Carceri, i numeri dietro gli annunci di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 settembre 2025 Più detenuti, meno posti e l’operazione verità da fare sui suicidi. Promesso, annullato, rifatto: ma è ancora fermo al palo il piano per l’edilizia penitenziaria. E da un anno mancano alcuni regolamenti che il ministero doveva emanare. Se nelle carceri fosse spuntato anche solo un posto in più per ogni annuncio governativo di piano carceri, per ogni videomessaggio della premier Meloni, e per ogni intervista del ministro della Giustizia Nordio, allora la rincorsa impossibile tra più posti in carcere e più detenuti avrebbe centrato almeno quel pareggio galleggiante che invece i più recenti dati proprio del Ministero disvelano sia una chimera. Dal primo gennaio 2025 all’ultima rilevazione del 31 agosto, mentre i detenuti crescevano di altre 1.306 persone (63.167 contro 61.861, erano 56.225 all’inizio del governo Meloni nell’ottobre 2022), la capienza regolamentare nei 190 istituti non solo non è cresciuta, a dispetto dei proclami, ma rispetto a inizio anno è persino diminuita, 38 posti in meno (addirittura 160 in meno se non si contano quelli in Albania inutilizzati e quelli che erano nel carcere femminile ora chiuso di Pozzuoli). E vanno peraltro detratti i posti in concreto inagibili o indisponibili che sono 4.580, con un peggioramento di quasi mille in più rispetto a due anni fa, quand’erano 3.646, portando alla situazione per cui i 63.167 detenuti stanno in 46.658 posti veri (persino meno di quanti fossero cinque anni fa, 47.193 nel 2020). E una operazione-verità dovrebbe essere fatta sulla contabilità dei suicidi (61 sinora nel 2025), non solo per le risapute difformità classificatorie - da cui discende la diversità di numeri tra Ministero, Garante dei detenuti, e osservatorio di Ristretti Orizzonti - ma soprattutto per l’invece misconosciuto inaccettabile buco nero statistico che inghiotte le vite finite nella burocratica voce “cause da accertare” (cioè in attesa di essere aggiunte o alle morti naturali, che nel 2024 sono state 245, o appunto ai suicidi) : nei primi 7 mesi del 2025 i dati ufficiali registrano infatti ben 30 decessi per cause da accertare, e forse è ancor più impressionante che nelle statistiche (a parità di periodo gennaio-luglio) restino tuttora “appesi” a “cause da accertare” ancora 11 detenuti morti del 2024, 13 del 2023, 18 del 2022 e 6 del 2021. Non che ci fosse bisogno di questo macabro “fuori sacco” per far ammutolire i cantori della nenia della ineluttabilità dei suicidi: dovrebbe già bastare la secca realtà delle percentuali, visto che il tasso di 14,5 suicidi in carcere ogni 10.000 persone in questa prima parte dell’anno, di 15 per 10.000 l’anno scorso, e di 12 per 10.000 nel 2023, è venticinque volte più alto del tasso di suicidi tra persone in libertà, è il doppio della mediana nelle carceri d’Europa, ed è quasi il doppio di quanto ci si suicidava in carcere in Italia dieci anni fa. L’incremento di presenze nei penitenziari dipende dai troppi arrestati posti in custodia cautelare dai magistrati, come lamenta sempre Nordio? Non parrebbe, perché i dati indicano (per usare un’espressione dell’ex Garante Mauro Palma) non tanto che “si entra di più”, quanto che “si esce di meno”: nei primi otto mesi dell’anno i detenuti che scontano condanne definitive sono cresciuti di 1.213, molto più di quelli in attesa di primo giudizio, aumentati di 186. Nel frattempo l’ennesimo piano carceri, annunciato sette mesi fa per 16 prefabbricati che al costo di 32 milioni di euro avrebbero dovuto creare 384 nuovi posti entro gennaio 2026, neanche è partito perché il governo ha sbagliato i conti e, quando ce ne si è resi conto, Invitalia ha dovuto annullare la gara pubblica e rifare in estate il bando (scadenza tra dieci giorni) per un costo stavolta di 45,6 milioni e una messa in opera a 48 mesi, quando agli attuali ritmi di ingressi i detenuti saranno cresciuti di 6.800 persone. Non a caso, dall’annuncio di quel piano carceri (febbraio) si è già passati (fine luglio) a un altro annuncio governativo di un ancora nuovo piano carceri per “9.696 posti nel triennio, più 5.000 ulteriori grazie alla valorizzazione di istituti nelle principali città”. Qualunque cosa voglia dire, per ora si sono però già perse le tracce parlamentari del disegno di legge pubblicizzato dal comunicato stampa del 22 luglio da Meloni-Mantovano-Nordio sulla detenzione domiciliare dei detenuti tossicodipendenti per pene sino a 8 anni in apposite strutture delineate da un regolamento ministeriale “entro 120 giorni”. Scadenza non rassicurante, visto il precedente del decreto legge del luglio 2024 battezzato da Nordio “carcere sicuro”, che affidava a un regolamento del Ministero i criteri di istituzione delle comunità per detenuti privi di domicilio: passato più di un anno, l’albo è sempre annunciato per imminente. “Un carcere più umano”, riparte il digiuno a staffetta di avvocati, magistrati e cittadini di Paolo Foschini Corriere della Sera, 14 settembre 2025 Obiettivo cinquemila adesioni, dopo le cinquecento raccolte nella prima fase dell’iniziativa in estate e che ora riprende nel mese in cui i suicidi in carcere hanno superato quota sessanta dall’inizio dell’anno. Le “istruzioni” per partecipare: “Ognuno convinca altre nove persone”. Riparte il digiuno a staffetta per “un carcere più umano”. Nell’anno in cui compie mezzo secolo la riforma dell’Ordinamento penitenziario - una rivoluzione ancora in attesa di tradursi per intero in realtà - e nel mese in cui i suicidi nelle “nostre” prigioni hanno superato quota sessanta da gennaio, riprende l’iniziativa di sensibilizzazione il cui primo capitolo si era concluso in agosto con centinaia di adesioni da parte di avvocati, magistrati, associazioni, cittadini. Tutti possono partecipare, un giorno di digiuno a testa e una lista a cui iscriversi per comunicarlo: basta scrivere una email a peruncarcereumano@gmail.com indicando nome cognome e professione, nonché un giorno di adesione da adesso “sino alla fine di ottobre”. Tra i promotori gli avvocati Valentina Alberta e Maria Brucale con i magistrati Stefano Celli e Marta Zavatta, firmatari della lettera che rilancia l’iniziativa ricordando appunto l’anniversario di quella riforma che doveva e avrebbe potuto dare inizio alla “attuazione della pena come disegnata dalla Costituzione: ma la realtà - scrivono - non si fa carico di celebrare ricorrenze attuando buone idee e così il 31 agosto, nelle carceri italiane, ci sono 63.167 detenuti, il 140% della capienza effettiva”. Eppure, proseguono, alcune soluzioni anche nell’immediato sarebbero possibili: “Una parte della politica ha finalmente cominciato a considerare la necessità di interventi rapidi, primo fra tutti il progetto di legge Giachetti sull’ampliamento temporaneo della liberazione anticipata, accanto a ragionamenti a medio e lungo termine”. Il digiuno a staffetta appena ripartito vuole essere in pratica la prosecuzione ideale dello sciopero della fame che Rita Bernardini ha protratto dal 20 agosto al 10 settembre, giorno della ripresa dei lavori parlamentari: “Una protesta non violenta che proseguirà sino a che il numero di persone detenute non sarà adeguato agli standard di minima civiltà che oggi mancano”. Alla prima fase dell’iniziativa, lanciata l’8 luglio, avevano aderito cinquecento persone. Ciascun aderente, nel giorno liberamente scelto, si impegna a non assumere cibi solidi. “Chiediamo innanzitutto a chi ha già partecipato alla nostra iniziativa - scrivono i promotori - di aderire nuovamente e convincere, ciascuno, altre nove persone. È una sfida per arrivare dall’insperato numero di 500 adesioni a quello di cinquemila. È importante supportare un’iniziativa che, nuovamente, attende il segnale di un provvedimento prioritario rispetto a qualsiasi altro, che possa alleviare le sofferenze e disagi gratuiti per chi vive e lavora nelle carceri”. Firme per gli innocenti in carcere. Giustizia per i detenuti assolti di Aldo Di Tommaso Il Resto del Carlino, 14 settembre 2025 Una proposta popolare chiede allo Stato un sostegno mensile provvisorio. Banchetto in piazza. Cittadini e attivisti raccolgono adesioni al banchetto per promuovere la proposta di legge a favore delle vittime di ingiuste detenzioni. Un banchetto in piazza, firme che si accumulano e un obiettivo preciso: dare voce a chi ha perso anni di vita in carcere senza colpa. È partita ieri a Rimini la campagna per la proposta di legge di iniziativa popolare che chiede un sostegno immediato alle vittime di ingiuste detenzioni. L’iniziativa prende il nome da Beniamino Zuncheddu, il pastore sardo rimasto in carcere 33 anni da innocente, e punta a colmare un vuoto di tutela che oggi lascia le persone senza alcun aiuto concreto. A illustrare il senso della proposta è stato Ivan Innocenti, del Consiglio generale del Partito Radicale: “In Italia occorrono anche otto anni per ottenere un risarcimento. Nel frattempo chi ha perso tutto non ha nulla su cui contare. Noi chiediamo che lo Stato riconosca almeno mille euro al mese come sostegno provvisorio. Non è la soluzione di ogni dolore, ma è un modo per non lasciare soli gli innocenti che hanno subito un’ingiustizia. Servono 50mila firme per portare questa proposta in Parlamento: è un obiettivo ambizioso ma doveroso”. Al suo fianco, al tavolo cittadino, il consigliere comunale Andrea Pari (Lega), la consigliera Serena Soldati (Lista Jamil), il vicepresidente della Camera Penale di Rimini Luca Greco, l’avvocato Maurizio Ghinelli e Annalisa Calvano della Commissione Carcere. Soldati ha sottolineato il valore di un impegno comune: “Quando parliamo di giustizia giusta non esistono barriere politiche. È importante che destra, sinistra e radicali siano insieme per un obiettivo che riguarda i diritti di tutti. Questa è una battaglia che unisce e che dobbiamo portare avanti con determinazione”. Il tema resta delicato: oggi lo Stato riconosce un indennizzo, ma soltanto al termine dei procedimenti, spesso dopo anni di attesa. Per Greco, “il debito dello Stato non è solo economico, ma è fatto di tempo e vita rubata”. Ghinelli ha ricordato l’esistenza di “strumenti giuridici parziali, insufficienti a garantire un aiuto immediato”. Calvano ha infine richiamato la funzione sociale della proposta: “Non c’è indennizzo che possa restituire famiglia e dignità perdute, ma un sostegno minimo è un dovere”. Carceri, quando il volontariato è una vocazione: incontri con i protagonisti di Alessandro Pendenza gnewsonline.it, 14 settembre 2025 Ogni sabato incontriamo persone rilevanti del terzo settore, donne e uomini che hanno creato lavoro e formazione per i detenuti, promosso la cultura come esercizio di libertà, sfidato ostacoli burocratici, combattuto pregiudizi e stereotipi. Tra passato e presente, attraverso queste figure, è possibile riscrivere la storia del mondo penitenziario dalla Riforma Gozzini a oggi. “Lazzarelle” è una cooperativa composta esclusivamente da donne. Attiva all’interno prima del carcere femminile di Pozzuoli e a breve in quello di Secondigliano, produce caffè artigianale, seguendo l’antica tradizione napoletana ed eroga vari servizi. In questo progetto di inclusione sociale coinvolge le donne detenute con tassi di partecipazione alle attività superiori al 70%. Imma Carpiniello, una delle tre fondatrici della cooperativa, intervistata da gNews racconta la sua esperienza. Come è nata l’idea di Lazzarelle? Dall’idea di creare una cooperativa per le donne detenute, dando opportunità concrete di inclusione in un contesto di provenienza fatto di marginalità sociale. Abbiamo pensato: cosa possiamo produrre? E stando a Napoli, culla italiana dell’arte del caffè, è venuto naturale il collegamento con l’attività di torrefazione, unendo un po’ la nostra cultura con il mondo dei piccoli coltivatori del mercato equo e solidale, dal quale ci riforniamo di chicchi di caffè verdi. Da dove viene il nome della cooperativa “Lazzarelle”? “Lazzarelle” è un termine del dialetto napoletano, che significa bambina irriverente, dispettosa. Il nome è stato scelto insieme alle prime donne coinvolte nel progetto, perché si sentivano rappresentate da questa immagine. Quanto è stato difficile iniziare questo progetto all’interno dell’istituto di Pozzuoli nel 2010? Ci siamo trovate benissimo nel carcere di Pozzuoli. Abbiamo registrato un buon clima e si lavorava bene. All’inizio abbiamo riscontrato un po’ di diffidenza nella popolazione carceraria, poi con il passare del tempo si è dissipata. A livello istituzionale hanno subito accolto l’idea e ci hanno appoggiato entusiasticamente. L’area educativa in particolare ci ha supportato nella selezione delle detenute e poi per il passaggio delle materie prime in entrata e delle merci in uscita abbiamo trovato grande collaborazione anche con gli agenti della Polizia penitenziaria. Tutto ciò è stato basilare per la buona riuscita del progetto. Purtroppo da maggio 2024 il carcere femminile di Pozzuoli è stato chiuso definitivamente a causa dei danni subiti a seguito delle scosse di terremoto del bradisismo nei Campi Flegrei. Le detenute sono state trasferite in altre strutture, come nel carcere di Secondigliano. Siamo in attesa che i macchinari vengano trasferiti nel carcere di Secondigliano per poter riprendere l’attività di torrefazione, mentre le altre attività che sono svolte fuori dall’istituto stanno andando avanti. Quali altre attività