Donne in carcere, dietro le sbarre non c’è cultura di genere di Ilaria Dioguardi vita.it, 13 settembre 2025 Sono quattro le donne detenute che si sono suicidate in carcere dall’inizio dell’anno. L’ultima aveva 26 anni e si è tolta la vita impiccandosi nella sua cella a Sollicciano (Firenze). Pochi giorni prima un’altra detenuta si era suicidata a Rebibbia. Daniela De Robert, giornalista e vice presidente dell’associazione Volontari in carcere: “Le donne detenute sono il 4% della popolazione detenuta: per questo hanno maggiori difficoltà nelle carceri. Non esiste un pensiero di genere sulla realtà della detenzione femminile”. Nel 2024 sono state due le donne a togliersi la vita in carcere: nel 2025 siamo già a quattro. Le ultime due si sono tolte la vita pochi giorni fa, avevano rispettivamente 52 e 26 anni. La prima si è suicidata a Rebibbia, la seconda a Sollicciano (Firenze), era di origini rumene e viveva in una condizione di grave marginalità sociale. “Il carcere continua ad essere pensato al maschile. Su quel 4% di persone detenute si potrebbe lavorare molto di più. Se c’è una cultura di genere, allora bisogna cominciare a ragionarci anche nell’ambito della esecuzione penale”, dice Daniela De Robert, giornalista, che dal 2016 al 2023 è stata membro dell’ufficio del garante per le persone private della libertà personale ed è vicepresidente dell’associazione Volontari in carcere - Vic. Secondo i dati del XXI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, “con la chiusura del carcere di Pozzuoli nel giugno 2024 a causa del terremoto, sono oggi solo tre le carceri interamente femminili sul territorio nazionale: Rebibbia a Roma (375 presenze per 272 posti, il carcere femminile più grande d’Europa), la Giudecca a Venezia (102 presenze per 112 posti) e la piccola casa di reclusione femminile di Trani (34 presenze per 32 posti). Oltre l’80% delle donne detenute è ospitato in sezioni femminili all’interno di carceri a prevalenza maschile, che attualmente sono 46”. De Robert, le donne detenute sono molto meno degli uomini: quali sono le maggiori difficoltà delle donne in carcere? Le donne rappresentano circa il 4% della popolazione detenuta, è un dato costante negli anni. Ci sono una miriade di sezioni femminili più o meno grandi all’interno di istituti maschili. Questo vuol dire che, al di là dei pochi istituti esclusivamente femminili, le donne sono una minoranza. E le minoranze, come sempre succede, hanno meno di tutto. Se si hanno poche risorse, si danno ai tanti e non ai pochi. Se si ha un po’ di spazio, un progetto da avviare o un’attività da iniziare si offre laddove c’è più richiesta, quindi agli uomini, che in carcere sono di più. Di fatto, così, le detenute donne hanno meno. A volte le sezioni femminili sono talmente piccole, o le presenze delle donne talmente poco numerose, che non si riesce neanche a fare una classe scolastica. Quindi non hanno neanche la scuola, che è il minimo sindacale negli istituti: anche in quelli dove non c’è nulla, la scuola è presente, ma a volte nelle sezioni femminili non c’è. È il paradosso del carcere. Qual è il paradosso del carcere? Il fatto di applicare le regole del fuori: in carcere così, esattamente come all’esterno occorre un numero minimo di studenti per formare una classe. Questo vale a Roma, all’Isola di Ventotene, nelle carceri con una sezione di cinque posti, dove è chiaro che non si avrà mai una classe. Anche perché permane la prassi per cui non si fanno classi miste in tutta Italia. Il carcere è un luogo in cui la coeducazione non esiste, anche là dove sarebbe possibile. Nel carcere non è previsto, come non sono previste attività lavorative miste, quindi ad esempio in cucina spesso lavorano solo gli uomini. Le donne in carcere sono una minoranza e hanno meno di tutto: meno spazi, meno campi sportivi, meno palestre, meno attività. E questo è un discorso sul piano della quantità. E sulla qualità? Per un discorso di qualità, bisogna partire dal punto di vista di ciò che l’amministrazione dovrebbe fare. Il carcere continua sempre ad essere pensato al maschile, anche adesso che ha una prevalenza di direttrici e di provveditrici donne. Non esiste un pensiero di genere sulla realtà della detenzione femminile. L’unico pensiero di genere che ho trovato in giro è l’uncinetto, che non mi sembra proprio il massimo. Manca un’attenzione alle donne la cui detenzione ha un peso diversissimo sul fuori. Quando va via una donna da casa, va via il pilastro del welfare che pesa sulle famiglie. Chi si occupa dei figli, dei genitori, degli anziani, dei malati? Siccome il lavoro di cura pesa in gran parte sulle donne, le famiglie risentono molto più di una detenzione femminile. Questo non può essere un ragionamento che non viene fatto in una società complessa e democratica. L’unico pensiero di genere, sistematico, che c’è sulle donne, è sulle donne in quanto madri, come se la femminilità coincidesse in toto con l’essere madri. E, quindi, si pensa agli istituti a custodia attenuata per le detenute madri - Icam, alle sezioni nido, alle case famiglia protette (pochissime). Siamo a stereotipi vecchissimi. Le detenute madri con figli al seguito sono in aumento. Secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap, al 31 agosto 2025 sono 16 le donne con 21 figli al seguito, il 31 luglio erano 13 con 18 bambini, il 31 dicembre 2024 erano 11 con 12 figli al seguito... Il ministero della Giustizia fornisce la fotografia all’ultimo giorno del mese, cristallizzando un dato. Ma nel mese di agosto sono passate in carcere ben più di 16 donne con 21 bambini! Probabilmente arriviamo a 50: i bambini stanno dentro 15-20 giorni, un mese, ma ruotano e sono molti di più. Sono sempre numeri così piccoli che potrebbero essere assolutamente gestiti, come si è riusciti a fare in tempo di pandemia di Covid-19, quando si era raggiunto lo zero. Il Giudice per le indagini preliminari - Gip, il Giudice per l’udienza preliminare - Gup, il tribunale… non si pongono neanche la domanda se la persona ha figli minori, prima di decidere di mandarla in carcere. Mentre durante il Covid-19, il problema si poneva. C’è tutto un non pensiero dietro alle donne come madri, l’attenzione è più sui figli in questi casi: non parliamo di detenzione femminile, ma parliamo di detenzione dei bambini che di fatto sono detenuti con le loro madri. Da anni, le donne sono mediamente il 4% della popolazione detenuta. Dagli ultimi dati del ministero della Giustizia del 31 agosto scorso, su una popolazione detenuta di 63.167 persone, le donne sono 2.740, il 4,33% del totale... Questo vuol dire che le donne delinquono meno, un dato positivo che è assolutamente non considerato. Allora su quel 4% si potrebbe lavorare molto di più. Un anno, da volontaria, avevamo organizzato un’attività con Komen Italia per portare in carcere la prevenzione dei tumori femminili, permettendo alle detenute di sottoporsi a mammografia ed ecografia mammaria. In una cella abbiamo sistemato l’ecografo, l’associazione è venuta con il pulmino con il mammografo e abbiamo offerto a tutte le donne la possibilità di fare questi esami. Sono venute molte donne, alcune non avevano mai fatto una mammografia nella loro vita. Una donna era stata operata al seno, avrebbe dovuto fare la risonanza e la mammografia di controllo, ma non riusciva a farle. Con la popolazione detenuta, con quella femminile in particolare (le donne sono moltiplicatrici di prassi), si ha la possibilità di avvicinare, dal punto di vista della prevenzione e della salute, delle persone che fuori non vanno in ospedale, non fanno test. Il carcere può diventare un’opportunità di educazione alla salute perché intercetta le persone che fuori il Servizio sanitario nazionale non intercetta. La scuola è un’opportunità per quella minoranza di donne che ha commesso un reato. Spesso le donne in carcere sono più sole, rispetto agli uomini? Sì, è vero. Spesso le donne seguono i compagni, anche nelle situazioni più disperate, e per questo commettono reati. E più facilmente perdono il compagno quando entrano in carcere, e nessuno le segue durante la detenzione, ricevono poche visite. Ci sono nonne e madri con il pensiero dei nipoti e dei figli fuori. Le madri vivono con il terrore di perdere i figli, hanno sempre paura che glieli portino via. Una donna in carcere, se ha figli, vive con l’idea molto forte che, oltre a essere una persona che ha commesso un reato, sia una cattiva madre. La detenzione per le donne che hanno figli, adulti o minori, è vissuta come giudizio anche personale sul rapporto con la famiglia, che hanno in qualche modo tradito. Questo è un elemento che va considerato, secondo me, anche in termini di norme. Ci spiega meglio? Per le donne andrebbe pensata un’altra modalità di colloqui, con un’altra frequenza. O comunque bisogna pensare che, nelle famiglie, c’è una differenza nel ruolo della donna e dell’uomo, in Italia, oggi. Poi speriamo che cambi, però cominciamo dal presente. L’unica cosa buona che ha portato il Covid-19 è sdoganare un po’ le tecnologie, come la videochiamata. Ma nel 2016, quando cominciai a lavorare nel collegio del Garante, mi ricordo che all’istituto femminile Giudecca di Venezia la direttrice aveva autorizzato ad una donna detenuta che aveva una figlia in età scolastica, di fare tutti i giorni con lei i compiti via Skype. È una cosa che non toglie niente alla sicurezza, perché non c’è nessun pericolo, ma che dà moltissimo. È abbastanza naturale studiare insieme, per mamme e figli, questo fatto ha cambiato la vita di quella donna e di quella figlia. Si perde la bellezza di un momento condiviso così importante come fare i compiti con i figli seppur a distanza, in una cultura generale in cui si pensa solo a punire e sanzionare, in cui si chiede l’aumento delle pene e non c’è mai un pensiero sulla persona. Diritti umani in soffitta. Italia si accorda con la Libia per scambiarsi i detenuti di Federica Olivo huffingtonpost.it, 13 settembre 2025 Per il centrodestra l’intesa è fondamentale per “il reinserimento sociale”. L’opposizione: “Siamo preoccupati, non ci sono le condizioni”. Al momento è applicabile ad appena quattro condannati in via definitiva, due per parte. Servirebbe il loro consenso, ma è aggirabile. Tra qualche mese l’Italia potrà mandare i detenuti libici a scontare la pena “a casa loro”. In quelle strutture che i report internazionali denunciano per la violazione dei diritti umani dei detenuti. Potrà succedere anche il contrario: gli eventuali detenuti italiani in Libia, se condannati in via definitiva, potranno tornare in Italia. L’accordo, firmato dai ministri della Giustizia di Roma e Tripoli nel 2023, è stato approvato l’11 settembre dal Senato. La discussione è stata veloce ed è passata in sordina. Il testo ora andrà a Montecitorio per il via libera definitivo. È stato salutato dalla maggioranza come un passaggio di “ulteriore collaborazione” tra Italia e Libia. Necessario, sostiene il senatore di Fratelli d’Italia Raffaele Speranzon, al “reinserimento sociale della persona condannata”. Su questo tema l’Italia può dare ben poche lezioni, data la condizione delle patrie galere. Il problema, però, è che in un Paese come la Libia, in cui spesso non vengono rispettati i diritti umani di minoranze, dissidenti e migranti, il reinserimento sociale, per usare un eufemismo, può essere un miraggio. Sono ancora sotto gli occhi di tutti le immagini del carcere di Mitiga, diretto dal generale Osama Almasri, ricercato dalla Corte penale internazionale, arrestato in Italia ma subito rilasciato e rispedito in patria per volere del governo. In quella struttura le violenze nei confronti dei detenuti erano all’ordine del giorno. Che ci siano violazioni sistematiche è testimoniato da vari report internazionali. Uno di questi, redatto a fine 2024 dal Panel di esperti sulla Libia delle Nazioni Unite, riporta testimonianze secondo le quali “durante la loro prigionia nei centri di detenzione, i detenuti sono stati duramente picchiati con vari oggetti, come fucili, sbarre e catene di metallo, mazze da baseball, manganelli della polizia e gambe di sedie. Sono stati picchiati su tutte le parti del corpo e molti di loro hanno riportato gravi ferite. Alcuni sono stati picchiati durante gli interrogatori”. Ma cosa prevede esattamente questo accordo tra Italia e Libia? Redatto nel 2023 e rimasto per un paio d’anni lettera morta, prevede che i libici condannati in via definitiva in Italia e gli italiani condannati in via definitiva in Libia possano scontare la pena in patria. A patto che il reato sia riconosciuto da entrambi i Paesi. Sulla base della richiesta del Paese d’apparteneza e con il consenso del diretto interessato. Il consenso dovrebbe essere una garanzia per scongiurare eventuali persecuzioni in patria dei libici detenuti in Italia, ma c’è un’eccezione alla regola. Se la condanna prevede che il detenuto debba essere espulso dopo aver finito la pena, non c’è bisogno che del consenso. Questa scappatoia, è il timore di chi in Italia si occupa di diritti umani, rischia di far tornare in Libia persone che nel loro Paese d’origine hanno avuto problemi. E che potrebbero finire nella lotta tra milizie, che da tempo affligge la Libia. Inoltre, dopo il trasferimento, l’Italia non avrebbe strumenti per verificare che i diritti della persona in questione siano rispettati. Un tema, questo, che alla maggioranza non sembra interessare. Anzi, dice Marco Scurria, presidente dell’intergruppo parlamentare di amicizia Italia-Libia: “Questo accordo fa parte di un passaggio ulteriore di collaborazione, penso che a tutti noi serva una Libia normalizzata”. Il senatore, in Aula, ha sostenuto che molti detenuti libici nelle carceri italiane vogliano tornare a casa “e non perché vogliono andare all’obitorio”. I numeri, però, non tornano. Secondo i dati del ministero della Giustizia, nelle prigioni italiane ci sono 106 detenuti libici. Appena lo 0,5% dei reclusi stranieri in Italia, che sono poco più di 20mila. Tra questi 106, i condannati sono 82. Solo due di loro, però, si legge nella relazione tecnica dell’accordo scritta ad aprile 2025, sono condannati in via definitiva. Ed è, quindi, solo a loro che l’intesa si applicherebbe, per il momento. Secondo la stessa relazione, inoltre, in Libia ci sarebbero due detenuti italiani, che con questo accordo potrebbero tornare. HuffPost ha chiesto a più fonti informazioni su di loro, ma al momento non sono stati diffusi dettagli. Il primo via libera all’accordo ha messo in allarme le opposizioni: “Siamo molto preoccupati - dice ad HuffPost Alessandro Alfieri del Partito democratico - conosciamo tutti in che stato versa la Libia. Non ci sono le condizioni per concludere questo accordo”. Per Ivan Scalfarotto, di Italia Viva: “Questo accordo è bizzarro e drammatico”. Quel che è certo è che si tratta di un accordo con pochi precedenti: da anni l’Italia cerca di stilare accordi per far scontare “a casa loro” la pena ai detenuti stranieri. L’operazione è andata in porto, però, pochissime volte. Un accordo di questo genere è stato stilato con la Romania, che però è membro dell’Unione europea. Un tentativo è stato fatto anche con l’Albania, Paese amico dell’Italia almeno tanto quanto la Libia. Per ora, però, senza successo. Con il controverso governo di Tripoli l’operazione è stata molto più semplice. Per vedere quali saranno i frutti, e quali gli eventuali danni, basterà aspettare qualche mese. Noi detenuti che trasformiamo l’ostacolo in lotta, la pena in pensiero, il dolore in dignità di Fabio Falbo* L’Unità, 13 settembre 2025 Quando ho letto il Diario di Cella n. 17 scritto da Gianni Alemanno, ho provato una commozione profonda. Non perché mi abbia raccontato, ma perché l’ha fatto con verità, con rispetto, con coraggio, in un sistema che spesso ci riduce a numeri, a etichette, a reati. Gianni ha scelto di raccontare