a invocare il No alle carriere separate come voto antigovernativo, come plebiscito anti Meloni. Il che vuol dire anche che l’eventuale vittoria del Sì potrà banalmente spiegarsi con la perdurante prevalenza dell’elettorato di centrodestra sull’altro schieramento. Ma ci piace pensare che stavolta accadrà qualcosa di diverso da quanto avvenne nel 2016 con il referendum fatale a Matteo Renzi. Allora davvero la trasversale ostilità all’ex premier fu determinante nella bocciatura di una riforma costituzionale assai meno connotata, sul piano del colore politico, di quanto Renzi non avesse, per sua sventura, voluto far credere. Il referendum sulla separazione delle carriere è invece, assai più di quanto avvenne nove anni fa, una consultazione sui valori, sui princìpi. In gioco c’è, come detto all’inizio, il ritorno alla sovranità della politica sulla magistratura, su un ordine che dovrebbe pur sempre essere costituito da alti funzionari dello Stato anziché da salvatori della patria. Chi dà per scontata la vittoria del Sì sottovaluta forse che, dopo il 1993, la fiducia degli italiani nel Parlamento e nell’impianto costituzionale è andata a picco. Se il voto sul ddl Nordio rivelasse che qualcosa è cambiato, saremmo di fronte a una svolta epocale. Sarebbe forse il vero inizio di una nuova Repubblica. Ma ecco, è un esito così clamoroso che sarebbe da ingenui considerarlo già acquisito. La riforma che divide l’Italia di Giorgio Spangher Il Dubbio, 15 settembre 2025 La legge di riforma costituzionale dell’Ordinamento giudiziario si avvia ad affrontare la seconda fase di deliberazione che, pur approvata, richiederà per la sua entrata in vigore il passaggio referendario. In questa prospettiva, i due “campi” che si contrappongono - dato che l’esito, pur ritenuto favorevole ai riformatori, non può ritenersi scontato - si organizzano sia mediaticamente (attraverso il ricorso anche a società ed esperti di comunicazione), sia strutturalmente (attivando i comitati destinati a supportare il confronto pubblico), sia politicamente (cercando i necessari supporti nei diversi punti di riferimento: partiti, corpi intermedi, organi di informazione). Altresì si sviluppano argomentazioni che se da un lato mettono in luce aspetti patologici del rapporto fra giudice e pm destinati a suggestionare l’opinione pubblica, dall’altro agitano i rischi della riforma nella prospettiva di ricadute negative sulle garanzie processuali. Parimenti si mettono in campo personaggi e persone, sia del passato sia del presente, di una certa autorevolezza e percezione di credibilità per supportare le contrapposte opinioni. Il referendum, o meglio, il suo oggetto, è un prodotto che come tale va venduto e comprato. Nella possibile prospettiva di un ragionamento - frigido pacatoque animo - ancorché anch’esso confutabile, si impongono due domande: perché una riforma dell’ordinamento giudiziario; perché una riforma della Costituzione. Sul primo punto, sul quale si ritornerà anche in seguito, va sottolineato come questa non sia la riforma del processo penale, ma una riforma dell’ordinamento giudiziario. Il suo cuore è la riforma del Csm. Resta infatti inalterato l’art. 112 Cost. (obbligatorietà dell’azione penale) e la modifica dell’art. 104 Cost. rafforza le garanzie per i pm. La necessità della riforma dell’ordinamento giudiziario incardinato nel Csm è determinata dal fatto che l’ordinamento giudiziario è sostanzialmente quello del 1941 (riforma Grandi-Mussolini), confluito nella Costituzione del 1948 e operativo dal 1956. Mentre corrispondeva al sistema processuale sostanziale e probatorio penale (1930), ma anche sostanziale e processuale civile (1942) nonché minorile (1934) e penitenziario (1931), quel sistema non è più attuale. Nella visione di Grandi, fautore dell’unità della giurisdizione, pm e giudici rappresentavano solo una articolazione interna della magistratura. Sintomatica la presenza del processo pretorile. Il dato trova preciso riscontro nelle norme costituzionali che fanno riferimento al concetto di autorità giudiziaria (cioè identità fra giudici e pm) come negli artt. 13 e 15 Cost. nonché nel concetto di carcerazione preventiva (ancora art. 13 Cost.). Il concetto di autorità giudiziaria presente in Costituzione è strutturato nel Csm, dove pm e giudici ne condividono l’essenza. Il dato è alla base del fallimento della riforma del processo penale del 1988, dove veniva introdotto il modello accusatorio in contrasto con quella rappresentazione che costituiva l’essenza del modello inquisitorio. All’entrata in vigore della riforma del 1988 la dottrina (vedi l’intervista del Financial Times di Vassalli) ne evidenziava l’incongruenza, i rischi, l’incompatibilità. “Questa palese anomalia”, insieme alla legislazione di emergenza nata per fronteggiare i reati di criminalità organizzata e terroristica, ha provocato una involuzione del modello processuale fino ad arrivare alla riforma Cartabia, la quale ha portato la dottrina a parlare di processo a trazione anteriore con tutti i suoi corollari. Per ovviare a ciò era intervenuta la modifica dell’art. 111 Cost. e la previsione espressa di un giudice terzo indipendente e imparziale con l’indicazione di un contraddittorio tra accusa e difesa in condizioni di parità. Sintomatico quanto previsto dall’art. 143 disp.att. c.p.p. relativo alla collocazione delle parti nell’aula di udienza. Invero quella previsione costituzionale non ha mancato di avere conseguenze sulla legge ordinaria e anche su alcune disposizioni costituzionali per effetto di alcune sentenze della Consulta e norme processuali che hanno progressivamente scandito la distanza strutturale tra accusa e difesa e tra accusa e giudice. Si tratta dunque di “recuperare” questa evoluzione costituzionale e ordinaria all’interno dell’organo di governo autonomo della magistratura tenendo conto del diverso ruolo del pm e del giudice, non solo perché il pm è cambiato (Procura nazionale antimafia, procure distrettuali, procura europea, procura generale di Roma), ma perché processualmente il pubblico ministero non è più quello del codice Rocco e neppure il giudice è lo stesso, ma soprattutto perché nell’evoluzione del modello sono ontologicamente, processualmente e funzionalmente diversi e distanti. Senza pretesa di completezza si può ricordare che l’istituto della rimessione riguarda solo il giudice ritenuto inidoneo a giudicare in caso di gravi elementi che turbano lo svolgimento del processo; che solo il giudice può essere ricusato mentre il pubblico ministero ha solo la possibilità di astenersi; che i contrasti fra giudici, qualificati come “conflitti”, sono decisi dalla cassazione (giurisdizione) mentre quelli tra pubblici ministeri, definiti “contrasti”, sono decisi dagli uffici di procura; che il giudice è sempre autonomo e indipendente mentre il pubblico ministero gode di autonomia solo in udienza, che qualora l’imputato eccepisca l’incompetenza del giudice, questa è oggetto di una procedura di controllo da parte della Cassazione, mentre “l’incompetenza” del pubblico ministero è sempre sottoposta al controllo degli uffici di Procura. La netta distinzione strutturale è talmente evidente che in un documento sottoscritto da tutti gli uffici di procura è stato rigettato il modello organizzativo predisposto dal Consiglio Superiore della Magistratura, ricalcato su quello degli uffici giudicanti in quanto si legge che c’è incompatibilità fra le esigenze e le modalità operative degli uffici di procura rispetto a quelle degli uffici giudicanti. Quanto al secondo quesito: perché si è deciso di integrare con una legge costituzionale dopo che per tanti anni si è parlato del problema e si sono prese anche iniziative legislative? La risposta è agevole: perché in Parlamento ora c’è una maggioranza ampia ancorché non sufficiente (vedi referendum) per far approvare la riforma. Sullo sfondo si stagliano alcune situazioni diciamo imbarazzanti per la magistratura che seppur note sono state l’emersione plastica presso l’opinione pubblica e non solo per gli addetti ai lavori di profili di degrado e di malcostume. Perché le iniziative di riforma tentate con la legge ordinaria, anche con il consenso della magistratura (in funzione difensiva) si sono rivelate inadeguate. Il riferimento, tra le altre modifiche, è al sistema elettorale, ai passaggi di funzioni tra pm e giudici, esclusione della delibera a pacchetto, i criteri di verifica dei presupposti per gli incarichi direttivi e per la loro temporaneità, solo per citarne alcuni. Tuttavia tutto ciò non è stato sufficiente, restando le implicazioni della comune appartenenza nell’organo di governo che non può non tener conto, oltre alle possibili patologie dell’attività consiliare, delle differenze strutturali che non consentono omologazioni e commistioni. Invero forte della cornice costituzionale del Consiglio Superiore della Magistratura non modificabile con legge ordinaria, la magistratura ha costruito nel tempo il suo potere dilatando le sue funzioni, complice una politica accondiscendente, ma anche con interpretazioni estensive di funzioni ampliando e sviluppando la sua compenetrazione nella vita pubblica e istituzionale. È evidente che questo ampio potere, come tutti i poteri, va ed è esercitato e, non dovendo essere ridimensionato, va difeso strenuamente. Si spiega così la forte resistenza, addirittura la tenacia ostativa della magistratura associata. La necessaria riforma strutturale del Csm, l’uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri, è stata accompagnata da una modifica dei criteri di nomina dei componenti (pubblici ministeri e giudici) nonché dei criteri di nomina della componente politica e dall’introduzione di un’Alta Corte di disciplina. L’attenzione si è inevitabilmente prospettata rispetto al sorteggio e conseguentemente sulle dinamiche consiliari. A tale proposito allo stato possono soltanto prospettarsi alcuni possibili interrogativi sulle ricadute che sotto questi profili la disciplina potrà avere. Il discorso riguarda, oltre alle implicazioni della suddivisione dei due consigli, le ricadute della legge elettorale che prevede il sorteggio della componente togata. Per la magistratura la riforma sottende il progetto di sottoposizione degli uffici di procura al potere politico (governo o ministro di Giustizia). Bisogna dire con onestà che si tratta di un pericolo agitato come detto in premessa, ma che non ha sinceramente fondamento. A parte le citate previsioni costituzionali, bisogna segnalare che un’operazione di questo tipo ancorché ipotizzabile sotto traccia, sarebbe viziata di illegittimità costituzionale facilmente ostacolata politicamente nel Paese, suscettibile di forti resistenze in sede europea come è successo per altri Stati. Se si ha l’onestà di guardare le vicende domestiche, non può non evidenziarsi soprattutto il ruolo che l’accusa ha esercitato nei confronti del legislatore, ostacolando le riforme non gradite (l’ultimo, il sequestro degli smartphone) e prima le modifiche all’utilizzabilità delle intercettazioni nei procedimenti separati (in contrasto con una decisione delle Sezioni Unite) impedendo le ricadute della contestazione dell’aggravante mafiosa per contrastare una sentenza della Cassazione ritenuta inadeguata a contrastare il fenomeno della criminalità. Ma gli esempi potrebbero essere ancora più numerosi. Invero l’esposizione mediatica dei pubblici ministeri è sotto gli occhi di tutti e non si può non sottolineare la carriera “politica” degli ultimi procuratori nazionali antimafia. Il pericolo come si è detto è piuttosto l’opposto. Deve chiedersi se l’autonomo Csm dei pm non possa determinare un rafforzamento del ruolo del potere dell’accusa, in conseguenza di quello che è stato definito “l’ascensore istituzionale”. L’antidoto a questa evenienza è prefigurato dalla convinzione - forse dall’auspicio - che il giudice separato (tutti i giudici cioè la giurisdizione) recuperi il senso della propria funzione di garante delle regole e dei diritti evitando di confondere il suo ruolo con quello del pubblico ministero. In ogni caso va ribadito che questa non è la riforma del processo penale che dovrà rimodulare il rapporto tra indagine e dibattimento anche alla luce dell’appena citato riequilibrio fra giudici e pubblici ministeri. Resta comunque da considerare che al di là della separazione dei due consigli superiori, la magistratura giudicante e quella requirente, resteranno unitari nell’Anm e che quindi per molti versi alcuni aspetti sottesi alla riforma dipenderanno dagli sviluppi che l’associazione nazionale magistrati e le sue componenti determineranno nelle dinamiche consiliari. *Emerito procedura penale - giurista Isolare i pm, un’utopia senza respiro di Giovanni Maria Flick* Il Dubbio, 15 settembre 2025 Il mio piccolo disagio è rappresentato dal disagio di chi deve concludere ma, evidentemente, non può che concludere con estrema rapidità, per non costringere l’uditorio ad attese immani. Il secondo disagio è che quanti hanno parlato prima, e che io ho avuto la fortuna di ascoltare, sono stati estremamente istruttivi, hanno ampiamente arato il terreno, e rendono inutile quella che si dice una relazione di sintesi. E allora vi dirò, esattamente, cosa penso della separazione delle carriere, nella mia posizione di persona che ha dedicato alla giustizia, nei suoi vari aspetti, tutta la propria vita e la propria esperienza professionale, cominciando dal partecipare a giudicare le persone per passare poi ad occuparsi, come