oltre la torrefazione gestite con la cooperativa? Gestiamo un bistrot, un servizio di cleaning, di catering e di produzione di piccoli manufatti come le bomboniere, che coinvolge le donne detenute, che hanno il permesso di svolgere attività esterne. Qual è il grado di partecipazione della popolazione detenuta a queste attività? Stimiamo un’adesione superiore al 70%, che porta ad una recidiva bassissima, che per noi è del 5%, contando anche chi rientra nel circuito carcerario a causa di carichi pendenti precedenti. Nella vostra esperienza, ormai quindicennale, le persone che si succedono nella cooperativa, quando escono dal circuito carcerario, che cosa si portano via? A chi esce ovviamente la libertà cambia tanto, però molte donne lamentano la difficoltà di riprendere in mano la loro vita e la difficoltà di trovare la loro collocazione nella società. L’esperienza con noi le aiuta in questo e il ritorno che ci danno è positivo. Escono e tendono a trovare impieghi regolari e non legati al loro passato. Con molte di queste persone siamo rimaste in contatto e i rapporti sono rimasti cordiali. A volte ci hanno richiamato per avere supporto in periodi duri o per trovare lavoro e noi le aiutiamo molto volentieri. Pensate di poter estendere ad altri carceri questo modello virtuoso? Speriamo che possa essere un modello per altri istituti, però per il momento non ci sono progetti, che vadano oltre a Secondigliano. Ci stiamo concentrando sull’approfondimento delle attività, che già gestiamo. Chi sono clienti della cooperativa? Il servizio catering ha molto successo con il mondo universitario, ci chiamano per il catering dei convegni. Il servizio di cleaning è attivo con B&B e case vacanze. Va molto bene anche il sito, che vende i prodotti, sia legati alla torrefazione, che alla piccola manifattura e notiamo che ordinano sia il singolo, gruppi di acquisto, ma anche botteghe e piccoli ristoranti. Sono tutti progetti che si alimentano a vicenda con il passaparola tra i clienti, che provano uno servizio o un prodotto. Il carcere per i parenti: una terra di nessuno, una via di mezzo tra il fuori e il dentro di Paolo Spalluto terzultimafermata.blog, 14 settembre 2025 Ieri ho fatto un colloquio telefonico con il carcere di Foggia. Poi ho mandato un vocale al padre del detenuto per comunicare che avevo sentito il figlio e per inviargli degli atti. Poi ancora ho sentito la sorella di altro detenuto “ospite” al Pagliarelli di Palermo. Mi ha fatto delle domande. Le parole di questa signora hanno interrotto bruscamente la sequenza dei miei pensieri che erano concentrati su altro. Le ho risposto da avvocato che si può fare poco. La mia risposta non le piaceva. A volte si attendono delle risposte dall’avvocato che possano placare l’ansia, in qualche modo. Allora ho aggiunto: ma lotteremo! L’ho detto per una intuizione, non per effetto placebo. Ci credo veramente. Ho, infatti, quasi immediatamente pensato ad una soluzione. Forse mi ero così abbandonato dietro i miei pensieri che sono stato un poco superficiale con l’interessata. Chiusa la telefonata sono tornato all’inseguimento dei miei pensieri e di quella possibile soluzione. Tra questi pensieri che rincorrevo uno l’ho agganciato: come è duro il carcere dei parenti. Ci sono, infatti, due carceri: quello dei detenuti e quello dei parenti. Mogli, figli, sorelle, fratelli. Il carcere dei detenuti funziona così: entri e trovi uno o più poliziotti penitenziari che si occupano di controlli. Generalmente molto fiscali. Esame dei documenti, ritiro del cellulare, verifica della nomina. Alla fine ti fanno passare e attraversi la solita serie di porte blindate che si aprono e richiudono al tuo passaggio, fino alla Sala Avvocati. Questi locali si assomigliano tutti: accoglienti come la reception di un obitorio di provincia. Il carcere dei parenti è un carcere a parte. Una terra di nessuno, una via di mezzo tra il fuori e il dentro. Niente che possa essere paragonato alla disumanità del carcere dei detenuti, niente che possa essere paragonato con l’umanità della vita fuori. Un giro sulle montagne russe: dura poco, ti stravolge e ti rimette coi piedi per terra e la sensazione di avere sognato. Ma poi rischi di abituarti. Ecco, questo mi dispiace molto: il rischio dell’abitudine. All’improvviso mi sono reso conto di quello che succede nella mia testa da un poco di anni: corro il rischio dell’abitudine e dell’assuefazione e non mi piace. Se ci rifletto la sensazione che ho é come per quelle figurine magiche che da piccolo trovavo nelle confezioni dei formaggini: a seconda di come le spostavi l’immagine cambiava, il protagonista si muoveva, altri personaggi apparivano. E voglio rimanere fedele a questa sensazione. Tutto si può risolvere: basta spostare bene la figurina. Anm, Parodi difende la magistratura e lancia il comitato per il no al referendum di Davide Vari Il Dubbio, 14 settembre 2025 Il presidente del sindacato delle toghe: “L’indagine su Bartolozzi? Non è una vendetta”. E lancia la battaglia contro le carriere separate. “Questa indagine non è avvenuta, come purtroppo qualcuno ha detto, come vendetta della magistratura nei confronti del governo per la riforma: questa è una insinuazione che ritengo inaccettabile”. Con questa frase decisa, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Cesare Parodi, ha preso posizione sul caso Almasri, respingendo le accuse di politicizzazione che nelle ultime ore avevano agitato il dibattito pubblico. “Non voglio parlare di un processo in corso, meno che mai della collega Giusi Bartolozzi, e credo che valga anche per lei la presunzione di innocenza. Lasciamo che giudici e avvocati lavorino serenamente”, ha aggiunto Parodi, sottolineando la necessità di mantenere separata la magistratura dalla pressione politica. Un comitato per difendere la Costituzione - In vista del referendum sulla separazione delle carriere, l’Anm ha annunciato la nascita del Comitato a difesa della Costituzione, aperto ai singoli cittadini ma non ad altre sigle o partiti. “Abbiamo fatto una scelta: temevamo che aprirci ad altre associazioni potesse essere tacciato di condizionamento ideologico, quindi abbiamo scelto di fare un comitato nostro”, ha spiegato Parodi. E nonostante la difficoltà del compito, il presidente non ha nascosto l’ambizione: “Che la partita sia aperta non lo dico io. Ci sono dei sondaggi, compreso uno pubblicato da un giornale a cui non stiamo così simpatici, che indicano che il Paese è abbastanza diviso. Non sarà facile, ma ci proviamo”. Parodi ha inoltre chiarito il ruolo dell’Anm: “Condivido assolutamente il pensiero del ministro Nordio quando dice che noi non dobbiamo affiancarci ai partiti politici. Ha assolutamente ragione. Se noi davvero veniamo identificati con qualsiasi partito politico snaturiamo il nostro ruolo”. Tensioni e linguaggio pubblico: un pericolo reale - Parodi ha espresso preoccupazione per l’escalation di toni e accuse: “Alzare i toni è pericoloso? Ne sono certo. Quando c’è un’escalation di argomentazioni che diventano sempre più deboli sul piano dei contenuti e più forti sul piano espressivo, questa è una conseguenza inevitabile. Non sono preoccupato né intimorito, ma sono dispiaciuto che non si possa avere un confronto in termini accettabili”. Riguardo alle recenti dichiarazioni del ministro Musumeci sui “pm killer”, Parodi è stato chiaro: “Il ministro Musumeci ha parlato di tutti i magistrati. Ne prendo atto, ma mi fa molto male. Nessuno ha detto: “guardate, non condivido quest’idea”. Mi riferisco a magistrati, ex magistrati e politici di vari partiti. È incredibile”. Parodi ha spiegato come gli attacchi contro la magistratura non siano neutri, ma rischino di distorcere il senso stesso della riforma costituzionale: “Gli attacchi alla magistratura sulla riforma sono il modo per azzerare lo spirito che i costituenti hanno avuto quando hanno ipotizzato l’articolo 138. Io continuerò a ripetere fino allo sfinimento che noi non vogliamo fare politica, perché l’art.2 dell’Anm specifica espressamente che non è un’associazione politica”. Dialogo aperto, indipendenza garantita - Anche il segretario generale Rocco Maruotti ha confermato la strategia di apertura al confronto pubblico: “Le cose che ho detto alla festa dell’Unità e che ho ripetuto anche ieri a un evento organizzato dall’Università di Bologna e dalla Cgil le ripeterei, o le potrà ripetere il presidente Parodi, anche sul palco di Atreju. Andiamo dove si parla di Giustizia, andiamo dove c’è la possibilità di informare anche l’ultimo dei cittadini sui contenuti reali di questa riforma”. Maruotti ha precisato: “Non c’è adesione alle posizioni degli altri, ma la scelta di intervenire in tutti i contesti in cui si può parlare ai cittadini”. In questo contesto, l’Anm appare decisa a ribadire la propria indipendenza, tutelando i principi della presunzione di innocenza, contrastando la politicizzazione della magistratura e promuovendo il dibattito costituzionale con trasparenza. La nascita del Comitato a difesa della Costituzione è un passo concreto per coinvolgere la società civile nella discussione, senza che l’associazione perda la sua neutralità. Pinelli: “Lo scontro tra politica e toghe fa male al Paese” di Davide Vari Il Dubbio, 14 settembre 2025 Il vicepresidente del Csm all’assemblea dell’Unione Triveneta: “Separazione dei poteri irrinunciabile, ma il vero nodo è la funzione del servizio giustizia”. Appello a un “tavolo 3.0” per affrontare le sfide di demografia e rivoluzione digitale. È un discorso che vale come cartina di tornasole della sfida che attende il sistema giudiziario quello che il vice presidente del Csm Fabio Pinelli ha tenuto a Venezia, all’assemblea dell’Unione Triveneta. Non si tratta soltanto di difendere prerogative costituzionali, ma di mettere in fila priorità pratiche - tempi processuali, funzioni dell’azione penale, struttura degli uffici, formazione e tecnologia - per restituire alla giustizia la sua natura di servizio ai cittadini, non di spettacolo politico. La premessa è insieme culturale e politica. Come ricordava Pinelli citando Aldo Moro, “c’è una differenza tra semplificare e banalizzare. Nella operazione di semplificazione si elimina il superfluo, in quella di banalizzazione si elimina l’essenziale. Arduo, quando non impossibile, affrontare il tema giustizia, nella sua complessità, senza “scivolare” nella superficialità”. Un monito che orienta tutto l’intervento: le riforme non vanno trattate come slogan, ma valutate per il loro impatto reale sul servizio giustizia. Autonomia, separazione dei poteri e prudenza riformatrice - Al centro resta il principio fondamentale della separazione dei poteri. Pinelli non si limita a difendere il principio in astratto: ricorda che “l’autonomia e l’indipendenza della magistratura rappresentano prerogative irrinunciabili, poiché sono le basi del principio inderogabile dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, principio rispetto al quale nessun arretramento può essere consentito”. Allo stesso tempo avverte che “dalla fisiologica tensione tra poteri, politico e giudiziario, non si deve passare allo scontro e alla frattura istituzionale; fa male al Paese e le conseguenze le pagano innanzitutto i cittadini”. È un appello alla responsabilità reciproca: le riforme possono essere legittime, ma il dibattito non può degenerare in una campagna contro la magistratura stessa. Sull’onda delle novità correnti, Pinelli valuta la separazione delle carriere come “una legittima scelta di politica costituzionale condotta secondo criteri di “rappresentanza” che devono essere riconosciuti alla politica”, ma ammonisce sul rischio di trasformare la discussione in un referendum sulla magistratura. Qui la sua posizione è di prudenza istituzionale: la politica può decidere, ma servono salvaguardie e chiarezza di regole per non comprimere garanzie. Il paradosso processuale: “udienza Caronte” e la pena del processo - Il discorso entra poi nel merito processuale, evidenziando contraddizioni pratiche: l’udienza preliminare che avrebbe dovuto filtrare i procedimenti finisce per essere una “udienza Caronte” che traghetta troppi fascicoli verso il dibattimento. Pinelli descrive la dinamica con nettezza: “Tale criticità è all’origine del paradosso di una “udienza preliminare” che, da un lato, si vede formalmente arricchita di regole di giudizio sempre più stringenti (sostanzialmente anticipatrici della futura condanna) e, dall’altro, si dimostra nei fatti come una sorta di “udienza Caronte”, che traghetta un numero sempre maggiore di procedimenti verso il dibattimento, smentendo le finalità cui tali regole erano orientate”. Da qui la constatazione del peso della cosiddetta pena del processo: tempi lunghi, filtri inefficaci, costi per l’indagato e per la collettività. La proposta implicita è chiara: occorrono strumenti che responsabilizzino le scelte della pubblica accusa e rafforzino filtri effettivi, senza scaricare il lavoro delle scelte politiche sulla magistratura. Gigantismo penale e la perdita del primato della libertà - Una delle pagine più nette del discorso è l’avvertimento sul ricorso smodato al penale: “Abbiamo smarrito il primato della libertà individuale. Dobbiamo affrontare un vero e proprio gigantismo penale, frutto della moltiplicazione dei reati e della dilatazione dell’esercizio del potere investigativo, un diritto penale totale anziché un diritto penale minimo”. Pinelli non limita la critica all’eccesso legislativo: sposta il tema sulle conseguenze sociali e sul ruolo della pena. “Bisogna vincere l’utopia repressiva ed evitare che il carcere sia un’avanzata scuola del crimine”, ammonisce, richiamando Erving Goffman e la nozione di “istituzione totale”. La sua tesi è netta: la funzione penale non può essere la risposta principale a ogni problema sociale; la politica deve esercitare scelte di depenalizzazione e investire in misure alternative. Geografia giudiziaria, demografia e il profilo del giudice del futuro - Pinelli richiama la dimensione territoriale e demografica: la geografia giudiziaria va ripensata perché la domanda di giustizia si sposta con l’invecchiamento, i flussi migratori e la trasformazione economica. Dati proiettati (Luiss, Istat) segnalano che la composizione demografica muterà radicalmente: meno popolazione in età lavorativa, più mobilità, nuove esigenze di prossimità. La domanda: “Di che “tipo” di giudici avremo bisogno?” è al centro della riflessione. La proposta è ambiziosa ma pragmatica: mappare i carichi, ricalibrare uffici e organici, pensare a modelli differenziati di magistrato e a forme stabili di specializzazione. È una chiamata al realismo organizzativo: non si può riformare senza dati e progetti concreti. Tecnologia e garanzie: la sfida dell’IA - Sul versante tecnologico, Pinelli solleva interrogativi strategici: “Siamo certi che non sia necessario proiettarsi in una giurisdizione multidisciplinare dove il giudice possa essere coadiuvato dall’esperto di intelligenza artificiale?”