l’uomo, la storia, il cammino, e l’ha fatto dopo aver conosciuto mia moglie Maria, i miei figli Francesco, Denise, Marco Aurelio, mia sorella Isabella e sentito parlare di mio padre Francesco, che a 92 anni continua a vivere con un solo desiderio: rivedermi libero. Li ha incontrati nell’area verde di Rebibbia, durante i colloqui, ha guardato negli occhi la mia famiglia, quella che ha resistito con me in tutti questi anni, fuori dalle mura, giorno dopo giorno. Nel suo diario, Gianni ha riportato alcune parole che gli ho scritto nella dedica di un mio libro. L’ho chiamato “compagno di pensiero e di resistenza”, perché è così che lo sento. E ho scritto: “Anche chi è innocente può curare una ferita che non ha causato, e trasformare il dolore in consapevolezza”. Queste parole non sono solo mie, sono il frutto di anni di riflessione, di studio, di lotta. Anche se non condividiamo la stessa cella, condividiamo gli altri spazi del carcere, e quello che ci contraddistingue è la battaglia comune che ci fa sentire persone. In carcere noi non siamo il nostro reato. Questa frase, che ho ripetuto a Gianni fin dal primo giorno, è diventata il seme da cui è nato questo diario di cella con Stefano. Perché dietro ogni condanna c’è una persona, una storia, una possibilità. E se il sistema penitenziario non riesce a vederlo, allora dobbiamo gridarlo noi. La filosofia mi ha salvato e aiutato a sopportare questo dolore. In particolare, Marco Aurelio, imperatore e pensatore stoico, mi ha insegnato che la libertà non è un luogo, ma uno stato dell’anima. “La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri.” Questa frase mi accompagna ogni giorno. In cella, tra le carte, tra le istanze che scrivo per i miei compagni di sventura, tra le notti in cui il silenzio pesa come pietra, ho scelto di non essere schiavo del rancore, ma artigiano della consapevolezza. Bisogna vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, ma agire come se ogni gesto può cambiare questo carcere collassato. E così ho fatto, ho studiato, mi sono laureato, ho aiutato centinaia di persone detenute a ottenere benefici, ho scritto, ho pensato, ho lottato, non per ottenere qualcosa, ma per non perdere me stesso. Gianni ha avuto il coraggio di raccontare tutto questo, perché sopra ogni colore politico ci sono i diritti umani. Il duo “Alemanno/Falbo” significa camminare a testa alta tra rischi e insidie presenti in una qualunque istituzione totale, significa un incontro di saperi sulla persona e sulla società per far affiorare l’inatteso e il non detto. Questa resistenza silenziosa che ogni giorno portiamo avanti tra le mura di Rebibbia significa dare voce a chi voce non ha, facendo capire che il problema del carcere non è un problema delle persone carcerate, ma della società libera. A Gianni va la mia gratitudine più profonda per aver dato valore alla mia storia, per aver riconosciuto il mio impegno, per aver scelto di usare la sua voce per amplificare la mia. E a chi legge queste righe, chiedo solo questo: Non dimenticateci. Non voltatevi dall’altra parte. Lottate con noi perché nei noi ci siete anche voi, lettori, che siete dalla parte dei diritti. Perché ogni storia raccontata è un muro che cade e ogni alleanza vera, come la nostra, è un seme di cambiamento. Un grazie va reso anche a Nessuno tocchi Caino coi laboratori “Spes contra Spem” se le nostre voci rimbombano in tutte quelle coscienze che vogliono riformare la legge e il sistema penale. Noi raccogliamo tutte le informazioni utili per approfondire le conoscenze, per poi elaborare proposte di riforma della esecuzione penale in modo da evitare ii ripetersi di future ingiustizie. Noi non parliamo della nostra esperienza agli altri, vogliamo solo ricordare quel che succede alle persone detenute in uno Stato che viene definito di diritto, ben consapevole dei trattamenti inumani e degradanti che infligge e che di certo non sono fenomeni eccezionali e sporadici, perché si verificano con estrema frequenza a causa di vere e proprie “mancanze sistemiche”. Coloro che più di ogni altro sono chiamati ad assicurare i diritti alle persone detenute sembrano perdere di vista i propri doveri e si concentrano, invece, alimentandole, sulle tensioni tra sicurezza pubblica e funzione rieducativa della pena. Come scriveva Marco Aurelio: “Ciò che ostacola il cammino diventa il cammino”. E noi, ogni giorno, trasformiamo l’ostacolo in lotta, la pena in pensiero, il dolore in dignità. *Lo Scrivano di Rebibbia Separazione delle toghe: duello tra Davigo e Sisto di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2025 “Confido di non aver bisogno del giubbotto antiproiettile”. Il viceministro Francesco Paolo Sisto, peso massimo di Forza Italia alla Giustizia, si presta con ironia al corpo a corpo con Piercamillo Davigo sulla separazione delle carriere - la riforma totem del suo partito - di fronte al pubblico non certo amico della festa del Fatto. Il confronto, moderato da Antonio Massari e Giuseppe Pipitone, è duro ma mantiene il fair-play: Davigo precisa di stimare Sisto, a differenza di “altri” (e qui ognuno può farsi un’i de a del riferimento), lui ricambia e dice di “arricchirsi” ascoltando l’ex pm di Mani Pulite. Il viceministro parte con la narrazione standard del governo: separare i pm dai giudici serve a “rassicurare il cittadino” sulla terzietà di chi decide, il sorteggio del Consiglio superiore della magistratura è un “cortisone con effetti collaterali, unico rimedio per spezzare il rapporto con le correnti”. E i numeri irrisori dei passaggi da una funzione all’altra -poche decine di magistrati all’anno - “non hanno rilevanza perché è una questione strutturale: chi accusa e chi difende dev’essere diverso da chi giudica”. Davigo invece la prende alla larga: nel suo stile ricco di aneddoti spiega lo sbaglio di aver scopiazzato in Italia il processo accusatorio statunitense, in cui il giudice è all’oscuro degli atti d’indagine, usato ora come giustificazione ideologica della riforma. “Negli Usa vanno a giudizio solo il 3% dei casi, nel 70% l’imputato si dichiara colpevole e patteggia. Da noi chi volete che patteggi, con 30 amnistie o indulti in cinquant’anni?”. Avverte che il pm separato dal giudice verrà presto gerarchizzato con legge ordinaria, “perché è più facile trattare con un solo capo che con duemila magistrati”. E succederà, dice, perché la politica è allergica alle inchieste nei suoi confronti: “Non ho mai incontrato uno spacciatore che venga arrestato e dica ‘non me lo aspettavo’, come Calisto Tanzi. Se faccio il ladro, prendo e vado in prigione. La classe dirigente di questo Paese non ha ancora accettato questa regola”. Sisto respinge l’argomento: “Non si può giudicare una riforma sul ‘potrebbe’, si giudica da quello che è scritto. La Costituzione dice che il pm resta autonomo e indipendente, l’obbligatorietà dell’azione penale non viene toccata”. Alla domanda se può garantire che sarà lo stesso in futuro, però, butta la palla in tribuna: “Potrei anche garantire di diventare presidente del mondo”. Il viceministro cita ancora una volta Giovanni Falcone come presunto sostenitore della separazione delle carriere - qui i fischi del pubblico si sprecano - e nega che la riforma facesse parte del piano della P2 di Licio Gelli: “Non c’entra niente, è uno slogan”. Davigo replica ricordando il parere del Consiglio d’Europa, che aveva indicato l’esperienza comune di giudici e pm in Italia come un modello da seguire: “Quando conviene è ce lo chiede l’Europa, altrimenti se ne infischiano”. Csm, le correnti pronte all’assalto delle Commissioni di Simona Musco Il Dubbio, 13 settembre 2025 È corsa alle posizioni chiave. Pinelli punta su pluralismo e trasparenza, per ridisegnare la mappa del potere senza cedere alle logiche correntizie. Palazzo Bachelet si avvia verso un rinnovo della geografia consiliare. Il prossimo 9 ottobre, infatti, scadranno le Commissioni e sarà necessario procedere con nuove nomine, rispetto alle quali i consiglieri possono indicare, entro il 18 settembre, la propria preferenza, sia per quanto riguarda la Commissione di destinazione sia per quanto riguarda le presidenze. A decidere sarà il Comitato di Presidenza, presieduto da Fabio Pinelli e rinnovato dopo la nomina del nuovo primo presidente Pasquale D’Ascola e del nuovo procuratore Pietro Gaeta. Si tratta di un passaggio cruciale per la vita del Consiglio, anche per via dell’attivismo delle correnti, pronte a contendersi i posti migliori. E la Commissione più ambita, in questo senso, è la Quinta, quella che decide le nomine e, dunque, l’orientamento correntizio delle procure. Si tratta della prima vera e propria partita politica per la nuova “triade” del Csm. Un tema tutt’altro che secondario, poiché sono proprio le Commissioni il vero asse portante del lavoro consiliare. Sebbene sia il plenum l’organo deliberativo per eccellenza, infatti, oltre il 90 percento delle delibere approvate proviene dal lavoro istruttorio svolto nelle Commissioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’assemblea recepisce quanto viene proposto in quelle sedi. Ciò vale in generale, ma è ancor più evidente per organi come la Quinta, che ha una funzione cruciale. Ed è lì che il gioco delle correnti è più forte, dato che la posta in gioco sono gli incarichi direttivi e semidirettivi. Storicamente, la spartizione delle Commissioni ha rispecchiato un criterio “geopolitico”: ogni corrente tenta infatti di piazzare almeno un rappresentante in ogni Commissione, spesso secondo una logica da “Manuale Cencelli”. In passato, si è anche assistito a scelte penalizzanti verso singoli consiglieri, come nel caso del togato indipendente Andrea Mirenda, attualmente in una sola Commissione (la Prima, quella delle incompatibilità), mentre tutti gli altri ne hanno ottenute almeno due. E ciò, a giugno dello scorso anno, fu motivo di polemica. Proprio per evitare giochi di potere, la sfida di Pinelli sarà quella di garantire la pluralità delle Commissioni, per ottenere una gestione democratica, trasparente e libera da logiche di potere. Un obiettivo dichiarato dal vicepresidente, che nelle ultime assemblee consiliari ha anche rivendicato come risultato di tale logica il sostanziale equilibrio in plenum: le decisioni consiliari, infatti, sono state adottate all’unanimità quasi nell’80 per cento dei casi. L’intenzione, dunque, è quella di rivedere la geografia consiliare senza creare squilibri di potere. Alcune Commissioni sono di carattere tecnico e permanente - come quelle sul bilancio o sul regolamento - e restano relativamente stabili. Le Commissioni “operative”, invece, sono quelle su cui si concentra la vera contesa. Attualmente, il Csm rispecchia il rapporto di forze vigente tra le correnti. Tre le presidenze in mano a Magistratura indipendente: Paola D’Ovidio alla Terza (trasferimenti, promozioni e assegnazioni dei magistrati) e alla commissione Verifica titoli; e Maria Vittoria Marchianò alla Settima (organizzazione degli uffici giudiziari). Due le presidenze ad Area, con Tullio Morello alla Prima e Maurizio Carbone all’Ottava (magistratura onoraria), e una a Unicost, con Roberto D’Auria alla Sesta, quella che fornisce i pareri sulle leggi del governo, prima guidata da Marcello Basilico di Area. Altre tre presidenze sono in mano ai laici di centrodestra, in particolare a tre consiglieri indicati da FdI: Daniela Bianchini alla Nona (rapporti istituzionali nazionali e internazionali; attività di formazione; esecuzione penale), che ha un posto in ben tre Commissioni (da vice nella Terza e in Quarta come componente semplice), Isabella Bertolini alla Quarta (valutazioni di professionalità) e Felice Giuffrè all’Ufficio Studi. Alla Quinta, infine, il laico di Italia viva Ernesto Carbone, che era riuscito a “strapparla” al centrodestra. Il rinnovo delle Commissioni, previsto entro ottobre, è fondamentale anche in vista delle molte nomine ancora da effettuare. La Quinta, da sola, potrebbe trovarsi a gestire infatti oltre 200 fascicoli da qui a fine consiliatura, mentre la Terza sarà rilevante per i trasferimenti e le nomine di legittimità in luoghi cruciali come la Cassazione. La Settima, infine, avrà un ruolo chiave in ottica della gestione dei fondi Pnrr. Una volta raccolte le preferenze dei consiglieri, il Comitato di Presidenza ragionerà sulla distribuzione degli incarichi, cercando di garantire il massimo grado possibile di rotazione. In un contesto in cui il rischio di una lottizzazione permanente sembra più vivo che mai - tanto da riflettersi persino nella disposizione fisica degli uffici di Palazzo Bachelet - il banco di prova non sarà soltanto tecnico, ma profondamente politico: riuscire a spezzare le catene della geografia correntizia senza cedere alla tentazione del compromesso al ribasso. E ciò rappresenterebbe non solo un risultato istituzionale, ma una dichiarazione d’intenti: il Csm può ancora essere la casa della magistratura, non il terreno di conquista delle correnti. Ceccanti: “Non si processi l’intero governo per interposta Giusi Bartolozzi” di Errico Novi Il Dubbio, 13 settembre 2025 Il costituzionalista ed esponente del Pd parla del caso Almasri che agita la maggioranza di centrodestra. Si ripete, senza fortuna, che sulla giustizia servirebbe un confronto tecnico, anziché una guerra di religione. A offrire un paradigma di “civiltà possibile” nel dibattito è un esponente del Pd come Stefano Ceccanti, che da costituzionalista non esita a chiedersi “come evitare una richiesta di autorizzazione anche per Giusi Bartolozzi”, a proposito della mancata estensione, alla capo Gabinetto di Nordio, dello “scudo” riconosciuto al guardasigilli, a Piantedosi e a Mantovano. E quindi, onorevole Ceccanti, la falsa testimonianza contestata dal Tribunale dei ministri a Bartolozzi va considerata un presunto reato “connesso”, se non addirittura “in concorso” con i componenti del governo? Chiunque legga l’atto proveniente dal Tribunale dei ministri, come in diversi avevamo segnalato già ad agosto, trova una obiettiva centralità dell’operato della capo di Gabinetto Bartolozzi, le cui azioni sono quindi indissociabili dai componenti del governo che hanno gestito la vicenda, centralità che poi si blocca al momento della richiesta di autorizzazione, dalla quale è esclusa. Ora, io apprezzo la finezza delle argomentazioni del presidente della Giunta Dori, che per di più conosco personalmente come parlamentare scrupoloso, e anche del relatore Gianassi, ma tutte queste sottili distinzioni non riescono a superare questo scarto obiettivo del Tribunale. Per di più, in termini di contesto politico, i gruppi di opposizione hanno costantemente criticato la capo di Gabinetto, descritta come il vero effettivo ministro della Giustizia, sia nel caso Almasri sia nella gestione del ministero. Come evitare quindi una richiesta di autorizzazione anche per lei? Questo la Giunta dovrebbe chiedere al Tribunale dei ministri. Ma tecnicamente è possibile impugnare dinanzi alla Consulta, per conflitto di attribuzione, la richiesta di autorizzazione, avanzata nei confronti di ministri e sottosegretario, per l’omessa estensione a Bartolozzi? Ovviamente sì, si può sollevare da parte della Camera un conflitto di attribuzione segnalando questa omissione, sarebbe un caso inedito ma motivato, però hanno torto i gruppi di maggioranza quando pensano di imboccare subito questa strada. Se ragioniamo in termini di leale collaborazione, la Giunta deve prima chiedere questa integrazione al Tribunale, insistendo sul fatto che l’assenza di richiesta sia contraddittoria con la parte di motivazioni. Analogamente a quanto fece il Presidente pro tempore Castagnetti nel caso Lunardi rispetto al cardinale Sepe. Non mi pare sia corretto sostenere, usando un precedente relativo a Berlusconi, che sia impedito ogni dialogo fra Parlamento e Tribunale. Un conto è una sorta di rimpallo generico