accademico, di come cercare di fare le leggi, da avvocato di come applicarle, vedendone tutti i problemi, passando per una breve tappa ministeriale, come ministro della Giustizia, per poi infine arrivare a quello che era il porto d’approdo migliore, giudice non delle persone ma giudice delle leggi, cioè della conformità alla Costituzione delle leggi che regolano il nostro Paese. Parto dal titolo “Il futuro della Magistratura: questioni costituzionali aperte”. Oggi mi pare che vi siano tre grandi “questioni costituzionali aperte”; la prima è quella del Premierato. È stata chiusa, o meglio, è stata rimessa nel cassetto rapidamente per la certezza che non sarebbe stata praticabile. Dopo aver discusso tanto, a non finire, abbiamo scritto tanto e perso tanto tempo, ci siamo formati una cultura costituzionale tutti. La seconda questione era la autonomia differenziata delle Regioni a Statuto ordinario (autonomia differenziata, autonomia competitiva o autonomia solidale?), ma anche qui vi sono state discussioni a non finire: ci ha pensato la Corte a dichiarare incostituzionale la legge Calderoli e a impedire il referendum per l’abrogazione della legge sull’autonomia differenziata. Il terzo aspetto: è rimasta in piedi soltanto la separazione delle carriere, cioè è rimasto in piedi soltanto l’aspetto più bello, più mitico, più interessante e più inutile che possiamo discutere oggi, di fronte alla crisi della Giustizia. Ditemi voi se uno solo, piccolo, dei mille problemi che accompagnano oggi la Giustizia, il suo dramma e la sua quotidianità, possa trovare soluzione nella separazione delle carriere, che costituirà l’oggetto del referendum costituzionale necessario per far passare questa legge. Ecco, io credo, con tutto il rispetto per tutti gli argomenti che sono stati portati, che la decisione, positiva o negativa, sulla separazione delle carriere, non porterà un minimo beneficio ai grandi problemi della durata del processo, della violazione o del progressivo indebolimento del principio della riserva di legge (che dovrebbe essere il cardine del processo), del discorso della formazione dei giudici e della responsabilità dei giudici. Ecco, non credo che possa aiutare a nessuno dei problemi che dovremo affrontare e il più presto possibile, perché continuiamo ad accumulare problemi e continuiamo a non risolverli, per ciò che attiene ai problemi della Giustizia. E allora a me dispiace questo, perché io mi ero illuso, raccogliendo anche un’indicazione del Presidente della Repubblica, che dovesse maturare un’alleanza tra magistrati e avvocati, tra i due protagonisti operatori della giustizia che gestiscono, difendono, o limitano i diritti della persona, che potesse trovarsi una forma di alleanza, proprio per costringere il legislatore ad assumere le sue responsabilità e ad arrivare alla risoluzione dei problemi della crisi della Giustizia. Non è così. Non è così perché di tutto si parla tranne che dei problemi concreti della Giustizia e quindi rimango per certi versi abbastanza indifferente di fronte a quello che si sta svolgendo sul piano della riforma costituzionale. Scusate la brutalità con cui vi dico le cose, ma credo che sia giusto, quando uno arriva alla mia età, che dica quello che pensa purché pensi quello che dice. E io penso quello che dico, ecco. Perché sono molto perplesso? Perché il tema della separazione delle carriere, come della distinzione dei poteri, è un tema che è da parecchio all’attenzione dell’opinione pubblica e dell’opinione tecnica; è un problema nel quale la separazione dei poteri, a me sembra, è stata travisata, cioè il problema che la Magistratura aveva e che la società pone non è la separazione dei poteri nella Magistratura, ma è la separazione della Magistratura dal potere (che è un’altra cosa). Secondo discorso: il problema della separazione dal potere della Magistratura, cioè della capacità di avere una Magistratura che non partecipi per parti politiche, non prenda nessuna posizione, ma che gestisca il riconoscimento dei diritti, dei doveri, in modo chiaro e semplice, è il vero problema che noi abbiamo di fronte. Ed è un problema che difficilmente verrà risolto dal tema della separazione delle carriere. Tutti siamo d’accordo che l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura sono irrinunciabili. Tutti siamo d’accordo, almeno a parole, che la separazione tra potere giudiziario decisorio e potere istruttorio inquirente non porterà mai a recidere il legame o a non attuare il legame del Pubblico Ministero, una volta isolato, con il potere politico. Perché il vero problema è questo: il vero problema è l’applicazione di un principio che i Romani, nella loro saggezza, dicevano molto brutalmente, “divide et impera”. Si ha a che fare con 10.000, esponenti della Magistratura che in un modo o nell’altro ti danno fastidio? Bene, li si dividono. Metti i Pubblici Ministeri da una parte e metti i Giudici dall’altra! E si avrà a che fare con un blocco di 3.000 persone da un lato, che è certamente più debole del blocco delle altre 7.000 persone dall’altro lato. E si è risolto il “problema” di poter, senza dirlo troppo, attirare il Pubblico Ministero nella sfera dell’Esecutivo. Scusate, io sono preoccupato, e dico subito perché. Voglio dire che noi siamo di fronte a un cambiamento di sistema, di regime, che qualcuno ha tentato di operare anche nell’assetto costituzionale, perché la proposta di quelle tre modifiche costituzionali, premierato forte, autonomia differenziata e separazione delle carriere, era l’idea di trasformare completamente l’assetto del nostro Paese. Le prime due riforme si son perdute per strada o sono state sepolte o sono state messe nel cassetto, sebbene si voglia, ad esempio, riprendere il tema dell’autonomia differenziata. Vedremo, non lo so. Mai e poi mai si dice che si assisterà a un passaggio del Pubblico Ministero sotto l’Esecutivo, perché non l’abbiamo voluto adesso nella Costituzione. Ma la nostra Costituzione, come tutte le Costituzioni, dimostra la sua possibile mutevolezza; e la tentazione, ad esempio, di dire - non domani, non dopodomani, ma fra qualche giorno o fra cinque anni -: “Bene, risolviamo questo problema di questi 3.000 pubblici ministeri che viaggiano da soli senza potere che li controlli, senza appoggio che li aiuti, risolviamo il problema”. Ma voi pensate veramente che possiamo permetterci il lusso di tenere una categoria di 3.000 pm indipendenti da tutti? E non lontani dal potere? Mi pare un’utopia come discorso, abbiate pazienza. E soprattutto mi pare un’utopia perché io ho sempre avuto la sensazione, nelle mie esperienze giudiziarie, che l’arcipelago della Giustizia fosse un po’ come il mare di Tiberiade, un lago sottoposto a frequenti tempeste, un lago dentro il quale io vedo una sorta di rosa dei venti, e cioè l’aspetto delle leggi. Il primo problema, in tal senso, è quello della riserva di legge come garanzia cardine, che si sta notevolmente attenuando, e questo mi preoccupa moltissimo, perché stiamo perdendo il rispetto e il significato della riserva di legge: le leggi dovrebbero nascere in Parlamento, l’ultimo esempio di legge che doveva nascere in Parlamento è la legge sul fine vita; la Corte Costituzionale ha di fatto introdotto una modifica del regime di fine vita, stabilendo la non punibilità dell’aiuto al suicidio, quando vi siano quattro tipi di paletti; se nei tempi tecnici, con cui il Parlamento raccoglie o non raccoglie il suggerimento, la richiesta, la trappola se vogliamo, della Corte Costituzionale che lo invita a legiferare, vuol dire che il principio della riserva di legge si sta attenuando notevolmente. Ciò avviene anche da un altro punto di vista: le leggi diventano sempre meno comprensibili, perché diventano sempre più proposte non già di comportamenti ma in funzione di compromesso, sicché la legge diventa difficilmente interpretabile. E apre la strada a quello che noi tutti conosciamo, cioè al diritto giurisprudenziale di tipo creativo, rispetto al diritto legislativo, che è un diritto destinato a morire. Io dico sempre che, se tornassi a fare il ministro della Giustizia, prescriverei due statue in ogni tribunale: una al diritto vivente e al diritto giurisprudenziale, l’altra al diritto morente che è il diritto legislativo. È inutile che continuiamo a trastullarci con principi fondamentali, quando la realtà è molto più drammatica. E che sia molto più drammatica, ce lo dimostra un’altra cosa, che non è nel titolo del Convegno, ma è nella realtà. Non solo la progressiva attenuazione del principio della riserva di legge, ma anche il progressivo venir meno della legge come strumento privilegiato per formulare delle regole che servono per attuare i principi costituzionali. Noi ormai abbiamo un sistema nel quale impera il principio della cosiddetta legislazione d’urgenza, cioè il decreto-legge con riserva di conversione. E vorrei non azzardare le cose, quando penso e sono preoccupato, che il futuro, se andiamo avanti di questo passo, sarà sempre più un futuro o di leggi delegate dal carattere generalissimo, nonostante quello che avesse tentato di dire anche con fatica la Corte Costituzionale, o di decreti legge, che poi vengono convertiti, anche perché nella legge di conversione, come si fa attaccando un carro merci al Frecciarossa, si attaccano tutte le cose che non c’entrano nulla con il contenuto del decreto, ma che occorre far passare. Questa è la realtà. In tutto questo, si inserisce un’ulteriore problematica: dal processo per repressione di un reato si è pervenuti al processo di prevenzione per adozione di una misura di prevenzione rispetto a un mero pericolo. In buona sostanza stiamo ripercorrendo la stessa vicenda che abbiamo percorso con Mani Pulite. Siamo riusciti, dopo trent’anni di fatica, a trovare un certo equilibrio nel confronto con la criminalità organizzata, affrontando, da un lato, “Nerolandia”, cioè tutto quanto non sufficientemente disciplinato. E si è fatto qualcosa, abbastanza sul piano del Diritto penale finanziario, non troppo ma abbastanza. Accanto a ciò, abbiamo affrontato l’altro aspetto della criminalità nella crisi degli anni ‘90-’92, cioè il proliferare della criminalità organizzata a livelli pazzeschi, che ha portato, come diceva Sciascia, il livello della palma al livello della corruzione, cioè a farlo salire progressivamente. Perché ormai la palma, la corruzione, sta al Nord esattamente come la criminalità organizzata. Ma la terza cosa che era rimasta, invece, in piedi, era il problema di Tangentopoli: la corruzione e il malgoverno nella gestione del denaro pubblico. E il legislatore cosa ha fatto? Ha trasformato un processo di repressione in un processo di prevenzione, cioè, invece di celebrare processi di accertamento di reato (accerto un reato, verifico di chi è la responsabilità, controllo che vi siano prove e non soltanto indizi, e affermo la responsabilità di una persona o di più persone per quel reato) si passa all’affermazione di un paradigma precauzionale in nome della pericolosità sociale. Quella che un tempo veniva usata soprattutto, se non soltanto, come misura di prevenzione per i soggetti pericolosi per criminalità di mafia, adesso è diventato un parametro molto più ampio, di uso trasversale. Io ho l’impressione che quello che noi vediamo come futuro del processo penale, in realtà diventerà il futuro del procedimento di prevenzione nel quale non si lavora più e non si decide più sulla base della prova del fatto di reato, ma si lavora sulla base dell’indizio della pericolosità dell’attività di una impresa o del comportamento di una persona. E questo mi pare molto preoccupante. Pare molto preoccupante anche perché i protagonisti di questa nuova evoluzione del Diritto penale, che non è più Diritto penale del processo, non è più Diritto penale del fatto, ma è Diritto penale del fenomeno criminale (cioè si guarda non tanto al singolo fatto di reato o alla somma di reati che si mettono insieme - vedi maxiprocesso -, non si guarda alla pericolosità del fatto, ma alla pericolosità del fenomeno criminale come tale). Ed è lo schema con cui molti Pubblici Ministeri in questo momento lavorano. Uno schema che, tra l’altro, mi fa pensare, con un po’ di preoccupazione, all’idea che, la separazione delle carriere porti i Pubblici Ministeri a creare delle piccole isole di potere, che moltiplicheranno le situazioni di enfatizzazione o di ricerca. Anche perché la motivazione con cui queste cose vengono fatte è una motivazione molto bella: abbiamo costretto l’imprenditore di lusso ad assumere un sacco di persone. Abbiamo costretto l’imprenditore di lusso a pagare danaro che altrimenti non avrebbe pagato e che ha pagato spontaneamente in una situazione di questo genere. Ecco il quadro un po’ provocatorio che volevo darvi, perché ci rendiamo conto che cambia profondamente il sistema penale. O meglio, il sistema di controllo sociale (e lo vediamo attraverso quegli esempi che vi ho citato). Ho cercato, insomma, di concludere il discorso in tre momenti: primo, muovendo dalle tre ipotesi di cambiamento sistemico istituzionale del Paese (premierato, autonomia differenziata e riforma della giustizia), è emersa soltanto l’ultima, la riforma della giustizia. Ed è emerso che non si vuole affrontare le vere crisi che la Giustizia ha, e che tutti sentiamo e che i magistrati conoscono a menadito. Io dico che questo discorso può essere, non dico superato, ma essere messo in cantiere solo se riusciamo a ricreare una coesione tra magistrati e avvocati, perché