. Ma la domanda non è a favore o contro l’innovazione: è un invito a governarla. Occorre bilanciare efficienza e oralità del processo, tutelare il contraddittorio, garantire trasparenza sugli algoritmi e responsabilità umana nelle decisioni. Le tecnologie non possono diventare scorciatoie che comprimono garanzie sostanziali. Certezza del diritto e imprevedibilità di sistema - Un altro nodo affrontato è quello della certezza del diritto: la proliferazione di fonti nazionali e sovranazionali, l’intreccio fra Corte costituzionale, Corte di Giustizia Ue e Corte Edu, producono “imprevedibilità di sistema” che indebolisce la percezione pubblica della giustizia. Pinelli sottolinea che “il principio da salvaguardare è quello della certezza del diritto, della prevedibilità della decisione e, in definitiva, di un sistema giudiziario più riconoscibile”. La proposta pratica è una maggiore trasparenza motivazionale, coordinamento interpretativo e strumenti di accountability sui tempi e sugli esiti delle decisioni. Il “tavolo giustizia 3.0”: progetto, non rituale - Il cuore propositivo dell’intervento è l’invito a un confronto strutturato: “È forse giunto il momento di aprire un “tavolo giustizia 3.0”, a cui partecipino insieme magistrati, avvocati, giuristi, accademici e politici, nel quale affrontare i problemi più pressanti che le trasformazioni epocali cui stiamo assistendo propongono alla giurisdizione, ed in cui “non si cerchi il potere (ognuno dalla propria prospettiva particolare) perché non si vuole fare il diritto” (per citare Massimo Donini)”. La concretezza è il criterio: mandati temporali, deliverable misurabili, sperimentazioni pilota, trasparenza dei risultati. Senza strumenti e budget il tavolo rischia di restare una dichiarazione retorica. Avvocatura, etica e funzione sociale della giustizia - Pinelli chiude ricordando il ruolo dell’avvocatura: “L’avvocatura continui a combattere, partecipando al dibattito pubblico, ma ricordando che il tema giustizia non deve limitarsi all’architettura costituzionale; e che occorre non smarrire lo statuto originario dell’essere avvocato: Rechtsanwalt, garante del diritto, guardiano del diritto. C’è sempre, infatti, un diritto di un cittadino da tutelare, una vita da salvaguardare, un argine da frapporre contro gli arbitri e gli abusi, il bisogno di dare una voce a chi non ha voce”. È un richiamo a porre il cittadino al centro: ogni riforma va misurata sul miglioramento del servizio giustizia per gli utenti finali - tempi, effettività delle garanzie, accesso e tutela delle libertà. Insomma, il discorso Pinelli è insieme una difesa delle garanzie costituzionali e una piattaforma di lavoro pragmatico: difendere l’autonomia, fronteggiare il gigantismo penale, ripensare la geografia giudiziaria, governare intelligenza artificiale e tecnologia, e mettere in campo un “tavolo giustizia 3.0” con compiti e risorse. “La giustizia non può tutto, non fa miracoli” - e per questo ha bisogno di scelte politiche coraggiose e di percorsi condivisi, non di slogan - questa la sintesi -. Se politica, magistratura e avvocatura sapranno tradurre tale consapevolezza in progetti concreti, allora la riforma potrà essere davvero funzione e non mera architettura. Isolamento diurno: non è fungibile con altre misure di Carmine Paul Alexander Tedesco lexced.com, 14 settembre 2025 Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1, n. 8325, anno 2025. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un condannato all’ergastolo, stabilendo che la pena dell’isolamento diurno non è fungibile. Non è possibile, quindi, detrarre da essa i periodi di isolamento sofferti per altre ragioni (sanitarie, cautelari o di fatto). La sentenza chiarisce la natura di sanzione penale propria dell’isolamento diurno, distinguendola nettamente dalle altre modalità di esecuzione della pena che comportano una separazione dagli altri detenuti. Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha affrontato un’importante questione relativa all’esecuzione della pena, chiarendo la natura e i limiti dell’isolamento diurno. La pronuncia stabilisce un principio netto: questa specifica sanzione non può essere confusa né sostituita con altri periodi di isolamento che un detenuto può subire per ragioni diverse, come quelle sanitarie o cautelari. Si tratta di una decisione che consolida un orientamento giuridico preciso, distinguendo ciò che è una pena da ciò che è una modalità di gestione della vita carceraria. Il caso trae origine dal ricorso di un uomo condannato alla pena dell’ergastolo, a cui era stata applicata anche la sanzione accessoria dell’isolamento diurno. Il condannato aveva chiesto alla Corte di Appello di riconoscere la “fungibilità” tra questa sanzione e due distinti periodi di isolamento che aveva già patito: il primo, definito “di fatto”, durante la sua detenzione in una casa circondariale; il secondo, legato all’emergenza sanitaria da Covid-19, presso una casa di reclusione. In sostanza, chiedeva che il tempo già trascorso in isolamento venisse “scontato” dalla durata dell’isolamento diurno a cui era stato condannato. La Corte d’Appello aveva respinto la richiesta, sottolineando la differenza giuridica tra l’isolamento previsto dall’art. 72 del codice penale e altre forme di separazione (cautelare, sanitaria, disciplinare). Insoddisfatto, il detenuto ha presentato ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la linea della Corte territoriale. Il punto centrale della decisione risiede nella natura giuridica dell’isolamento diurno. I giudici hanno ribadito che non si tratta di una mera modalità esecutiva della pena, ma di una vera e propria sanzione penale, temporanea e suppletiva. Essa si applica quando un reato punito con l’ergastolo concorre con altri reati che, altrimenti, resterebbero impuniti. Al contrario, l’isolamento per motivi sanitari, disciplinari o di sicurezza (come quello previsto dall’art. 41-bis Ord. Pen.) incide unicamente sulle modalità di attuazione del regime detentivo, senza avere la natura di sanzione penale. La Corte di Cassazione ha fondato la sua decisione su un consolidato orientamento giurisprudenziale. La motivazione sottolinea la “radicale differenza” tra i due istituti. Mentre l’isolamento diurno è una pena, con una finalità punitiva, le altre forme di isolamento sono strumenti gestionali o cautelari, finalizzati a scopi diversi come la tutela della salute, la sicurezza interna al carcere o esigenze processuali. I giudici hanno specificato che questa differenza impedisce qualsiasi forma di fungibilità o compensazione. Pertanto, il tempo trascorso in isolamento per l’emergenza Covid-19 o in un regime di separazione “di fatto” non può essere detratto dal periodo di isolamento diurno inflitto con la sentenza di condanna. Inoltre, la Corte ha rilevato che le affermazioni del ricorrente riguardo a un presunto “isolamento di fatto” erano state smentite dalle informazioni fornite dall’Amministrazione penitenziaria. Quest’ultima aveva chiarito che il detenuto era stato sottoposto a un regime penitenziario ordinario, senza particolari limitazioni al diritto alla socialità. Il ricorso è stato quindi giudicato anche aspecifico e apodittico, in quanto si limitava a reiterare le doglianze già respinte in appello, senza confrontarsi efficacemente con le ragioni della decisione impugnata. La sentenza in esame consolida un principio fondamentale nell’ambito del diritto penitenziario: le pene e le modalità di esecuzione della pena sono concetti giuridicamente distinti e non intercambiabili. La pronuncia chiarisce che l’isolamento diurno possiede una sua autonoma e specifica natura sanzionatoria che lo rende unico e non compensabile con altre forme di restrizione subite durante la detenzione. Per il ricorrente, ciò significa la condanna al pagamento delle spese processuali e l’impossibilità di vedere ridotta la durata della sanzione. A livello più generale, la decisione rafforza la certezza del diritto, tracciando un confine netto che impedisce confusioni applicative e garantisce che ogni misura mantenga la sua precisa finalità all’interno del sistema punitivo. “Un reato avviene in assenza di empatia. Un sistema che funziona è un sistema che si concentra sul riparare questa mancanza”. Nelle parole di Disa Jironet, il senso delle tante vicende processuali che ha giudicato negli anni in Olanda. Il Festival del Pensare Contemporaneo fa tappa nella Sala dei Teatini. Ospiti del venerdì sera, la procuratrice olandese e il magistrato Marcello Bortolato, chiamati da Francesco Zaffarano a discutere di vendetta e del suo opposto, la giustizia riparativa. La prima è intrinsecamente connaturata al sistema punitivo del nostro processo penale, che “modella le sanzioni non sull’illecito, ma sulla persona, con una forte componente moralizzatrice”, chiarisce Bortolato. Un sistema che ha prodotto un sovraffollamento delle carceri, un aumento dei suicidi tra i detenuti, e una vittima “marginalizzata” durante il processo. Dimostrazione del fatto, per il magistrato, che il sistema punitivo e anche quello rieducativo hanno fallito nei loro scopi di deterrenza e reinserimento. “La giustizia deve superare un sistema di retribuzione e vendetta istituzionalizzata, aprendosi alla compassione”, propone Jironet. “Compassione” viene dal greco antico sum e pathos, un “dolore condiviso”. Perché “c’è sempre qualcuno che soffre”, continua la procuratrice, e da questa sofferenza - della vittima, del reo, di entrambi - il processo penale si allontana, per rimanere “oggettivo” e “certo”. Ma integrandolo con la compassione, forse, sarebbe più efficace. Piacenza. Riparare lungo i bordi: come la giustizia riparativa può dare risposte concrete al dolore ilpiacenza.it, 14 settembre 2025 All’evento “Oltre la vendetta”, il magistrato di sorveglianza Marcello Bortolato spiega che la giustizia riparativa vuole “risolvere le conseguenze che derivano dal reato, per tutte le persone coinvolte, con l’aiuto di un terzo imparziale”. La novità - o come l’ha preferito definire Bortolato “lo scandalo” - della giustizia riparativa risiede nel mettere “vicino e sullo stesso piano” coloro che hanno subito il danno e coloro che l’hanno cagionato. Trattarli da pari, in un sistema non più verticale ma orizzontale, che permette alle parti di confrontarsi sedute l’una di fianco all’altra. Non si accantona la sofferenza, non si disumanizza il reo (come nel processo ordinario), ma si tende verso l’accordo - un accordo volontario, sottolinea il magistrato - a cui il giudice poi può dare peso nel processo per concedere una riduzione di pena. In Olanda il sistema penale non ha formalizzato la giustizia riparativa - mentre il nostro ci ha provato con la riforma “Cartabia”, ma che manca ancora di un’attuazione vera. Esiste però un sistema di mediazione molto simile, ci dice Jironet, che riporta una delle sue prime esperienze da procuratrice in cui due ragazzini di 14 anni si accoltellarono a vicenda. “Era durante la pandemia, e non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine della mascherina utilizzata per fermare l’emorragia. Dare loro una pena mi sembrava futile, così spinsi i ragazzi verso la mediazione”. Che avvenne qualche mese dopo. “A leggere l’accordo che avevano fatto mi venne da piangere per quanto fosse sincero. Dimostrava che avevano davvero compreso l’entità del loro gesto”. “Alla base di un reato nella maggior parte dei casi c’è il fatto che il reo non vede la vittima come una persona”, afferma Bortolato, ripensando alla sua vita da giudice di sorveglianza. “Bisogna fargli capire che anche non stai solo rubando soldi a una banca, ma che stai puntando una pistola in faccia ad una persona, che stai traumatizzando i presenti che assistono alla rapina”. La giustizia riparativa serve dunque per colmare queste carenze di compassione, perché solo così si avrà piena cognizione del dolore causato, e