sulla natura ministeriale di reati come in quel caso, un conto è una richiesta puntuale di integrazione. Il precedente è quello Lunardi, non Berlusconi. Secondo lei, in questa vicenda, il vulnus decisivo è nell’iniziale mancata opposizione del segreto di Stato? Certo, il governo si doveva assumere chiaramente quella responsabilità e non c’è dubbio che ha in qualche modo provocato l’iniziativa giudiziaria, perché a partire da quell’errore sono derivati vari comportamenti piuttosto discutibili oltre che confusi, e da lì l’inevitabile azione giudiziaria, che però deve rispettare le regole costituzionali. C’è il rischio che alcune iniziative giudiziarie assunte in questa fase nei confronti di esponenti della maggioranza possano essere condizionate dall’alta tensione creatasi sulla separazione delle carriere? Vorrei limitarmi al solo caso in questione per evidenziare i rischi a cui andiamo incontro, altrimenti rischiamo di costruire teoremi. Cosa dobbiamo temere se questo precedente viene gestito male? Il punto non è a chi giovi oggi una tesi giuridica su questo caso, ma gli effetti di sistema per il futuro. A mio avviso sarebbe lesivo dell’equilibrio fra magistratura e Parlamento se passasse il criterio di separare nell’azione concertata di un gruppo, che qui c’è stata, persone a cui l’autorizzazione è chiesta, e a cui sarà prevedibilmente negata, e altre che invece vengono affidate alla magistratura ordinaria. A quel punto il processo a queste ultime coinvolgerebbe comunque anche coloro a cui l’autorizzazione fosse stata negata, sia pure non come imputati. La volontà di preservare il governo dall’essere processato in caso di ragione di stato, che la legge costituzionale 1/ 1989 affida al Parlamento, sarebbe elusa. Oggi a danno del governo Meloni, ma domani ai danni di un Governo Schlein o Conte 3 o di qualcun altro. È in effetti il punto centrale... Non bisogna pensare al governo e al Parlamento di oggi, ma all’istituzione governo e all’istituzione Parlamento. Vedo che qualche giornale sostiene che il Tribunale dei ministri penserebbe a un proprio conflitto alla Corte anche per coloro a cui l’autorizzazione fosse negata contestando l’effettiva esistenza di una ragione di Stato. Ora è vero che è prevalso negli anni, per le delibere sulle prerogative parlamentari, un orientamento ad ammettere conflitti, ma in quei casi, specie sull’insindacabilità, ciò è avvenuto per tenere presenti diritti di terzi. Qui la legge 1/ 1989 parla di delibera parlamentare ‘ insindacabile’ perché decidere se vi è stata ragion di Stato è una scelta di carattere eminentemente politico, che non può essere delegata alla Corte costituzionale. Così come la Corte ha evitato di espandere i suoi poteri intervenendo con prudenza sul segreto di stato, materia analoga per politicità. L’obiezione più seria sulla separazione delle carriere riguarda l’isolamento della magistratura requirente: davvero ci troveremmo di fronte a un super- pm privo di qualsiasi controllo? Ci terrei a mantenere ora la separazione tra il giudizio sulla riforma costituzionale e quello sull’applicazione della Costituzione vigente sui reati ministeriali. Il giudizio, positivo o negativo, sulla riforma costituzionale non deve condizionare la valutazione dell’oggi. Di quella parleremo a suo tempo. Oggi invece dobbiamo decidere se prendiamo sul serio anzitutto la leale collaborazione, chiedendo al Tribunale di superare la sua contraddizione, e poi, in caso eventualmente negativo, se affidare alla Corte costituzionale la decisione se riconoscere o meno la lesione dell’equilibrio tra potere giudiziario e Parlamento dall’altra, che avverrebbe separando artificiosamente le richieste di autorizzazione. Sospensione condizionale, estinto anche il primo reato se la seconda pena rientrava nel beneficio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2025 Respinto il ricorso del pubblico ministero che contestava l’estinzione del primo reato oggetto del beneficio di non esecuzione immediata della pena per chi rientra nel limite di cumulo dopo la seconda condanna. Se la doppia concessione della sospensione condizionale della pena si conclude con esito positivo cioè senza commissione di un altro reato della stessa indole del primo non scatta solo l’estinzione della pena ma anche l’estinzione del reato. Per tale motivo la Cassazione penale - con la sentenza n. 30482/2025 - ha rigettato il ricorso della parte pubblica contro l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva dichiarato l’estinzione dei due reati per cui era stato condannato col beneficio della sospensione condizionale della pena l’imputato che aveva commesso la seconda condotta entro il quinquennio dalla prima la cui somma delle pene rientrava nel limite di cumulo previsto dall’ultimo comma dell’articolo 164 del Codice penale. Secondo il pubblico ministero la vicenda - ossia la commissione di un secondo reato nel quinquennio - avrebbe impedito nonostante la non esecuzione di entrambe le pene comminate di dichiarare estinto il primo reato. Nel caso concreto in realtà difetta la cognizione della precedente pena sospesa per quanto non risultasse poi in effetti superato il limite di cumulo per godere due volte del beneficio relativo alla non esecuzione della pena, considerando addirittura lo stato di incensuratezza dell’imputato. Mentre lo stesso giudice nell’adottare la decisione impugnata aveva dato rilevanza a un unico precedente, peraltro relativo a diversa fattispecie, perché riguardante una sentenza di applicazione di pena ex articolo 444 del Cpp e affermava la coesistenza delle cause di estinzione di cui agli articoli 167 del Cp e 445 del Cpp rispettivamente regolanti l’estinzione per la mancata commissione nel quinquennio di altro reato della medesima indole. Ciò che in effetti non si era verificato nel caso concreto dove la seconda fattispecie condannata non era della stessa natura della prima. Ma il ricorrente sosteneva che la soluzione favorevole al condannato adottata dall’ordinanza impugnata determinasse un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a coloro che hanno commesso un reato entro i cinque anni dall’irrevocabilità della prima sentenza, ma non hanno ottenuto, con la seconda sentenza, la sospensione condizionale per una prognosi non favorevole. Afferma, in conclusione, la Corte che in sede esecutiva - anche dopo avere escluso la sussistenza delle condizioni necessarie per dichiarare l’estinzione del reato ex articolo 445 del Cpp - il giudice dell’esecuzione è tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti per la declaratoria di estinzione del reato in base al regime della sospensione condizionale della pena in caso di buon esito del beneficio concesso. Sul punto la Cassazione ribadisce che l’estinzione del reato si verifica qualora la commissione del nuovo reato non dia causa alla revoca del beneficio perché una nuova sospensione condizionale è stata applicata a norma dell’articolo 164, ultimo comma, del Cp, che consente il cumulo entro il limite fissato di due anni. Cuneo. La sfida di portare il carcere in città: il festival “Art. 27 Expo” di Antonio Ferrero La Stampa, 13 settembre 2025 Iniziata ieri la parte pubblica della terza edizione del festival “Art.27 - Expo”, tre-giorni dedicata a scoprire le buone pratiche legate all’economia carceraria. Dopo il tavolo di lavoro di ieri, con la partecipazione di una “rete” di addetti ai lavori, da oggi a domenica si alterneranno discussioni, talk, spettacoli e mostre mercato dedicati al progetto di rendere il carcere un luogo di riscatto (come prevede l’articolo 27 della Costituzione) e di produzione economica. Non a caso, da quest’anno l’organizzazione dell’evento è gestita dalla neonata Associazione Articolo 27 che vede tra i fondatori “Panatè Società benefit”, la “Fondazione Industriali Ets” e “La Gemma Venture Srl”. Oggi, in mattinata (10,30), tavolo tecnico su una delle tematiche maggiormente rilevanti: la drastica riduzione della recidiva nei detenuti che imparano un mestiere, seguito, alle 15,30 dal workshop “Fare impresa in carcere” e alle 17,30 dal tavolo “Il carcere visto dai volontari”. Alle 20, concerto a cura di “Parole Liberate - oltre il muro del carcere”, l’associazione che promuove la musica tra i detenuti, e, alle 21, uno degli appuntamenti più attesi: il talk con l’ex magistrato Gherardo Colombo “Giustizia e democrazia: il senso del carcere”. Domani, al mattino, mostra-mercato, area food e tavoli delle buone pratiche, in una giornata dedicata anche agli aspetti maggiormente creativi delle attività in carcere: alle 15,30 e 17,30, due concerti a cura di “Parole Liberate”, alle 17, il talk “Immaginare il carcere tra poesia, fumetti, scrittura e storia” e alle 21, al Teatro Toselli, lo spettacolo “Ma l’amore no” della compagnia “Voci Erranti”. Domenica, continua la mostra-mercato e alle 10,30 ci saranno il tavolo conclusivo “Teatro e carcere: esperienze e buone pratiche a confronto” a cura della Fondazione Crc, alle 10,30 e dalle 10,45 il panel di confronto pubblico che coinvolgerà rappresentanti di quattro diverse realtà carcerarie e proiezione del documentario “Qui e altrove. Buchi neri nella realtà” di Gianfranco Pannone. Conclusione, alle 13, con un meritato momento conviviale nel pranzo sociale (su prenotazione a info@art-27.it). Due i luoghi cardine dell’iniziativa: via Roma dove si terrà la mostra-mercato, e il Cortile del Comune trasformato in “Salotto Fondazione Industriali”, dove avranno luogo i talk e i tavoli delle buone pratiche. Programma dettagliato su art-27.it. Cuneo. Uscito dal carcere, sceglie di tornarci per lavorare e gestire il panificio dei detenuti di Marco Turco unionemonregalese.it, 13 settembre 2025 Quando Massimiliano è uscito, dopo otto anni, avrebbe potuto fare la cosa più ovvia: lasciarsi quelle mura alle spalle. Ne aveva tutto il diritto: aveva scontato la sua pena, era libero. Nessuno lo avrebbe biasimato per questo. Ne aveva il diritto e persino la possibilità: “Avevo l’occasione di andare a lavorare altrove, in un’azienda edile”. Invece? “Invece mi hanno chiesto di tornare nel carcere, per restare nella cooperativa che fa lavorare i detenuti” dice, sorridendo. Quanto ci hai pensato su? “Io? Ho accettato immediatamente”. È diventato un amico, non solo un collega. Uno che può portare un messaggio alla famiglia che ti aspetta fuori, magari a un genitore malato. E un esempio: di chi ce l’ha fatta, ma non si è dimenticato di chi è ancora dentro. La storia di Massimiliano è bellissima. Alle sue spalle, ci sono gli errori, la condanna, la pena: “Ho sbagliato, non lo negherò mai e non lo voglio fare più”. In carcere, casa circondariale del “Cerialdo” a Cuneo, chissà quanto ci ha pensato. E forse chissà quante volte ha avuto paura: ce la farò? ce la faremo? ce la farà, il mondo, a volerci - a volermi - indietro? C’è chi dice che uscire dal carcere sia difficile quasi quanto entrarci. Perché di colpo ti ritrovi faccia faccia con il “mondo di fuori”, che per anni hai visto solo da lontano, e che ti guarda col pregiudizio: sei “quello che era in prigione”. La società, che per anni ti ha isolato, reagisce con paura, stigma, con un muro di imbarazzo. Si parla di reinserimento. Ma quale? Se in Italia la recidiva nel mondo degli ex detenuti sta attorno al 70%, ci vuole poco a capire che nel sistema qualcosa non funziona. Giudicheremmo “efficiente” un’azienda che nel 70% dei casi vede il frutto del proprio lavoro tornare indietro? No. Nel 2019, sotto gli occhi di Massimiliano, però nasce una cosa: il progetto “Panaté - GliEvitati”. La cooperativa messa su dal monregalese Davide Danni che fa lavorare i detenuti, dentro il carcere, per fare il pane. Un pane che viene prodotto, commerciato e oggi venduto ovunque. “Eravamo in 3, all’inizio - racconta Massimiliano -. Oggi qui lavorano 13 persone”. Non è volontariato, non è assistenzialismo: è lavoro vero. Con regolari contratti di assunzione. “Ho cominciato a lavorare con “Panatè” negli ultimi anni della mia detenzione. Mi piaceva, ho visto nascere il progetto, il laboratorio di panificazione”. Avere un lavoro in carcere vuol dire tante cose. Vuol dire, prima di tutto, sentirsi attivi e ritrovare, col lavoro, dignità. Una dignità umana di chi “fa qualcosa”. Ma vuole anche dire cose più pratiche: imparare un mestiere, allacciare un rapporto con chi sta fuori. E, non da ultimo, mettere soldi da parte: al “Cerialdo”, su 400 detenuti, oltre 170 hanno meno di 10 euro sul conto (i dati sono forniti dal direttore, Domenico Minervini). Se non hai una base... cosa fai, quando esci? E infatti: “Quando sono uscito, ho dovuto chiedermi: e adesso?”. Massimiliano ha una famiglia: la compagna, i figli, che in quegli anni erano cresciuti. “Non è facile, eh... io non voglio far mancare nulla, ai miei figli, nulla. Voglio che non sbaglino. Ma so anche che io per tanti anni non ci sono stato”. Era il momento di cercarsi un lavoro. “Mi aveva contattato un’azienda con cui lavoravo prima, settore edile. Avrei accettato. Poi è arrivata la telefonata della cooperativa. Mi hanno chiesto: avremmo bisogno di te, ti va di tornare? Ho detto di sì, immediatamente. Mi sono detto: ora deve cominciare la mia nuova vita. Una nuova persona, che fa un nuovo lavoro”. Il passato esiste ma è dietro: punto, e a capo. E così, Massimiliano torna al “Cerialdo”. Ma non ti è pesato rivedere quelle mura, quei cancelli? Risentire quei rumori, quegli odori, rivedere le divise della Penitenziaria? “In realtà, no. Non avevo nessuna paura di confrontarmi con questo scenario. Sapevo quanto mi era stato utile, quanto era importante”. Non è stato semplice: “Ho dovuto scegliere di trasferirmi a Cuneo. per qualche tempo, non avevo nemmeno un letto in casa”. Oggi è responsabile del panificio. Ha un lavoro, ha una famiglia, ha un ruolo. E ha molto, molto di più. E con gli altri detenuti? “Il rapporto funziona. E sai perché? Perché io ci sono passato. E loro lo sanno. So cosa vogliono. Se sbagliano, se fanno qualcosa che non devono fare... e può accadere... so perché. So come comportarmi, come dirgli le cose. So che a volte basta un gesto banale, che so, arrivare con un barattolo di crema al cioccolato che in carcere non esiste, per creare un momento di gioia. E mi faccio da tramite tra loro e le famiglie che li aspettano fuori: magari mi chiedono di parlare con un genitore, cose così. Per me è stata una motivazione”. E lo diventa per chi è ancora detenuto, che vede in lui un esempio concreto. Di chi ha saputo non solo fare i conti con la pena, ma farli con sé stesso. Poteva andarsene: è tornato. Cuneo. Parole liberate: una canzone per cambiare il carcere di Peppe Aquaro Corriere della Sera, 13 settembre 2025 Accade sia a chi è dentro, in carcere, sia a chi è fuori. Può capitare a chiunque che un testo di una canzone coinvolga talmente tanto da trasformarsi in qualcosa che semplicemente ci fa stare meglio. Sperando che qualcosa possa cambiare. Nasce anche da queste sensazioni il festival musicale, “Per chi crea. Parole liberate” in programma il 12 e 13 settembre a Cuneo, nella centralissima via Roma. Le due serate, organizzate dall’etichetta Baracca & Burattini di Paolo Bedini con il sostegno del Ministero della Cultura e della Siae, si svolgono all’interno della terza edizione di “Art. 27 Expo”, l’unico evento in Italia (dall’11 al 14 settembre) interamente dedicato alla valorizzazione delle produzioni carcerarie, e che vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Gherardo Colombo nel corso della manifestazione, “Giustizia e democrazia: il senso del carcere”. Tornando a “Per chi crea”, sul palco si alterneranno artisti under 35: da Alvise Nodale a Dimaggio, dai Lumenea accompagnati da Ambrogio Sparagna a Synaesthesia, L’isola dei cipressi viventi e Big Dave. Ma i veri protagonisti della due giorni, pur non salendo sul palco, saranno le detenute e i detenuti