la politica, che finora ha perseguito una via di disinteresse reale ai problemi della giustizia, se non di fronte a certi episodi enfatici, di penalizzazione, dovrebbe rispondere a quelle che sono le carenze che costringono, pressoché tutti i giorni, i magistrati a dare un’interpretazione creativa di una legge che ormai è desueta e superata e gli avvocati a combattere contro le incertezze di questo discorso. Guardate, non l’ho detto io questo: lo diceva già Cossiga e lo diceva anche Mattarella nei primi interventi del suo (primo) mandato. Il rapporto tra quello che disse nel primo discorso di insediamento e nel secondo discorso conferma dieci anni dopo la validità di quelle osservazioni. Il primo riferimento di Mattarella da Presidente della Repubblica alla Magistratura e alla Giustizia fu l’elogio di una Magistratura che aveva testimoniato, con i suoi protagonisti, una lotta alla criminalità organizzata, veramente degna di miglior apprezzamento e di migliore approvazione. Nella seconda occasione di confronto che Mattarella ha avuto, al discorso di insediamento, con la Magistratura, ha dedicato un quarto del tempo che aveva usato nel primo discorso per elogiare la Magistratura e ha ricordato che occorreva recuperare quel credito, quel patrimonio di fiducia che la magistratura aveva e che ora non ha più. Ecco, credo che dovremmo metterci di fronte a questo problema, per capire quanto sia necessario guardare al futuro tenendo conto che il quadro che ci era stato disegnato non si sta verificando. Che l’unica cosa che si vuole realizzare è la - invero abbastanza inutile - istituzione di due Consigli Superiori della Magistratura, uno per 7.000 persone uno per 3.000, e di una Corte Disciplinare che giudichi gli operatori della giustizia. Ecco, io non so se possa essere questo il futuro della giustizia, il futuro della risoluzione dei problemi della giustizia. E allora, quando penso, appunto, al lago di Tiberiade, penso che le tempeste sul lago coinvolgano tutti i punti salienti della realtà della giustizia. In primo luogo, la legge e la riserva di legge. In secondo luogo, il giusto processo, che sta perdendo le sue cartucce, le sue risorse, perché il processo, in questo momento, rischia di diventare ingestibile, in particolare il processo penale, il processo sul reato, dal momento che rischia di diventare dominante il processo di prevenzione che non punisce il reato, ma che colpisce il sospetto e impedisce che il sospetto diventi reato (per esempio, siamo ora alle prese con la riforma del Diritto penale dell’impresa, con la responsabilità penale dell’impresa; dal 2000 abbiamo aperto la pagina secondo cui societas delinquere potest, si può stabilire una responsabilità penale per l’impresa; e lo stiamo facendo con molte difficoltà, dopo che ci siamo accorti che la legge varata allora non ha funzionato granché). Ecco, io non so cosa capiterà in futuro, perché il mio tempo sta finendo, credo però che per i nostri figli e per i nostri nipoti si aprirà un discorso di giustizia abbastanza difficile, se non ci decidiamo, finalmente, a mettere mano a una riforma seria, la quale, tra l’altro prenda atto che la giustizia non può prescindere dal problema delle sue leggi, dal problema del giusto processo, dal problema dell’accertamento del reato, con l’applicazione di una sanzione, la reclusione in carcere, che per la sua situazione attuale grida vendetta al cospetto di Dio (aspetto per il quale non abbiamo fatto nulla, e continuiamo a non far nulla, se non a progettare la risistemazione di carceri o a creare container o, addirittura, ad esternalizzazione l’esecuzione della pena per tutti coloro di cui possiamo lavarci le mani, perché vadano a scontare quella pena da un’altra parte). Non è un bel quadro, né questa è una bella relazione di sintesi, ma le riflessioni svolte mi sembravano doverose. *Trascrizione integrale dell’intervento conclusivo che il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick ha svolto al convegno dell’università di Salerno su “Il futuro della magistratura: questioni costituzionali aperte”, lo scorso 28 maggio, presso l’Istituto della enciclopedia italiana. Pnrr giustizia in ritardo, l’Anm: “Ora il Governo non ci chieda di supplire ai suoi vuoti” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2025 “Noi mai consultati né ascoltati”. Le toghe richiamano la politica alle responsabilità per il probabile fallimento dell’obiettivo sulla durata dei processi civili: “Senza interventi strutturali il servizio non sarà mai efficiente”. “Non si può chiedere all’istituzione giudiziaria di supplire a vuoti che sono innanzitutto di responsabilità politica e ministeriale. Spetta al legislatore e al governo dimostrare che l’efficienza della giustizia è davvero una priorità per il Paese e non terreno di propaganda”. In un documento dai toni netti, l’Associazione nazionale magistrati richiama la politica alle sue responsabilità per il probabile fallimento dell’obiettivo Pnrr sulla riduzione della durata media dei processi civili. L’Italia si era impegnata, entro il 30 giugno del 2026, ad abbattere del 40% il dato del 2019, portandolo da sette a quattro anni circa: una sfida “di portata eccezionale”, assunta con l’Europa “senza consultare chi opera sul campo, nemmeno ai fini di una previsione di fattibilità”, accusano le toghe nel testo approvato a maggioranza dal Comitato direttivo centrale, il “parlamentino” dell’Anm. Così, a nove mesi dalla scadenza, l’obiettivo è ancora lontanissimo e quasi sicuramente non verrà raggiunto: infatti, “nonostante la magistratura italiana sia la più produttiva d’Europa”, la lentezza dei processi “sconta criticità croniche rispetto alle quali le nostre indicazioni nel corso degli anni sono cadute nel vuoto e a cui si sono aggiunti gli effetti di riforme che hanno contribuito ad aumentare il contenzioso civile e tributario e ad allungarne i tempi di definizione”, denuncia l’associazione. Di fronte ai dati sconfortanti (la riduzione è poco superiore al 20%) a inizio agosto l’esecutivo ha varato un decreto legge con una serie di misure d’emergenza, tra cui il reclutamento volontario di cinquecento giudici pagati “a cottimo” (l’incentivo sfiora i diecimila euro) per smaltire a distanza il lavoro dei tribunali più in difficoltà, o l’allungamento del tirocinio dei giovani magistrati per farli contribuire al lavoro delle Corti d’Appello. “Prendiamo atto delle misure che il legislatore ha inteso adottare e, con alto senso di responsabilità istituzionale, continueremo a fare la nostra parte”, si legge nel documento dell’organismo rappresentativo dei magistrati. Tuttavia, secondo l’Anm, gli interventi messi in campo dal governo “contribuiscono alla deriva burocratica della funzione senza incidere alla radice sulle cause del problema”, e quindi “non devono diventare modello ordinario di gestione della giustizia”, ma “possono essere tollerati solo in via eccezionale”. In particolare, lo smaltimento delle sentenze a cottimo “orienta l’esercizio della funzione giurisdizionale al raggiungimento di obiettivi meramente statistici, secondo meccanismi che introducono nell’esercizio della funzione il premio di risultato e creano disparità di trattamento all’interno degli uffici”. Le soluzioni invocate dall’Anm, invece, sono sempre le stesse: “Coperture degli organici dei magistrati e del personale amministrativo” (scoperti rispettivamente al 17 e al 40%); “razionalizzazione della geografia giudiziaria”, chiudendo i tribunali più piccoli; “introduzione di strumenti deflattivi per il contenzioso civile” e “stabilizzazione dell’ufficio per il processo”, gli assistenti giudici assunti con contratti a termine, la gran parte dei quali rischia di rimanere a casa dopo il 30 giugno 2026. “Il Pnrr non è mai stato concepito come un insieme di numeri da raggiungere, ma come un’occasione storica per costruire una giustizia più efficiente, moderna e sostenibile. Se oggi si ricorre a strumenti emergenziali, è perché quello spirito originario non ha trovato effettivo spazio”, sottolinea il documento. “Ribadiamo che i magistrati continueranno a fare la loro parte, ma senza una presa d’atto chiara e senza interventi strutturali effettivi, il Paese rischia di fallire non solo l’appuntamento del 2026, ma anche, in prospettiva, l’obiettivo di rendere realmente efficiente il servizio giustizia: di ciò non si potrà addossare alcuna responsabilità alla magistratura”, è la conclusione. Giustizia e Pnrr, insufficienti i rinforzi previsti nei tribunali di Marco Fabri* Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2025 Con la delibera del 3 settembre scorso il Consiglio superiore della magistratura ha dato seguito a quanto previsto dal decreto legge 117/2025, con il quale il Governo ha individuato alcune misure emergenziali per raggiungere gli obiettivi previsti dal Pnrr per la giustizia civile. In particolare, la riduzione del 40%, rispetto al 2019, del disposition time entro giugno 2026, che dovrebbe passare da 2.512 giorni a 1.507 a livello nazionale, considerando i tre gradi di giudizio. Il Csm ha quindi individuato le sedi e il numero di magistrati che potranno essere applicati straordinariamente negli uffici giudiziari di primo e di secondo grado. L’Ufficio statistico del Csm ha lavorato a tempi di record, visto che i dati forniti dal ministero sono pervenuti il 27 agosto. I capi degli uffici destinatari dovranno ora elaborare un piano straordinario di smaltimento grazie alle risorse umane aggiuntive. Il primo problema sarà però definire l’obiettivo da raggiungere che è ancora piuttosto ambiguo. Se in generale l’obiettivo Pnrr prevede la riduzione del 40% del disposition time (334 giorni nei tribunali, 392 in appello, 781in Cassazione), la circolare ministeriale del 12 novembre 2021 aveva però previsto degli obiettivi diversi per gli uffici di primo grado e di appello (-56%) e per la Cassazione (-25%). Quali obiettivi dovranno considerare i capi degli uffici? Concentrandoci sugli uffici di primo grado, il Csm ha individuato 48 tribunali a cui, potenzialmente, applicare 5 oo magistrati da remoto (si veda Il Sole 24 Ore del 3 settembre). Dall’analisi dei dati a disposizione, le scelte fatte sollevano alcuni interrogativi. Vi sono diversi uffici come Santa Maria Capua Vetere, Messina, Nocera Inferiore, Castrovillari, Patti e altri che non rientrano fra le sedi destinatarie delle applicazioni. È vero che hanno mostrato una buona prestazione di riduzione ma hanno ancora un disposition time e pendenze alti. Probabilmente sarebbero più efficaci le applicazioni in questi uffici rispetto ad altri che sono stati individuati (come Urbino e Forlì). Ci sono, inoltre, situazioni apparentemente simili che hanno avuto un trattamento molto diverso. Un esempio su tutti è quello di Catania rispetto a Napoli. Catania ha un disposition time a giugno 2025 di 457 giorni e una riduzione del 26% rispetto al 2019. Napoli ha un disposition time molto simile di 461 giorni e una riduzione del 22 per cento. Napoli si è vista assegnare ben 67 applicazioni straordinarie, Catania nessuna. Anche circa l’utilità delle applicazioni ai singoli uffici - in alcuni casi massive - sarebbero necessari chiarimenti, perché non sembra che possano essere determinanti. Un esempio, ma se ne potrebbero fare altri, è Venezia. Ha avuto un incremento notevolissimo di sopravvenienze in materia di riconoscimento di cittadinanza, con 44.983 procedimenti civili pendenti al 30 giugno 2025. Il Csm ha assegnato a Venezia 66 magistrati. Considerato che ogni magistrato applicato potrà smaltire al massimo Zoo procedimenti, le definizioni totali potrebbero aumentare di non più di 6.600 unità. A queste vanno aggiunte, con una previsione molto basica per semplicità, le definizioni previste con l’organico attuale, che dovrebbero attestarsi a 12.226. È vero che le pendenze dovrebbero diminuire progressivamente ma, sempre per semplicità, se consideriamo le attuali pendenze, il disposition time del Tribunale di Venezia a giugno 2026 dovrebbe essere di 854 giorni, ben lontano dai 334 giorni che ogni tribunale dovrebbe totalizzare per raggiungere l’obiettivo Pnrr. Infine, va considerato il ruolo della Cassazione. L’obiettivo del taglio del 40% riguarda infatti tutti i gradi di giudizio e il disposition time di gran lunga più alto a marzo 2025 era proprio quello della Cassazione con 942 giorni, contro i 492 delle corti di appello, e i 467 dei tribunali. Il peso della Cassazione è determinante, nonostante tutti i possibili sforzi di allocazione straordinaria dei magistrati. È peraltro necessario verificare quanti magistrati risponderanno effettivamente all’interpello del Csm. Purtroppo, le decisioni prese, rispetto alla situazione descritta dai dati, non fanno ben sperare per il raggiungimento dell’obiettivo Pnrr del disposition time. *Dirigente di ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) Assunti col Pnrr e “buttati a mare”. I precari della Giustizia in sciopero di Stefania Totaro Il Giorno, 15 settembre 2025 Tornano a scioperare i dipendenti precari della giustizia assunti con i fondi del Pnrr. Domani anche la settantina di lavoratori in servizio al Tribunale di Monza incroceranno le braccia per lo sciopero nazionale indetto dalla Fp-Cgil. In Lombardia la mobilitazione si tradurrà in una serie di presìdi davanti ai Palazzi di Giustizia. A Monza l’appuntamento è in via Vittorio Emanuele dalle 9 alle 12. “Si tratta di circa 12mila persone a livello nazionale”, ricorda Dino Pusceddu, segretario della