una concreta possibilità che non verrà reiterato. A chi scredita questo sistema come buonista, Jironet risponde che darebbe più spazio ai cittadini, “a cui verrebbe ridata parte di quel potere che ora detiene lo stato”. Si passerebbe ad un rapporto orizzontale, di parità vera, e dove la vittima non è “ridotta a mera testimone nel processo, senza la possibilità di parlare direttamente con il reo”, continua Bortolato. Si darebbe inoltre la possibilità alla comunità - intesa come famiglia o come quartiere - di partecipare al processo riparativo in maniera attiva, creando una rete di supporto ed affiancamento per entrambe le parti. Lecce. L’associazione “Nessuno tocchi Caino” in visita al carcere lunedì 15 settembre agoranotizia.it, 14 settembre 2025 Lunedì 15 settembre, a partire dalle ore 10, l’associazione “Nessuno tocchi Caino” farà visita al carcere di Borgo San Nicola e, all’uscita, prevista verso le 13.30, terrà una Conferenza stampa davanti al carcere. Sarà l’occasione per dar conto delle condizioni del carcere di Lecce in base a quanto riscontrato nel corso della visita e delle proposte volte a superare la grave situazione delle carceri in Italia che sono al collasso a causa del sovraffollamento. Saranno presenti Sergio D’Elia (segretario di “Nessuno tocchi Caino” ed Elisabetta Zamparutti (Tesoriere, i membri del Consiglio Direttivo Anna Briganti e Giuseppe Napoli, Alfredo Lonoce e Ivan Silvestro Siciliano del Movimento Indipendenza, l’avvocato Antonio Morleo Tondo e la Garante dei detenuti di Lecce Maria Mancarella. La tappa di Lecce fa seguito alle 108 visite effettuate nelle carceri italiane nel 2024 e le oltre 70 già svolte da inizio anno nell’ambito della campagna di Nessuno tocchi Caino denominata “Visitare i carcerati”. Nel corso della visita, verranno rilevate le condizioni di vita dei detenuti ma anche di lavoro dei “detenenti”, gli operatori penitenziari a partire dagli agenti della polizia penitenziaria costretti, per la carenza di organici, a turni massacranti e vittime anche loro delle condizioni inumane e degradanti in cui versano le carceri nel nostro Paese dovute al peso sempre più intollerabile del sovraffollamento. Particolare attenzione verrà riservata all’area sanitaria del carcere spesso carente di risorse umane e finanziarie con inevitabili conseguenze sulla salute delle persone detenute. Verbania. Dal carcere alla passerella: tre detenuti diventano stilisti del riuso di Asja D’Arcangelo torinocronaca.it, 14 settembre 2025 Grazie al progetto “Ri-vesti”, Lorenzo, Michele e Thomas hanno trasformato abiti usati in una collezione completa. Una passerella insolita e ricca di significato si prepara ad animare la casa circondariale di Verbania nella mattinata di venerdì 19 settembre. L’evento rappresenta il culmine del progetto di economia carceraria “Ri-Vesti”, nato dalla collaborazione tra l’associazione Mastronauta e il Comune di Omegna, con l’obiettivo di far conoscere la realtà del carcere e sostenere le attività di rieducazione e reinserimento sociale. La sfilata metterà in mostra i capi sui quali tre detenuti - Lorenzo, Michele e Thomas - hanno lavorato durante tutta l’estate, trasformando abiti usati in creazioni originali attraverso l’arte del riuso e del riciclo creativo. Di questo trio di sarti improvvisati, solo Michele conosceva già l’arte del cucito prima del suo ingresso nel sistema carcerario. Le competenze le aveva apprese dalla nonna, ma è stata la detenzione a trasformare questa abilità in qualcosa di più profondo. Il cucito e il ricamo sono diventati per lui un motivo per affrontare le giornate con uno scopo, una passione che è riuscito a trasmettere prima a Lorenzo e successivamente a Thomas. La collezione realizzata dai tre comprende un’ampia gamma di capi: abiti casual per il tempo libero, eleganti mise da sera, outfit da cerimonia e persino abiti da sposa, tutti nati dalla creatività e dalla voglia di riscatto dei detenuti. Come spiega la direttrice del carcere di Verbania, Claudia Piscione: “L’associazione Mastronauta da tempo raccoglie abiti usati per poi organizzare mercatini: Michele ha avuto la possibilità di selezionarne un buon numero, avendo già l’idea di cosa farne. E così giacche da uomo sono diventate gilet da donna decorati con passamaneria e inserti in seta abitini arricchiti di voile e accessori si sono trasformati in mise da cerimonia e tanto altro”. Il défilé vedrà in passerella i volontari delle associazioni locali, a partire da “Camminare Insieme”, realtà impegnate nel rendere la detenzione un’esperienza costruttiva per chi ha commesso errori e cerca una seconda possibilità. La sfilata del 19 settembre sarà accompagnata dalle note dei musicisti della cappella del duomo di Novara e di Giobi Fasoli. La presentazione è affidata alla giornalista Claudia Carbone, che per l’occasione vestirà anche i panni di indossatrice. Al termine dell’evento, un momento di ristoro sarà offerto dall’ente di formazione Casa di carità-Arti e mestieri, con il servizio curato dagli allievi del Formont di Villadossola. I fondi raccolti avranno una destinazione precisa, come illustra la direttrice Piscione: “Metà del ricavato lo utilizzeremo per nuove attrezzature per il laboratorio di sartoria e l’altra metà, come espressamente richiesto dai nostri tre sarti, per iniziative di formazione all’interno del carcere, in collaborazione con Sefors Vco”. Il Sistema edile per la formazione e la sicurezza, diretto da Marco Porini, ha già organizzato presso la casa circondariale un corso per piastrellisti. I progetti futuri prevedono l’attivazione di corsi da cartongessista e muratore, competenze molto richieste sul mercato del lavoro e immediatamente utilizzabili per la manutenzione della struttura carceraria. Busto Arsizio. Concerto ed emozioni in carcere: “La cultura abbatte le barriere” di Paolo Girotti Il Giorno, 14 settembre 2025 Una serata di emozioni e musica in carcere con il Centro musicale concertare. La Casa circondariale di Busto Arsizio da qualche mese è entrata a far parte di alcune rassegne culturali (BA Book e May fiber) e ha ospitato due concerti nell’ambito di BA Cultura per l’estate, il primo il 18 luglio e il secondo lo scorso venerdì. In scena nel cortile del carcere due band di giovanissimi, Fullstop e Zeker, che si sono esibite davanti a un gruppo di detenuti e a una cinquantina di cittadini. Maria Pitaniello, la direttrice della Casa circondariale ha salutato musicisti e pubblico: “Questa serata non è casuale - ha detto - si inserisce in un insieme di iniziative che partono dal Comune. Un ringraziamento speciale a chi ha voluto e un ringraziamento a chi ha la giusta curiosità di conoscere la nostra realtà.La musica arriva anche ad un pubblico che non si vede dietro le finestre, ragazzi siete bravissimi, queste sera avete un pubblico speciale in un posto particolare”. Ha sottolineato l’assessore alla Cultura Manuela Maffioli: “Una delle grandi scommesse è stata di affrancare la cultura dall’essere considerata qualcosa di più di un passatempo, alla cultura abbiamo voluto destinare il ruolo che merita, cioè affermarla come strumento di rieducazione, educazione, crescita dell’individuo. Con questo concerto la cultura trova la sua migliore performance, abbatte stereotipi e barriere di chi da fuori guarda questa struttura e permette l’incontro tra due comunità”. Ha continuato: “Bello condividere le emozioni che la cultura dà, grazie a chi è presente e ha colto l’importanza e l’etica di essere qui. Con la casa circondariale abbiamo ideato momenti di a supporto ad attività educative, mi augura si possa proseguire e che la risposta sia sempre più forte”. Presente al concerto anche l’assessore al Bilancio Alessandro Albani. “Figli cancellati”, il libro di Annalisa Senese sui figli dei detenuti di Pietro Pizzolla gazzettadinapoli.it, 14 settembre 2025 Con professionalità ed estrema sensibilità, Annalisa Senese dà voce ai figli e alle figlie dei detenuti nel libro “Figli cancellati”. Scritto con il giornalista Antonio Vastarelli, il libro è pubblicato dalla Giannini Editore nella collana Sorsi e sarà presentato per la prima volta mercoledì 17 settembre, alle ore 18 presso la libreria Feltrinelli di Piazza dei Martiri, Napoli. Dialogano con l’autrice: Antonio Vastarelli, Maria de Luzenberger Milnernsheim, Lucia Castellano. “Figli cancellati” raccoglie sei storie, otto i protagonisti: Salvatore, Imma, Genny, Ciro, Enzo, Riccardo, Ambra e Anita. Bambini e bambine che crescono ai margini della libertà, osservando il mondo attraverso la lente del carcere. Costretti a confrontarsi con una realtà familiare segnata dalla detenzione, questi giovani imparano presto a convivere con l’assenza, la vergogna e l’abbandono. Figli cancellati è un’opera intensa e necessaria, che racconta l’infanzia negata e invita a riflettere sul prezzo umano dell’isolamento penale, restituendo voce e dignità a chi spesso resta invisibile: i figli dei detenuti. Annalisa Senese è avvocata penalista, si è sempre dedicata alla tutela dei diritti umani nelle carceri, con particolare attenzione ai minori e alle donne. Già presidente della Commissione Pari Opportunità della Camera Penale di Napoli e coordinatrice della Commissione Diritto Penale del Consiglio dell’Ordine di Napoli, ha svolto attività di formazione e sensibilizzazione sul bullismo e il cyberbullismo in ambito scolastico e associativo. Antonio Vastarelli è giornalista, ha collaborato e lavorato come redattore per il quotidiano il Mattino. È autore del romanzo giallo Dieci piccoli napoletani (Fanucci Editore, 2019), vincitore del Premio Massimo Troisi 2020, e della commedia teatrale “Cause perse - Una maledetta primavera per Jack Soriano” (Edizioni Mea, 2021). La nuova barbarie di Walter Veltroni Corriere della Sera, 14 settembre 2025 L’omicidio in America di Charlie Kirk. Bisogna spegnere il fuoco delle parole perché alla fine degenera in violenza. Cosa ci sta succedendo? Cosa sta stravolgendo le opinioni pubbliche occidentali tanto da far smarrire i valori fondamentali che con tanta fatica e tanto sangue abbiamo conquistato nel Novecento? Siamo irriconoscibili. Come se la storia del progresso umano-espressione che dovrebbe contenere non solo il calcolo dei profitti e delle ricchezze ma soprattutto quello delle relazioni umane- si fosse bruscamente interrotto. Come se una mano guantata, medievale e tecnologica, avesse innestato la marcia indietro. Stiamo regredendo. Non accettiamo di convivere con l’altro da noi. Davvero in questi primi anni venti del nuovo millennio dobbiamo tornare a discutere se sia lecito o giustificabile uccidere un avversario politico, in democrazia? Oppure dobbiamo tornare, come bambini andreottiani, a sostenere che in fondo la vittima “se l’era cercata”? Una moderna barbarie si è impadronita del nostro modo di vivere la storia e di reagire, con infantile fretta ed emotività, alle vicende di questo tempo. Troppi distinguo, troppi se e ma e pure troppe strumentalizzazioni becere hanno accompagnato la fine terribile e violenta di Charlie Kirk, un uomo di 31 anni, padre di due figli. Il suo è stato un assassinio, non ci sono altre definizioni, e nessuno potrà farci tornare a credere che la differenza di opinioni possa, di nuovo, essere regolata dal sangue versato e che la vita non valga nulla se pensiero e posizioni politiche divergono, anche radicalmente. Non voglio qui citare la miseria di un dibattito interno, sollecitato anche da ministri, che sembra indegno di un’osteria. Vorrei solo ricordare che noi siamo la terra di Matteotti e di Moro, di Walter Rossi e dei fratelli Mattei. Ma è negli Usa che tutto, da anni, è stravolto. La violenza politica, che negli anni sessanta ha mietuto vittime illustri, è tornata con una lunga serie di episodi drammatici. Non c’erano telecamere e cellulari quando un militante Maga si è introdotto in casa di Nancy Pelosi, esponente democratica, e, non trovandola, ha preso a martellate in testa il marito. Sono stati uccisi in questi mesi rappresentanti democratici e repubblicani, è stata incendiata la casa di un governatore democratico. Non ci sono morti di “qualcuno”. Chi viene aggredito o ucciso è sempre, comunque una vittima di qualcosa che contrasta con la libertà e la democrazia: la violenza. Nella schiuma di rabbia bipartisan che i social sono stati lieti di amplificare ho ascoltato una voce saggia, tanto più importante perché ad usare le parole che riporto è stato il principale leader della sinistra liberal. Parlando in questo modo, con coraggio, Bernie Sanders ha rimesso le cose nel loro giusto posto: “Vorrei spendere alcune parole in merito al terribile omicidio di Charlie Kirk avvenuto ieri, una persona con cui ero in forte disaccordo su quasi tutte le questioni, ma che era chiaramente un comunicatore e un organizzatore molto intelligente ed efficace, nonché una persona che non aveva paura di esporsi al mondo e di coinvolgere il pubblico. Le mie condoglianze vanno alla moglie e alla famiglia. Una società libera e democratica, che è ciò che dovrebbe essere l’America, si basa sul presupposto fondamentale che le persone possano esprimersi, organizzarsi e partecipare alla vita pubblica senza paura, senza preoccuparsi di poter essere uccise, ferite o umiliate per aver espresso le proprie opinioni politiche. In realtà, questa è l’essenza stessa della libertà e della democrazia... Ogni americano, indipendentemente dal proprio punto di vista politico, deve condannare ogni forma di violenza politica e ogni forma di intimidazione. Dobbiamo accogliere e rispettare i punti di vista divergenti. È questo il senso della nostra Costituzione. È questo il senso della nostra Carta dei Diritti. È questo, infatti, il senso della libertà”. Nulla di più inequivoco, giusto e definitivo. Detto questo, con chiarezza assoluta, è necessario aggiungere due considerazioni generali. La prima: bisogna spegnere il fuoco delle parole, perché la loro radicalizzazione estrema, sport contemporaneo più praticato, alla fine degenera in violenza e gli Usa rischiano, problema drammatico per il pensiero democratico già indebolito, di precipitare in quella “Civil war” realisticamente vaticinata in un recente film. Il conflitto aspro è una cosa, persino salutare per la democrazia. La violenza politica è il suo contrario. Non esiste la critica delle armi. È uno spaventoso ossimoro. A questo svelenimento dovrebbero contribuire tutti, specie chi ha più responsabilità. Questo giornale ha giustamente titolato sugli inquietanti propositi di “vendetta” manifestati, dopo l’assassinio di Kirk, dal presidente della più grande democrazia occidentale. Anche qui, se si vuole essere sinceri, bisogna essere chiari. Tutti. Altrimenti vince l’ipocrisia. Trump usa toni e compie scelte che esasperano le legittime divisioni, radicalizzano le posizioni, demonizzano chi a lui si oppone. Anche qui una citazione, perché le parole sono pietre. Il messaggio di auguri pasquali: “Buona Pasqua a tutti, inclusi i pazzi della sinistra radicale che stanno combattendo e tramando con tutte le loro forze per far tornare nel nostro Paese assassini, signori della droga, prigionieri pericolosi, malati di mente e noti membri delle gang MS-13 e picchiatori di mogli. Buona Pasqua anche ai giudici deboli e inefficaci e ai funzionari delle forze dell’ordine che permettono che questo attacco sinistro alla nostra Nazione continui, un attacco così violento che non verrà mai dimenticato!”