autori di canzoni interpretate dagli artisti del festival. Tutti i musicisti coinvolti nel festival hanno partecipato o parteciperanno, infatti, al progetto musicale, culturale e sociale “Parole Liberate. Oltre il muro del carcere”, nato da un bando creato dall’omonima associazione ed emanato dal Ministero della Giustizia che ogni anno propone a detenute e detenuti di scrivere un testo destinato a diventare canzone grazie al contributo di molti protagonisti della scena musicale italiana e non solo. Sono già stati due gli album pubblicati a seguito di questa iniziativa, “Parole Liberate Volume 1” e “Parole Liberate Volume 2” presentati nella sala stampa della Camera dei Deputati, e che hanno vinto il Premio Lunezia 2022, il Cremona Award 2024 e si sono classificati al secondo e terzo posto alle Targhe Tenco nella sezione album a progetto. Attualmente è in preparazione il Volume 3, in uscita il prossimo anno. Il progetto grafico e la foto della cover del primo album (una serie di sbarre in primissimo piano e un sole accecante che sembra quasi scioglierle) sono stati realizzati da Oliviero Toscani, il quale, come ricordano gli organizzatori, ha voluto partecipare al progetto seguendo e ascoltando molti dei protagonisti coinvolti nella realizzazione dell’album. E poi c’è la storia di una donna, Elena Scaini, che avrebbe dovuto scontare 18 anni di carcere per aver ucciso suo marito: ammazzato perché la maltrattava. Elena, alla fine del 2024 aveva deciso di partecipare al bando inviando il 31 dicembre il testo di una canzone, “Vieni a cercarmi”. “Ci è stato inviato (insieme ad altri due testi ed un modulo firmato) il 31 dicembre 2024, ultimo giorno utile per partecipare al bando”, ricorda Paolo Bedini, direttore di Baracca & Burattini. E per uno strano segno del destino, quel testo ha vinto il Premio Parole Liberate 2025. Soltanto due mesi dopo, nella notte tra il 2 e il 3 marzo, Elena si è tolta la vita nella Casa circondariale di Mantova, dove stava scontando la sua pena. Catanzaro. Galeotto fu il libro: liceali e detenuti si incontrano oltre i pregiudizi di Massimo Iritano vita.it, 13 settembre 2025 Un professore racconta l’esperienza vissuta con sei studentesse del liceo classico Galluppi di Catanzaro all’interno dell’Istituto penale per minorenni cittadino: un gruppo di lettura, che ha coinvolto una decina di ragazzi. Un percorso di Pcto non scontato, che ha lasciato il segno. “Vi vorremmo ringraziare perché ci avete regalato una bellissima esperienza. Ci avete permesso di conoscervi attraverso le vostre parole ed emozioni. Ci avete arricchito di tante piccole cose che allo stesso tempo sono molto importanti. I vostri insegnamenti sono stati preziosi e ci auguriamo di avervi lasciato anche noi qualcosa”. Con questo messaggio, semplice e sentito, Emma, Valentina, Michela, Rosalba, Miriam e Alma, della classe 3E del liceo classico Galluppi di Catanzaro, si sono congedate dai ragazzi del locale Istituto penale per minorenni che insieme a loro hanno partecipato al laboratorio di lettura e dialogo proposto dall’associazione Amica Sofia nell’ambito del Pcto “La biga alata” (Pcto è la sigla dei Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, già Alternanza Scuola-Lavoro, che da questo anno scolastico cambiano di nuovo nome e diventano ufficialmente Formazione Scuola-Lavoro, ndr). Questo percorso è nato grazie alla grande sensibilità dimostrata dalle educatrici dell’Ipm e dal direttore Francesco Pellegrino, che ha accolto subito con piacere la proposta e ha in tutti i modi reso possibile e facilitato lo svolgimento degli incontri. Prima ancora, però, c’è un interesse e coinvolgimento autentico delle studentesse, che hanno accolto la sfida che questa esperienza, decisamente nuova per loro, rappresentava. Ragazze che hanno incontrato la filosofia con uno spirito di autentica “meraviglia”. In classe il loro entusiasmo e coinvolgimento attivo si era già visto nella ricerca di un archè che avesse senso per noi, oggi o in quella del thaumazein aristotelico nelle cose di ogni giorno: il pranzo preparato dalla nonna, un tramonto, il mare…. Sono stati questi i presupposti che mi hanno portato a proporre un’iniziativa da tempo tenevo nel “cassetto” dei miei desideri, in attesa di poter incontrare loro. L’idea era questa: passare dalle puntate di Mare fuori ai cancelli veri e pesanti di una struttura carceraria. Ma servivano “le persone giuste”. Lasciare per due ore tutto sospeso alle nostre spalle, a partire dagli smartphone ed entrare in Ipm non poteva essere semplicemente un gioco o una curiosità: ed è solo grazie alla certezza di poter contare sulla loro affidabilità che un percorso così delicato è stato avviato. Le letture proposte, a partire da autori come Erri De Luca, per confrontarsi poi con le curiosità e gli interessi di ognuno, ci hanno visto insieme “in circolo”, ad ascoltare e riflettere, tentando di comunicare attraverso le pagine lette e le parole dette ciò che resta del vissuto di ognuno. Momenti in cui ci siamo sentiti tutti semplicemente vicini e amici, nonostante le storie e le sofferenze, più o meno taciute, che ognuno porta dentro di sé. “Per me è stata una delle più belle esperienze, perché mi ha insegnato che tutti abbiamo delle piccole parti di noi che possiamo regalare e che possono essere ricordate. Ognuno di loro mi ha regalato un’emozione diversa”, scrive Rosalba. Ecco perché dicevo di aver finalmente sentito di poter affrontare un percorso come questo: perché avvertivo nelle ragazze il desiderio di ascoltare, accogliere, apprendere, senza mai doversi proporre come “esempio”, senza mai considerare la propria posizione come altro da quella che era, ossia un semplice, fortunato privilegio. Vietato giudicare. Vietato anche “curiosare” nel passato dei nostri giovanissimi interlocutori, alla ricerca del loro “reato”. Ascoltarsi, accogliersi, entrare - anche qui e ancora una volta - in un rapporto di sim-patia reale e a tratti anche di empatia. Farlo nonostante l’imbarazzo, i momenti emotivamente difficili e quelli di tensione. Farlo anche quando le guardie non smettevano di sorvegliarci alle spalle, rendendo veramente duro l’aprirsi di uno spazio di libertà. “È stata un’esperienza che mi ha lasciato un segno profondo. Vedere ragazzi della mia età vivere in una realtà così diversa mi ha fatto riflettere molto. Mi ha fatto capire quanto le scelte, l’ambiente e le possibilità possano cambiare il destino di una persona. È stata un’occasione che mi ha fatto crescere, mi ha insegnato a non giudicare e ad apprezzare quello che ho”, dice Alma, che con la sua delicatezza e docilità rappresenta anche per molte sue compagne un approdo sicuro, capace di ascolto attento e profondo. Così è stato anche durante le nostre ore di volontaria reclusione: ore di riflessione che ci hanno aiutato, come lei ha scritto, a leggere dentro di sé e a crescere. E infine Valentina, che in tanti momenti, in questo e in altri laboratori, è stata, insieme ad Emma, decisiva e trainante nel condurre fuori da momenti di imbarazzo e difficoltà, nel trovare lo spunto e il modo giusto per superare l’empasse: “A me hanno insegnato che in una società in cui i pregiudizi sono all’ordine del giorno, l’unico modo per restare umani è imparare ad andare oltre: oltre le apparenze, oltre le etichette, oltre ciò che si pensa di sapere. I loro sguardi erano spesso spenti, a volte persi, ma raramente privi di sorriso. Un sorriso che, nonostante tutto, raccontava dignità, forse e una speranza che resiste”. In questa bellissima descrizione si legge la traccia di una capacità autentica di “attenzione”, che va anche oltre l’ascolto, che investe lo sguardo profondo dell’anima. Quella facoltà di attenzione che, come diceva Simone Weil, sarebbe il vero fine ultimo di ogni educazione, di ogni esperienza di studio. Studio che si fa esperienza appunto, mai semplice e passivo apprendimento. “Abbiamo bisogno di una scuola che educa! Che non si limiti a fornire nozioni e contenuti, ma che dia ai giovani gli strumenti per affrontare il grande salto d’epoca, le straordinarie trasformazioni antropologiche nelle quali vivono”, ha tuonato Massimo Cacciari qualche tempo fa in una straordinaria lezione di “educazione civica” che andrebbe posta a principio di qualsiasi “formazione”. Solo una scuola che educa, che si fa “esperienza”, può forse accompagnare questa generazione smarrita e fragile. Monza. Quando la musica rompe le sbarre. Banda e detenuti assieme sul palco di Fabio Luongo Il Giorno, 13 settembre 2025 L’iniziativa dell’ensemble di Villasanta con la Casa circondariale di via Sanquirico nell’area verde dell’istituto. A suonare saranno anche alcune persone recluse che hanno partecipato al corso di ottoni ideato dal Cmv. Musica per liberare gli orizzonti. Un concerto in carcere per e con i detenuti, per viaggiare tra le colonne sonore di film celebri. È l’iniziativa che si terrà oggi alle 15 nell’area verde della Casa circondariale di Monza: a suonare saranno gli strumentisti del Corpo Musicale di Villasanta, che con la struttura di via Sanquirico hanno un legame speciale. La banda villasantese, che giusto quest’anno ha tagliato il ragguardevole traguardo dei 140 anni di vita e attività, dallo scorso anno porta infatti avanti un importante progetto che coinvolge un gruppo di persone recluse nell’istituto di pena monzese. Proprio i detenuti impegnati nell’iniziativa si esibiranno assieme al Cmv. Il concerto sarà prevalentemente dedicato alle colonne sonore da film e prevede, accanto alla performance del Corpo Musicale di Villasanta al completo, anche quella dei detenuti-musicisti del corso di ottoni, che potranno così mostrare quanto appreso nei mesi passati grazie al progetto solidale “Ottoni in CC”. È questo il nome dell’iniziativa che dagli inizi del 2024 portano avanti due membri del Cmv: si tratta di corsi di musica per le persone recluse nella Casa circondariale di Monza, nei quali a un gruppo di detenuti, che ha aderito in modo entusiasta all’idea, viene insegnato a suonare tromba, trombone, tuba e altri ottoni. Un modo originale per rendere meno dura la permanenza in carcere e allo stesso tempo per favorire il recupero sociale e il reinserimento di queste persone. Si è partiti con la conoscenza degli strumenti prima e con l’allenamento per imparare a suonarli poi. Dopo le lezioni e le prove, il passo successivo è stato, qualche mese fa, un primo concerto, sempre all’interno del carcere, con la partecipazione attiva dei detenuti-musicisti, affiancati in quel caso dai ragazzi della PiùTost Band, gli allievi dei corsi di orientamento del Corpo Musicale di Villasanta, e dai ragazzini della Color Orchestra dell’Istituto Preziosissimo Sangue di Milano. Ora il nuovo concerto assieme al Cmv, per regalare momenti di spensieratezza e render ancor di più la musica strumento di libertà. In caso di maltempo il concerto si terrà nella sala polivalente del carcere. Quando la scuola era futuro di Maurizio Crippa Il Foglio, 13 settembre 2025 “Scuola sotto inchiesta” di Guido Calogero è stato pubblicato sessant’anni fa e oggi riproposto da Ibl. Rileggere dopo cinquant’anni gli articoli per il Mondo di Guido Calogero, grande filosofo e umanista. E scoprire che ci fu un tempo (perduto?) in cui l’Italia sapeva pensare all’istruzione, ai giovani, alla libertà. Un libro per l’oggi. L’anno era il 1955, dieci dalla nascita dell’Italia liberata, e Guido Calogero, filosofo, docente universitario e saggista di prima grandezza dibatteva sul Mondo di Mario Pannunzio, con competenza e (allora) con qualche ragionevole speranza, della annunciata e imminente (allora) riforma dell’esame di Maturità. Che il liberale e pragmatico Calogero si augurava più aderente al percorso di studi, liberato dalle “anticaglie”. Sono passati esattamente settant’anni e tra le poche, stanche notizie dedicate alla ripresa della scuola spicca, ancora, la “nuova” maturità promossa dalla mini riforma del ministro Valditara. Per il resto, tutti a parlare di altre “novità” inessenziali, come il divieto dell’uso dei cellulari o il rafforzamento del voto di condotta. A contorno, qualche timida polemica sul (molto presunto) ritorno del nozionismo. Verrebbe da dire che non si sono fatti molti passi avanti. Di certo per averne la conferma non c’è niente di meglio che prendere in mano un libro che si intitola “Scuola sotto inchiesta”, pubblicato sessant’anni fa e meritoriamente riproposto ora da IBL libri, Istituto Bruno Leoni, che raccoglie i saggi - soprattutto corposi articoli per il Mondo: allora i giornali pubblicavano articoli corposi - di grande qualità intellettuale scritti nell’arco di un decennio da Guido Calogero che al tema del valore dell’insegnamento e dell’apprendimento in un paese libero, da poco libero, ha dedicato molto del suo impegno. “Scuola sotto inchiesta” sembra un titolo acchiappa like di quelli di oggi; invece era, allora, un atteggiamento serio nei confronti di ciò che dovrebbe essere un cardine di ogni società non votata al declino. I temi dibattuti sono fondativi, ma soprattutto di sorprendente attualità se paragonati alle condizioni della scuola attuale. Non solo la maturità. Ad esempio colpisce l’insistenza, gustosa da parte di un umanista e specialista di filosofia antica, contro il “panlatinismo” della scuola di allora: inchiodata a una concezione della cultura e dell’apprendimento inadeguata: “Non ho fatto ricerche fra tutte le popolazioni della Terra, ma ritengo certo, fino a prova contraria, che in nessun altro paese del mondo la gioventù viene tanto nutrita di latino”. Da dove nasceva l’idea che solo attraverso il latino si potessero imparare la logica o le strutture del linguaggio? Molte pagine polemiche sono dedicate alla laicità della scuola, in un periodo in cui lo scontro ideologico era netto. E alla vera libertà di insegnamento, nel confronto tra il sistema anglosassone e il nostro statalismo. Le idee di un liberal-socialista realista, appassionato ma non visionario. Nato nel 1904, famiglia messinese con tradizione di alti studi umanistici, la madre fu la prima laureata dell’ateneo di Messina, si laureò alla Sapienza con Gentile nel 1925, sui fondamenti della logica aristotelica; nel 1927 era già libero docente e incaricato in Storia della filosofia antica a Roma. Scrive Claudio Giunta nell’ampio saggio introduttivo del volume, tracciandone un illuminante ritratto: “Apparteneva a una delle ultime generazioni di intellettuali europei per i quali la cultura greca e latina rappresentava non un campo di studi come tanti ma una componente fondamentale della personalità nonché, come lui stesso scrive, ‘un formidabile strumento di vita’”. I mesi di carcere per antifascismo a Firenze segneranno il suo futuro carattere politico, portandolo a partecipare alla fondazione del Partito d’azione e all’intensa collaborazione con il Mondo. Il volume che raccoglie i suoi scritti sulla scuola, uscito nel 1965, viene oggi ripubblicato per la cura di Claudio Giunta. Basterebbe sfogliarne l’indice per restare sorpresi di quanto approfondito e argomentato fosse il dibattito sull’istruzione in quegli anni, a confronto con vuoto pneumatico - basterebbero gli stenografici parlamentari - dei nostri tempi. Dove al massimo si ricama un po’ di sociologia. Tempo fa Angelo Panebianco indicò come segno evidente della rinuncia delle élite a disegnare il futuro del paese proprio lo scarso interesse per la scuola: “Sono gli unici articoli su cui non ricevo mai un feedback, né dagli interessati né dai lettori”. Negli anni del Mondo, il dibattito non era forse enorme ma senz’altro attento e non si limitava alle lagne di cronaca sul bullismo. Il deserto di oggi fa risaltare la carica innovativa di Calogero. Spirito pragmatico, pur da liberale era ad esempio contrario all’abolizione del valore legale dell’esame di stato: “Fino al momento in cui lo sviluppo della civiltà