Funzione pubblica della Lombardia, ma “solo 3mila hanno garanzia di stabilizzazione, altri 3mila attendono risorse promesse, mentre 6mila rischiano di restare senza lavoro dal 30 giugno 2026”. Per il sindacato, la stabilizzazione non è una concessione, ma “una condizione strutturale per garantire ai cittadini un servizio giustizia efficiente e accessibile”. In ogni provincia i lavoratori consegneranno ai prefetti una nota con le richieste da trasmettere al Governo. “Le istituzioni locali non possono rimanere in silenzio” avverte la Fp-Cgil. I funzionari dell’Ufficio per il Processo hanno già scioperato lo scorso gennaio davanti al Tribunale di Monza per chiedere l’assunzione a tempo indeterminato. Ma la loro astensione non ha paralizzato le udienze, dove a fare da assistenti in aula sono stati ‘precettati’ i colleghi con contratto stabile della cancelleria. Per loro la stabilizzazione “significa riconoscimento del diritto al lavoro per i precari e rilancio del sistema Giustizia - sostengono i precari monzesi - La preoccupazione per l’incertezza del nostro futuro sta lasciando il posto alla rabbia per l’insensatezza delle scelte del Governo che vuole dilapidare il patrimonio professionale reclutato grazie al Pnrr e a riportare la giustizia a come stava prima dell’enorme lavoro di smaltimento dell’arretrato. Da un lato si esaltano i risultati raggiunti e dall’altro buttano a mare la metà delle professionalità che questi risultati ha contribuito a raggiungere”. Per i cosiddetti Upp “il tempo stringe. Tra meno di 12 mesi scadranno i contratti e verrà lasciato l’ennesimo vuoto di organico. Una scelta che avrà conseguenze anche per il personale a tempo indeterminato, cui aumenteranno i carichi di lavoro”. Polizie, violenza, impunità: oltre lo “scudo penale”? di Lorenzo Guadagnucci volerelaluna.it, 15 settembre 2025 C’è una regola non scritta - un principio di buon senso e di garanzia - che consiglia di sospendere dal servizio e di tenere lontano dalla “prima linea” funzionari e operatori delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza sottoposti a indagini e processi, specie se per fattispecie particolarmente gravi. È una “regola” che ai vertici delle polizie italiane, e ai responsabili politici pro tempore, non piace granché, e infatti viene poco e male applicata, con evidente danno per l’immagine delle istituzioni e per la qualità delle relazioni fra queste e la cittadinanza. Nei giorni scorsi il giornalista Nello Trocchia, sul quotidiano Il Domani, ha scritto che Antonio Fullone sta per essere nominato a capo del Dipartimento per la formazione degli agenti penitenziari: la pratica preparata dal sottosegretario Andrea Delmastro sarebbe sul tavolo del ministro Carlo Nordio e mancherebbe solo la sua firma prima dell’annuncio ufficiale. Fullone, ecco il problema, è imputato nel processo scaturito dai pestaggi avvenuti nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e denunciati a suo tempo proprio da Trocchia sul Domani. È una vicenda terribile, documentata dalle immagini riprese dalle telecamere interne; decine di agenti sono sotto processo con l’accusa di tortura. Fullone all’epoca era Provveditore per le carceri della Campania e fu lui a ordinare la perquisizione straordinaria poi finita in pestaggio. All’epoca il dirigente fu sospeso e sostituito nell’incarico ma ora sembra pronto a rientrare nei ranghi e ad assumere un ruolo importante e delicato come la direzione di una scuola di formazione. Fullone, naturalmente, potrebbe essere innocente e magari sarà assolto - e Nordio potrebbe anche decidere altrimenti, visto che la nomina non è ufficiale - ma il tema resta: esiste o non esiste una questione di opportunità nelle nomine e nei ruoli, a fronte di inchieste e processi per gravi fatti storici? Non sarebbe necessario attendere la fine dei processi prima di procedere con la nomina degli imputati a nuovi incarichi a ruoli direttivi? Il problema si pose con particolare rilievo all’epoca delle inchieste sugli abusi commessi durante il G8 di Genova: furono pestaggi, torture, falsi in atto pubblico. In quel caso i vertici delle polizie e dello Stato scelsero di non intervenire, di non sospendere nessuno, di non avviare procedimenti disciplinari, per quanto a caldo perfino Pippo Micalizio, l’esperto funzionario inviato dal capo della polizia del tempo, Gianni De Gennaro, per un’indagine interna sul caso Diaz, avesse consigliato per iscritto addirittura la destituzione, cioè il licenziamento, di alcuni dirigenti coinvolti nella violenta e disastrosa “perquisizione” nella scuola, chiusa processualmente nel 2012 con la condanna in via definitiva di una decina di imputati, fra i quali importanti dirigenti nazionali della polizia di Stato. Il caso Diaz finì anche alla Corte europea per i diritti umani e l’Italia fu condannata per non avere punito in maniera adeguata i responsabili: la sentenza Cestaro del 2015 ricordava all’Italia, fra altre cose, la necessità, in casi così gravi, di sospendere i funzionari rinviati a giudizio e di destituirli in caso di condanna definitiva. L’Italia non fece né l’una né l’altra cosa: a inchieste e processi in corso tutti i funzionari di livello più alto erano stati anzi promossi a incarichi superiori, e dopo il 2012, nonostante la condanna in Cassazione, nessuno era stato destituito. Nemmeno la sentenza Cestaro indusse a un ripensamento e l’immagine della polizia di Stato non ne ha certo guadagnato; resta impressa nella mente dei più la sensazione che gli apparati di sicurezza affrontino con insofferenza la verifica di legalità della magistratura e il dovere civico di trasparenza verso la cittadinanza. Genova G8, vista la rilevanza dei processi e degli imputati, ha inevitabilmente fatto scuola, e anziché spingere le istituzioni a fare chiarezza sulle procedure da seguire e ad adeguarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ha creato un precedente nel segno dell’opacità e dell’indifferenza per il rispetto del principio di opportunità. Nel caso di Santa Maria Capua a Vetere, a onor del vero, le sospensioni dal servizio sono state numerose, ma non uniformi, e non chiaramente comunicate all’esterno, né si conoscono i criteri seguiti - se ce ne sono stati - per stabilirne la durata e l’esito finale. Turi Palidda, in un suo recente intervento, ha ricostruito il sistema di norme vigenti in materia di procedimenti disciplinari nelle varie forze dell’ordine: è un sistema così farraginoso e contraddittorio da lasciare un ampio margine di discrezionalità ai vertici degli apparati e ai loro referenti politici. E non c’è da aspettarsi una riforma nella direzione della trasparenza e della chiarezza, tutt’altro: il ministro della Giustizia Carlo Nordio, quando fu trasformato in legge il decreto sicurezza, promise ad agenti e sindacati delle forze di polizia un provvedimento speciale per introdurre nell’ordinamento una serie di norme, prima previste poi stralciate dal decreto, che erano state definite “scudo penale” per le forze di polizia. Né chiarezza e trasparenza, né principio di opportunità, dunque: c’è da aspettarsi, semmai, la formalizzazione di una protezione speciale e preventiva di agenti e funzionari sottoposti a indagini e processi. Celiando un po’, potremmo dire che l’Italia non è (ancora?) uno Stato di polizia, ma certamente è uno Stato della polizia, nel quale non è il primo (cioè il potere politico) a dettare le regole alla seconda, bensì l’inverso. Parlare di salute è parlare di diritti umani e giustizia sociale di Sergio Giordani* La Repubblica, 15 settembre 2025 È con grande piacere che Padova ospita nuovamente il Festival di Salute, un appuntamento decisamente significativo nella divulgazione medica e scientifica. La salute è uno dei diritti fondamentali per tutte le persone, siano esse nate nel benestante occidente, siano esse abitanti delle zone meno sviluppate del pianeta. È un tema fondamentale che riguarda la dignità umana e non si limita ad una semplice assenza di malattie o a una cura adeguata quando esse si manifestino, ma include numerosi altri fattori come ha evidenziato molto bene l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Parlare di salute oggi vuol dire quindi anche parlare di diritti umani, di giustizia sociale, di distribuzione della ricchezza nel mondo e nei singoli Stati, insomma di un futuro, che mai come in questi ultimi anni sembra oscuro e minaccioso come non accadeva da tempo. Padova è da secoli una città nella quale, grazie anche alla sua Università, si dibatte liberamente, e quindi è il luogo ideale per affrontare con scienziati e studiosi, ma anche con altre figure di spicco, il tema della salute, alla luce non solo delle grandi opportunità che la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica ci stanno offrendo negli ultimi anni, ma anche delle questioni etiche e morali che questa rivoluzione ci pone. Oggi la medicina e la chirurgia offrono delle opportunità di cura impensabili solo pochi anni fa, e anche nella nostra Regione la cronaca dà giustamente risalto a interventi straordinari mai fatti prima d’ora. Dobbiamo essere orgogliosi di questi risultati, ma dobbiamo ricordarci sempre che è altrettanto importante avere un livello di assistenza a tutta la popolazione efficace e capillare, garantito a partire dai medici di base fino alle prestazioni ambulatoriali e di analisi. La nostra Costituzione prevede che l’accesso alle cure sia garantito a tutti, senza distinzione e il nostro Servizio Sanitario Nazionale è una conquista di civiltà e uguaglianza che molti Paesi nel mondo ci invidiano. Non dobbiamo dimenticare anche, che la nostra Sanità e in generale quella dei Paesi più sviluppati non ha paragoni per qualità e percentuale dei cittadini serviti con quella di tanti altri Stati nel mondo a partire dall’Africa. Gli straordinari interventi del Cuamm-Medici con L’Africa, che proprio a Padova ha la sua sede lo testimoniano concretamente ogni giorno: dobbiamo fare di più per la salute delle tante persone che ancora in troppe aree del mondo non hanno accesso spesso neppure alle cure di base. La ricerca oggi sta sviluppando farmaci ad hoc, non solo per ogni patologia, ma potenzialmente su misura per ogni paziente, una cosa fantastica, ma questi farmaci saranno per tutti o solo per chi li potrà pagare? Dobbiamo fare in modo che siano assicurati l’uguaglianza e la pari opportunità nell’accesso alle cure anche in futuro, ancor di più di oggi. Infine non meno importante, c’è la necessità di difendere la scienza dall’attacco, oramai ai massimi livelli, di personaggi che ne mettono in dubbio l’attendibilità, il valore, e la sicurezza. Un oscurantismo che fa rabbrividire e che potrebbe causare danni incredibili alla salute di milioni di persone nel mondo. Perché è folle spacciare per libertà l’idea che ogni posizione, in ambito medico o scientifico abbia lo stesso peso. Non è che se un milione di persone dicono che 2 + 2 fa 5 questo sia vero. Le verità scientifiche non si decidono a maggioranza. Al Festival di Salute si parlerà di tutto questo e sono certo che le riflessioni e le analisi saranno estremamente interessanti e utili a tutti noi. *Sindaco di Padova Quei giovani insicuri ignorati dallo Stato di Chiara Saraceno La Stampa, 15 settembre 2025 Servono investimenti che prevedano strumenti e occasioni di ascolto adeguati. Perennemente sotto giudizio di un qualche tribunale pubblico e spietato: così sembrano sentirsi molti adolescenti e giovani alle soglie dell’età adulta. Non stiamo parlando solo delle aspettative dei genitori o degli insegnanti, ma del tribunale dei coetanei che, nelle relazioni faccia a faccia e ancor più via social, li giudica in base al loro corpo e al loro aspetto estetico, per lo più in base a stereotipi di genere rigidi e modelli di bellezza basati su quelli proposti dai social e dai/dalle varie influencer popolari al momento. Lo ha rilevato una ricerca di Action AID su “Affettività e stereotipi di genere. Come gli adolescenti vivono relazioni, genere e identità”, effettuata su un campione di oltre 14 mila ragazzi e giovani tra i 14 e i 19 anni. Otto giovani su 10 non si sentono esteticamente adeguati. E più del 50% modifica il modo di vestirsi per paura dei giudizi. Non si tratta di fisime senza fondamento, dato che quasi 6 su 10 hanno subito provocazioni e prese in giro legate a peso, altezza, colore della pelle, capelli e altri aspetti fisici. Provocazioni che, senza finire necessariamente in azioni di vero e proprio bullismo sistematico, possono comunque provocare esclusione, isolamento, sfiducia in se stessi/e, quando non comportamenti autodistruttivi. Sapere che i modelli estetici in base ai quali si è giudicati, o ci si giudica da soli/e, sono irreali, non è sufficiente ad evitare sia di proporli sia di aspirare ad avvicinarvisi. Benché la maggioranza, 7 su 10, riconosca che i corpi perfetti proposti online siano irreali, infatti, una uguale maggioranza vuole cambiare il proprio aspetto per apparire all’altezza di questi standard di bellezza irraggiungibili. Perché il tribunale dei pari, che diviene anche il proprio tribunale interno, non perdona. Non sorprendentemente, sono le ragazze ad essere più vulnerabili a questi giudizi, all’insoddisfazione sul proprio aspetto e al timore di non essere accettate a causa di esso. Non si tratta solo di modelli di bellezza. O meglio, questi sono fortemente intrecciati con modelli di genere. La stragrande maggioranza del campione, 80%, dichiara di sentirsi continuamente dire quali