. Né Reagan né George Bush avrebbero mai usato toni così. Trump ha in animo, mi è sempre sembrato chiaro, una forte alterazione degli equilibri della democrazia americana. E la sua seconda presidenza, regalo degli smarriti democratici, avviene sotto il segno di un evidente “sovversivismo delle classi dirigenti”, quello esibito a Capitol Hill nel 2021. Nei confronti dei toni più estremi, incompatibili anche con la coscienza di tanti cattolici, ci si sarebbe aspettati, da più parti, parole di sincera presa di distanza. Non c’entra con l’omicidio di Kirk, ma c’entra con la sostanza di questa stagione di eclissi della democrazia e di affermazione delle nuove autocrazie. La seconda considerazione. L’ America deve liberarsi delle troppe armi che finiscono facilmente in mano a pazzi estremisti o a squinternati. Le stragi nelle scuole e nelle università, la diffusione dell’uso di fucili e pistole ad adolescenti in condizione di disagio semina un senso di diffusa insicurezza, sempre foriero di pericolose conseguenze. La democrazia è una creatura fragile e un’eccezione nella storia umana. Il suo principale agente corrosivo, dovremmo averlo imparato, è l’odio. Il linguaggio violento figlio del populismo di Massimiliano Panarari La Stampa, 14 settembre 2025 Dalla “Bestia” leghista ai Vaffa Day, l’hate speech è cresciuto con il neopopulismo. Ma oggi il linguaggio violento usato come clava contro i nemici è trasversale. E così, l’omicidio di Charlie Kirk sembra avere spalancato la consapevolezza delle “porte dell’inferno” della violenza politica. O forse no; ed esclusivamente a senso unico, a giudicare dalle affermazioni di Trump, che ha immediatamente colto l’occasione per addossare la colpa dell’assassinio alla “sinistra radicale”, anziché chiamare la nazione all’unità come imporrebbe la carica che ricopre. E dire, appunto, che questa dovrebbe essere l’occasione per riflettere su una dialettica politica che si è sempre più impregnata di odio, dando (tristemente) ragione a chi sottolineava come l’escalation dell’incivility politics e dell’hate speech nelle nostre già assai ammaccate e denigrate democrazie liberali avrebbe prodotto conseguenze molto gravi. Invece, l’accusa di essere fomentatori di odio si fa immancabilmente propaganda a corrente alternata, e viene sistematicamente rovesciata sugli avversari, che vengono in tal modo convertiti in tutto e per tutto in nemici. E quando si passa dalla battaglia delle idee alla categoria schmittiana del nemico viene a cadere l’impalcatura stessa - basata sul riconoscimento e il rispetto di fondo delle opinioni discordanti - della democrazia parlamentare e costituzionale. Cosa accade in Italia - Il catalogo recente è decisamente vasto, e appare l’equivalente di un piano inclinato nel quale il principio identitario - la scorciatoia subentrata alla fine delle ideologie - si salda con la delegittimazione di chi la pensa diversamente, generando un sonno della ragione che produce mostri, fino alle estreme conseguenze di quanto tragicamente avvenuto al leader del movimento Turning Point. Ma la risposta non è la facile e totale autoassoluzione che si è ritagliata la premier Giorgia Meloni sul podio della festa nazionale dell’Udc. Né, tanto meno, l’evocazione di un irricevibile paragone fra le posizioni delle minoranze in Parlamento e “le parole delle Brigate rosse”, come ha fatto il suo ministro Luca Ciriani. Anche perché la (vittoriosa) crescita del neopopulismo di destra ha corso in parallelo con il dilagare dei discorsi d’odio in rete, autentico - ed economicissimo - propellente elettorale utilizzato dalla cosiddetta “Bestia”, l’apparato propagandistico social della Lega in servizio permanente effettivo seppure sotto altre spoglie. Per documentare quanto la strategia della gogna e la politics of hate siano state brandite come delle clave dai politici della destra italiana basta passare in rassegna un po’di loro dichiarazioni recenti. A fare la parte del leone - da tastiera e non solo - sono stati spesso gli esponenti della Lega, a partire da Matteo Salvini che, qualche tempo fa, salì sul palco di un comizio con una bambola gonfiabile indicata come “la sosia della Boldrini”. L’ex presidente della Camera è stata uno dei bersagli più ignobilmente gettonati delle invettive degli antagonisti, in un contesto in cui il sessismo, con vari gradi di intensità, continua a costituire un’arma di svilimento anche politico. E, al riguardo, non si può non ricordare che Silvio Berlusconi - intento a condurre la sua campagna “antibolscevica” fuori tempo massimo, e in assenza di avversari che si definissero ancora comunisti - aveva etichettato Rosi Bindi come “più bella che intelligente”. Una “battuta” sprezzante la cui vera paternità venne rivendicata orgogliosamente da Vittorio Sgarbi, il cui campionario di insulti verso chi lo contrastava è notorio e troppo lungo da riportare qui. Sempre in area leghista, dove il primo campione di insolenze per i critici era stato Umberto Bossi, si è “distinto” Angelo Ciocca, un autentico performer antistranieri e anti-Ue (“memorabile” il suo spettacolino di avariato varietà quando calpestò “con una suola made in Italy” i fogli di una relazione dell’allora commissario Pierre Moscovici). Una deriva trasversale - Ma questa classifica della vergogna dell’incontinenza verbale che si fa oggetto contundente - “ne uccide più la lingua della spada”, diceva la saggezza popolare - non costituisce una prerogativa esclusiva delle destre. Per il discorso violento vale il trasversalismo più assoluto; e, infatti, lo si ritrova anche a sinistra. A cominciare, naturalmente, dal M5S, un’organizzazione - oggi in larga parte bonificata e ripulita - che venne edificata sul livore e il risentimento, fra i Vaffa Day di Beppe Grillo e l’incoraggiamento degli shitstorm internettiani utilizzati in chiave di proselitismo e gabellati alla stregua di un’anarchica libertà di espressione (come da Ideologia californiana giunta sino a Curtis Yarvin ed Elon Musk). Ed ecco, allora, che in una non ideale chiusura del cerchio il pentastellato Manlio Di Stefano se la prendeva pure lui con “la Boldrini zombie, donna senza dignità”. Sino, proprio in questi giorni, ad Alessandra Maiorino - a dimostrazione che certi vizi non si perdono mai, anche se si muta pelle - che se ne è uscita apostrofando il ministro degli Esteri Antonio Tajani come “un influencer prezzolato di Israele”. E pure il Pd, sui territori, ha offerto alcuni episodi desolanti, localizzati non di rado in Piemonte: dal profluvio di contumelie contro tutto e tutti (Meloni in primis) di Vincenzo De Luca a Fabio Tumminello di Venaria che aveva pubblicato un post con la scritta “Salvini appeso”, sino al “regolamento di conti” alla Circoscrizione Otto di Torino con i commenti volgari e misogini di Dario Pera contro Noemi Petracin. Un discorso d’odio che è stato riversato perfino contro il Quirinale, dal solito Salvini che si diceva pronto a “cedere due Mattarella per mezzo Putin” alla petizione menzognera contro il Presidente piena di firme fake consegnata dai suoi promotori in estasi alla portavoce-disinformatrice in capo del ministero degli Esteri russo. E, da ultimo, all’inserimento del nostro Capo dello Stato nella cremlinesca lista ufficiale dei sedicenti “russofobi”. Le parole sono importanti, andrebbe tenuto sempre a mente, specie da parte dei politici. Se non fossero troppo spesso direttamente impegnati a dare il cattivo esempio. Kirk e l’Italia. Maneggiare con cura: se c’è vero allarme se ne parli alle Camere di Marco Iasevoli Avvenire, 14 settembre 2025 La violenza politica non può essere tema da campagna elettorale. E come premessa di ogni dibattito servirebbe il “mea culpa” di partiti e leader su come hanno cercato il consenso in questi anni. Se il governo ritiene che ci sia un reale “clima di odio politico” nel Paese, si affidi a piene mani alla Costituzione, la quale indica la via maestra del Parlamento per affrontare le emergenze e le necessità improrogabili del Paese. Si vada nelle Aule dati alla mano, illustrati direttamente dalla presidente del Consiglio, e si proponga ai gruppi parlamentari una strategia per contrastarla. Con una premessa, magari. Una premessa comune, trasversale, multipartisan. Una premessa attesa da milioni e milioni di italiani ormai allontanatisi dalle urne e dalla semplice idea di continuare a seguire un dibattito politico in cui le volgarità sono più delle idee. Una premessa sintetizzabile in una sola ammissione-confessione: “Scusateci”. Ciascuno per la sua parte, leader e partiti si scusino per un decennio di manipolazioni dei fatti, fake news, aggressioni giustizialiste, criminalizzazioni di categorie ed esseri umani, scientifiche strategie di “character assassination”, delle “Bestie” e delle bestioline con cui hanno letteralmente infestato i social network, tradendo il senso stesso della politica. Delle scuse propedeutiche ad abbassare realmente i toni e a convergere su temi oggi divisivi nel corpo sociale - a partire dalla politica estera-, a ristabilire il significato di “maggioranza” e “opposizione” nella democrazia parlamentare. Ma se invece non c’è alcuna voglia di andare in Aula, se di “clima d’odio” si vuol parlare solo nelle piazze elettorali o televisive o social e davanti alle platee di “tifosi”, se #violenzapolitica è solo un hashtag per agganciarsi ai trend sovranazionali, beh allora sarebbe più saggio e costruttivo ritirare l’allarme. Il giochino pericoloso che si innescherebbe non varrebbe lo zerovirgola che si presuppone di guadagnare in una cabina elettorale marchigiana o calabrese. Se c’è un tema reale e urgente, lo si porti in Parlamento domattina, senza indugi. Diversamente si colgano le conseguenze negative, che nel tempo non risparmiano nessuno, dell’ulteriore scivolamento verso un logorante “bipolarismo fazioso”. Odio “di sinistra” e propaganda: per l’intelligence il pericolo è altrove di Mario Di Vito Il Manifesto, 14 settembre 2025 “Abbassare i toni” perché dopo l’omicidio di Charlie Kirk “non bisogna dimenticare che ci possono essere processi di emulazione”. Allora va alzato il livello delle scorte: “C’è stato qualche tono esagerato in sede parlamentare, e anche questo mi ha ispirato”. Del resto, si sa, “chi si occupa di sicurezza deve fare professione di immaginazione”. Parole e musica del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che si trova costretto a gestire il rinnovato allarme per i pericoli che derivano dal clima d’odio fomentato “dalla sinistra”. Il refrain lo ha lanciato Donald Trump, poi in Italia la premier Meloni lo ha ripreso e fatto suo nell’eterno ritorno di quel vittimismo urlato che è la vera cifra politica della destra italiana - e non solo - degli ultimi ottant’anni. E però i dati e la cronaca descrivono una situazione assai diversa rispetto a quella dipinta dal governo. Il capitolo dedicato all’ordine pubblico del tradizionale dossier di Ferragosto del Viminale dice che i cosiddetti reati di piazza sono tutti in calo. Sono in calo, per la verità, le piazze tout-court: le manifestazioni svolte tra gennaio e luglio sono scese dell’11,1% rispetto allo stesso periodo del 2024. Quelle “con criticità” sono diminuite addirittura del 19,5% e il conto dei feriti tra le forze di polizia ha fatto segnare un eccezionale -35,4%. Non basta? La relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza, presentata dal Dis al parlamento a marzo, dedica alla “minaccia interna” appena un