e della responsabilità civica non renda possibile anche in Italia l’attuazione dell’ideale einaudiano, di togliere valore legale ai titoli accademici e professionali, (…) il principale strumento pubblico, per controllare i livelli dell’organizzazione educativa nazionale, deve per forza continuare ad essere l’esame di Stato”. Oggi ancora c’è chi si oppone a utilizzare i test Invalsi o Pisa come strumenti di valutazione del sistema scolastico. A proposito di maturità, il giudizio sul nozionismo che qualcuno ancora rimpiange è graffiante: “Il carattere sommamente ridicolo del nostro modo di esaminare i giovani per accertarne la maturità potrebbe essere dimostrato in mezz’ora, solo che si sottoponessero a tali esami senza preavviso il presidente della Repubblica, il capo del governo, il presidente dell’accademia dei Lincei, il preposito generale della Compagnia di Gesù e il segretario del Partito comunista. Tutti boccerebbero, irreparabilmente, in una materia o nell’altra. Tutti sarebbero dimostrati immaturi”. Il nuovo anno che si apre è stato presentato sui giornali come “un vero punto di svolta per la scuola italiana”, intendendo le riforme a poco a poco approvate dal governo Meloni che segnerebbero passi verso una scuola più “seria”, più attenta “al merito”. Ma pensare alla scuola del futuro non dovrebbe essere soltanto questione di piccoli interventi, pur necessari. L’ultimo Rapporto Istat ricorda che solo il 65,5 per cento della popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni ha conseguito un diploma di scuola superiore, rispetto a una media Ue dell’80 per cento, e il tasso di dispersione scolastica è al 10 per cento. Per tacere del mismatch tra formazione e mercato del lavoro. Cambiando ordine di studi, qualche giorno fa la rettrice dell’università Bicocca di Milano e presidente della Crui, Giovanna Iannantuoni, spiegava al nostro giornale che un’università pubblica come Bicocca, che conta 40 mila studenti, equivale per dimensioni alla Columbia University, che è privata. Ma il fatturato di Bicocca ammonta a 380 milioni, mentre quello di Columbia a 7 miliardi, di cui 2 vengono da finanziamenti pubblici. Basterebbe questo per comprendere che il sistema dell’istruzione va completamente ripensato. Scrive Giunta che “la scuola è un pezzo fondamentale della vita, e che da come una comunità si prende cura della sua scuola è possibile dedurre molto di ciò che quella comunità ritiene sia il giusto modo di vivere la vita associata”. E da questo punto di vista promette che quello di Calogero è “uno dei libri più intelligenti pubblicati in Italia, sull’italia, verso la metà del Novecento. E anche uno di quelli scritti meglio”. Promessa mantenuta. “Scuola sotto inchiesta” raccoglie una ventina di articoli pubblicati sul Mondo dal 1953 al 1957 più altri scritti; nella seconda edizione del 1965 ne furono aggiunti altri venti, fino ai primi anni Sessanta: il periodo di formazione e consolidamento del paese, in cui entrano anche questioni extra-scolastiche come il rapporto tra cultura laica e cultura cattolica, l’istruzione in carcere e i diritti dei carcerati. Visione ampia, tesa a sprovincializzare il nostro sistema culturale e molto influenzata dai suoi soggiorni all’estero, soprattutto in Gran Bretagna: fu direttore dell’istituto italiano di cultura, lì analizzò concezione e prassi educativa anglosassone. Ne apprezzò la laicità, l’autonomia e il decentramento e lo spirito liberale che affidava agli insegnanti il compito di decidere che cosa e come insegnare: concetto che in Italia è ancora non solo non applicato, ma per molti tuttora incomprensibile. Tanti temi di fondo, oggi trascurati: a tratti sembra che Calogero scriva dal futuro. Impossibile riassumerli nel loro sviluppo, ma basta un breve indice analitico per capire quanto possa giovare, oggi, questa lettura: innanzitutto ai politici e ai pedagogisti professionali. Si potrebbe partire dalla sua lotta contro l’ossessione per la “totalità” - ai nostri giorni si è trasformata nell’assurda deriva dell’”infarinatura” da spargere su una pletora di mini-materie. La “cultura generale” somministrata attraverso manuali sempre più voluminosi: “Un mio manualetto di storia della filosofia, che già quando lo scrissi mi pareva troppo lungo”, scrive, “non ebbe invece che scarsa fortuna perché ‘troppo scarno’. E ancora oggi ci sono certamente degli insegnanti di filosofia convinti che non si può intendere Parmenide se prima non si è capito Talete… l’ossessione enciclopedistica secondo cui le conoscenze dei giovani dovrebbero essere senza buchi”, scrive sarcastico. Cruciale, mentre qui siamo ancora allo statalismo ministeriale, il tema dell’autonomia e del decentramento: visti in Canada, negli Stati Uniti, nel Regno Unito. Dare spazio alle iniziative e responsabilità dei singoli istituti: “Scuole di tipo antiquato come le nostre certamente continuano a sussistere anche nelle nazioni più civili (l’educazione è quasi sempre la struttura più reazionaria di una civiltà, proprio in quanto esprime anche la pretesa dei vecchi di conformare i giovani a propria immagine e somiglianza)”, scrive. “Comunque, nelle nazioni in cui la scuola non è tutta così accentrata e ministerializzata nei suoi programmi, com’è da noi, il miglioramento autonomo delle esperienze educative è sempre possibile”. Basterebbe riflettere che la più grave delle lamentele dei nostri docenti è di essere costretti a un lavoro di routine burocratico, a riempire casellari giudiziari più che pedagogici. Ultima la lettera di un professore di Pavia che vorrebbe cambiare mestiere “perché nella scuola di oggi non c’è più spazio per me e per tutti quelli che pensano ancora che il compito principale della scuola dovrebbe essere quello di insegnare”. Ci sono i programmi, certo. Ma il programma delimita un perimetro, al cui interno l’insegnante deve muoversi con spirito d’iniziativa e fantasia. Detto da un classicista: “Il liceo, che è così prossimo nel suo spirito alla facoltà di Lettere, non deve assorbire da essa proprio quel che in essa è più antiquato e nocivo. Al contrario, bisognerà dare sempre più anche agli insegnanti del liceo e delle altre scuole secondarie quella stessa libertà di configurare personalmente i programmi dei propri corsi”. Ancora il latino e l’inutilità di puntarvi come modello cardine: “Si pensi, per considerare un solo aspetto tipico della situazione, a quella cosiddetta ‘analisi logica’, che ha sottratto tanto tempo ai nostri ben più utili giochi infantili”. Il preconcetto cioè che solo attraverso lo studio statico di una lingua morta si potesse formare la competenza linguistica profonda degli studenti. “Che cosa ci sia di ‘logico’ in un’analisi di questo genere, e perché mai essa debba essere particolarmente efficace per sviluppare l’intelligenza dei ragazzini, Dio solo lo sa”. Sarebbe interessante leggere oggi le sue idee, in una situazione in cui - statisticamente - molti studenti non comprendono le basi della lingua italiana, e forse l’abc di un sapere linguistico ben organizzato potrebbe essere utile anche per affrontare l’intelligenza artificiale. Ma certo il suo pragmatismo vedeva più avanti di certi pedagogismi linguistici venuti dopo. A proposito di fallimenti pedagogici, del 1956 è un articolo profetico sul grave rischio che la scuola media, che allora si stava progettando, avrebbe potuto diventare non media ma “scuola mediocre”, col solito obiettivo di infarinatura e affidata a insegnanti preparati per il liceo, o wannabe per la carriera universitaria, che si sarebbero sentiti frustrati e sminuiti a insegnare, senza competenza specifica, ai dodicenni. Sono passati sessant’anni, il fallimento strutturale della scuola media unica è sotto gli occhi di tutti. Un capitolo a sé meriterebbe il dibattito non solo scolastico, ma culturale e perciò politico sulla libertà di insegnanti e studenti. Erano anni in cui le ideologie contavano nel dibattito o di come “formare” le future generazioni (oggi siamo passati all’”informare”, anche in senso informatico). E’ interessante che un liberal-socialista libertario scommettesse, magari con qualche eccesso di genericità, sulla libertà non solo dei docenti ma anche degli studenti: contro il confessionalismo ma anche il marxismo: “Niente è più facile, in fondo, che tradurre una scuola giudiziaria in una scuola di libera e umana conversazione tra maestri e allievi, quando davvero lo si voglia”. Per i docenti, “bisognerà dare sempre più anche agli insegnanti del liceo e delle altre scuole secondarie quella stessa libertà di configurare personalmente i programmi dei propri corsi”. Quanto agli studenti, allora come ora: “Anche i laici più inveterati, in Italia, credono al peccato originale. Il ragazzo è originariamente sbagliato, storto, e deve essere fatto soffrire durante tutta la fanciullezza e l’adolescenza, per diventare adulto. Egli vorrebbe divertirsi. No, deve sgobbare (quando si potrebbe studiare il modo di farlo lavorare in modo divertente). Egli vorrebbe leggere libri piacevoli. No, deve leggere libri noiosi (noiosi, beninteso, anche per l’insegnante)”. Non ovviamente un invito al lassismo, ma una scommessa di libertà: “Si sono fatte tante prediche filosofiche, in Italia, sull’autonomia dell’educando: ma dov’è poi la scuola che gli lasci una qualsiasi libertà di educarsi?”. Impossibile dare conto di una sezione di interventi importanti, in cui Carotenuto dialoga con pedagogisti e intellettuali di varia estrazione, dal cattolico Giovanni Gozzer a Cesare Cases al comunista Lucio Lombardo Radice, ugualmente e diversamente contrari alle idee di libertà, insegnamento e apprendimento da lui sostenute. Se Gozzer teme soprattutto il diffondersi del laicismo tramite una scuola out of control confessionale, e Calogero risponde che “l’ideale della scuola moderna, in cui il docente non crea soltanto teste a propria immagine e somiglianza ma persone che possano anche pensare diversamente da lui”, è interessante scoprire che con lui “furono meno gentili i marxisti”, come scrive Giunta. Sull’unità Lombardo Radice liquidò la “pedagogia libertaria” di Calogero come una rifrittura di “vecchie trovate anglosassoni”. L’idea insomma che più che accrescere la libertà della scuola fosse necessario impostare meglio i regimi di insegnamento (“un nobile tran tran”, rinfaccia a Cases) e limitare le capacità di scelta di giovani ancora in formazione. “Invece Calogero riteneva che l’abuso della libertà non fosse un buon argomento a favore dei divieti”, sintetizza Giunta. “Processo alla scuola” fu il titolo di un convegno degli Amici del Mondo. Commentò Calogero: “Una delle osservazioni che ho più sentito ripetere dopo il convegno è stata: Non mi è mai capitato di imparare così tanto, in breve tempo, sulla scuola italiana”. Era il 1956, allora. Dai reparti psichiatrici alle carceri: quando la cura diventa punizione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2025 Più di un miliardo di persone nel mondo convivono con un disturbo mentale. Quasi la metà dei ricoveri psichiatrici avviene in forma involontaria. Lo rivela il nuovo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla salute mentale pubblicato nel 2025. Non è l’unico numero che racconta un sistema sbilanciato: i dati mostrano che nei servizi psichiatrici di base prevale nettamente il ricorso ai farmaci, mentre i percorsi psicosociali restano marginali. Solo il 18 per cento dei Paesi offre in modo strutturato tutti i servizi essenziali: casa, lavoro, istruzione, assistenza legale. E in molti contesti, negli ospedali psichiatrici permangono condizioni degradanti, maltrattamenti e degenze che si prolungano per mesi o anni. Numeri, dunque, che non parlano di cura, ma di gestione forzata della sofferenza. Un quadro che non cita mai le carceri, eppure sembra descriverle. Perché proprio dietro le sbarre la questione della salute mentale assume contorni ancora più drammatici. Lo mostrano le ultime rilevazioni europee sulla salute in carcere: un detenuto su tre convive con disturbi psichici. L’Oms, attraverso la banca dati sulla salute in carcere, indica un valore del 32,8 per cento nei Paesi che forniscono informazioni, con un limite evidente: molti Stati non raccolgono o non comunicano numeri completi. Eppure bastano questi per delineare l’emergenza. In carcere la principale causa di morte non è la violenza, ma il suicidio. Una revisione scientifica internazionale conferma il quadro: la depressione tra i detenuti tocca il 12,8 per cento, la psicosi il 4,1 per cento. Percentuali molto più alte rispetto alla popolazione generale. Significa che le prigioni ospitano decine di migliaia di persone già fragili, senza offrire percorsi adeguati di cura e reinserimento. L’Ufficio delle Nazioni Unite per la droga e il crimine sottolinea come nelle carceri i disturbi psichici si intreccino con le dipendenze. Alcol e droghe aggravano il disagio e rendono ancora più difficile la gestione della vita detentiva. Servirebbero programmi integrati, capaci di unire terapie farmacologiche, supporto psicologico e progetti di reinserimento. Al contrario, le carceri restano luoghi in cui la sofferenza si incrocia con l’abbandono istituzionale. Mentre c’è Human Rights Watch che da anni documenta casi di uso sproporzionato della forza contro detenuti con disturbi mentali, spesso ridotti all’isolamento prolungato o sottoposti a sedazioni forzate. Sono pratiche che non curano, ma annientano. In alcuni casi hanno portato alla morte. Scene che risuonano con quanto l’Oms denuncia per le strutture psichiatriche: maltrattamenti, trascuratezza, violazioni dei diritti fondamentali. La differenza è che in carcere non esiste nemmeno la parvenza di un contesto terapeutico. Il filo conduttore è la mancanza di trasparenza. L’Oms lo evidenzia per i servizi psichiatrici, i rapporti internazionali lo confermano per le carceri: i numeri sono incompleti, spesso sottostimati. Senza dati reali, i governi non sono costretti ad affrontare l’emergenza. E intanto le prigioni si trasformano in contenitori di disagio, dove chi è fragile diventa invisibile. La strada, indicata anche dai rapporti internazionali, è chiara: raccolta dati obbligatoria e pubblica sullo stato di salute mentale nelle carceri, abolizione o drastica limitazione delle pratiche coercitive, programmi di cura che uniscano farmaci e percorsi psicosociali, investimenti su lavoro, istruzione e assistenza legale per i detenuti. E soprattutto alternative alla detenzione per chi vive con gravi disturbi psichici. Il rapporto dell’Oms sottolinea un’altra lacuna sistemica: la frammentazione tra assistenza specialistica e servizi territoriali. Nella maggior parte dei paesi, i letti rimangono la risposta dominante; comunità e servizi primari restano sottodimensionati. Quando una persona con disturbi mentali entra in carcere, spesso interrompe una cura, o non la trova affatto; quando esce, raramente viene accompagnata da una continuità terapeutica reale. Questo corto circuito produce recidiva di malessere, di comportamenti antisociali legati alla malattia e alimenta il circolo vizioso della reclusione. Si aggiunge il fatto che i budget sono molti ristretti: molti paesi destinano una frazione esigua delle risorse alla salute mentale. Il rapporto dell’Oms mostra come, in termini di spesa, la fetta destinata ai servizi comunitari sia minima rispetto alla somma destinata alle strutture contenitive. Questo orientamento finanziario si traduce in scarsa capacità di attivare alternative alla detenzione per chi ha problemi mentali. Scarsità di personale formato: i numeri del mondo della psichiatria e delle professioni psicosociali sono esigui in molti paesi; dove ci sono, spesso non sono integrati nella macchina penitenziaria. Formare personale sanitario e formazione anche per gli operatori penitenziari è condizione necessaria per ridurre abusi e migliorare presa in