sono le “cose giuste” da fare per essere maschi o femmine. E oltre il 70% ha assistito a episodi di derisione e discriminazione nei confronti di qualcuno per come si veste, muove o esprime, perché “non confacente” al suo genere. Si dice spesso che gli e le adolescenti e giovani oggi sono più liberi dai vincoli di stereotipi di genere; ma le cose sembrano un po’ più complesse. La parte della ricerca dedicata specificamente agli stereotipi evidenzia che una percentuale consistente, il 46% del campione, effettivamente rifiuta la disuguaglianza tra uomini e donne e tra chi ha un’identità di genere binaria e chi la ha più fluida. È anche consapevole che i media, anche quelli popolari tra i giovani, come la musica, spesso veicolano modelli negativi. Ma la maggioranza è distribuita tra quelli che i ricercatori chiamano i tradizionalisti inconsapevoli, i giustificazionisti (della violenza come forma di amore) e i progressisti distorti (che accettano l’uguaglianza in alcuni settori, ma legittimano controllo e violenza nei rapporti intimi). D’altra parte, difficile aspettarsi dati molto diversi, stante che questi adolescenti e giovani vivono in un mondo che dà messaggi confusi e spesso contraddittori su questi temi, senza creare spazi e occasioni in cui i più giovani possano essere aiutati a riflettere e a comporre una visione meno contraddittoria sia delle identità di genere, sia della sessualità e dei rapporti tra uomini e donne. Oltre la metà dei partecipanti al sondaggio dichiara di non sapere a chi rivolgersi nel caso di dubbi. Dalla ricerca appare che la grande maggioranza vorrebbe avere occasioni di riflessione e formazione in questo campo e che la famiglia non basta (tanto più, aggiungerei, in una fase della vita in cui si ha bisogno di prendere un po’ di distanza e difendere la propria intimità). Desiderano poter interloquire, anche nel contesto scolastico, con persone competenti, preparate, capaci di parlare a partire dall’esperienza. Ed hanno anche ben chiaro che l’educazione sessuale e affettiva non si può ridurre all’approfondimento degli aspetti biologici o al rischio di malattie trasmissive. L’adolescenza non è mai stata un’età facile, caratterizzata com’è da compiti, passaggi evolutivi che modificano equilibri e immagini di sé: cambia il corpo, l’esigenza di trovare propri spazi nella e rispetto alla famiglia diviene più pressante, il mondo relazionale si amplia, almeno potenzialmente, con il gruppo dei pari che assume un’importanza sempre maggiore nel processo di auto-riconoscimento e validazione di sé. Incertezza, sentimenti di insicurezza possono stare fianco a fianco con atteggiamenti di sfida e voglia di sperimentazione. L’incertezza su aspetti fondamentali di questa fase - il corpo, l’identità di genere, la sessualità, l’affettività, i rapporti amorosi - che caratterizza oggi anche la cultura adulta, unita alla forza dei media e dei tribunali permanenti dei social, sta rendendo forse più difficile questo passaggio, o comunque presenta aspetti e rischi inediti. Ancora più rischioso è ignorarli o sottovalutarli, non approntando strumenti e occasioni di ascolto e comunicazione adeguati. L’odio dilaga ovunque. È una malattia da combattere come il cancro di Vito Mancuso La Stampa, 15 settembre 2025 Il risentimento non è una condizione naturale, si tratta piuttosto di una patologia da cui si può guarire con l’apertura di mente e cuore. Odio: sembra proprio questa la condizione del cuore e della mente della politica mondiale e nazionale, e siccome la politica è nel bene e nel male la cartina di tornasole della condizione della società, la sconsolata conclusione da trarre è che siamo destinati a sprofondare sempre più in un mare di odio, di risentimento, di aggressività, di violenza. L’odio, infatti, purtroppo genera odio. L’assassinio del giovane politico americano Charlie Kirk da parte del giovanissimo studente Tyler Robinson sembra proprio che abbia avverato quanto afferma la Bibbia: “E poiché hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta” (Osea 8, 7). Può anche avvenire però che non si sia seminato vento e tuttavia si raccolga lo stesso tempesta: Gandhi, i due Kennedy, Martin Luther King, Aldo Moro ne sono alcuni tragici esempi. L’odio appare quindi una passione distruttiva che pervade la storia da sempre: Caino uccide Abele, Romolo uccide Remo, Socrate viene ucciso dai democratici, Gesù dai teocratici, guerre a non finire, pulsioni ataviche di vendetta: e il Novecento, definito “secolo dei genocidi”, ai nostri giorni replica sanguinosamente se stesso. L’odio non è naturale - Ma che ruolo ha l’odio nella struttura del mondo? È strutturale, è naturale? Oppure è sopravvenuto e innaturale? Qual è il rapporto dell’odio con la logica della vita nel mondo? Penso che la mia risposta vada controcorrente, perché, a differenza dei più, io ritengo che l’odio non sia naturale ma costituisca una patologia, e che quindi il suo dissolvimento costituisca un ritorno alla fisiologia, una guarigione. Di cosa l’odio costituisce una patologia? Di quella condizione strutturale che Eraclito chiamava polemos, quando scriveva che “il conflitto (polemos) è padre di tutte le cose e di tutte è re”. A questa celebre affermazione egli affiancava la consapevolezza complementare dell’armonia, per l’antico filosofo ancora più fondamentale: “Da elementi che discordano si ha la più bella armonia”. Eraclito (insieme a Empedocle) fu il primo in Occidente a sottolineare la condizione conflittuale che strutturalmente inerisce all’essere e che però, ben lungi dal condurre al nulla, produce l’armonia da cui si generano gli enti, la vita, l’intelligenza, la cultura. La perdita dei riferimenti etici - Perché allora l’odio predomina a tal punto nella vita politica e sociale dei nostri giorni? La mia risposta è: perché i più tra noi sono spiritualmente malati, e lo sono perché le nostre società sono a loro volta spiritualmente malate in quanto hanno smarrito ogni riferimento etico e valoriale che sappia imporsi ai soggetti e dirigerne l’agire. Eraclito vedeva bene, oggi la scienza conferma la sua visione, nella natura vi è il conflitto già a partire dalla condizione della materia, gli astrofisici significativamente parlano di galassie cannibali e di voraci buchi neri. Se poi si passa alla biologia la situazione diventa ancora più conturbante perché entra in scena il sangue, l’elemento della vita e al contempo della morte. Però attenzione: nelle stelle, nei quasar, nei buchi neri, così come negli animali che lottano per la vita nutrendosi di vita altrui, non vi è odio. Il leone non odia la gazzella, la gazzella non odia l’erba. Nel mondo naturale non vi è odio, perché l’odio è una patologia della mente evoluta; più precisamente, della mente umana alle prese con il conflitto che inerisce strutturalmente all’essere e che essa non sa dominare ma ne diventa vittima. La mente che domina il conflitto lotta contro il proprio avversario ma non lo odia; la mente dominata dal conflitto, invece, lo odia. La volontà di annientamento - Nel primo caso si vuole sconfiggere l’avversario, ma non annientarlo, e questo perché si sente che l’avversario è, a ben vedere, parte di noi, nel senso che senza di esso la nostra stessa identità non sarebbe quello che è: come la sinistra non sarebbe senza la destra, gli atei senza i credenti, la Juve senza l’Inter. L’odio, invece, vuole annientare. E nel suo furore accecante che lo rende ignorante, non comprende che l’annientamento del nemico comporterebbe il venir meno anche della propria identità, la quale senza il nemico non avrebbe più il polo opposto in base a cui determinarsi. L’odio è una malattia, una patologia dello spirito: non a caso ebraismo, cristianesimo e islam ritengono che Satana (chiamato dal Corano Iblis) sia un angelo decaduto, e l’angelo è puro spirito. Quando la libertà si ammala, pone la consapevolezza e la creatività non più al servizio della responsabilità ma del suo contrario che è la distruzione. Si ha così la malignità, cioè la lucida volontà di male. Tale volontà maligna può essere indirizzata a una persona, a un gruppo, a un popolo, a un’istituzione, oppure essere generalmente rivolta al mondo e condotta per il mero piacere del male, per il gusto sadico e perverso di infliggere sofferenza e morte. La stupidità dell’odio - Normalmente non si pensa che l’odio sia una patologia; anzi, lo si contrappone all’amore come forza di uguale e contrapposta potenza. Non solo, si ritiene persino che l’odio aiuti a comprendere meglio dell’amore in quanto dotato di una sua invidiabile lucidità. Io non sottovaluto la forza dell’odio, ma contesto che sia veramente intelligente. Penso anzi che in realtà l’odio sappia vedere solo se stesso e non l’altro nella sua realtà effettiva; anche quando vede l’altro, chi odia vede in realtà solo il proprio pregiudizio che gli impedisce di riconoscere il bene dell’altro. L’odio vede, ma non con quello sguardo retto che fa posare l’occhio sull’altro cogliendolo per quello che veramente è; no, l’occhio vede con uno sguardo deformato dall’energia negativa che fa desiderare la distruzione. La vera comprensione richiede invece rettitudine, anzitutto nel senso di sguardo retto, di “retta visione”, come dice la prima disposizione dell’ottuplice sentiero insegnato dal Buddha. Da qui si genera apertura mentale e del cuore, ovvero empatia. L’odio quindi non è intelligente ma stupidamente circoscritto. Rimane un’ultima questione: l’odio è forte? Certo, l’odio è forte, a volte fortissimo. Ma anche il cancro lo è, le cellule cancerogene possono essere molto più vitali delle cellule sane, sono affamatissime, violente, aggressive. Il risultato però qual è? La morte dell’organismo, e quindi anche la loro, cioè la massima impotenza. Questo si spiega in base al fatto che l’essere è retto dalla logica del sistema, cioè della relazione armoniosa, e che ciò che è conforme a tale logica fa fiorire la vita, mentre ciò che non lo è, la fa sfiorire introducendo morte. Non si tratta quindi di essere necessariamente buoni nello scegliere di rifiutare l’odio. Si tratta più semplicemente di essere intelligenti: di capire la logica che ci ha portato all’esistenza e di conformarci a essa (come un capitano di veliero che capisce il gioco dei venti e dispone la sua barca di conseguenza). Per questo eliminare l’odio al proprio interno, mantenendo il conflitto ma non odiando, significa rimanere sani. Ancor prima che per benevolenza verso l’altro, è un grande gesto di cura verso se stessi. Liberarsi dall’odio, mantenendo il conflitto ma abolendo la volontà annientatrice, è ciò di cui hanno bisogno le nostre menti e le nostre società per tornare a produrre una politica come reale servizio al bene comune. E di quanto questo nostro mondo abbia bisogno di tale rinascita, non c’è bisogno di dire. L’Italia leader delle disuguaglianze: le persone con disabilità tra le più discriminate di Enzo Risso Il Domani, 15 settembre 2025 Secondo l’Equalities index 2025 di Ipsos, l’Italia è, insieme alla Spagna (e dopo l’Ungheria), il paese europeo in cui il tema delle disparità è maggiormente avvertito. E per il 38 per cento della popolazione il nostro paese non si sta sforzando abbastanza per affrontarle. La crescita delle disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento che si è avuta nel corso degli ultimi 40 anni sta schiacciando il diritto all’uguale dignità delle persone, sta frantumando l’equilibrio tra possesso di mezzi e bisogni e sta anche infragilendo le possibilità dei singoli sbriciolando l’uguaglianza di opportunità e comprimendo la libertà sostanziale di un gran numero di persone. L’Equalities index 2025 di Ipsos fotografa lo stato delle disuguaglianze in 31 paesi del mondo, compresa l’Italia. Per la metà degli italiani (50 per cento) il tema delle disuguaglianze è uno dei principali problemi che il nostro paese deve affrontare (solo il 7 per cento lo giudica poco importante). Nella classifica globale l’Italia è, insieme alla Spagna (e dopo l’Ungheria), il paese europeo in cui il tema è maggiormente avvertito. In Francia è denunciato dal 48 per cento, in Germania dal 41, in Gran Bretagna dal 37. Chiudono la classifica europea l’Olanda e la Svezia (31 per cento). Per la maggioranza relativa degli italiani (38 per cento) il nostro paese non si sta sforzando abbastanza per far fronte alle disuguaglianze e dovrebbe spingersi molto oltre rispetto a quanto fatto fino ad ora. Più carenti del nostro paese, in quanto a sforzi per combattere le iniquità sociali, risultano l’Ungheria (59 per cento), la Germania (46), l’Olanda (45), la Spagna (43) e il Belgio (41). Stanno facendo un po’ meglio dell’Italia, la Svezia (37 per cento), la Francia, la Svizzera e la Gran Bretagna (35 per cento). Le persone che nel nostro paese subiscono maggiormente trattamenti diseguali e ingiusti sono, secondo l’opinione pubblica nostrana, i soggetti con disabilità fisiche (31 per cento), le donne (28 per cento), gli immigrati (28 per cento) e gli anziani (27 per cento). Seguono il mondo Lgbtq+ (24 per cento) e i transgender (21 per cento). Anche negli altri Paesi europei, come Francia (42), Germania (40) e Gran Bretagna (31), il primo posto, per livelli di discriminazione, spetta alle persone con disabilità fisiche. In Francia e Germania (entrambe al 33 per cento), come in Italia, al secondo posto per livello di iniquità si collocano le donne, mentre nel Regno Unito ci sono gli immigrati (29) e le minoranze etniche (27). In Spagna e in Svezia, invece, il