breve capitoletto in mezzo a temi effettivamente enormi come la diplomazia militare cinese, la guerra ibrida russa, l’intelligenza artificiale, la rinata corsa allo spazio e il cambiamento climatico. Al paragrafo intitolato “L’attivismo estremista e antagonista”, l’intelligence dice che “la mobilitazione pro-Palestina ha costituito un fattore di forte aggregazione anche per il composito movimento antagonista, che ha connesso il tema della guerra ad altri fronti, come l’antirepressione, l’antifascismo, l’anticapitalismo e le problematiche sociali, migratorie e ambientali”. E così “all’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la propaganda antagonista ha progressivamente radicalizzato i toni della protesta, in un crescendo di contestazioni che in varie occasioni hanno fatto registrare episodi di vandalismo e di scontri violenti con le forze dell’ordine”, anche se “l’attento monitoraggio delle iniziative di protesta, nonché la sinergia info-operativa” tra gli apparati dello stato “hanno consentito di limitare i rischi di derive violente”. Per quanto riguarda la destra radicale, invece, si segnala che “nel 2024 si è confermato il trend di progressivo innalzamento del rischio derivante dall’estrema destra suprematista e accelerazionista internazionale, che spesso si declina in rete attraverso la diffusione di incitazioni alla violenza nichilista, indiscriminata e d’impronta politica e razziale”. Aumentano infatti “i casi di radicalizzazione di soggetti giovani - anche minorenni - e di piccoli gruppi che sono in costante contatto con utenti di altre nazionalità tramite piattaforme digitali di messaggistica istantanea”. In questo quadro, diverse operazioni di polizia “hanno fatto emergere come la minaccia stia progressivamente transitando dalla dimensione online a quella offline, evidenziando inoltre diversi casi di contaminazione tra questa forma di estremismo violento e altre matrici terroristiche”. L’intelligence ha inoltre rilevato “punti di contatto tra la sfera della destra suprematista e accelerazionista e quella jihadista. La giovane età degli individui coinvolti, una marcata fascinazione per la violenza, scarsa o assente preparazione religiosa e la presenza, in diversi casi, di problemi relazionali e vulnerabilità psicologiche, delineano una fisionomia della minaccia in continua evoluzione”. Dunque, per concludere, “la fluidità ideologica si conferma sempre di più come un elemento caratterizzante di questa evoluzione”. Un ritratto perfetto dell’odio postmoderno che mischia elementi di internet culture a questioni personali o labilmente politiche e che produce tragedie come quelle che periodicamente avvengono negli Usa, dove il controllo sulla circolazione delle armi è molto meno stringente rispetto all’Europa. In Italia tutto questo, al momento, si vede solo in controluce. Ma esiste. E non ha molto a che fare con “l’odio della sinistra” di cui Meloni e i suoi parlano per riempire di propaganda i vuoti del dibattito pubblico. Gino Cecchettin con CampBus, per insegnare il rispetto nel nome di Giulia di Federico Cella Corriere della Sera, 14 settembre 2025 La fondazione creata in memoria della figlia uccisa vuole sensibilizzare sulla necessità di un’educazione agli affetti nella scuola italiana. Un obiettivo comune che il Corriere porterà insieme a Cecchettin nelle aule italiane. Trasformare il dolore in impegno sociale. Per Gino Cecchettin è stata una transizione faticosa ma, dato la persona che è, inevitabile. Prima il libro, la lettera “Cara Giulia” alla figlia, e poi la Fondazione Giulia Cecchettin finanziata proprio con la pubblicazione. “La perdita di Giulia mi ha spinto a un impegno incrollabile contro la violenza di genere”, è il pensiero e la missione, condivisa con i figli Elena e Davide. Firmato il protocollo d’intesa su “Educare al rispetto” con il ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara a inizio anno, la Fondazione prosegue il suo lavoro per portare un’educazione ai sentimenti nella scuola italiana, tra le ultime in Europa a non avere programmi obbligatori (in Svezia, Paese pioniere, sono attivi dal 1955). Il Corriere ha messo a disposizione della Fondazione il suo progetto nelle scuole - CampBus, attivo dal 2020 - per aiutare a portare il messaggio e la sua urgenza tra i veri destinatari, i ragazzi e le ragazze nelle classi italiane. Il Tour di CampBus Corriere, dalla fine di settembre, toccherà quattro città e quattro scuole, dove si fermerà una settimana con una squadra di giornalisti e formatori. Sostenuto da Eni, Google, Acer, PagoPa ed Mr Digital, con il patrocinio della Commissione europea e due partner scientifici - l’Istituto Italiano di Tecnologia e il Cicap - il progetto sarà a Catania (liceo Cutelli), Roma (istituto Galilei), Milano (liceo Carducci) e Verona (liceo Maffei). Accanto agli incontri sulle nuove tecnologie (con l’intelligenza artificiale inevitabilmente al centro dei discorsi) e ai laboratori di pratica (video, podcast, social reporting), nell’aula magna di ogni istituto un’intera mattinata sarà dedicata all’educazione sentimentale e agli affetti. Studenti e docenti avranno modo di incontrare Gino Cecchettin, ascoltare la sua testimonianza, fargli domande e comprendere come chi ha portato via sua figlia Giulia “non è un mostro”, citando le parole dell’altra figlia, Elena, “ma un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro”. Parole e concetti forti, che i ragazzi e le ragazze, dopo l’intervento di Cecchettin, avranno modo di “mettere a terra”, passando quindi dall’emozione alla comprensione, grazie a un momento di riflessione corale che verrà gestito dalla psicologa Lara Pelagotti. Ogni scuola ha poi sottoscritto un impegno con il Corriere a non lasciare l’incontro con Cecchettin come un’eccezione ma a trasformarlo in un punto di inizio per attività di sensibilizzazione e ascolto. Integrandole con quelle già in essere, nate spontaneamente in molte scuole. Quell’11 novembre del 2023 ha toccato gli animi di molti ragazzi e ragazze. La dimostrazione viene per esempio da studenti e studentesse dei licei di Milano, Parini e Natta, che sul caso di Giulia Cecchettin e la necessità di un’educazione sentimentale hanno costruito un dibattito, insieme ai docenti Laura Suardi, Antonio Pangallo e Giuseppe Palazzo. I sentimenti, fenomeno culturale a differenza delle emozioni, possono essere insegnati? E la scuola è il luogo adatto dove farlo? I ragazzi e le ragazze saranno sul palco, insieme a Gino Cecchettin, domenica 14 alle ore 16.00 alla Triennale di Milano. E in diretta sul sito del Corriere. CampBus e l’educazione sentimentale a scuola: il dibattito tra studenti con Gino Cecchettin di Chiara Galletti Corriere della Sera, 14 settembre 2025 Due squadre di studenti si affronteranno in un confronto aperto al pubblico domenica 14 settembre durante il Tempo delle Donne alla Triennale di Milano. Si può imparare ad amare e a relazionarsi con rispetto tra i banchi di scuola? La domanda, attualissima e complessa, viene rivolta ai diretti interessati. Domenica 14 settembre alle ore 16.00 al Salone d’Onore della Triennale di Milano, due squadre di studentesse e studenti del liceo Giulio Natta e del Liceo classico Giuseppe Parini di Milano si sfideranno in un debate, analizzando pro e contro dell’introduzione dell’educazione affettiva a scuola. Al centro del confronto una mozione che chiama in causa il ruolo formativo della scuola: “I sentimenti sono fenomeni culturali, storici e sociali e per questo possono rientrare a pieno diritto nell’educazione. A scuola si può imparare ad amare con rispetto e responsabilità”. A guidare la squadra a favore della mozione è Ivan, affiancato da Emanuele, Rebecca, Gaia e Marco. A capo della squadra contraria Victoria, insieme a Leandro, Giorgio, Emma e Arina. I protagonisti del dibattito si sono preparati con il supporto di tre coach: i docenti Laura Suardi, Antonio Pangallo e Gianpaolo Palazzo. A condurre l’incontro è Federico Cella, responsabile editoriale di Corriere LogIn e del progetto CampBus. Durante l’evento interverrà anche Gino Cecchettin, che presenterà la Fondazione Giulia Cecchettin Ets (qui il programma completo dell’evento). Sia il pubblico in sala che chi seguirà la diretta sul sito del Corriere della Sera potrà votare la squadra che l’ha convinto di più, i risultati della votazione saranno annunciati da Barbara Stefanelli, vicedirettrice vicaria del Corriere e direttrice del magazine 7. L’ingresso in sala è libero e gratuito. Il debate è l’evento che dà il via alla sesta edizione di Campbus, il progetto itinerante del Corriere della Sera che porta nelle scuole italiane spunti di cultura digitale e giornalismo consapevole. Il confronto di domenica rappresenta il momento culminante della partecipazione del progetto CampBus al Tempo delle Donne, la tre giorni dedicata al mondo femminile e alla parità di genere. Oltre all’incontro del 14 settembre, durante tutta la manifestazione sarà possibile visitare il bus di CampBus, parcheggiato davanti alla Triennale: un vero e proprio autobus allestito con tecnologie innovative dei partner del progetto: Eni, Acer, Google for Education, Mr Digital e PagoPa. Oltre a loro, viaggiano insieme a CampBus i partner scientifici Istituto Italiano di Tecnologia e Cicap, la Commissione europea e la Fondazione Cecchettin. I “talenti” degli insegnanti, un patrimonio da coltivare per salvare la scuola italiana di Anna Granata* Corriere della Sera, 14 settembre 2025 Se la scuola italiana resiste, in un Paese che spende più in armi che in istruzione, si deve ai docenti che ne fanno parte. Ogni settembre la scuola italiana riparte tra emergenze regolarmente annunciate: mancano docenti, dirigenti e collaboratori scolastici. Un copione che si ripete, rivelando la fragilità del nostro sistema educativo e la disaffezione crescente verso i mestieri formativi, sempre meno riconosciuti e valorizzati sia a livello economico che di prestigio sociale. Ma il mondo della scuola non è soltanto questo. E il personale docente, in particolare, non può essere misurato utilizzando solamente criteri quantitativi. Perché a tornare in aula anche quest’anno non sono numeri ma volti, persone, storie e talenti: docenti al primo incarico, freschi di laurea e carichi di entusiasmo, maestri e maestre di lunga esperienza che hanno cresciuto generazioni di bambini, insegnanti immessi in ruolo dopo lunghi anni di precariato, docenti di sostegno specializzati che tengono viva la vocazione all’inclusione delle nostre scuole. Per ognuno di loro possiamo parlare di titoli e percorsi più o meno lineari di formazione al mestiere di insegnante, all’interno di un sistema dai tratti incerti per non dire kafkiani. E certamente possiamo parlare di motivazione o - facendo ricorso a un termine forse superato - di vocazione. Ma dovremmo parlare anche di talenti: una dimensione spesso ignorata e tuttavia centrale per poter svolgere a pieno una delle professioni più importanti per la tenuta della democrazia e la valorizzazione delle nuove generazioni. Leggere Dante nelle periferie - Se la scuola italiana resiste, nel Paese che spende più in armi che in istruzione, e continua ogni giorno ad affrontare la sfida di un’istruzione di qualità “aperta a tutti”, come prescrive la nostra Costituzione, lo dobbiamo ai talenti dei docenti che vi prendono parte. Si tratta di talenti diversi espressi di volta in volta secondo le modalità più varie e in differenti ambiti, che vanno dall’insegnare l’italiano a un bambino straniero al far sentire accolto un alunno con disabilità, dall’innescare in ragazze e ragazzi una passione per la matematica al saper tener viva l’attenzione in una classe di nativi digitali, fino al proporre la lettura di Dante in una scuola di periferia. Se il talento non è una dote innata ma una qualità da coltivare, si rende evidente come il diritto al talento dovrebbe essere considerato il primo aspetto nella valorizzazione del mestiere di insegnante. Ma gli insegnanti sono disposti a coltivare i propri talenti? Il Festival dell’Educazione a Cuneo - La presenza di quasi centocinquanta docenti ed educatori da tutta Italia e anche dall’estero che, nel pieno dell’estate, hanno risposto con entusiasmo alla proposta formativa del Festival dell’Educazione “A Tutto Tondo”, al Rondò dei Talenti di Cuneo, ci dice di un grande desiderio di formazione e aggiornamento professionale. Un’iniziativa unica in Italia sia per i numeri che la caratterizzano sia per la qualità e il livello della proposta culturale e formativa offerta agli insegnanti di tutta Italia. Sei Summer school - di cui una in lingua inglese dal titolo Talent Without Borders - che hanno spaziato dall’educazione museale al gioco e all’educazione outdoor, dalle materie steam all’intelligenza artificiale per l’apprendimento, dall’inclusione alle pratiche dialogiche. Docenti di ogni età e impegnati in diversi ordini di scuole, si sono messi in gioco e hanno coltivato quei talenti e capacità che potranno poi sperimentare in aula coi propri studenti nel nuovo anno scolastico. Coltivare i talenti - Si dice spesso che un Paese che guarda al futuro dovrebbe avere a cuore i talenti di bambini e ragazzi ed è molto vero. Più di rado si ricorda però che è al contempo necessario coltivare i talenti di insegnanti e docenti. In primo luogo perché il sapere non è qualcosa di dato una volta per tutte, da consegnare alle generazioni future come un manufatto museale impolverato. In secondo luogo perché coltivare i talenti è il miglior antidoto al burnout del personale docente, spesso ridotto a mero esecutore di compiti impartiti dall’alto e pratiche burocratiche alienanti che sviliscono la professione almeno al pari della svalutazione economica. In terzo luogo perché per trasmettere l’amore per il sapere e per i saperi alle nuove generazioni non c’è altra strada che coltivarlo in sé, ancor meglio se in un luogo consacrato ai talenti e in quel tempo fondamentale di vacanza nel quale anche il docente più sfiduciato può ritrovare, in compagnia di formatori e colleghi, il senso del proprio mestiere. *Docente di Pedagogia Università di Milano-Bicocca Il digitale può davvero aiutare a diffondere una cultura di diversità e inclusione? di Michela Rovelli Corriere della Sera, 14 settembre 2025 L’inclusione passa anche dalle relazioni e dal linguaggio. E se le nostre comunicazioni, la nostra socialità, sono sempre più intrise di digitale, allora anche il digitale deve essere messo sotto osservazione per capire quali potenzialità può offrire. Dei danni ne parliamo e ne parleremo ancora a lungo: i pericoli negli spazi virtuali dei social media, i mutamenti che stanno provocando i dispositivi e le piattaforme che ci permettono di ottenere tutto e subito, la superficialità che prevale sull’approfondimento perché la velocità con cui passiamo da un’app all’altra, da una chat all’altra, non permette la riflessione. La domanda allora è: possiamo trovare anche dei lati positivi in questa rivoluzione digitale? La virtualità può anche essere un mezzo tramite il quale costruire una società più equa. Sono questioni che abbiamo provato a rivolgere ai partner di CampBus, il progetto del Corriere della Sera che ha proprio l’obiettivo di diffondere cultura digitale nelle scuole italiane e che, quest’anno, prova anche a portare spunti di educazione sentimentale insieme alla Fondazione Cecchettin. Due sfere sociali che si intersecano. Perché se nel digitale le nuove generazioni costruiscono ormai la maggior parte delle loro relazioni, allora è il digitale che dobbiamo studiare per capire come può essere utilizzato al meglio per migliorarci e non danneggiarci. “La tecnologia può essere un ponte o un muro”, dice Arianna Timeto, marketing manager di Acer Italia. Sta a noi capire come utilizzarla al meglio e la chiave, come spesso accade, è la consapevolezza. “Con l’utilizzo corretto delle piattaforme il digitale può diventare una forza positiva”. E fa l’esempio dei videogiochi, strumento nato come intrattenimento, troppo spesso associato alla dipendenza, ma che può trasformarsi anche in uno strumento educativo, da utilizzare a scuola per l’apprendimento. “I ragazzi con qualche difficoltà possono essere anche supportati per superarle ed essere inclusi”, aggiunge Marco Berardinelli, responsabile di Google for Education Italia. Per lui il digitale è un abilitatore di potenzialità, che permette di colmare lacune e tornare a una situazione di parità. Di intelligenza artificiale parla invece Mila Valsecchi, direttore generale di Mr Digital, la grande rivoluzione di questi anni. Perché non crei maggiori disuguaglianze, è necessario fare un lavoro sui dati che le diamo in pasto per l’addestramento. Ed è necessario coinvolgere maggiormente quella che lei chiama “l’altra metà del cielo”, ovvero le donne, nella programmazione degli algoritmi. Jessica De Napoli, che in PagoPa è direttore del Dipartimento affari istituzionali e comunicazione, parte dall’esperienza della sua azienda per riflettere su come la digitalizzazione del Paese “significa costruire una realtà aumentata, in cui le nuove generazioni vedono un’opportunità uguale per tutti”. Infine il linguaggio, punto focale della riflessione di Erika Mandraffino, Direttrice Comunicazione Esterna di Eni: “Viviamo in un’epoca di polarizzazioni e spesso si confonde la libertà di parola con la libertà di dire qualsiasi cosa. Anche a scapito dell’altro. Ma il punto è proprio questo: scegliere un linguaggio che non alimenti divisioni inutili, ma che favorisca un confronto costruttivo”. Disintossicarsi dagli schermi: la ricerca dell’isolamento romantico di Letizia Pezzali Il Domani, 14 settembre 2025 Perché a volte preferiamo scrivere a mano e non al computer? L’idea di fondo credo sia quella di liberarsi dalle distrazioni che gli schermi portano. Di recuperare capacità di attenzione. Una ricerca di silenzio e solitudine. Scrivere a mano oggi significa anzitutto provare un dolore superfluo al braccio, un dolore che potresti evitare: scrivere al computer non fa male allo stesso modo. Non è neppure un dolore suggestivo. È molto simile all’indolenzimento che proviamo quando teniamo in mano uno smartphone troppo a lungo. Però vedere le parole che si accumulano sulla pagina, quella misura dello sforzo in forma di svolazzi, effettivamente dà una soddisfazione primitiva. Sul tavolo dove scrivo da qualche tempo non c’è un computer, lo tengo altrove e lo uso quando serve. L’idea è quella di scrivere i testi a mano, per poi ricopiarli in formato elettronico. Oppure, come nel caso di questo articolo, dettarli a Word, naturalmente evitando di pensare “potrei farci un podcast”. Però non sono qui per spiegarvi le ragioni profonde dello scrivere a mano. Scrivere senza interferenze è senza dubbio la maniera in cui si esercita la coscienza, e scrivere a mano è la modalità che più di tutte elimina le interferenze. Dunque, se la logica non inganna, ecco spiegato. Tuttavia non bisogna farsi troppe illusioni sul valore della propria coscienza. Dipende. Amo la coscienza umana, questo oggetto irriducibile, ma va detto che, a parte rari momenti, al naturale siamo principalmente noiosi. Ottocenteschi - Un tempo mi piaceva dire “scrivere a mano è una forma di resistenza”, lo dicevo perché a volte sono enfatica. In verità non so bene che senso abbia questa idea della carta e della penna. Mi pare evidente che si tratti di una posa estetica. Viviamo di pose, le pose sono un prodotto derivato della sostanza. Ma atteniamoci ai fatti. Quando scriviamo a mano ci chiediamo più spesso se valga veramente la pena scrivere. Questo non è male. Siccome senza tastiera si fa più fatica, e siccome ogni frase si siede e lì resta, e se la cancelli è brutto, finisce che ti fai più domande del tipo: “Sto scrivendo cazzate?”. O meglio: “Le sto pensando?”. In questo lavorìo ci sentiamo non tanto novecenteschi, quanto ottocenteschi. Romantici, gotici, con le ferite, i calli. Che bello dev’essere stato il tempo in cui non c’era internet, computer, nulla, pensiamo. Ma sappiamo che non era tanto bello, è più una frase che sta bene dire. Se non sapevi una cosa, potevi solo consultare il libro adatto (se l’avevi), oppure andare in biblioteca, oppure telefonare a un amico, ma un amico giusto, che non ti giudica (le domande che abbiamo non sono mica sempre presentabili, vacci tu a interrogare il vicino di casa sulle tue perversioni). So che questa estate molte persone hanno cercato, durante le vacanze, di allontanarsi dagli schermi, dai social, da tutto: disintossicarsi! Content creator che fanno video in cui spiegano perché per un po’ non hanno fatto video, e mostrano un quaderno. L’idea di fondo credo sia quella di liberarsi dalle distrazioni che gli schermi portano. Di recuperare capacità di attenzione. Eppure la nostra ormai eccezionale capacità di sopravvivere fra le distrazioni continue forse è a sua volta una forma di concentrazione suprema. Il dubbio viene. L’isolamento - In questi giorni è uscito il trailer del nuovo adattamento cinematografico di Cime tempestose, diretto da Emerald Fennell, regista di Saltburn e Promising Young Woman. Le reazioni sono state immediate: attori troppo vecchi, Heathcliff troppo chiaro di pelle, tono troppo erotico. Forse a febbraio - quando uscirà - parleremo molto del film. Per ora mi sono trovata a pensare al libro, che amo. La brughiera, i legami claustrofobici, la ripetizione ossessiva dei rapporti, gli schemi violenti. I romanzi dell’Ottocento sono perfetti per sentire a ogni riga l’assenza di internet, ma anche dei mezzi di trasporto, delle vie di fuga. Solitudine, follia, misantropia (purtroppo anche molta tubercolosi). Il narratore che troviamo all’inizio del romanzo si trasferisce in quella landa desolata e incontra persone più chiuse di lui. Per non impazzire si affida alla governante, che ha trascorso anni a osservare e ricordare. Insomma: va lì per stare solo, ma si spaventa, e subito capisce che ha bisogno di un racconto. La governante, saggia e posata, racconterà la vita di persone che sagge e posate non sono. Forse, quando proviamo a staccarci dagli schermi, non cerchiamo soltanto concentrazione. Cerchiamo l’eco di un isolamento che ci affascina. È come fare una prova generale di abisso: togliere voci, notifiche, stimoli, e restare soli con il nostro tempo. Dentro questo silenzio, però, scopriamo che la mente non sopporta il vuoto a lungo. Ha bisogno di un racconto, perlomeno. Di qualcuno che tenga insieme le cose. È tempo assumere una governante, signori. Democrazia Usa, un rodeo pericoloso di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 14 settembre 2025 L’omicidio di Charlie Kirk è orribile, ma non era imprevedibile. In America ci sono più armi che persone - non è un paradosso, è un numero - e l’odio spinge qualcuno a usarle. “In Fiesta di Ernest Hemingway, a un personaggio viene chiesto come abbia fatto ad andare in bancarotta, e lui risponde con una battuta memorabile: “In due modi. Poco alla volta e all’improvviso”“. Prendo in prestito la citazione dal mio amico e collega Bill Emmott che, su La Stampa, riassume così la precaria situazione della democrazia americana. La bancarotta, per ora, procede lentamente. Ma c’è il timore che, da un momento all’altro, accada qualcosa di drammatico. C’è chi lo nega, naturalmente. L’universo Maga negli Usa, per cui Donald Trump è il salvatore (da cosa, non si sa). L’estrema destra internazionale. Molte anime belle, professioniste della rimozione rassicurante. Alcuni commentatori, che godono al tal punto del disagio progressista da perdonare chiunque lo provochi. L’omicidio di Charlie Kirk è orribile, ma non era imprevedibile. In America ci sono più armi che persone - non è un paradosso, è un numero - e l’odio spinge qualcuno a usarle. Per ora si tratta di pazzi e fanatici. Ma a costoro potrebbero aggiungersi molti altri. Guerra civile e legge marziale, ormai, non sono vocaboli impronunciabili. Donald Trump sembra non curarsene. Invece di calmare gli animi, come un presidente dovrebbe fare, li eccita. Invece di raccomandare la concordia nazionale, alza i toni e promette ritorsioni. L’orribile attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, allo scopo di sovvertire il risultati elettorale, viene raccontato come un atto patriottico. Cavalcare l’onda nera delle emozioni, ormai, è la specialità della Casa Bianca. Ma è un rodeo pericoloso. In Italia - per fortuna o per merito, decidete voi - siamo lontani da questa atmosfera tossica. Possiamo dire quello che vogliamo, quando e dove vogliamo (nei limiti del codice penale, ovvio). Le differenze di opinioni esistono e sono, spesso, enormi; ma a nessuno viene in mente di sparare a chi la pensa diversamente. Ecco: la nostra presidente del Consiglio dovrebbe rallegrarsi di questo, e far sì che non cambi. Non usare il microfono alle feste di partito per eccitare la curva. È vero: ci sono alcuni mentecatti che, sui social, hanno scritto cose orribili dopo l’omicidio Kirk. Ma davvero dobbiamo occuparci di loro? Il culto della violenza: Trump sta devastando la nostra democrazia di Jan-Werner Mueller* Il Domani, 14 settembre 2025 La speranza è che Trump diventi presidenziale e cerchi l’unità, ma ci sono tutte le ragioni per credere che il suo comportamento la notte dell’uccisione di Kirk continuerà: la polarizzazione è sempre stata il suo modello di business politico. Purtroppo, in un momento in cui la sua amministrazione sta coltivando non tanto il “gusto per il disaccordo” quanto il gusto per la crudeltà, alcuni americani potrebbero prendere ispirazione da lui. L’orribile uccisione dell’attivista di estrema destra Charlie Kirk ha dimostrato ancora una volta la fondamentale asimmetria della politica americana contemporanea. Molte figure di spicco della destra, fino al presidente Donald Trump, hanno invocato nientemeno che una punizione contro la “sinistra radicale”, il tutto in assenza di informazioni sull’assassino e sulle sue motivazioni. Da circa un decennio Trump segnala che la violenza politica commessa dai suoi sostenitori è accettabile e potrebbe persino essere premiata. Tra coloro che ha graziato per la loro partecipazione all’insurrezione del 6 gennaio 2021 al Campidoglio degli Stati Uniti ci sono molti condannati per crimini violenti. Ma Trump e molti dei suoi accoliti inquadrano questo comportamento non come violenza, ma come legittima, persino patriottica, autodifesa; come altri populisti di destra, si ritraggono come vittime perpetue. Ci sono stati alcuni post profondamente sgradevoli sull’uccisione di Kirk da parte di persone apparentemente di sinistra sui social media, che hanno sottolineato con Schadenfreude che Kirk aveva affermato che la morte per arma da fuoco era un prezzo accettabile da pagare per il diritto di portare armi. Ma, nel complesso, i commentatori liberali hanno fatto di tutto non solo per condannare la violenza, ma