carico. In tutto questo, in Italia Marco Cavallo - il cavallo azzurro nato nel 1973 dall’esperienza di Franco Basaglia a Trieste - riprende il suo viaggio. È iniziata sabato scorso a Gradisca d’Isonzo, uno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio che le associazioni indicano come fra i più duri d’Italia. L’obiettivo è semplice e diretto: portare vicinanza, raccogliere testimonianze, mettere in luce condizioni che per i promotori “per molti versi ricordano gli Opg, ma che forse sono ancor più crudeli dal punto di vista umano”. Il progetto, lanciato a febbraio dal Forum Salute Mentale, ha raccolto decine di adesioni - associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti. Marco Cavallo attraverserà i Cpr italiani consegnando lettere scritte dai sostenitori alle persone trattenute, accompagnato da bandiere create con tessuti di scarto. Il regista Giovanni Cioni filmerà il percorso che si conclude il 10 ottobre a Bari per trasformarlo in testimonianza visibile. Le denunce raccolte in questi mesi sono nette. La rete Mai più lager - No Cpr ha descritto l’estate vissuta dentro Gradisca: celle roventi, focolai di scabbia, ragazzi che tentano il suicidio, autolesionismi ripetuti. Si parla di pestaggi notturni con manganelli e di episodi specifici, come quello denunciato a maggio contro un giovane con problemi psichici e fisici. A fine agosto, denunciano le stesse attiviste, un ventenne identificato come S. si è procurato tagli profondi; dopo aver filmato la risposta sprezzante degli agenti nel chiedere aiuto, sarebbe stato picchiato per strappargli il cellulare dalle mani. Quelle denunce non restano astratte: indicano un corto circuito fra responsabilità del gestore, assenza di presidio sanitario efficace e un sistema di controllo che spesso funziona più per isolare che per curare. Le attiviste sintetizzano così il mese di agosto: l’emarginazione si aggrava, i servizi - compreso il presidio della salute - si dissolvono o diventano inconsistenza. La partenza da Gradisca ha anche una dimensione simbolica e politica. Il viaggio si intreccia con la campagna “180 Bene Comune. L’arte per restare umani”, promossa dal Forum Salute Mentale. La legge 180 non è solo la norma che chiuse i manicomi: è, dicono gli organizzatori, un presidio di civiltà che riguarda i diritti, il riconoscimento dell’altro, la capacità di convivere con la diversità. Oggi, avvertono, se quella memoria si affievolisce i Cpr rischiano di diventare le nuove istituzioni della segregazione e della violenza sociale. E presto anche l’Oms potrebbe essere costretta a parlarne. L’Ue prepara un “grande fratello” per le chat di Emilio Minervini Il Dubbio, 13 settembre 2025 Un occhio senza palpebre, sempre vigile, a captare e analizzare ogni singolo messaggio, tra i miliardi che ogni giorno vengono scambiati all’interno dell’Unione Europea. È questa la sostanza del Regulation to Prevent and Combat Child Sexual Abuse (Csam), meglio noto come Chat Control, il cui voto è previsto per il 14 ottobre al Consiglio europeo, dopo numerosi slittamenti. La proposta di regolamento è in discussione a livello europeo dalla primavera del 2022, quando è stata avanzata dall’allora Commissaria europea per gli affari interni, la svedese Ylva Johansson, al fine di contrastare la pedofilia e i crimini ad essa connessi su internet, come la pedopornografia e l’adescamento di minori. La battaglia a un fenomeno tanto odioso e ributtante dovrebbe tenere comunque conto dei principi di proporzionalità dell’azione, di riservatezza e di segretezza delle corrispondenze private. Il regolamento permetterebbe una sorveglianza preventiva universale affidata ad algoritmi e strumenti d’intelligenza artificiale che scandaglierebbero le conversazioni private dei 449,3 milioni di cittadini europei, con tutti i rischi e limiti che questo presenta come la produzione di falsi positivi o falsi negativi. Il sistema previsto dalla proposta di regolamento è il client-side scanning, strumento che permetterebbe la scansione di qualsiasi messaggio di testo, fotografia o video prima che vengano criptati da sistemi di crittografia utilizzati per garantire la riservatezza delle conversazioni. Questo significherebbe che whatsapp, signal, telegram, messenger, caselle di posta elettronica, archivi cloud ma anche sistemi VPN, database e sistemi operativi verrebbero costantemente scandagliati in nome della tutela dei minori. Il sistema una volta rilevata una frase, un’immagine o un video sospetto invierebbe la segnalazione a database del Centro dell’Ue, organo che verrebbe creato ad hoc, che a sua volta le invierebbe all’Europol. Un’altra caratteristica del regolamento è la creazione di una backdoor, letteralmente porta sul retro, che permetterebbe a chiunque ne abbia le competenze, non solo alle autorità preposte al controllo, di poter violare i dispositivi su cui è installata senza che l’utente si accorga di nulla ed accedere così ai messaggi prima che vengano criptati. Un sistema simile a quello indicato nella proposta è balzato agli onori della cronaca negli scorsi mesi nell’ambito dello scandalo Paragon, quando lo spyware graphyte venne rilevato nei telefoni di giornalisti e attivisti. Nel momento in cui il regolamento dovesse entrare in vigore non ci sarebbe nessun bisogno di utilizzare sistemi così sofisticati e difficilmente reperibili, potendo contare su backdoor presenti per legge su ogni dispositivo. Gli stessi organismi europei di controllo della protezione dei dati hanno sollevato seri dubbi sul fatto che la legge possa tramutarsi in uno strumento di sorveglianza di massa, che eserciterebbe un controllo generalizzato e indiscriminato delle corrispondenze private e violerebbe così i principi di minimizzazione e limitazione della finalità, posti a base del Gdpr, il regolamento generale sulla protezione dei dati. Inoltre, uno studio, commissionato dal Parlamento Ue e presentato alla Commissione su Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni, ha mostrato un elevato tasso di errore nel rilevamento di messaggi e file sospetti. Tra gli Stati favorevoli ci sono: Bulgaria, Croazia, Cipro, Danimarca, Francia, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Portogallo, Slovacchia, Spagna e Svezia. L’Italia inizialmente non si è pronunciata a riguardo, posizionandosi poi tra gli Stati a favore. La Danimarca, che a dicembre terminerà il suo semestre di presidenza europea, è tra i più attivi promotori della proposta. Paradossalmente lo Stato scandinavo da una parte spinge per ottenere un semrpe maggior controllo digitale sui propri cittadini, dall’altra, con una nuova proposta di legge, vuole attribuire agli stessi il diritto d’autore sui propri dati biometrici, al fine di offrirgli una tutela legale contro il fenomeno sempre più frequente dei deepfake. Tra i contrari figurano invece Austria, Belgio, Finlandia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Germania e Repubblica Ceca. Il premier ceco, Petr Fiala, lo scorso 27 agosto si è dichiarato contrario alla misura indicandola come una minaccia per il diritto alla riservatezza dei cittadini europei che celerebbe alti rischi di abuso, e ha comunicato la sua intenzione di cercare altri Paesi membri che insieme a Praga si oppongano all’approvazione della misura. La Germania, in un primo momento favorevole, ha rivisto la sua posizione con il recente cambio di governo che ha visto Friedrich Merz assumere il ruolo di cancelliere. Dopo essersi posto in una posizione d’indecisione insieme a Estonia, Grecia, Romania e Slovenia, il nuovo esecutivo tedesco si è schierato contro. La proposta, per le sue caratteristiche, sta incontrando una forte resistenza da parte di alcuni segmenti della società civile in tutta Europa, tanto che lo scorso 6 agosto l’ex eurodeputato Patrick Beyer, la rete europea per i diritti digitali (Edri) e la ong austriaca noyb hanno creato il sito “fight chat control”. La pagina web ospita una serie di contenuti relativi alla proposta e permette di contattare i propri rappresentanti al Parlamento europeo al fine di esprimere la propria contrarietà. Valditara: “Vi racconto come la scuola può diventare antidoto all’odio” di Paolo Ferrario Avvenire, 13 settembre 2025 Il ministro fa il punto delle riforme al via con il nuovo anno scolastico. Che dovrà essere caratterizzato da “rispetto, responsabilità e gentilezza”. “Riportiamo al centro della società il rispetto e la gentilezza, a partire dalle scuole. Che possono essere il grande antidoto nei confronti della violenza, dell’odio, della maldicenza e della prevaricazione che spesso vengono alimentati dai social”. All’alba del nuovo anno scolastico, prima ancora di parlare della nuova Maturità, del voto in condotta, del divieto di smartphone e delle altre novità che attendono gli studenti al ritorno tra i banchi, il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, vuole porre l’accento sul valore aggiunto rappresentato dalla scuola, in un momento in cui violenza, volgarità e prepotenza riaffiorano in diversi ambiti della società. Ministro, a questo proposito, un tema che sta facendo molto discutere è la riforma del voto in condotta: quali sono le aspettative rispetto a questa riforma? Il voto in condotta non serve tanto per reprimere quanto per educare, per richiamare alla responsabilità individuale, un valore che è stato accantonato nella società e che invece è tempo di riscoprire e rivivere. Parliamo di quello che è uno dei più grandi portati, insieme all’amore universale e alla carità, del Cristianesimo. Che fa della responsabilità individuale il perno di tutto il messaggio di Cristo. Senza responsabilità individuale il Cristianesimo non avrebbe la portata che effettivamente ha. Amore e responsabilità: questo è un grande lascito alla società occidentale. L’anno scolastico si apre con la novità del divieto di smartphone a scuola, che ha animato il dibattito estivo. Nelle stesse settimane, il ministero ha varato le Linee guida per introdurre l’Intelligenza artificiale a scuola. Come si raggiunge questo traguardo senza telefonini? Gli studi Ocse e anche quelli dell’Istituto superiore di Sanità dicono che gli apprendimenti attraverso smartphone sono peggiori rispetto agli apprendimenti tradizionali. Se uno strumento peggiora la didattica e i suoi risultati allora non è un buono strumento. Francamente mi stupiscono certe critiche e certe osservazioni. Ciò non significa che lo smartphone non possa essere utilizzato per bisogni speciali, per alcune forme di disabilità. E noi abbiamo salvaguardato queste situazioni. In linea generale lo smartphone a scopi didattici non solo peggiora gli apprendimenti, ma è di evidenza scientifica che il suo abuso porta a perdita di memoria, di concentrazione, perdita di creatività, arrivando a generare dipendenza. E anche qui tutti gli studi internazionali dimostrano che la dipendenza da cellulare è una nuova forma di dipendenza che si va ad aggiungere a quelle tradizionali. Noi vogliamo creare le condizioni perché il giovane possa crescere in modo sano, perché sia responsabile, autonomo, maturo, ed è dunque doveroso contrastare ogni forma di dipendenza. Quindi, che il ragazzo impari anche a stare lontano dal cellulare, credo che faccia solo bene. Un fatto che è di buon senso tanto che il divieto di smartphone a scuola ha registrato un gradimento dell’opinione pubblica che sfiora l’80%, fra i giovani arriva a quasi il 60%. Come si combina, dunque, questa misura con l’utilizzo delle nuove tecnologie per la didattica? Già nelle linee guida sull’Educazione civica di settembre 2024, abbiamo inserito l’uso corretto delle nuove tecnologie come veri e propri obiettivi di apprendimento. Dunque l’uso corretto degli strumenti digitali, compreso lo smartphone e l’utilizzo dell’Intelligenza artificiale. Abbiamo investito 2,1 miliardi di euro per la digitalizzazione delle scuole, con la dotazione di lavagne elettroniche, tablet e computer. Nel 2021-2022 avevamo un device ogni sei studenti, quest’anno scolastico si apre con quasi un device ogni due studenti. È evidente che la decisione di vietare lo smartphone, che vede sempre più Paesi seguire il nostro esempio - e che abbiamo anche promosso in Europa raccogliendo l’adesione di una dozzina di Nazioni - sta a dimostrare che siamo sulla strada giusta e che questa decisione è assolutamente necessaria. Al tempo stesso, siamo tra i primi Paesi a sperimentare l’uso dell’IA a supporto dei docenti per personalizzare la didattica e creare una scuola sempre più a misura di studente. Come si vede, stiamo sostenendo e implementando l’innovazione nella didattica, ma al tempo stesso teniamo alta la guardia su quanto invece può danneggiare i nostri ragazzi. Novità importanti riguardano anche l’esame di Maturità, soprattutto all’orale: non c’è il rischio che, conoscendo le quattro materie a gennaio, i ragazzi abbandonino le altre? Assolutamente no. Non dimentichiamo che c’è uno scrutinio di ammissione all’esame che, tra l’altro, boccia dodici volte di più dell’esame di Maturità. Quindi, due insufficienze determinano automaticamente la non ammissione all’esame, senza possibilità che il Consiglio di classe decida altrimenti. Mentre con una insufficienza, il Consiglio può decidere per la non ammissione. A questo proposito, racconto un caso personale, un esempio da non seguire. Dica… Non essendo uscita Matematica tra le materie dell’esame orale di quell’anno, da febbraio smisi di studiare Geometria. Salvo poi dover recuperare tutto in quindici giorni, per superare l’interrogazione decisiva per l’ammissione alla Maturità. Questo per dire che un buon insegnante sa perfettamente quello che deve fare in questi casi. Contiamo sulla maturità dei giovani e sul fatto che strumenti per sanzionare comportamenti immaturi ci sono. E questo sarebbe un classico comportamento immaturo che verrebbe considerato molto negativamente ai fini della valutazione finale. Ecco perché, tra l’altro, abbiamo inteso tornare al termine “Maturità” che un po’ ideologicamente era stato modificato nell’algido Esame di Stato. Perché vogliamo valorizzare la persona dello studente a 360 gradi. Come, d’altro canto, chiedono anche gli studenti. E cioè, non soltanto competenze e conoscenze, perché lo studente non deve soltanto conoscere i logaritmi: la sua persona è molto di più. E quindi valutiamo anche quel grado di maturità, di autonomia, di responsabilità che ha saputo raggiungere. Non a caso prevediamo di considerare anche gli impegni esterni, in qualche modo collegati con il percorso scolastico (per esempio, attività sportive e culturali), e abbiamo inserito la valutazione di azioni particolarmente meritevoli, che declineremo con esemplificazioni molto concrete. Si tratta di misure utili a far capire il livello di maturità e responsabilità del giovane. L’Ocse ci ricorda che gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati. Così, però, è difficile rendere appetibile la professione e attirare i migliori laureati: cosa c’è sul tavolo in vista del rinnovo del contratto? L’Ocse fa riferimento a un decennio in cui c’è stato il blocco dei contratti. Mentre negli altri Paesi i contratti venivano rinnovati e il potere d’acquisto aumentava, in Italia è addirittura sceso. L’ultimo contratto è stato firmato nel 2007/2009 e abbiamo dovuto aspettare una sentenza della Corte Costituzionale che ha costretto nel 2018 il governo dell’epoca a porre termine al blocco dei salari. Poi c’è stato uno stallo per tre anni nelle trattative e siamo dovuti intervenire noi nel novembre del 2022 con un primo, importante accordo economico. Quindi, l’Ocse ha fotografato un periodo drammatico della storia della scuola italiana che ha visto perdere in modo sensibile e significativo il potere d’acquisto dei salari dei docenti. Invece, dopo tre settimane dal nostro insediamento abbiamo chiuso un contratto che era aperto da tre anni. E per la prima volta nella storia della scuola italiana abbiamo poi previsto in anticipo le risorse per tutti i contratti fino al 2028-2030, così da assicurare quella continuità che prima non c’era. Dobbiamo adesso incrementare ulteriormente le risorse per il contratto 2025-2027. Ricordo inoltre che abbiamo appena stanziato ulteriori 240 milioni di euro una tantum che andranno sul contratto che è in fase di rinnovo in queste settimane proprio come riconoscimento del grande lavoro che svolge il personale scolastico. Ministro, in questi giorni di ripresa delle lezioni, qual è, allora, il suo augurio per insegnanti, presidi, personale, studenti e famiglie? Che la scuola sia un grande luogo di dialogo, di crescita in un contesto sereno finalizzato a valorizzare i talenti di ogni giovane. Questo è lo scopo della scuola che ho in mente, della scuola costituzionale: mettere al centro lo studente, individuare e valorizzarne i talenti, saper orientare i giovani a fare le scelte di studio e, in prospettiva, professionali che gli consentano di realizzarsi. La scuola è una grande comunità educante, dove il sorriso, l’accoglienza e il rispetto siano sempre presenti. Un termine, quello di rispetto, per me fondamentale, che ho messo nelle nuove Linee guida sulla Educazione civica e anche nei nuovi programmi scolastici. La centralità del rispetto: verso l’altro, verso la donna, verso l’insegnante, verso lo studente, verso i beni pubblici. Il rispetto è la cifra di una società veramente democratica. Migranti. “Non c’è giustizia senza compassione, né legittimità senza ascolto del dolore altrui” di Antonella Palermo vaticannews.va, 13 settembre 2025 In occasione della presentazione della candidatura del progetto “Gesti dell’accoglienza”, di Lampedusa, alla lista del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, nel videomessaggio di Leone XIV il ringraziamento per i tanti operatori di speranza: “baluardo di quell’umanità che le ragioni gridate, le paure ataviche e i provvedimenti ingiusti tendono a incrinare”. Il Pontefice, che spera di incontrare presto gli isolani, esorta a “diventare esperti di riconciliazione”. Il grazie, il ricordo, l’appello. Nel videomessaggio di Leone XIV diffuso questa sera, 12 settembre, per la presentazione a Lampedusa della candidatura del progetto “Gesti dell’accoglienza” alla lista del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco c’è il riconoscimento per l’impegno fortissimo, da parte del vasto mondo dell’associazionismo e delle istituzioni sia civili che ecclesiali, a offrire umanità a chi sopravvive nelle traversate della speranza; c’è il commosso dolore per chi non ce l’ha fatta e il rallegramento per chi invece, salvato per una nuova vita, ha messo in moto la carità ricevuta; e c’è ancora, nel ricordo del predecessore Francesco - il quale scelse proprio quell’isola come destinazione del suo primo viaggio apostolico - l’incoraggiamento ad andare oltre le fatiche, a continuare a spendersi per la giustizia contro la globalizzazione dell’indifferenza e dell’impotenza. Quest’ultima, osserva il Pontefice, è figlia della menzogna: “non esistono nemici”. Non c’è giustizia senza compassione - L’empatia mostrata dal Papa nel suo “saluto a distanza” - che spera di poter presto fare “in presenza, di persona” - emerge fin dalla prima parola “o’scià” (respiro, soffio), tipica espressione del dialetto siciliano, che lo stesso Papa Francesco usò approdando in questo lembo di terra nel cuore del Mediterraneo. Un esordio che consente subito di far riferimento allo Spirito Santo, i cui doni, afferma, sono abbondanti qui, in questa “porta d’Europa”, come definisce Lampedusa e Linosa, in cui si è creata una comunità che ha messo in campo una generosità emblematica, “un enorme impegno di accoglienza”. Il mio “grazie”, che è il “grazie” di tutta la Chiesa per la vostra testimonianza, prolunga e rinnova quello di Papa Francesco. “Grazie” alle associazioni, ai volontari, ai sindaci e alle amministrazioni che nel tempo si sono succeduti; “grazie” ai sacerdoti, ai medici, alle forze di sicurezza e a tutti coloro che, spesso invisibilmente, hanno mostrato e mostrano il sorriso e l’attenzione di un volto umano a persone sopravvissute nel loro viaggio disperato di speranza. Voi siete un baluardo di quell’umanità che le ragioni gridate, le paure ataviche e i provvedimenti ingiusti tendono a incrinare. Non c’è giustizia senza compassione, non c’è legittimità senza ascolto del dolore altrui. Bisogna reagire insieme - Papa Leone non può non ricordare le tante vittime, “quante madri e quanti bambini!”, sprofondate nel Mare nostrum. Il ricordo è per quanti, tra le persone migranti, sono sepolti proprio nell’isola, come semi per un mondo nuovo. E il ricordo è anche per chi, superstite a stragi del mare, è diventato a sua volta operatore di giustizia e di pace. Perché, sottolinea il Pontefice, se il male è purtroppo contagioso, anche il bene lo è, anzi di più. Vuol essere un grande stimolo quello del Papa oggi: è vero, col passare degli anni può subentrare la stanchezza. Come in una corsa, può mancare il fiato. Le fatiche tendono a mettere in questione ciò che si è fatto e, a volte, anche a dividerci. Bisogna reagire insieme, stando uniti e aprendoci di nuovo al respiro di Dio. Tutto il bene che avete fatto potrebbe sembrare come gocce nel mare. Non è così, è molto di più. Leone fa propria la denuncia che già Papa Francesco fece quando criticò la globalizzazione dell’indifferenza, espressione destinata a diventare ricorrente in molti suoi discorsi. Oggi, precisa Prevost, sembra addirittura mutata in “globalizzazione dell’impotenza”. Non si tratta tanto, avverte, di non essere consapevoli del dolore innocente, ma di restare “fermi, silenziosi e tristi, vinti dalla sensazione che non ci sia niente da fare”. La globalizzazione dell’impotenza è figlia di una menzogna: che la storia sia sempre andata così, che la storia sia scritta dai vincitori. Allora sembra che noi non possiamo nulla. Invece no: la storia è devastata dai prepotenti, ma è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova. Serve una cultura della riconciliazione - A questa tendenza di passività diffusa, il Papa invita a opporre una cultura della riconciliazione, si spinge a dire che “dobbiamo diventare esperti di riconciliazione”. Perché, rimarca, “riconciliarsi è un modo particolare di incontrarsi”. Necessaria, spiega ancora, è la cura delle ferite, necessario il perdono reciproco. “Tanta paura, tanti pregiudizi, grandi muri anche invisibili - scrive il Successore di Pietro - ci sono tra noi e tra i nostri popoli, come conseguenze di una storia ferita”. Con l’affidamento a Maria Stella del Mare, il Papa esprime l’anelito di pace tra i popoli e le creature: bisogna riparare ciò che è infranto, trattare con delicatezza le memorie che sanguinano, avvicinarci gli uni agli altri con pazienza, immedesimarci nella storia e nel dolore altrui, riconoscere che abbiamo gli stessi sogni, le stesse speranze. Non esistono nemici: esistono solo fratelli e sorelle. L’annuncio ufficiale della candidatura di Lampedusa - La presentazione della candidatura di Lampedusa, la cui anima solidale da decenni è simbolo di salvezza e speranza per migliaia di migranti in cerca di protezione, è accompagnata stasera, 12 settembre, da un concerto di Giovanni Allevi nell’ex cava di Cala Francese. La candidatura, promossa dall’associazione Perou, si inserisce nel dossier di Agrigento Capitale Italiana della Cultura 2025 e ruota attorno al progetto “Avenir”, un catamarano di 67 metri, progettato per essere la prima nave europea dedicata al salvataggio in alto mare. Droghe. “La cannabis light è legale”. Le sentenze contro il Governo di Giulio Cavalli Il Domani, 13 settembre 2025 Il Tribunale di Trento ha affermato che produrre e vendere cannabis light è legale, smontando l’articolo 18 del decreto sicurezza approvato in aprile dal governo Meloni. Nell’ordinanza depositata il 5 settembre, il giudice scrive che “allo stato dei dati scientifici” un contenuto di THC inferiore allo 0,3% non comporta rischi tali da giustificare un divieto assoluto di commercializzazione. Un passaggio che rovescia l’impianto normativo voluto dai ministri Piantedosi e Lollobrigida, che avevano equiparato tutte le infiorescenze a stupefacenti, a prescindere dalla percentuale di principio attivo. Pur dichiarando inammissibile per motivi procedurali il ricorso presentato da Canapa Sativa Italia e Imprenditori Canapa Italia, il tribunale ha fissato principi cardine: prevalenza del diritto europeo, proporzionalità della norma penale, richiamo alle Sezioni Unite della Cassazione del 2019, che già escludevano reati in assenza di “efficacia drogante”. Quella di Trento non è un’eccezione isolata. Già nel giugno 2023 il Tribunale di Brescia aveva assolto un imputato ritenendo che cannabis light con THC sotto lo 0,5% “non è sostanza stupefacente”. A luglio 2023, il Tribunale di Bari prosciolse due imprenditrici accusate di detenzione e vendita, definendo il decreto governativo “irragionevole”. A Roma diverse sezioni hanno sospeso processi, rimettendo la questione alla Corte costituzionale. Sul fronte amministrativo, il TAR Lazio ha più volte annullato decreti ministeriali restrittivi, ribadendo che misure generali e assolute violano gli articoli 34 e 36 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Nel 2024 lo stesso TAR sospese l’inserimento di alcuni estratti di CBD tra gli stupefacenti. Il quadro si è ulteriormente arricchito con l’archiviazione della maxi-inchiesta di Torino (settembre 2025), che aveva coinvolto 14 tra produttori e commercianti. Il giudice ha disposto dissequestri e nessuna imputazione, prendendo atto della liceità sostanziale dei prodotti privi di efficacia psicotropa. Il calendario ora segna dicembre. Al Tribunale di Trento si terrà l’udienza di merito: da lì potrebbe partire un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea per chiarire se il regolamento n. 1307/2013, che definisce legale la canapa con THC fino allo 0,3%, impedisca agli Stati membri di vietarne la commercializzazione. Parallelamente, la Corte costituzionale potrebbe essere investita della questione. A sollevare i dubbi di legittimità sarebbero i giudici ordinari, sulla scia della relazione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione del 23 giugno 2025, che ha definito l’articolo 18 “in contrasto con i principi costituzionali” di offensività, libertà economica e determinatezza della norma penale. Altri procedimenti sono già in corso. A Firenze pende il primo ricorso diretto contro il decreto sicurezza. In più distretti, le associazioni di categoria hanno avviato contenziosi mirati per ottenere pronunce rapide e creare un fronte di precedenti. In Emilia-Romagna, invece, un TAR ha confermato lo stop locale a vendite di derivati, segno di una giurisprudenza ancora non uniforme. Mentre in Italia il governo difende una linea proibizionista, l’Europa procede nella direzione opposta. La Commissione Agricoltura del Parlamento europeo ha approvato a settembre un emendamento alla Politica agricola comune che legalizza l’uso dell’intera pianta di canapa, fiori inclusi, come prodotto agricolo. Una svolta che, se confermata dal plenum e dal Consiglio, obbligherà gli Stati membri ad adeguarsi. Alcuni eurodeputati spingono inoltre per una soglia unica allo 0,5% di THC e per una classificazione armonizzata a livello Ue. Il percorso non sarà immediato: la nuova PAC entrerà in vigore nel 2028. Ma già nei prossimi mesi un regolamento OCM sulla canapa potrebbe anticipare i tempi e rendere insostenibile la posizione italiana. Il settore, che nel 2024 valeva circa mezzo miliardo di euro annui e impiegava 30 mila addetti, resta sospeso tra ordinanze favorevoli e un decreto che continua a produrre effetti. Le associazioni stimano che la chiusura del canale infiorescenze comporterebbe perdite per 1,46 miliardi di euro, 22 mila posti di lavoro bruciati e 198 milioni di gettito fiscale in meno. Tre gli scenari possibili. La Corte di Giustizia europea potrebbe sancire la prevalenza del diritto comunitario, costringendo l’Italia a riscrivere la normativa. La Consulta potrebbe dichiarare incostituzionale l’articolo 18, aprendo a una regolazione nazionale del settore. Oppure, più probabilmente nel breve periodo, proseguirà lo stallo: divieti ministeriali da una parte, assoluzioni e archiviazioni dall’altra, con applicazione a macchia di leopardo. L’ordinanza di Trento segna intanto un punto di svolta. Per il governo Meloni è un nuovo stop nei tribunali; per la filiera, un segnale che la linea proibizionista rischia di non reggere al confronto con scienza, diritto e mercato europeo. Stati Uniti. Cosa può fare la sinistra per combattere i finti partigiani della libertà di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 settembre 2025 La notizia che farà più scalpore in Italia, rispetto all’arresto dell’uomo accusato di aver ucciso con un colpo di fucile Charlie Kirk, è quello slogan inciso sul proiettile usato per freddare il famoso attivista conservatore americano, morto due giorni fa in diretta streaming: “Bella ciao, bella ciao ciao ciao”. Per i professionisti della zizzania permanente, del complottismo perpetuo, della violenza verbale, quello slogan, unito alle altre parole incise sulle altre pallottole - “fascista beccati questa” - non può che essere il simbolo di un fatto preciso: la sinistra, quando attacca la destra, è violenta, è liberticida, e la violenza delle parole a volte può trasformarsi in un fatto. Chi oggi crea simmetrie tra la violenza delle parole e la violenza delle azioni, ricercando un’ideologia che avrebbe caricato il fucile dell’uomo che ha ucciso Charlie Kirk, avrebbe dovuto compiere la stessa operazione in altre occasioni, ben più complicate da gestire per chi cerca di elaborare equazioni spericolate. Avrebbe dovuto farlo nel 2019, quando in Nuova Zelanda, in due moschee, vennero uccisi 49 musulmani con fucili sui cui caricatori era inciso il nome di Luca Traini, ex candidato della Lega, autore di una strage razzista a Macerata nel 2018. E avrebbe dovuto farlo nel 2022 quando, dopo la strage razzista di Buffalo, venne trovato su internet un manifesto politico dell’autore in cui era esposta una teoria cara all’estrema destra: la “grande sostituzione”. Contrastare pulsioni violente alimentando il dibattito con argomenti destinati a far crescere la violenza non è una strategia lungimirante. Ma le parole scelte dall’omicida di Kirk dovrebbero spingere a una riflessione diversa: cosa vuol dire oggi essere, a sinistra, dei finti partigiani della libertà? I finti partigiani della libertà, su una scala massima della follia, sono ovviamente gli attivisti che premono il grilletto e coloro che minimizzano quel gesto. Ma i finti partigiani della libertà, su una scala naturalmente diversa, sono anche coloro che senza rendersene conto stanno dando nuovamente lustro a quello che Marco Pannella (e prima di lui Pasolini) definì anni fa in modo formidabile: il “fascismo degli antifascisti”. La destra estremista in cui si riconosce Trump, e in cui si riconosceva Charlie, non è una destra amica della libertà, perché, come da formidabile definizione di Timothy Snyder, è una destra che si rifà più al “me speech” che al “free speech”: dove per “me speech” si intende una libertà deformata, complottista, che invoca la libertà di parola solo per se stessa, trasformandola in uno strumento di censura e delegittimazione sistematica di chi dissente, naturalmente in nome del free speech (la libertà è da difendere solo se è una libertà compatibile con la parola destra, solo se piace a me: me speech). Ma ciò che colpisce nella fase storica che stiamo vivendo è che le moltitudini di finti partigiani che da sinistra fingono di difendere la libertà hanno regalato alla destra, anche la