primato per i livelli di discriminazione spetta agli immigrati (31), mentre i tassi di iniquità verso il mondo femminile si collocano al quinto posto in Spagna (24 per cento) e al sesto posto in Svezia (22 per cento). I paesi in cui le forme di iniquità verso le donne sono maggiori e sono al primo posto nella classifica dei trattamenti diseguali sono: Turchia (50 per cento), Sud Africa (36 per cento) e Ungheria (25 per cento, insieme agli anziani). Le nazioni in cui i maggiori livelli di disuguaglianza colpiscono soprattutto gli anziani sono: Argentina (44 per cento), Cile (45), Messico (35) e Perù (34 per cento). Infine, i paesi in cui si registrano le forme più acute di iniquità verso il mondo lgbtq+ sono: Brasile (34 per cento), Messico (27), Polonia (28) e Sud Africa (26 per cento). Il quadro complessivo dei dati evidenzia come la disuguaglianza non sia più percepita come una semplice disparità economica, ma sia avvertita come un fenomeno multidimensionale e sistemico che erode le basi stesse del contratto sociale. La frattura tra possesso di mezzi e bisogni si traduce in una crisi di riconoscimento, con intere categorie - dai disabili alle donne, dagli immigrati agli anziani - che vedono compromessa la propria dignità e libertà sostanziale. Il caso italiano, tra i più critici in Europa, mostra anche una percezione diffusa di incapacità istituzionale nel fronteggiare il problema. La geografia variegata delle discriminazioni che assume connotati specifici a seconda del contesto nazionale (dall’ageismo in Sud America alla misoginia in Turchia), dimostra come le disuguaglianze siano ormai un indicatore cruciale per misurare la qualità di una democrazia e la tenuta del suo tessuto civico. Alzare la voce (insieme) di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 15 settembre 2025 Il monito di Mattarella e il rischio di scivolare verso un nuovo 1914. L’Italia unita deve farsi sentire e deve urlare il suo “no” al peggio. Già adesso è il Capo di Stato più longevo della nostra Repubblica, eletto la prima volta nel 2015, confermato nel 2022, fine mandato nel 2029. Una personalità politica che ha conquistato credibilità internazionale anche in ragione della coerenza rispetto ai valori cardine dell’Occidente e del modo fermo ma pacato in cui si è sempre speso per difenderli. Non parla tanto, il Presidente Mattarella, specie in questo 2025 così cupo e minaccioso, e comunque senza mai rinunciare alla cautela che è un suo tratto distintivo. Qualche giorno fa, da Lubiana, ha però dismesso i toni prudenti e ha speso parole nettissime contro chi ci sta mettendo in pericolo. Droni russi avevano appena violato lo spazio aereo della Polonia (succederà di lì a poco anche sulla Romania) e Israele si era spinta a bombardare il Qatar, 1.800 chilometri di distanza, per colpire dei leader di Hamas. Condannando con esplicita durezza entrambe le azioni, Mattarella le collega e le trasforma in un allarme rosso: “Ci si muove ormai su un crinale. Il mondo rischia di scivolare nel baratro come nel 1914. Nessuno allora voleva far scoppiare la Guerra mondiale ma l’imprudenza dei comportamenti provoca prospettive gravi”. E ancora, mirando con maggiore precisione, denuncia come inaccettabile il massacro di Gaza e l’intenzione di annettere parte della Cisgiordania (“rendendo impossibile una soluzione politica in quella regione, a vantaggio anche della sicurezza di Israele”). Il Presidente poi affonda il colpo sulle “reiterate minacce del Cremlino ai Paesi europei” che possono portare “a un conflitto di dimensioni inimmaginabili e incontrollato”. Reazioni italiane a quel mondo sull’orlo del baratro, all’avviso perentorio di Mattarella? Nei fatti, nessuna. E per due ragioni, entrambe legate a una colpevole incoscienza del momento. La prima ragione è la spaccatura su entrambi i fronti, russo e mediorientale, che attraversa sia il governo sia l’opposizione. Il Parlamento europeo approva, per la prima volta dopo due anni dalla strage terrorista di Hamas del 7 ottobre e la radicale reazione di Israele, una risoluzione “non vincolante” sulla Palestina, che contempla l’ormai consunta ipotesi dei due Stati, la lotta alla carestia e la liberazione degli ostaggi, evitando di includere nel testo la parola “genocidio” per scongiurare ulteriori divisioni. Votano a favore Pd e Forza Italia, contro i 5 Stelle perché troppo debole e per ragioni diverse la Lega, mentre si astiene Fratelli d’Italia. Stessa disunità sulla mozione che stava per proporre il governo alla Camera per aumentare le spese militari come stabilito in sede Nato: Salvini apertamente ostile, l’opposizione che presenta cinque testi differenti, finisce che per adesso non se ne fa niente, con buona pace, si fa per dire, del ministro della Difesa Guido Crosetto che inascoltato avvisa: “Siamo già in guerra, anche se in un modo che non si vede, una guerra ibrida, fatta di attacchi hacker, disinformazione, spionaggio tecnologico”. Pretende finanziamenti per difendersi, quindi armarsi, argomento che tra gli altri trova molto tiepido il suo collega all’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti. La seconda ragione della percepita assenza di attenzione della nostra classe politica di fronte al precipitare della situazione internazionale è in qualche modo legata alla prima: ognuno pensa agli interessi di partito, a sedurre o a non contrariare il proprio potenziale elettorato, specie ora che ci sono le Regionali nella Marche alle viste (28-29 settembre), in ottobre in Toscana e a fine novembre in Puglia, Campania, Veneto. Ogni presa di posizione forte sulle questioni che agitano il mondo rischia di costare voti oppure di mettere in crisi rapporti più o meno sotterranei con qualcuna della Grandi Potenze in campo (Usa, Cina, Russia, Israele). Così si procede in ordine sparso, con una certa e voluta vaghezza. Dove sta l’Italia? Per la pace, certo, questo tutti. Ma come? Attraverso quali scelte? Intanto la discesa verso il baratro non si arresta, anzi aumenta il passo. L ‘Assemblea generale dell’Onu vota a favore di uno Stato palestinese “ma senza Hamas”, condannando la catastrofe umanitaria nella Striscia e gli attacchi di Israele contro i civili. Netanyahu risponde che “non ci sarà mai uno Stato palestinese”, firma il progetto che spezzerà in due la Cisgiordania in vista di una completa annessione e continua a spingere, bombardando, l’esodo da Gaza. Quanto al raid israeliano anti Hamas in Qatar, ha prodotto un vertice proprio a Doha dei leader dei Paesi arabi e islamici durante il quale il presidente egiziano Al Sisi intende proporre la costituzione di una specie di Nato della Mezzaluna, con 20 mila soldati da mettere sul campo ogni volta che venga colpita la capitale di uno degli Stati membri. A corredo, un facsimile dell’articolo 4 dell’Alleanza Atlantica, che prevede una consultazione tra i partner per stabilire se un Alleato è da considerare sotto attacco e quindi da proteggere. La Nato originale, nel frattempo, ha varato la “sentinella dell’Est” (jet, truppe, contraerea) per irrobustire il confine orientale dalle minacce di Putin. E la Ue sta progettando “L’occhio di Odino” per tutelare i cieli dalle incursioni russe con missili e droni. Costo: circa 100 miliardi. Indicativa la scelta del nome dell’operazione: Odino, re della sapienza ma anche della guerra e della vittoria. Si moltiplicano i venti che spingono in direzione del baratro. Persino l’assassinio di Charlie Kirk, una delle voci più risolute del trumpismo, diventa benzina sul fuoco di divisioni, scontri, lo sparatore era di destra o di sinistra, invece di trasformarsi in un pensiero opposto, cioè leggerlo come un altro segno che si sta passando ogni segno. Avvertiva Einstein che, dopo la terza guerra mondiale, la quarta si combatterà con pietre e bastoni. Ma tutto continua come se la minaccia che torna a incombere su ciascuno di noi fosse lontanissima, anzi irreale, con la preoccupazione angosciata di Mattarella ridotta a un richiamo al buon senso. Servirebbe altro, un soprassalto di consapevolezza in un’ora che torna ad essere buia. Magari una riunione d’emergenza tra i nostri leader politici, da Meloni a Schlein, con un solo punto all’ordine del giorno: trovare un accordo perché l’Italia alzi la voce come nazione strategica e dica il suo no al peggio, al baratro. Ma pare che il risultato elettorale di Ancona sia al momento questione assai più rilevante. Mattarella, l’incubo 1914 e l’Europa da rifondare di Andrea Malaguti La Stampa, 15 settembre 2025 Dobbiamo vivere con l’imperfezione dell’epoca che ci viene regalata. È il tempo del ritorno degli Imperatori, della paura, dell’arretramento delle libertà e dell’odio a piede libero. Solo due esseri umani su dieci, in questa terra, hanno il privilegio di farsi guidare da governi pienamente democratici. Noi, per esempio. Un orizzonte di pace tutt’altro che acquisito e immutabile. Lo dicono le statistiche di V-dem. In questo mondo polveriera, l’Europa non è mai stata tanto debole quanto necessaria. Peccato che, al momento, si limiti ad emettere flebili e scomposti guaiti, come un cagnetto che sogna. Stiamo scivolando su un piano inclinato e se dovessi scegliere le parole che mi hanno colpito di più in questa settimana di droni abbattuti in territorio polacco, di minacce finali e di proiettili omicidi griffati insensatamente “Bella Ciao”, sarebbero quelle pronunciate in Slovenia dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Si rischia il baratro, come nel 1914”. La Prima guerra mondiale. Un conflitto che in astratto non voleva nessuno, ma che chiunque era in grado di provocare. Davvero i droni su Varsavia, o qualunque altro imprevedibile incidente, ci possono portare alla Terza e atomica guerra mondiale? Allora, in teoria, fu lo sparo di Sarajevo ad accendere la miccia. L’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando e della duchessa Sofia Chotek, sua moglie, da parte del nazionalista serbo Gavrilo Princip. Epilogo di un attentato da operetta, nella ridicola dinamica del quale, dopo essere scampato ad una prima bomba, l’arciduca decise di continuare la sua incongrua sfilata in mezzo alla folla e finì al cospetto del proprio giustiziere dopo che il suo autista sbagliò strada, definendo il suo appuntamento con il destino. E forse quello di tutti noi. Trentasette giorni dopo, un’Europa in pace decise di farsi la guerra. Il risultato fu la fine di tre imperi e la morte di ventuno milioni di persone tra militari e civili. Senza contare i venti milioni di feriti. Gli Imperi centrali contro quelli Alleati, con l’Italia pronta a cambiare sponda nel 1915 dopo aver lasciato la Triplice Alleanza. Siamo fatti così. Ci sono 25mila libri che raccontano quella gigantesca tragedia collettiva, ma nessuno storico è in grado di spiegare davvero perché si arrivò al disastro. Le fonti francesi, tedesche, austriache, russe, inglesi o italiane, indicano ciascuna motivi diversi. L’unica certezza è che la Seconda guerra mondiale fu una scelta consapevole. La prima fu il frutto di circostanze che nessuno seppe governare. Ecco perché - suggestivo e decontestualizzato - torna in mente Mao, che negli Anni Sessanta, forse citando Confucio, sentenziò: “Grande è la confusione sotto il cielo. Quindi, la situazione è eccellente”. In mezzo al caos tutto può succedere. E nessuno come gli Orchi, che si chiamino Putin o Netanyahu, apprezza l’odore del sangue. Camminiamo sul filo e bisogna fare sempre molta attenzione quando parla il Colle. In queste ore di tensione crescente, solo un pazzo può non sentire il pericolo incombente. Difficile accusare il Quirinale di estremismo. E persino di fanatismo atlantista. È un uomo cauto, il Presidente. Equilibrato. Guidato dai principi costituzionali. Erede della tradizione di Dossetti e di Moro. La drammaticità del suo discorso, arrivato dopo quello analogo di Marsiglia, testimonia l’angoscia di un uomo che, non solo rappresenta l’unità nazionale ma è anche, non a caso, il Capo delle Forze Armate. Un messaggio forte, che abbraccia la crisi russo-ucraina, ma fa riferimento anche al massacro nella Striscia di Gaza e al linguaggio pieno di astio e di rancore che, dagli Stati Uniti al Parlamento della Repubblica, sembra l’unica declinazione possibile di un discorso pubblico sempre più indegno e umiliante. Scaraventare in faccia agli avversari politici i morti assassinati nello Utah, accusare un ministro di essere un influencer prezzolato da Gerusalemme o evocare le Br come se davvero nell’intero arco costituzionale qualcuno bramasse la lotta armata o la distruzione di chi ha visioni differenti, dà l’idea dell’imbarazzante povertà del confronto nostrano. A questo siamo ridotti. Incapaci di affrontare le curve della Storia, ci schiantiamo sullo sgradevole vociare da ubriachi di osteria. Ma il messaggio di Mattarella, che utilizza toni rovesciati rispetto alla diffusa canea quotidiana, è a tratti sorprendente. Almeno nella parte in cui evoca la premier Giorgia Meloni, ribadendo la condivisione della linea euroatlantica. Nessun Paese esiste se non è in grado di difendersi. È la Ragion di Stato che, richiamando l’unità di Colle e Palazzo Chigi, si fa sentire, sovrastando la sgangheratezza di partiti allo sbando. Di una maggioranza, infiltrata da pulsioni filo-putiniane, incapace di presentare una mozione comune sulla politica estera e di un’opposizione arlecchino che ne presenta cinque. L’Europa e l’Italia hanno bisogno di una linea comune. Di fronte alla minaccia definitiva, ci si muove su strade