anche per riconoscere in Kirk un discusso in buona fede con il “gusto del disaccordo”. A destra, invece, voci di spicco hanno invocato la repressione - invocando come modello le pratiche illegali del fondatore dell’Fbi J. Edgar Hoover - se non la vera e propria “guerra”. Ancora più preoccupante è il fatto che lo stesso Trump sembra apprezzare l’occasione come pretesto per attaccare le organizzazioni della società civile che non sono di suo gradimento. Alcuni membri della sua amministrazione avevano già dichiarato lo stesso partito democratico “organizzazione terroristica interna”. Dato che Trump non ha mostrato alcun ritegno nello scatenare i poteri del governo federale contro qualsiasi individuo o organizzazione, la minaccia implicita di perseguire l’opposizione dovrebbe far scattare un campanello d’allarme per qualsiasi democratico (non solo per i dem). Democrazie come il Brasile sono state in grado di sanzionare un presidente pronto a organizzare un colpo di Stato, come dimostra il processo e la condanna dell’ex presidente Jair Bolsonaro. Gli Usa, al contrario, dopo il 6 gennaio non solo non hanno dimostrato che le azioni hanno conseguenze, ma hanno permesso a Trump di tornare al potere, di cui si è servito per inviare il più chiaro messaggio possibile che coloro che sono impegnati nella violenza pro-Trump possono aspettarsi l’impunità. Mike Johnson, lo speaker repubblicano della Camera, si è di fatto rifiutato di installare una targa per i difensori della polizia del Campidoglio, come previsto da una legge bipartisan. Mentre il primo mandato di Trump è stato caratterizzato da ostentate manifestazioni di crudeltà, la sua amministrazione sta ora dedicando risorse significative alla creazione di un culto della violenza. Il dipartimento della Sicurezza nazionale usa abitualmente i social media per celebrare il dolore delle famiglie a cui vengono brutalmente portati via i propri cari. Un post si spinge fino a mostrare personale dell’Ice mascherato con elmetti della Wehrmacht nazista. Ancora una volta, Trump non si considera il colpevole ma la vittima. E ha dalla sua parte un intero complesso industriale di lamentele. Da Fox News alle talk radio, i suoi propagandisti dicono al loro pubblico che hanno ragione a provare risentimento. Il vittimismo può essere trasformato in una giustificazione per la violenza. Questo non significa che gli Stati Uniti stiano scivolando verso la guerra civile. Alcuni sembrano averne voglia e potrebbero sentirsi ben preparati. Ma i sondaggi mostrano che la stragrande maggioranza si oppone alla violenza politica e, come ci ha ricordato il politologo Brendan Nyhan, il sostegno a tale violenza è diminuito dopo l’attentato alla vita di Trump nel luglio 2024. La speranza è che Trump diventi presidenziale e cerchi l’unità, ma ci sono tutte le ragioni per credere che il suo comportamento la notte dell’uccisione di Kirk continuerà: la polarizzazione è sempre stata il suo modello di business politico. Purtroppo, in un momento in cui la sua amministrazione sta coltivando non tanto il “gusto per il disaccordo” quanto il gusto per la crudeltà, alcuni americani potrebbero prendere spunto da lui. *Professore di politica all’Università di Princeton Violenza, Usa senza più anticorpi di Bill Emmott* La Stampa, 14 settembre 2025 Mentre cerchiamo di riflettere su tutte le possibili ripercussioni dell’assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk, 31 anni, amico stretto di Trump, dobbiamo tenere presente tre fattori. Il primo è che l’America è un Paese nel quale vi sono più armi in mano a privati che persone. Il secondo è che la violenza politica in America è usuale. E il terzo è che Trump e alcuni dei suoi sostenitori più fedeli hanno reagito al terribile omicidio enfatizzando e sfruttando la spaccatura politica del Paese, invece di lanciare appelli all’unità. In Europa, quando pensiamo all’America di Trump ci preoccupiamo in particolare dei danni che ha arrecato ai rapporti transatlantici, ai nostri esportatori e alla prospettiva di porre fine all’invasione russa dell’Ucraina. Questo tragico episodio, tuttavia, ci fa capire che dovremmo preoccuparci anche per la stabilità della democrazia americana, una democrazia che in passato ha fatto da faro per la libertà anche in Europa, malgrado le molte pecche dell’America. Dittatura e guerra civile: nessuna delle due è inevitabile. In passato, l’America ha dimostrato tutta la sua resilienza a fronte di eccessi di violenza. La sua democrazia è sopravvissuta agli Anni Sessanta, quando sia il presidente John F. Kennedy, sia suo fratello Robert Kennedy e così pure l’attivista per i diritti civili Martin Luther King furono assassinati. È sopravvissuta agli Anni Settanta, quando chi manifestava contro la guerra del Vietnam fu ucciso dalla Guardia nazionale alla Kent State University in Ohio e ancora, dopo altri quattro anni, quando il presidente Richard Nixon dovette rassegnare le dimissioni per il Watergate, avendo autorizzato il furto di documenti di suoi avversari politici. Gli attentati all’America di 24 anni fa, l’11 settembre 2001, con i quali i terroristi uccisero quasi tremila persone, unirono un Paese che meno di un anno prima si era diviso profondamente per un’elezione alla presidenza risolta da una Corte suprema politicamente di parte. Quello che in questi ottant’anni di dopo-guerra non si è visto, però, è un equilibrio apparentemente omogeneo tra la possibilità che il governo ricorra alla forza militare per assumere il controllo e la possibilità che la violenza politica si diffonda in una cittadinanza ben armata. È qui che l’omicidio di Kirk porta oggi l’America, un Paese profondamente spaccato a livello politico e nel quale il ricorso alla violenza è uno strumento sempre più utilizzato in politica, nel quale l’istinto dell’Amministrazione Trump a usare tale violenza come pretesto per ampliare il suo stesso potere è altrettanto forte ed evidente. Queste forze in competizione tra loro rischiano di irrobustirsi reciprocamente, in una spirale di violenza e intervento dello Stato. Le preoccupazioni per la possibilità che il presidente americano e i suoi sostenitori sfruttino la spirale di violenza nascono dal fatto che Trump già adesso sta usando la Guardia nazionale e l’Ice, un corpo allargato e consolidato dell’Immigration and Customs Enforcement Agency, creata in seguito agli attentati dell’11 settembre, per procedere ad arresti, chiudere in carcere la gente, organizzare rimpatri forzati. Trump si è concentrato su città e Stati governati da esponenti del partito democratico, suoi presunti avversari e suoi critici più accaniti. Nei suoi primi otto mesi in carica, Trump ha messo alla prova tutta la portata dei suoi poteri giuridici, utilizzando queste forze anche per intimidire e insidiare ogni possibile forma di opposizione, sia politica sia istituzionale. La reazione all’assassinio di Kirk da parte di Trump e di alcuni suoi stretti sostenitori ha dimostrato quel medesimo istinto per la politicizzazione. Trump e i suoi sostenitori hanno sì condannato la violenza politica, ma l’elenco degli esempi da loro citato ha escluso di proposito alcuni episodi violenti a danno dei democratici. Tra questi, un’aggressione al marito di Nancy Pelosi nel 2022, quando era speaker della Camera dei rappresentanti; l’omicidio della legislatrice dello Stato del Minnesota e di suo marito all’inizio di quest’anno; il tentato incendio appiccato alla casa del governatore democratico della Pennsylvania, Josh Shapiro. La violenza che Trump e i suoi sostenitori, Elon Musk compreso, hanno scelto di condannare è la violenza di quella che definiscono “la sinistra radicale”, e non ogni forma di violenza politica. In Fiesta, a uno dei personaggi dello scrittore americano Ernest Hemingway viene chiesto come abbia fatto ad andare in bancarotta, e lui risponde con una battuta memorabile: “In due modi. Poco alla volta e all’improvviso”. Con questa frase Hemingway potrebbe aver scritto anche il copione di come potrebbero sparire la democrazia e la legalità americane. Ciò potrebbe avere inizio con la violenza politica a bassa intensità nel suo Paese natale da cui ci ha messo in guardia ieri su La Stampa il mio collega Alan Friedman, in concomitanza con una espansione sistematica del ruolo dell’esercito degli Stati Uniti e dell’Ice negli interventi di ordine pubblico. L’adozione da parte di Trump di una forma tribale di politica, invece di caldeggiare l’unità nazionale, rischia di scatenare un tribalismo simile a sinistra e il ricorso alla violenza reciproca da entrambe le parti. In seguito, indotto da un altro episodio tragico come l’assassinio di Kirk o da una manifestazione con episodi di violenza, Trump potrebbe dichiarare un’emergenza nazionale, nel corso della quale sospendere i diritti civili e dichiarare la legge marziale. Così facendo, Trump potrebbe rimandare le elezioni a tempo indefinito, sfidando il suo partito repubblicano al Congresso o i suoi avversari del partito democratico a contrastarlo. A quel punto, le probabilità che chi lo critica venga arrestato, adducendo come motivazione che costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale, sarebbero alte. Qualora Trump cercasse sul serio di usare così i poteri d’emergenza e la legge marziale, la domanda cruciale riguarderebbe la possibile reazione delle forze armate degli Stati Uniti e di altre forze di sicurezza. Il processo della settimana scorsa in Brasile all’amico di Trump, Jair Bolsonaro - nel quale il presidente destituito dalle elezioni del 2022 è stato condannato a 27 anni di carcere per aver pianificato un colpo di Stato - ha dimostrato il ruolo cruciale che vi ha avuto l’esercito brasiliano. Alcuni generali hanno agito in combutta con lui e sono stati riconosciuti colpevoli. Il grosso delle forze armate e i comandanti dell’aeronautica, però, si sono rifiutati di entrare a far parte della cospirazione. Se l’avessero fatto, il Brasile sarebbe nuovamente una dittatura militare, come lo è stato dal 1964 al 1985. Trump ha criticato aspramente i giudici brasiliani per aver emesso quella sentenza contro Bolsonaro. Molto probabilmente, immagina di potersi trovare nella stessa situazione del suo amico. Oppure immagina di poter imparare dagli errori di Bolsonaro e portare a segno un suo colpo di Stato. Poco alla volta e all’improvviso. *Traduzione di Anna Bissanti Venezuela. Caso Trentini, la proposta: delegazione di parlamentari a Caracas di Anna Maselli Corriere del Veneto, 14 settembre 2025 Dieci mesi di detenzione, 302 giorni. Fra l’Italia e il Venezuela non c’è solo l’oceano ma un muro di silenzio che ogni giorno si fa più angosciante perché di Alberto Trentini nulla sappiamo, la trattativa per il rilascio sembra percorrere un binario morto. E allora la società civile, nel Chiostro del Museo M9 di Mestre, ieri mattina ha fatto rumore, con il proprio corpo ha detto “Io ci sono”. E il senatore dem Andrea Martella ha proposto “una delegazione di parlamentari che possa incontrare le autorità di Caracas, interloquire con Trentini, fare tutti gli sforzi per poterlo riportare a casa dopo oltre 300 giorni di detenzione. Noi siamo disponibili”. Perché la maggioranza di governo - hanno detto dal palco alcuni degli ospiti della XIV edizione del Festival della Politica - “non sta facendo abbastanza per il cooperante veneziano, in carcere dal 15 novembre scorso”. “Alberto Trentini è un desaparecido per la politica e l’informazione italiana - afferma il giornalista Marco Damilano -. Non è sulle prime pagine dei giornali nazionali, nelle notizie trasmesse dalla tv pubblica e allora mi chiedo perché molte persone si identificano in lui”. La risposta viene dal discorso pronunciato da Papa Leone XIV venerdì al Meeting della Fraternità: “Fratello, sorella dove sei? - legge Damilano -. Dove sei nel business delle guerre che spezzano le vite dei giovani costretti alle armi, colpiscono civili, bambini, donne, anziani indifesi. Dove sei quando i poveri vengono incolpati della loro povertà, dimenticati e scartati in un mondo che stima più il profitto delle persone”. Ecco, dunque, il rimando a Trentini che per tutta la vita ha cercato una direzione diversa, di dare un’opportunità di crescita e sviluppo in tanti angoli dimenticati del pianeta. “Alberto è uno di quei ragazzi che io chiamo “La migliore gioventù” - racconta Annalisa Cuzzocrea, inviata di Repubblica -. Si prende carico del dolore del mondo e non riesco a capire perché chi ha la responsabilità di proteggere i cittadini italiani non è angosciato quanto noi”. La stoccata è per Giorgia Meloni e i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani che “dovrebbero immedesimarsi di più nel dolore della mamma di Alberto”. La signora Armanda Colusso non era presente a Mestre ma la presidente di Articolo 21 Venezia, Ottavia Piccolo, ha letto la lettera scritta in occasione della Mostra del Cinema: “Vorrei gridare la mia disperazione e che il mio grido oltrepassasse l’oceano per arrivare in Venezuela. Stiamo vivendo un dolore atroce che cresce ogni giorno di più e allora chiedo anche a voi di aiutarci. Scrivete, parlate, passate voce. Mi chiedo cosa sta pensando mio figlio del suo Paese”. Il giornalista e speaker di Rai Radio 3 Pietro Del Soldà ha aggiunto: “Sta passando l’idea che è meglio rimanere nella propria bolla, iperconnessa e soffocante ma Alberto ha fatto un’altra scelta. In un mondo che invita all’isolamento dobbiamo essergli grati”.