più estrema, la possibilità di trasformarsi in un argine contro le limitazioni del free speech. I finti partigiani della libertà, a sinistra, sono quelli che trasformano ogni amico di Israele in un genocidario, ogni appello contro l’antisemitismo in un’arma di distrazione da Gaza. Sono quelli che vogliono riscrivere la storia cancellando libri, rimuovendo statue, modificando canzoni, ritoccando film. Sono quelli che vogliono limitare il dibattito universitario solo a chi non si discosta dall’algoritmo progressista. Sono quelli che trasformano ogni seduzione in molestia. Sono quelli secondo cui ogni discussione sull’immigrazione è una testimonianza di razzismo. Sono gli stessi che, su scale diverse, tendono poi a compiere altri atti osceni. Trasformano in partigiani i terroristi di Hamas che combattono contro Israele. Trasformano, per fortuna in una piccola minoranza, in eroi gli ayatollah che combattono contro l’occidente. E magari non si indignano eccessivamente se un omicida uccide a sangue freddo in nome dell’anticapitalismo il dirigente di una società di assicurazioni. Sono una minoranza, certo, ma sono una minoranza reale e chiassosa dentro la timeline del mondo progressista. E il dramma politico che attraversa il dibattito pubblico di oggi è il modo in cui alcune sinistre, in contesti diversi, facendo proprie anche una di queste battaglie illiberali, senza rendersene conto scelgono di abbracciare un virus illiberale perdendo credibilità, dunque, come argine contro l’illiberalismo della destra. I pazzi omicidi che lucidamente uccidono in nome dell’antifascismo i propri nemici non sono i simboli della sinistra, e ci mancherebbe, e chi specula su un omicidio politico in nome dell’antiviolenza non fa altro che compiere un atto violento. Ma quelle parole incise sull’arma che ha ucciso Kirk dovrebbero spingere a una riflessione precisa, che non riguarda la presunta radice violenta di “Bella ciao” (non diciamo sciocchezze). Riguarda la presenza dei finti partigiani della libertà che hanno compiuto in questi anni un miracolo politico: regalare alla destra più illiberale della storia moderna una patente spendibile per guidare, a colpi di imposture, la battaglia a difesa del free speech, di cui Kirk in fondo è stato un esempio tutt’altro che trascurabile. Il “fascismo degli antifascisti” è forse un concetto difficile da maneggiare oggi. Ma la deriva di quella sinistra antifascista che non riconosce i propri virus illiberali è un fatto fin troppo facile da fotografare. Speculare su “Bella ciao” sarebbe un’oscenità. Ragionare sui finti partigiani della libertà forse no. Stati Uniti. Il caso Kirk è la prova che sui social non sappiamo più discutere di Ruben Razzante Avvenire, 13 settembre 2025 La vicenda è un segnale d’allarme, lo specchio di un sistema comunicativo che ha smarrito il gusto per la complessità, la pazienza dell’analisi, la responsabilità della parola. Era prevedibile che la vicenda di Charlie Kirk, l’influencer Maga ucciso in Utah, accendesse reazioni forti, ma la rapidità con cui il dibattito è degenerato nei soliti schemi polarizzati lascia ancora una volta l’amaro in bocca. Nessuna sorpresa, forse, ma molta amarezza. Perché, più del caso in sé, colpisce ciò che rivela del modo di discutere sui social. Anche in Italia la dinamica del confronto ha seguito un copione ormai familiare: la corsa a estremizzare, semplificare, schierarsi. Il caso Kirk - nella sua complessità, con tutto ciò che il personaggio rappresenta, nel bene e nel male - avrebbe potuto offrire l’occasione per un dialogo articolato sul contesto in cui si inserisce, sulle reazioni che ha suscitato. Invece, ancora una volta, ci si è gettati nel pozzo senza fondo della polarizzazione, in quella zona grigia che grigia più non è, dove ogni sfumatura viene cancellata in favore di un’opposizione binaria, aggressiva, semplificatrice. Kirk - figura controversa, certamente provocatoria, talvolta divisiva per scelta - è diventato non tanto l’oggetto di una discussione quanto il pretesto per far esplodere le logiche di campo. In questa dinamica, i contenuti reali del dibattito - le parole pronunciate, i contesti in cui sono state dette, le reazioni suscitate - si perdono quasi subito. Ciò che resta è un duello identitario, una specie di rito collettivo in cui ognuno deve scegliere se stare “con” o “contro”, senza possibilità intermedie, senza curiosità, senza ascolto. È su questo terreno che dovrebbe muoversi la vera riflessione, che non riguarda tanto Kirk, quanto il modo in cui la sua vicenda è stata trattata nell’arena digitale. Perché ciò che emerge con chiarezza - e che dovrebbe preoccupare - è la difficoltà sempre più evidente a mantenere uno spazio di discussione pubblica in cui il dissenso non si trasformi automaticamente in scontro, in cui la complessità non venga subito ridotta a slogan, e in cui la realtà non debba per forza essere piegata alle esigenze del tifo. La natura stessa dei social media - la loro architettura tecnica, i meccanismi che regolano la visibilità, la viralità, l’engagement - favorisce esattamente questo tipo di dinamiche: la semplificazione, la polarizzazione, la ricerca spasmodica del conflitto, anche esasperato. In un ambiente in cui si compete per l’attenzione, la posizione più estrema, più rumorosa, più tagliente ha spesso la meglio su quella più riflessiva o ponderata. Questo non significa che non esistano voci equilibrate, capaci di affrontare anche temi complessi con senso critico e misura. La verità è che queste voci faticano a emergere; spesso vengono sommerse da un rumore di fondo assordante o finiscono per essere immediatamente etichettate, neutralizzate, assimilate a uno dei due poli del conflitto. Tornando al caso Kirk, è difficile trovare, nel mare di contenuti social che lo riguardano, uno spazio in cui si analizzi con distacco ciò che ha detto, cercando di capire cosa ci sia di fondato, cosa di provocatorio, cosa di ideologico, cosa di reazionario, cosa di autenticamente problematico o magari persino di stimolante. Tutto viene appiattito sul confronto tra tifoserie: da una parte chi lo demonizza a prescindere, dall’altra chi lo difende senza riserve, trasformandolo in un simbolo, in un martire, in un eroe. Entrambe le posizioni finiscono per ignorare la complessità della figura e, più in generale, del contesto culturale e sociale in cui si inserisce. Ma ciò che più preoccupa è che questo schema si ripete con inquietante regolarità. Kirk è solo l’ultimo esempio, ma prima di lui ce ne sono stati tanti e altri ne verranno. Ogni volta il dibattito online sembra incapace di costruire una narrazione che vada oltre l’immediatezza dell’indignazione o dell’entusiasmo cieco. La vicenda Kirk è un segnale d’allarme che travalica l’identità del personaggio. È lo specchio di un sistema comunicativo che ha smarrito il gusto per la complessità, la pazienza dell’analisi, la responsabilità della parola. E forse il vero pericolo non sta in ciò che certi personaggi dicono, ma nella nostra crescente incapacità di ascoltare senza reagire, di pensare senza gridare, di dissentire senza odiare. Carcere strumento di biopolitica penale e repressione del dissenso di Cristina Di Silvio Il Dubbio, 13 settembre 2025 Nel contesto attuale, il carcere ha cessato di essere solo un presidio penale per divenire un nodo strategico di controllo sociale. Non più semplice luogo di esecuzione della pena, ma strumento di guerra ibrida: neutralizzazione preventiva, disciplinamento collettivo e repressione del dissenso. La detenzione si configura come spazio giuridico sospeso, dove il diritto viene sistematicamente eluso. Trattati e convenzioni internazionali - come l’art. 7 del Patto sui Diritti Civili e Politici, l’art. 3 della Cedu e la Convenzione Onu contro la tortura - vietano trattamenti inumani, ma gli organismi di monitoraggio continuano a denunciare abusi sistemici, anche in Paesi democratici. In Egitto, nella prigione di Al-Aqrab, i detenuti politici subiscono isolamento, torture e privazioni sensoriali. A Gaza, ex prigionieri denunciano condizioni disumane. In Cina, i campi per uiguri rappresentano una forma estrema di ingegneria sociale, tra sterilizzazioni forzate e sorveglianza digitale. Negli Usa, il carcere è industria da 80 miliardi di dollari l’anno, basata più sulla segregazione che sulla giustizia: nelle supermax prisons l’isolamento è paragonato alla tortura, soprattutto sui minori. In Brasile, le carceri sono zone extrastatali dominate da bande armate. In Nigeria, la detenzione preventiva equivale spesso a una condanna a morte. In Grecia, il sovraffollamento ha portato a una crisi sanitaria che l’Oms definisce “catastrofica”. In Russia, il Comitato Helsinki denuncia torture sistematiche; in India, la repressione colpisce giornalisti e attivisti, erodendo lo Stato di diritto. Intanto, cresce la sorveglianza: torrette armate, telecamere, sistemi biometrici, barriere d’acciaio. Si rafforza l’apparato repressivo, ma si svuota il principio costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione (art. 27). Un principio sempre più disatteso, se non apertamente ribaltato. Emblematico il caso turco: dopo il tentato golpe del 2016, il carcere è diventato strumento di repressione politica, tra arresti di massa, processi farsa e negazione del diritto alla difesa. In questo scenario, il detenuto non è più soggetto di diritto, ma corpo da gestire. È la biopolitica penale: amministrazione dei “corpi eccedenti”, scarti sociali espulsi dal mercato e dalla politica. La pena diventa strumento di segregazione, non più di reinserimento. Il carcere non genera sicurezza, ma instabilità. Recidiva oltre il 70%, suicidi, rivolte, autolesionismo: non anomalie, ma indicatori strutturali. È una zona grigia della sovranità, dove il diritto si sospende, la giustizia si diluisce, il controllo si normalizza. La Corte EDU ha stabilito che il sovraffollamento può costituire di per sé trattamento inumano (Mursic v. Croatia, 2016), e che anche nei regimi più severi lo Stato ha il dovere inderogabile di tutelare la dignità umana (Dougoz v. Grecia). La crisi ha portata geopolitica: il carcere riflette la qualità reale della democrazia. Dove il diritto è sospeso, il potere diventa arbitrario. E la democrazia, da promessa, si riduce a simulacro. Come scriveva Bauman: “Quando l’insicurezza diventa permanente, la libertà diventa un lusso per pochi”. Oggi la detenzione non è più risposta al reato, ma gestione preventiva della devianza. Serve una rifondazione radicale del sistema carcerario: non aggiustamenti cosmetici, ma un nuovo paradigma fondato su legalità costituzionale, garanzie effettive e giustizia sostanziale. In caso contrario, il carcere continuerà a essere detonatore silenzioso di crisi. E la nostra ultima trincea democratica, una frontiera abbandonata. Quando Caino può salvarsi: prospettive dell’abolizionismo islamico di Domenico Bilotti L’Unità, 13 settembre 2025 Dopo quattordici anni la preghiera della cristiana keniota Dorothy Kweyu ha realizzato il più laico dei “miracoli”: il figlio Stephen Munyakho non è più nel braccio dei condannati a morte. L’uomo avrebbe ucciso con un’arma da taglio il collega di lavoro Makrad Saleh per una questione d’affari. La famiglia aveva suggerito l’ipotesi della legittima difesa, ma potevano sussistere gli estremi per un “omicidio nonostante (oltre) l’intenzione”, commesso, cioè, senza volere cagionare l’evento fatale. La famiglia dell’ucciso, invece, aveva perorato l’istituto della rivalsa (“occhio per occhio, dente per dente”), con esecuzione dell’assassino - e tale istituto era stato riconosciuto in appello, nonostante la più mite condanna in primo grado per omicidio colposo. Il procedimento si è oggi concluso con l’ordine di liberazione di Stephen dalla prigione saudita dove attendeva la sentenza. Il tribunale gli ha potuto commutare la pena dopo che la sua famiglia, per compensare la perdita, ha corrisposto a quella della vittima il diyat, il “prezzo del sangue”. Una bella notizia, perché apre uno scenario controtendenziale rispetto al macabro consolidamento delle pene capitali. L’invocata esecuzione per decapitazione è, del resto, una delle forme di comminatoria più umilianti per i familiari del condannato, vista l’idea sacrale e affettiva dell’integrità della salma, particolarmente avvertita, non uniche, dalle minoranze cristiane. Le contraddizioni sollevate dagli orientamenti estensivi non sono comunque poche. Si fa notare che la restituzione patrimoniale rispetto all’omicidio di una donna, estintiva della condanna a morte, costa al presunto assassino circa la metà di quanto dovuto per una vittima di sesso maschile. Il rischio è poi che le corti territoriali applichino criteri monetari elevati, così da rendere l’estinzione per contrappasso patrimoniale un privilegio per i soli (pochissimi) che possono permetterselo. Sia il Corano sia i detti del Profeta utilizzano termini tipici di un’organizzazione economica legata a esigenze pratiche e criteri di misurazione non sovrapponibili all’attuale configurazione dei rapporti civili: merci, oggetti o bestiame (“cento cammelli” dice il sacro testo) dell’economia carovaniera. E tuttavia quelle scritture indicano un senso di equità, equilibrio, incontro indulgente tra il contenimento del desiderio vendicativo e la prestazione di una tutela adeguata, ol tre che auspicabilmente monitoria e pedagogica. Il giurista egiziano al-Qastallani fu tra i più zelanti custodi della tradizione, e proprio per questo il suo pensiero, riguardato oggi, appare più inclusivistico che fondamentalista. Appassionato di misticismo, metteva in guardia dagli eccessi esoterici. Convinto della necessità che una comunità ben ordinata dovesse avere istituti di riparazione patrimoniale, riteneva però che il risarcimento concretizzasse un vincolo di proporzionalità rispetto alla condotta e al danno, oltre che alle effettive possibilità dell’agente. Siamo abituati a pensare al mondo arabo in termini essenzialmente teocratici, ma quel sistema ha una cultura evolutiva superiore al recente accentramento politico-giuridico delle sue istituzioni. In tempi molto più vicini, ‘A’id al-Qarni ha lavorato sulla corretta interpretazione del lemma jihad. Coi detenuti delle organizzazioni miliziane ha rivendicato il significato interiore e spirituale dello sforzo individuale per la redenzione e la conversione. Ne ha derivato una influente teoria penalistica, pur raramente accolta dai legislatori, per cui la differenza religiosa non dovrebbe essere regolamentata dalle leggi in materia criminale, bensì rimessa a consuetudini basate sul consenso e sulle relazioni orizzontali. Il suo pensiero, di formazione saudita, diviene giovevole per le minoranze islamiche e cristiane, alle prese con vessazioni istituzionali (in tema di diritto matrimoniale, contratto, cittadinanza, proprietà) e ostracismi di natura etnico-sociale. L’ordinamento saudita è privo di parlamento, sicché tali minoranze hanno difficoltà a trovare un canale di rappresentanza nella sfera politica. L’abbandono del boia e la riforma giudiziaria, tuttavia, non sono impossibili. L’Arabia Saudita non vincola il giudice nemmeno al precedente giudiziale e per la sua posizione conta consistenti migrazioni di comunità (ad esempio, i cristiani filippini e gli hindù provenienti non solo dall’India). Casi come quello che abbiamo esposto lasciano prevedere sviluppi. Una nuova generazione di giudici e norme potrebbe riavvicinare alla letteratura coranica abolizionista e al superamento dei poteri straordinari in materia di polizia. Le consuetudini del boia non sono né diritto naturale né diritto codificato. Per la logica giuridica e i diritti di tutti, voltare pagina sarebbe finalmente non “amal” (speranza incondizionata) o “radshà” (accoglimento di una supplica), ma “fursa” (occasione fiduciosa, proficua opportunità).