unitarie mettendo da parte le piccinerie. Se ha ragione il premio Nobel ucraino Oleksandra Maviichuk (intervistata dalla nostra Flavia Amabile) secondo cui “la guerra è già arrivata in Europa ma non ve ne siete accorti”, il tempo che ci rimane sta scadendo. Mentre, citando ancora una volta il meraviglioso Cristopher Clark, continuiamo a camminare come sonnambuli. Vladimir Putin, con le sue provocazioni sempre più frequenti, testa le nostre fragilità e la nostra capacità di reazione. Ha ragione il presidente polacco, Karol Tadeusz Nawrocki, quando, parlando dell’Unione, dice che siamo cinque dita della stessa mano. Ma non può essere l’impaurita e aggressiva linea di Varsavia a guidare la nostra strategia nei confronti di Mosca. Invocando nervi saldi e approdi condivisi, bisognerebbe avere la forza di riflettere sul fatto che, una volta difesi i diritti degli ucraini, sarà necessario ragionare sul fatto che, mentre gli Stati Uniti, con le sgradevoli e untuose formule quotidiane di Donald Trump, si allontanano sempre più da noi, anche la Russia è Europa. E che tra la demonizzazione e la comprensione reciproca, solo la seconda strada può portare a una conclusione definitiva di conflitti fratricidi. Da questo punto di vista Giorgia Meloni avrebbe un’occasione straordinaria se, rifacendosi alla tradizione della destra europeista - la stessa che, finalmente annichilita e sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, decise comunque di abbracciare l’ingresso nella Nato - rompesse davvero con la storia Maga (Make America Great Again), proponendosi come punto di riferimento di un’Unione nuovamente allargata alla Gran Bretagna, capace di ritrovare il senso di sé, non più come cinquantunesima stella della bandiera a stelle e strisce, ma come comunità indipendente, forte e libera. Uno strappo deciso dalla storia. Lo stesso che spinse Berlinguer a scegliere “l’ombrello della Nato”. Nel momento in cui la sinistra è pulviscolare, ce l’ha quella statura la premier o è schiava di piccoli tornaconti elettorali e del ricatto perenne della salviniana lega-vannaccian-moscovita e addirittura della retorica sull’orribile omicidio di Charlie Kirk? Più probabile la seconda ipotesi. Anche in queste ore in cui serve uno sforzo disperato. Non possiamo accettare che l’Europa nasca e si faccia nuova solo sulle macerie di una prossima guerra, in cui - come direbbe il Gabbiere di Alvaro Mutis - “l’odio che sigilla i denti e lascia gli occhi fissi nel nulla” finisce per cancellare qualunque forma di umanità. Sul Medio Oriente anche il confronto oggi è diventato un’eresia di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 settembre 2025 Ascoltare o cancellare? Cronaca di un convegno a Napoli “secretato”: una fotografia utile per smascherare alcuni tic illiberali del pensiero progressista in Italia. Le parole dell’ex premier israeliano Olmert e dell’ex ministro degli Esteri dell’Anp Al-Kidwa. Si può essere dalla parte dei palestinesi innocenti trucidati a Gaza senza alimentare l’antisemitismo? Si può essere dalla parte dei pro Pal con la testa sulle spalle senza dover assecondare la descrizione di Israele come la culla del nuovo nazismo? La storia che vi stiamo per raccontare non riguarda Israele, pur nascendo da un dialogo su Israele, ma riguarda una serie di tic, di tabù, di cortocircuiti, di follie e di atti di estremismo puri, anche politici, attraverso i quali è possibile capire cosa non funziona nel dibattito pubblico italiano, quando si parla di medio oriente, quando si parla di Gaza, quando si parla della tragedia di una guerra brutale intorno alla quale non è più accettato alcun altro pensiero se non quello che porta a considerare Israele l’emblema di un nuovo nazismo. La storia che vi stiamo per raccontare ha come teatro Napoli, città divenuta durante la resistenza al nazifascismo medaglia d’oro al valore militare, e riguarda un dibattito ambizioso, organizzato dal nostro amico David Parenzo. Un dibattito immaginato per mettere insieme voci originali in grado di discutere intorno al futuro del medio oriente con l’obiettivo di mettere a nudo alcuni tabù. Tra gli ospiti d’onore del dibattito, inizialmente pubblico, vi erano Ehud Olmert, ex premier israeliano, progressista, nemico giurato di Benjamin Netanyahu, e Nasser Al-Kidwa, ex ministro degli Esteri dell’Autorità palestinese, nemico giurato di Hamas. La storia del convegno, e le parole di Olmert in particolare, è una fotografia interessante, e utile, per provare a smascherare alcuni tic illiberali del pensiero progressista, in Italia, rispetto al tema del dibattito intorno al futuro del medio oriente per almeno due ragioni. La prima ragione riguarda l’iter del convegno. Inizialmente, data anche la qualità dei relatori, il comune di Napoli, nella persona del sindaco Gaetano Manfredi, sindaco in ascesa nonché presidente dell’Anci, aveva scelto di dare il suo patrocinio all’evento. Il dibattito, inizialmente, avrebbe dovuto essere organizzato a Capodimonte, nella giornata di domenica 14 settembre. Con l’avvicinarsi della data, alcuni pro Pal esagitati, per fortuna non lo sono tutti, hanno smosso i social promettendo battaglia contro l’evento, con l’obiettivo dichiarato di farlo saltare. Ragione: Olmert e chiunque rappresenti il pensiero di Israele non sono graditi in città. A cavalcare la protesta è stato, legittimamente, l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che ha chiesto a gran voce al suo successore, Manfredi, di sfilarsi dall’evento. Il sindaco di Napoli, che nonostante le apparenze si chiama Manfredi e non De Magistris, ha scelto al primo “buu” di ritirare il patrocinio. Successivamente, vista la tensione attorno all’evento, gli organizzatori hanno scelto di rinunciare alle sale di Capodimonte, considerando che per rendere sicuri gli spazi Capodimonte sarebbe dovuto restare chiuso al pubblico per quarantotto ore, e alla fine il convegno si è fatto, con tutti gli ospiti, tranne il coraggiosissimo Maurizio De Giovanni, scrittore di livello, intellettuale di spessore, che di fronte alle legittime e sobrie richieste di alcuni manifestanti, “Olmert è un sionista che va cacciato dalla città”, ha scelto di sfilarsi, per evitare polemiche. Il convegno si è infine svolto domenica, in un luogo non comunicabile, il cui accesso è stato consentito solo a una parte delle persone che ha fatto richiesta di partecipare, e la storia del convegno è doppiamente interessante non solo per quello che poi si è ascoltato ma anche per le ragioni che hanno portato a boicottarlo. I manifestanti, i pro Pal, e i politici con la schiena curva che hanno scelto di assecondare le richieste dei boicottatori, non chiedevano di cancellare un evento in difesa di Israele. Chiedevano di boicottare un evento in cui si discuteva di Israele con un ex premier israeliano contrario alla linea politica che ha oggi Israele, compiendo dunque un salto di livello notevole: a dover essere cancellati dal dibattito pubblico, secondo i più esagitati pro Pal, non tutti per fortuna, non devono essere solo coloro che si augurano che la guerra in medio oriente non finisca con una vittoria di Hamas ma anche tutti coloro che in qualche modo rappresentano Israele, anche i critici di Netanyahu, come Olmert. Il fine dunque non è la cancellazione di una posizione, ma il dibattito intero, perché discussioni non ci devono essere, non si può non chiamare il dramma di Gaza genocidio, non si può parlare di antisemitismo quando vi è un dramma nella Striscia, non si può dare la parola a un israeliano per ragionare sul futuro del medio oriente, perché essere israeliani è essere di parte e chi è di parte in questo conflitto non ha cittadinanza, deve essere cancellato. E il dramma ulteriore è che i boicottatori, se avessero scelto di ascoltare piuttosto che boicottare, avrebbero potuto raccogliere, da Olmert, e anche dall’ex ministro degli Esteri dell’Anp, numerosi spunti di riflessione, per ragionare sul passato, sul presente e sul futuro del conflitto in medio oriente. Avrebbero potuto ascoltare, dalla bocca di Al-Kidwa, le ragioni per cui per dare un futuro a Gaza occorre fare qualcosa per non dare un futuro al terrorismo. E avrebbero soprattutto potuto ascoltare da Olmert quali sono alcuni buoni argomenti per criticare la guerra di Israele senza delegittimare Israele, poggiando i piedi della critica un passo prima del precipizio dell’antisionismo, che spesso, non sempre per fortuna, fa rima anche con antisemitismo. Avrebbero potuto ascoltare, da Olmert, che ha dialogato con chi vi scrive, un buon argomento per criticare da sinistra la guerra di Netanyahu: considerare chiunque critichi l’azione di Israele oggi come un antisemita è sbagliato, è un errore, ma quando vi opponete al governo israeliano, cosa che non dovete esitare a fare, se lo volete, ricordatevi sempre di non demonizzare Israele e il popolo israeliano. Avrebbero potuto ascoltare questo, da Olmert, ma avrebbero anche potuto ascoltare altro. Per esempio, come dice Olmert, la necessità di ragionare attorno alle critiche su Israele riconoscendo che una parte delle critiche riguarda il governo di oggi e un’altra parte riguarda l’antisemitismo. “Ci sono gruppi di critici di Israele, persone che sono sempre state eque, oneste, intellettualmente giuste, persone che forse non hanno mai apertamente sostenuto, non hanno necessariamente condiviso la creazione dello stato di Israele, ma che sono state sempre aperte mentalmente. E ora proprio questo gruppo, queste voci sono molto critiche, sono aspramente critiche ed esprimono questo dissenso perché non sopportano quello che vedono, non sopportano quello che sentono, non sopportano la retorica del governo e questa narrazione, la narrazione del governo Netanyahu e le sue decisioni, le sue scelte. E quando ascolto queste voci, queste critiche, allora davvero mi rattristo moltissimo. E sento addirittura di poter essere d’accordo in alcuni casi con queste critiche”. Ma accanto a queste, dice Olmert, c’è anche un altro gruppo, “che ha sempre criticato Israele, qualunque cosa Israele abbia fatto o faccia. In qualche modo c’è sempre stato un atteggiamento di critica da parte di questo gruppo nei confronti di Israele. Partito preso, vuoi per una non condivisione di alcune scelte politiche o, diciamolo, anche per antisemitismo, perché in qualche modo dobbiamo anche essere consapevoli che, come dire, anche se io ormai quasi non ci faccio più caso, è comunque una realtà che permane: un certo antisemitismo anche forse non consapevole. Sono gruppi, sono voci che si sentono in tutto il mondo, non solo in Europa. Diciamo che dobbiamo in qualche modo riconoscere che l’antisemitismo è stato e probabilmente sarà sempre parte delle nostre vite, delle nostre tradizioni e alcuni - non tutti perlomeno - non ce la faranno a essere esenti da questo pregiudizio”. Avrebbero potuto ascoltare queste differenze sottili, non necessariamente condivisibili, ma utili a impostare un’argomentazione seria, non demagogica, e avrebbero potuto anche osservare la figura di Olmert, un ex premier critico con l’attuale premier, come il simbolo dello scandalo che oggi Israele rappresenta, nonostante la tragedia di Gaza, e che per questo, essendo uno scandalo, deve essere rimosso: un simbolo di democrazia, dove si può discutere quello che fa il capo di un paese senza aver paura di essere condannati alla gogna, almeno nel proprio paese. Immagino che lo sappiate, ha detto ieri Olmert, “ma non c’è nessun altro paese al mondo come Israele dove da due anni a questa parte ogni giorno c’è una manifestazione. Ci sono migliaia, decine di migliaia, talvolta centinaia di migliaia di persone che scendono per le strade a protestare contro il governo, contro le sue politiche, a chiedere la fine della guerra, la liberazione degli ostaggi e la fine di questi attacchi contro Gaza, il cui eventuale potenziale obiettivo comunque non vale la vita di tutte le vittime, non vale il costo che tutti stiamo pagando”. Olmert, rispetto ai temi legati all’attualità, al protrarsi del conflitto, non crede sia possibile spingere Hamas a restituire gli ostaggi con una guerra, pensa sia vero il contrario, ovvero che gli ostaggi potrebbero essere liberati solo nel momento in cui Israele dovesse decidere di far finire il conflitto, ma pensa comunque che sia necessario fare in un secondo momento quello che in molti demagogicamente vorrebbero oggi: “Se si riuscisse a insediare una forza di sicurezza insieme a un governo a Gaza, allora pian piano si potrebbero creare le condizioni perché le nostre comunità siano pronte a compiere il passo successivo: un dialogo, una discussione aperta tra Israele e l’Autorità Palestinese per realizzare la soluzione dei due stati. Successivamente, un confronto più ampio con altri attori della regione: Israele, Palestina, Giordania, Emirati, Egitto, fino a coinvolgere anche le altre comunità islamiche del mondo, come per esempio l’Indonesia”. Ci si potrebbe chiedere quali sono le ragioni per cui un dialogo sul futuro del medio oriente, in generale, con ospiti israeliani, debba essere boicottato, specie da un bravissimo sindaco che dovrebbe forse trovare un modo per raddrizzare la sua schiena. Ci si potrebbe chiedere quali sono le ragioni per cui discutere in modo problematico, non scontato, imprevedibile, di Israele e di Gaza, possa essere uno scandalo, anche con queste argomentazioni. E la ragione è lì sotto i nostri occhi. Di fronte al conflitto in medio oriente lo scandalo non è soltanto criticare Israele senza demonizzare ciò che Israele rappresenta. Lo scandalo oggi è considerare eretici da cancellare tutti coloro che ragionando sul futuro del medio oriente auspichino semplicemente la non vittoria di Hamas, auspichino di criticare Israele senza demonizzare la storia di Israele e auspichino di ricordare che criticare Netanyahu è un conto, trasformare l’antisionismo in un surrogato più presentabile dell’antisemitismo è un altro. E dunque le domande sono quelle da cui siamo partiti. Si può essere dalla parte dei palestinesi innocenti trucidati a Gaza senza alimentare l’antisemitismo? Si può essere dalla parte dei pro Pal con la testa sulle spalle senza dover assecondare la descrizione di Israele come la culla del nuovo nazismo? Di fronte a queste domande le scelte sono due: cancellare o ascoltare. Scegliere da che parte stare, forse, non dovrebbe essere così difficile. Medio Oriente. La soluzione dei “due popoli, due Stati” è al capolinea di Francesca Mannocchi La Stampa, 15 settembre 2025 Tra voti e dichiarazioni di organizzazioni internazionali, l’intesa si sta sgonfiando. E perde il suo senso, diventando uno slogan che non guarda alla realtà nella Striscia di Gaza. Venerdì l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato a larga maggioranza l’approvazione di una dichiarazione che delinea “passi tangibili, vincolanti e irreversibili” verso una soluzione a due Stati tra israeliani e palestinesi. Una dichiarazione - 142 voti a favore, 10 contrari e 12 astenuti - che precede di pochi giorni l’incontro dei leader mondiali del 22 settembre a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in cui Gran Bretagna, Francia, Canada, Australia e Belgio dovrebbero riconoscere formalmente uno Stato palestinese. Nelle stesse ore in cui alle Nazioni Unite si votava una risoluzione per riaffermare l’urgenza della soluzione a due Stati, Benjamin Netanyahu dichiarava pubblicamente, da Ma’ale Adumim, che “non ci sarà mai nessuno Stato palestinese”, aggiungendo “questo posto è nostro”. Netanyahu, a Ma’ale Adumim, ha anche ironizzato su chi continua a definire “territori occupati” le aree di Giudea e Samaria, dichiarando provocatoriamente che “sono occupati, ma da Giosuè bin Nun”, evocando la conquista biblica. Bezalel Smotrich lo ascoltava sorridendo, entusiasta. Netanyahu ha scelto il cuore simbolico e geografico di una delle colonie più strategiche della Cisgiordania, Ma’ale Adumim, per dichiarare apertamente ciò che da tempo è nei fatti. E non era solo: ha voluto al suo fianco Smotrich, leader dell’estrema destra religiosa e ministro con delega alle colonie. La loro presenza congiunta non è stata solo un’ostentazione ideologica, ma un atto politico preciso: mostrare l’accelerazione dell’annessione della Cisgiordania, consolidando una realtà che rende impossibile qualsiasi forma di sovranità palestinese. I processi di espansione degli insediamenti stanno accelerando rapidamente: dopo 35 anni di rinvii, il governo ha recentemente approvato la costruzione di 3.400 nuove unità abitative nell’area E1, ma già se ne annunciano 3.527. Questo avviene nonostante la condanna internazionale: solo un giorno dopo, 21 Paesi - tra cui, Francia, Giappone e Australia - hanno firmato una dichiarazione congiunta contro la decisione israeliana. Per anni, i governi israeliani avevano sospeso i progetti di costruzione nell’area E1 per le pressioni internazionali, ma oggi, Netanyahu e i suoi alleati di governo stanno trasformando una minaccia in realtà. Ma’ale Adumim è l’emblema fisico, cartografico, di ciò che nega in concreto la possibilità stessa di uno Stato palestinese: la frammentazione del territorio, la continuità spezzata, la sovranità resa impossibile, è la dimostrazione ennesima che il cortocircuito tra ciò che si afferma nei consessi internazionali e ciò che si realizza sul terreno sia diventato strutturale. La firma dell’accordo per avviare la costruzione di migliaia di nuove unità abitative nell’area E1 - da decenni considerata una “linea rossa” persino da alleati occidentali di Israele - è un colpo deliberato al cuore della soluzione a due Stati, perché urbanizzare l’area E1 significa separare fisicamente Gerusalemme Est da Betlemme e Ramallah, spezzando ogni continuità territoriale e vanificando la possibilità di uno Stato palestinese indipendente e vitale. Quelle di Netanyahu, dunque, non sono solo dichiarazioni politiche: sono dichiarazioni d’intenti che si oppongono frontalmente al linguaggio ufficiale della diplomazia internazionale. La fotografia che tutto questo ci consegna è che mentre le diplomazie votano “dichiarazioni di intenti” e “condanne”, i bulldozer avanzano. Mentre si invocano soluzioni negoziate, si stabiliscono “fatti compiuti” che svuotano di senso quelle stesse soluzioni. Il paradosso è che la soluzione a due Stati, lungi dall’essere un progetto radicale, è ormai diventata uno slogan ripetuto quasi meccanicamente, più per inibire un pensiero politico alternativo che per proporre una visione realistica. Netanyahu lo sa. E lo dice apertamente: “Non ci sarà nessuno Stato palestinese. Questo posto è nostro”. E lo dice mentre il mondo finge di continuare a credere nella soluzione a due Stati. E allora viene da chiedersi: a cosa serve il linguaggio della diplomazia se non ha più corrispondenza con la realtà? E se la realtà viene manipolata con tale spregiudicatezza, chi ha il coraggio di chiamarla per nome? Quando oggi le istituzioni europee e il Consiglio di Sicurezza riaffermano il proprio sostegno alla “soluzione a due Stati”, lo fanno più per mascherare un fallimento che per indicare un orizzonte concreto. È una dichiarazione fatta di parole che hanno perso ogni forza prescrittiva, trasformandosi in un atto simbolico, quasi liturgico. Si proclama ciò che non si è mai davvero voluto o saputo realizzare. Peggio: si continua a sostenere, di fatto, le condizioni che rendono quella stessa soluzione impraticabile, perché non basta affermare un principio se non si è disposti ad agire sulle sue conseguenze. Dire di volere due Stati mentre si finanzia il governo che espande gli insediamenti illegali; mentre si accettano, senza sanzioni, le dichiarazioni di chi nega esplicitamente il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese - come Netanyahu a Ma’ale Adumim - è non solo una contraddizione, è una complicità silenziosa. La storia recente è costellata di esempi di questa incoerenza. Da anni, le istituzioni europee definiscono gli insediamenti israeliani in Cisgiordania “illegali secondo il diritto internazionale” e “ostacoli alla pace”; tuttavia, a queste parole, non sono mai seguite sanzioni, né conseguenze politiche o commerciali verso Israele. Anzi, l’Unione europea ha mantenuto - e in alcuni casi rafforzato - l’accordo di associazione con Israele, garantendo privilegi economici e scambi tecnologici, senza condizionarli al rispetto dei principi del diritto internazionale. La filosofia politica ci insegna che il linguaggio politico è performativo solo quando è legato all’azione. Senza atti conseguenti, le parole diventano strumenti di oblio, non di trasformazione, perciò dire “due Stati” è diventato un modo per non dire: per non affrontare la realtà attuale di apartheid, per non intervenire su quella realtà che si è lasciata consolidare giorno dopo giorno. Questa è la vera crisi della soluzione a due Stati: non solo l’impossibilità concreta di realizzarla, ma il suo svuotamento semantico. Due Stati oggi è diventata una formula vuota, pronunciata da chi non crede più alla sua possibilità ma non vuole assumersi la responsabilità di dichiararne il fallimento, è una posizione difensiva, non propositiva; e spesso è funzionale a evitare di prendere misure contro chi quella soluzione la sabota ogni giorno con politiche di annessione, segregazione e sfollamento forzato. Il sostegno a quella che fu una proposta di giustizia oggi rischia di diventare un alibi dell’inerzia. Se l’Europa vuole ancora credere in quel modello, ha il dovere non solo di dirlo, ma di agire: riconoscendo la responsabilità di chi lo ostacola, sanzionando le violazioni del diritto internazionale, smettendo di separare la diplomazia dalla coerenza morale. Altrimenti, la “soluzione a due Stati” rimarrà non un progetto, ma una frase vuota, ripetuta per lavarsi la coscienza. Siria. “Sei druso?” e gli sparano: decine di esecuzioni di forze governative e gruppi affiliati di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2025 Nei video appaiono uomini armati in uniforme, privi di emblemi ma a bordo di camion su cui è molto visibile il logo del ministero dell’Interno. Il 15 luglio un uomo in abiti civili è seduto all’ingresso di una scuola del villaggio di Tha’la, nell’entroterra di Suwayda, Siria meridionale. Viene interrogato da tre uomini armati in uniforme militare muniti di fucili di tipo AK. Gli chiedono “Sei musulmano o druso?” L’uomo risponde che è siriano. Glielo chiedono una seconda volta e questa volta risponde “druso”. Gli sparano e lo uccidono. Gli assassini, in varie uniformi comprese quelle nere della Sicurezza generale, erano entrati nel villaggio con carri armati ed altra artiglieria pesante poche ore prima. Questa è una delle numerose prove, basate su testimonianze dirette o su video verificati, delle uccisioni di decine di civili appartenenti alla minoranza drusa, intorno alla metà di luglio. Su 46 di queste uccisioni (44 uomini e due donne) Amnesty International ha redatto un rapporto, che invano ha chiesto alle nuove autorità di Damasco di commentare. Tra l’11 e il 12 luglio la crescente tensione tra gruppi armati drusi e combattenti delle tribù beduine è sfociata in scontro aperto. Il 15 luglio le forze governative sono entrate nella città di Suwayda per, secondo le dichiarazioni ufficiali, “ripristinare la stabilità” e hanno imposto il coprifuoco. Il giorno stesso Israele ha lanciato attacchi aerei contro veicoli militari siriani, uccidendo almeno 15 appartenenti alle forze governative. Le notizie di violazioni dei diritti umani commesse dalle forze governative e da gruppi loro affiliati hanno rinfocolato gli scontri coi gruppi armati drusi in un crescendo di violenza, terminata solo col ritiro delle forze governative la notte del 16 luglio. Le 46 esecuzioni extragiudiziali documentate da Amnesty International sono state commesse a Suwayda o nei suoi dintorni, il 15 e il 16 luglio, dopo che le forze governative erano entrate in città e avevano dichiarato il coprifuoco e prima del loro ritiro. Il 22 luglio il ministro della Difesa ha dichiarato di essere a conoscenza che “nella città di Suwayda ci sono state gravi e scioccanti violazioni commesse da un gruppo sconosciuto [il corsivo è mio] che indossava uniformi militari”. Due mesi prima, il 23 maggio, lo stesso ministro della Difesa aveva annunciato che i principali gruppi armati precedentemente operanti in Siria erano stati integrati nelle forze armate e che ai restanti gruppi minori erano stati dati dieci giorni di tempo per adeguarsi: in caso contrario, sarebbero stati presi duri provvedimenti. Secondo le prove raccolte da Amnesty International, gli uomini coinvolti nelle esecuzioni extragiudiziali indossavano vari tipi di abbigliamento: uniformi militari identificabili dai colori beige o verde oliva delle mimetiche, abiti civili con sopra giubbotti militari, uniformi di colore nero compatibili con quelle indossate dalle forze di sicurezza, in alcuni casi con l’emblema “Sicurezza generale”. La maggior parte degli uomini in uniforme militare o della sicurezza visibili nei video e nelle fotografie verificati da Amnesty International non indossava emblemi identificabili. Tuttavia, l’organizzazione per i diritti umani ha controllato video in cui appaiono uomini armati in uniforme, privi di emblemi ma a bordo di camion su cui è molto visibile il logo del ministero dell’Interno, nonché uomini armati che indossano varie uniformi, alcune con e alcune senza emblemi governativi chiaramente visibili, che agiscono congiuntamente subito dopo un’esecuzione avvenuta all’interno dell’ospedale nazionale. Su almeno quattro uomini in uniformi militari, che appaiono in video verificati da Amnesty International, è visibile la pezza con la dichiarazione di fede islamica, un simbolo comunemente associato allo Stato islamico. Tuttavia, questo gruppo armato non ha rivendicato né ha commentato gli attacchi nella provincia di Suwayda. Tre dei quattro uomini, uno dei quali indossa un’uniforme nera, sono ripresi in un video insieme alle forze di sicurezza siriane. Amnesty International ha anche individuato due fotografie, scattate a gennaio e a maggio del 2025, in cui membri delle forze armate e delle forze di sicurezza siriane portano la stessa pezza. Il 31 luglio il ministro della Giustizia ha istituito una commissione per indagare su quanto accaduto e chiamare a risponderne i responsabili. Amnesty International ha chiesto che l’indagine sia tempestiva, indipendente, imparziale e trasparente. Purtroppo, dopo le uccisioni illegali di centinaia di civili appartenenti alla minoranza alauita e la continua mancanza di giustizia, la violenza contro un’ulteriore minoranza, stavolta quella drusa, ha devastato un’altra comunità, ha aperto la strada a nuovi disordini e ha minato la fiducia nella volontà del governo di fornire verità, giustizia e riparazione a tutte le persone che, in Siria, hanno subito decenni di crimini di diritto internazionale e altre violazioni dei diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia