Carcere senza dignità, il Cpt torna da Nordio ma la soluzione non c’è di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 settembre 2025 Incontro al vertice con il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa che segnala gravi criticità e ricette inefficaci. Sovraffollamento e custodia cautelare: il piano del ministro non è risolutivo. Per la seconda volta, dopo quasi un anno dalla prima, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha accettato gli high-level talks richiesti dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e ha ricevuto in via Arenula - subito, questa volta - una delegazione composta dal presidente Alan Mitchell, dal capo-delegazione Juan Carlos Da Silva e dal funzionario Christian Loda a conclusione del tour di visite nelle carceri italiane iniziato il primo settembre. Una procedura che Strasburgo riserva ai Paesi particolarmente problematici in tema di diritti umani, e che era già stata attivata ad ottobre dello scorso anno dopo che il governo Meloni aveva disertato i final talks che concludono di solito le ispezioni nelle carceri. Ma stavolta il Guardasigilli non ha esitato. Le criticità rilevate dal Cpt (che verranno esposte in un report) sono sostanzialmente le stesse dell’anno scorso ma perfino più accentuate: se allora il problema erano 62 mila detenuti, oggi abbiamo superato i 63 mila. E nel frattempo il numero di posti letto è perfino diminuito (da 46751 di un anno fa a 46701, secondo Antigone). Mentre il macabro conteggio dei suicidi che undici mesi fa era arrivato a 70, registra al momento 61 detenuti che si sono tolti la vita in cella. E ovviamente anche il ministro Nordio ha dato la stessa risposta, promettendo più carceri e meno detenuti, senza dare conto di eventuali nuove soluzioni che la task force istituita a inizio estate per contrastare il sovraffollamento avrebbe dovuto trovare. Non a caso, il comunicato di via Arenula, si limita a riportare le principali annotazioni del Cpt, in particolare riguardo al “sovraffollamento e i suicidi, le scarse attività lavorative e le condizioni sanitarie”. “Mi hanno molto colpito, in particolare, le soluzioni prospettate dal Ministro per risolvere il problema del sovraffollamento della popolazione carceraria dato che molte volte la costruzione di nuovi edifici non è la soluzione del problema”, è l’unico commento riportato del presidente Mitchell che avrebbe anche rimarcato “di ragionare nell’ottica della collaborazione e del supporto comuni”. La delegazione, che Nordio ha ricevuto insieme al capo Dap Stefano De Michele e all’ambasciatore Andrea Ferrari, avrebbe poi auspicato “una soluzione a breve” e sostenuto “che la condizione dei detenuti è strettamente connessa al miglioramento delle condizioni della Polizia Penitenziaria”. Richieste “accettate” dal Guardasigilli che ha ribadito il suo piano di diminuire “progressivamente i detenuti in attesa di primo giudizio, gli stranieri, e i tossicodipendenti che sono più malati da curare che criminali da punire”. “Siamo ben consapevoli delle criticità rilevate dal Comitato”, ha concesso Nordio che ha promesso soluzioni a breve, as usual. Secondo il ministro, il “tragico” problema dei suicidi, “la maggior parte dei quali verificatisi a fine pena e determinati spesso da depressione, dovuta a solitudine, isolamento e mancanza di prospettive”, rappresenta “una problematica che può essere attenuata anche col ricorso allo sport e, in particolar modo al lavoro - si legge nel comunicato che riporta anche una citazione di Voltaire con cui Nordio ha intrattenuto la delegazione - ottenuto ancora prima di uscire di prigione, come dimostrato dai risultati positivi del progetto Recidiva Zero”. Il Ministro si riferisce a un progetto avviato nel 2023 con il Cnel per potenziare percorsi di formazione in carcere e di reinserimento lavorativo, che però al momento è fermo “alle buone intenzioni”, come testimonia il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia: “A parte le convocazioni del presidente Brunetta, i risultati non si vedono; il numero di detenuti impiegati in imprese esterne non è dissimile da quello di due anni fa”. Quanto all’intervento sui detenuti in custodia cautelare per ridurre il sovraffollamento - un refrain di Nordio -, secondo Mauro Palma, primo Garante nazionale delle persone private di libertà, non è una misura che potrà incidere significativamente sulla popolazione detenuta che oggi conta ben 17 mila reclusi in più rispetto ai posti letto effettivamente disponibili. Secondo le stesse fonti Dap, infatti, dall’inizio dell’anno al 31 agosto i detenuti sono aumentati di 1306 unità, di cui 186 sono in attesa di primo giudizio, mentre l’aumento dei definitivi è pari a 1213 unità. Nel frattempo il numero di reclusi che sono in attesa di giudizio definitivo è diminuito di circa 100 unità. Ecco evidente, quindi, che intervenire solo su quella fetta di detenuti è decisamente poco efficace, ancorché giusto e necessario. Riguardo ai carcerati stranieri, “la loro percentuale rispetto al totale non è mutata (31,8%)”, fa notare ancora Palma. Quindi l’aumento della popolazione dietro le sbarre non dipende da loro. Infine, relativamente all’edilizia penitenziaria - asso nella manica soprattutto del sottosegretario Delmastro - dopo la finta partenza per il rialzo dei costi ancor prima dell’assegnazione della gara, si può ragionevolmente star certi che l’anno prossimo il Cpt dovrà tornare a incalzare di nuovo il governo italiano. Conferenza nazionale dei Garanti: “Il carcere è diventato un luogo di contraddizioni irrisolte” garantedetenutilazio.it, 12 settembre 2025 Ciambriello: “Il carcere è diventato un luogo di contraddizioni irrisolte, poveri cristi, vittime di ingiustizie sistemiche”. Il Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale, ha tenuto oggi una conferenza stampa nella quale ha esposto i dati nazionali sugli istituti penitenziari, adulti e minorili. “Ci sono nuovi reati, maggiori pene, nuove aggravanti, carceri senza aria, senza umanità, senza dettato Costituzionale, diritti negati e urgenze dimenticate. Si entra di più in carcere e si esce di meno. La politica ha aperto i battenti, visto che le carceri esplodono: ora si farà qualcosa?”, così ha esordito Ciambriello nella conferenza stampa. Al 31 agosto, in Italia i detenuti sono 63.167, su una capienza di 46.706. Le donne detenute con figli a seguito sono 18 di cui 10 straniere con 23 figli piccoli, a Lauro c’è una donna di 27 anni incinta di cinque mesi. 21.000 sono detenuti stranieri, 18.000 sono tossicodipendenti, più di 4.000 sono malati di mente e 4.151 sono detenuti dai 18 ai 24 anni. A seguito del Decreto Caivano, è aumentato notevolmente il numero di giovani adulti ristretti. Infatti, nelle carceri minorili in Italia ci sono 545 ragazzi, 1.137 nelle comunità private, 16.374 dall’inizio dell’anno sono i minori in carico agli uffici di servizio sociale per minorenni, di cui 3.255 messi alla prova. “Pertanto - prosegue Ciambriello - il carcere non rieduca più ed è diventato un contenitore di fragilità sociali, bisogna perciò educare i minori per renderli più responsabili. Piuttosto che custodire occorre prevenire questi minori in difficoltà, che passano dal disagio alla devianza e alla microcriminalità”. In Italia ad oggi 61 persone si sono tolte la vita, 1.123 persone hanno provato a suicidarsi. 7486 sono gli atti di autolesionismo compiuti da inizio anno in Italia. “Come si fa a non considerare che dietro a questi numeri ci sono persone? 50% delle persone che provano a suicidarsi sono in carcere da pochi giorni o pochi mesi. Un’altra metà prova a suicidarsi mentre sta per uscire dal carcere. Il carcere è diventato un luogo di contraddizioni irrisolte, poveri cristi, vittime di ingiustizie sistemiche. Immigrati, detenuti senza fissa dimora, tossicodipendenti, malati di mente. In Italia mancano 18.000 agenti di Polizia Penitenziaria. Il numero degli agenti viene calcolato in base ai posti disponibili in ogni istituto carcerario e non alla presenza reale dei detenuti. Occorrono più educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, mediatori culturali e linguistici. Occorre più lavoro in carcere. Una misura deflattiva, che può essere l’amnistia, l’indulto o la liberazione anticipata. Facciamo qualcosa adesso. Serve il coraggio di cambiare il carcere. Perché non farlo nell’anno del giubileo della speranza?”. Così conclude il portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, Samuele Ciambriello. Mirabelli (Pd): “Per il Governo le carceri solo luoghi solo di espiazione e sofferenza” imgpress.it, 12 settembre 2025 “Le scelte del Governo sulle carceri sono purtroppo chiare. Di fronte a una situazione drammatica, non interviene né sulla sovrappopolazione né sul degrado ma sceglie consapevolmente di abbandonare il mandato costituzionale e di fare degli istituti di pena luoghi chiusi, di espiazione e sofferenza non certo di riabilitazione e rieducazione. Citando un noto film ‘pensano solo a celle, sbarre e muri’. In questo quadro, fa bene il PD a tenere alta l’attenzione sulla situazione degli istituti per minori. Anche questi, che dovrebbero essere per vocazione luoghi di educazione e crescita personale, stanno rischiando di cambiare, diventando anch’essi solo luoghi di reclusione. Anche in questo caso sono le scelte del Governo a produrre consapevolmente una situazione che rischia di cancellare le esperienze positive realizzate dagli istituti per minori da decenni. Il Decreto Caivano e, oggi, anche il Decreto Sicurezza hanno aumentato il numero di reati che aprono le porte del carcere per i minori. Tutto ciò ha portato al collasso molte realtà e mette a rischio le stesse finalità della giustizia minorile. Brevemente, vorrei riportare due esempi. Il primo ci riguarda da vicino e riguarda il nostro Beccaria di Milano, che per anni è stato un modello per le attività svolte e oggi guadagna gli onori delle cronache per le inchieste sulle violenze di alcuni agenti sui detenuti, le rivolte e le evasioni. La sovrappopolazione qui si aggiunge alla ormai decennale assenza di una direzione che possa dare stabilità e continuità al lavoro. E l’errore fatto che obbliga ad un nuovo interpello, quando finalmente sembrava esserci una soluzione, è un ulteriore fattore di degrado. L’altro esempio è quello dell’istituto di Bologna dove, per far fronte all’emergenza, si sta realizzando un reparto dedicato nel carcere della Dozza. Cito questo perché in maniera evidente dimostra quanta poca attenzione ci sia a mantenere la specificità degli istituti per minori”. Così il vicepresidente dei senatori del Pd Franco Mirabelli in un intervento ieri sera alla Festa dell’Unità di Milano al dibattito ‘Decreto Caivano: minori solo tra sbarre, celle e muri’. Educazione in carcere: lo stato dell’arte e il progetto LeMP di Carmelina Maurizio tecnicadellascuola.it, 12 settembre 2025 Nel contesto carcerario, il diritto all’istruzione consente alla persona detenuta di costruire e mostrare un’immagine di sé diversa da quella che comunemente viene associata al mondo della detenzione. La Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2006 sottolinea l’importanza di garantire a tutti - compresi i detenuti - l’accesso alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, fondamentali per lo sviluppo personale, l’inclusione sociale e l’occupabilità. Lo sottolinea anche il XXI Rapporto Antigone e sono numerosi gli esperti, dai responsabili dei Cpia alle associazioni, ai docenti provenienti da vari atenei che si stanno trovando in questi giorni al convegno organizzato dall’Università di Bologna, presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione sul tema “Sfide e opportunità dell’apprendimento in carcere: riflessioni a partire dalla didattica della matematica”. Si tratta di un’occasione importante per riflettere sull’istruzione carceraria e in particolare per parlare dell’educazione matematica, in contesto carcerario e in altri contesti di esclusione sociale. Si parlerà, tra l’altro, di matematica informale, di buone pratiche per lavorare con i minori, di insegnamento della matematica agli stranieri. Scuola in carcere: alcuni dati - Nel corso del 2024, Antigone ha effettuato 95 visite negli istituti penitenziari italiani; da queste è emerso che nel 94,7% delle strutture sono presenti spazi dedicati esclusivamente alla scuola e alla formazione. Per quanto riguarda le biblioteche, il 55,9% degli istituti ne dispone e le utilizza anche come spazi comuni, come sale lettura o aule studio. Nella maggior parte delle carceri visitate, vengono regolarmente garantiti corsi di alfabetizzazione e percorsi scolastici di livello superiore. Tra le criticità ci sono la difficoltà di far coincidere le disponibilità degli istituti scolastici esterni con le esigenze organizzative del carcere, l’insufficienza di detenuti necessari a costituire una classe. Gli ultimi dati elaborati dal Ministero della Giustizia del giugno 2024, mostrano che nell’anno scolastico 23-24 sono stati erogati in totale 1.711 corsi scolastici, coinvolgendo 19.250 iscritti (8.965 stranieri) e che la percentuale dei detenuti che è riuscita ad ottenere la promozione si è attestata al 43,9%. Sui 50 Istituti penitenziari in cui sono presenti più di 10 iscritti a corsi universitari, secondo la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari solo 14 dispongono di sezioni dedicate e spazi adeguati allo svolgimento dello studio e locali comuni. Istruzione in carcere: nuovi fondi - Come è noto ad inizio agosto Il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha firmato due decreti che stanziano complessivamente 45 milioni di euro, di cui 25 milioni per la scuola in carcere e 20 milioni per l’istruzione in ospedale e domiciliare, con il fine di potenziare l’offerta formativa rivolta agli studenti in condizioni di fragilità o restrizione. Le risorse dovrebbero consentire di creare ambienti di apprendimento più avanzati e percorsi didattici personalizzati. All’interno delle carceri, l’istruzione degli adulti si basa su una collaborazione strutturata tra i Cpia (Centri Provinciali per l’Istruzione degli Adulti) e gli istituti scolastici di secondo grado. I Cpia sono istituzioni scolastiche autonome, che organizzano percorsi di primo livello, finalizzati all’alfabetizzazione, all’apprendimento della lingua italiana e al conseguimento della licenza di scuola primaria e secondaria di primo grado. Per quanto riguarda l’istruzione di secondo livello (scuola superiore), non sono i Cpia a erogarla direttamente: questa viene invece svolta dagli istituti scolastici di secondo grado (come licei, istituti tecnici o professionali). I Cpia svolgono però un ruolo fondamentale di coordinamento: stipulano accordi di rete con le scuole superiori e collaborano alla progettazione didattica, alla definizione dei percorsi individuali degli studenti detenuti e al funzionamento complessivo del servizio formativo. Questa organizzazione è regolamentata dal DPR 275/1999 e dal DPR 263/2012, che stabiliscono come devono essere strutturati i rapporti tra CPIA, istituti di secondo grado e gli altri soggetti coinvolti, come enti locali e strutture accreditate. (Decreto Interministeriale, Linee guida CPIA, 12 marzo 2015). Nell’anno scolastico 2023-2024 sono stati erogati in totale (primo livello + secondo livello) 1.711 corsi scolastici, coinvolgendo 19.250 persone iscritte. Scuola - Gli ultimi dati elaborati dal Ministero della Giustizia e pubblicati il 30 giugno 2024, mostrano che nell’anno scolastico 2023-2024 sono stati erogati in totale (primo livello + secondo livello) 1.711 corsi scolastici, coinvolgendo 19.250 persone iscritte (di cui 8.965 stranieri) e che la percentuale dei detenuti iscritti che è riuscita ad ottenere la promozione si è attestata al 43,9%. In riferimento agli stranieri, secondo i dati messi a disposizione dal Ministero della Giustizia, la maggior parte degli stranieri iscritti si concentra nel primo livello (7.410 detenuti stranieri). Tra questi 4.580 hanno partecipato a corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana, e 1.693 sono stati promossi, ovvero il 36,96% del totale degli studenti stranieri iscritti ai corsi precedentemente citati. Comparando i dati più recenti con quelli in riferimento all’anno precedente è possibile elaborare un grafico comparativo con alcune osservazioni e considerazioni. L’accordo Italia-Libia sui detenuti voluto da Meloni rischia di violare i diritti umani di Francesca Moriero fanpage.it, 12 settembre 2025 Firmato a Palermo e ratificato in fretta dal Senato, il trattato con la Libia rischia di trasformare la cooperazione giudiziaria in uno scambio politico, a scapito delle garanzie fondamentali. Quando nel settembre 2023 a Palermo venne siglato l’accordo di cooperazione giudiziaria tra Italia e Libia, la notizia passò quasi sotto silenzio; il trattato appariva come un atto tecnico: stabilire regole comuni per permettere ai detenuti di scontare la pena nel proprio Paese d’origine. Nulla di più, almeno all’apparenza. In realtà, già allora alcuni dettagli facevano capire che la questione non sarebbe rimasta confinata alle pagine dei resoconti diplomatici. La Libia, partner dell’Italia in questo accordo, è un Paese diviso tra fazioni, dove milizie armate controllano territori e carceri, e dove i rapporti sui diritti umani denunciano da anni torture, detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate. Dal cassetto del Parlamento al via libera lampo - Per mesi il testo è rimasto fermo nei cassetti di Roma. Poi, all’improvviso, ieri mattina, il Senato lo ha ratificato in meno di mezz’ora; a premere sull’acceleratore è stata la premier Giorgia Meloni, che ha voluto chiudere rapidamente un capitolo considerato strategico nei rapporti con Tripoli. Ora manca solo il voto della Camera per l’entrata in vigore definitiva. La rapidità del sì sembra stridere con la delicatezza del tema; l’impressione delle opposizioni è infatti che il governo abbia voluto archiviare la questione senza un dibattito pubblico approfondito, riducendo a formalità una scelta che, invece, potrebbe portare con sé conseguenze rilevanti sul piano della giustizia, dei diritti umani e delle relazioni internazionali. Cosa prevede l’intesa - In sostanza, l’accordo stabilisce che un detenuto libico in Italia, o un detenuto italiano in Libia, possa chiedere di essere trasferito nel proprio Paese per finire di scontare la pena. Perché ciò avvenga servono però tre condizioni: la condanna deve essere definitiva; il reato deve essere riconosciuto come tale da entrambi gli ordinamenti; il detenuto deve esprimere consenso al trasferimento. Fin qui, la formulazione sembra ispirata a principi di cooperazione e rispetto delle garanzie individuali, ma è nelle clausole successive che emergono le criticità; l’accordo, infatti, prevede che nei casi in cui la pena si concluda con l’espulsione, si possa attivare una procedura di rimpatrio forzato. Un dettaglio che apre la strada a interpretazioni estensive e che potrebbe trasformare la “scelta volontaria” in un automatismo. Il nodo del consenso - Il punto più controverso è dunque quello del consenso: in teoria, nessun trasferimento dovrebbe avvenire senza l’ok del detenuto. Ma quanto può valere un “sì” espresso all’interno di una prigione libica? In un contesto in cui i detenuti subiscono quotidianamente violenze, torture e minacce, parlare di libertà di scelta rischia di essere poco più che una finzione. Il pericolo è sostanzialmente che il consenso venga estorto o imposto, trasformando un principio di tutela in un meccanismo di facciata; è la differenza tra una clausola scritta sulla carta e la sua applicazione in un contesto dove lo Stato di diritto è assente. I rischi - Oltre alla questione del consenso, l’accordo nasconde una serie di altri rischi concreti, che sembrano andare ben oltre le intenzioni dichiarate e che potrebbero toccare direttamente i diritti fondamentali delle persone coinvolte: Condizioni di detenzione: le carceri libiche sono state più volte descritte come luoghi di tortura, stupri e violenze sistematiche; trasferire detenuti dall’Italia significherebbe esporli a un destino che viola apertamente le convenzioni internazionali sui diritti umani. Perdita di controllo: una volta trasferito il detenuto, l’Italia non avrebbe alcun potere di monitorare cosa accade dopo. Nessuna garanzia di accesso indipendente, nessuna certezza sulle condizioni effettive. Strumento di pressione: il trattato potrebbe trasformarsi in un’arma di ricatto diplomatico; la Libia ha già dimostrato di saper usare il tema dei migranti come leva nei rapporti con l’Europa; i detenuti rischierebbero di diventare un ulteriore tassello di questa dinamica. Le radici del trattato - Per capire le origini dell’accordo bisogna però tornare indietro all’estate 2023, quando il presidente della Camera libica, Aguila Saleh, chiese al ministro della Giustizia italiano Carlo Nordio di riaprire il dossier di cinque cittadini libici condannati in Italia a trent’anni di carcere. La condanna riguardava la cosiddetta “strage di ferragosto” del 2015: un viaggio della speranza finito in tragedia, con 49 persone migranti, partite dalla Libia, morte asfissiate nella stiva di un barcone a poche miglia da Lampedusa; allora cinque scafisti libici furono arrestati e condannati in Italia a 30 anni. Quella richiesta politica aprì un fronte delicatissimo: da un lato la volontà libica di riportare a casa i propri connazionali condannati; dall’altro la necessità dell’Italia di non incrinare i rapporti con un partner già instabile ma strategico sul fronte migratorio ed energetico. L’accordo di Palermo è nato proprio in questo contesto, e cioè più come strumento di mediazione politica che come iniziativa di cooperazione giudiziaria pura. Il precedente: il caso Almasri - A questo si aggiunge la vicenda recente del generale Njeem Osama Almasri, accusato di torture nei centri di detenzione libici. Arrestato in Italia, è stato riconsegnato (con un volo italiano) a Tripoli in tempi rapidissimi, in assenza di un accordo già operativo. La scelta del governo Meloni ha sollevato fortissime polemiche, perché sembrava motivata più da pressioni politiche e da esigenze diplomatiche che da un iter giudiziario trasparente. Il caso di Almasri dimostra che la Libia è già in grado di condizionare le decisioni italiane, e che la cooperazione giudiziaria rischia di trasformarsi in un terreno di scambio politico piuttosto che in un quadro regolato da principi di diritto. Il Parlamento spaccato - In Senato, il trattato è stato approvato con una netta spaccatura politica: la maggioranza l’ha difeso come un passo avanti nelle relazioni bilaterali con la Libia, parlando di “cooperazione rafforzata” e di “nuove opportunità di dialogo”. Le opposizioni, al contrario, hanno bocciato l’accordo definendolo “inaccettabile”: un’intesa che, denunciano, tratta i detenuti come pacchi da spedire, ignorando volutamente le condizioni disumane delle carceri libiche. Questa contrapposizione politica riflette due visioni inconciliabili: da una parte l’approccio pragmatico, che considera prioritario mantenere un rapporto solido con Tripoli, anche a costo di “qualche compromesso sui diritti”. Dall’altra c’è chi rivendica la necessità di difendere principi fondamentali come lo Stato di diritto, la dignità della persona e il rispetto delle convenzioni internazionali. La ratifica-lampo del Senato non cancella insomma le domande di fondo, che restano tutte sul tavolo: Si può davvero parlare di “cooperazione giudiziaria” con un Paese dove la giustizia è in mano alle milizie armate? È credibile la clausola del consenso, se applicata in un contesto dove i diritti umani sono sistematicamente violati? E, poi, l’Italia è pronta ad assumersi la responsabilità morale e politica delle conseguenze che potrebbero derivare da questo accordo? Donne uccise: populismo penale e nulla di più di Franco Corleone L’Espresso, 12 settembre 2025 Basta introdurre un’aggravante nel Codice e sostituire uomo con persona e non l’ergastolo per legge. L’8 marzo, data scelta per un tributo retorico alle donne, il governo aveva presentato un disegno di legge per la codificazione secca del femminicidio con la previsione automatica della pena dell’ergastolo e giustamente Milli Virgilio lo definì una polpetta avvelenata. Di fronte a un coro di obiezioni e critiche di giuristi e di pensatrici femministe è stata scelta la strada del confronto attraverso audizioni ed emendamenti e così è stato approvato un testo all’unanimità da parte del Senato il 23 luglio e che ora sarà esaminato dalla Camera dei deputati (atto n. 2528) con il titolo “Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”. Si sarebbe potuto optare per l’inserimento di una circostante aggravante all’art. 577 del Codice penale che avrebbe previsto la pena dell’ergastolo, si è invece preferito la norma manifesto e la pena perpetua, che ha come precedente l’art. 276, l’attentato contro il Presidente della Repubblica nel Capo dei delitti contro la personalità dello Stato: un esempio dell’impostazione autoritaria del Codice Rocco. Bene ha fatto la senatrice Cecilia D’Elia nella discussione a ricordare un pensiero di Grazia Zuffa tratto dal saggio “Uomini che uccidono le donne: né mostri né matti”, pubblicato nella rivista “Il vaso di Pandora”, dedicato al femminicidio, che metteva in guardia dal populismo penale. Diceva Zuffa, segnalando anche una possibile contraddizione, a rigor di logica femminista: “Il femminicidio è parte della cultura patriarcale, in un continuum di subordinazione della donna fino alla sopraffazione violenta e, all’estremo limite, alla sua uccisione. In questo senso, il femminicida non è un “mostro”, anzi incarna la “normalità” del Male dell’oppressione femminile da combattere politicamente, verso il riequilibrio di potere fra i sessi: e, tuttavia, “mostro” lo diventa lo stesso, per la forza della logica del penale. Sia perché il penale deve identificare in maniera rigorosa il reato, con ciò marcando una linea netta fra legalità/normalità e illegalità come anormalità (da cui la tendenza intrinseca alla “mostrificazione” del criminale); sia perché il “femminismo punitivo” ci mette il suo carico, poiché vede nel femminicida il simbolo (odioso) della cultura patriarcale di violenza del maschio sulla femmina: ambedue da mettere al bando”. Nel caso di una uccisione di una donna fuori dai casi descritti dal nuovo articolo 577bis (atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come controllo o possesso o dominio o in relazione al rifiuto della donna a instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come limitazione delle libertà individuali), si applica l’articolo 575, sull’omicidio che recita così: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. È accettabile che per la morte di una donna si faccia riferimento a quella di un uomo? Ricordiamo che la violenza sessuale era classificata “contro la morale” e non “contro la persona”. Il Codice penale mostra una pretesa di “neutralità di genere” e questa occasione di rivendicazione di una ottica di genere deve imporre almeno la sostituzione di “uomo” con “persona”, superando l’eguaglianza formale e ipocrita di una universalità maschile. Le carriere separate e quella “ombra” dell’Art. 74 della Carta di Alberto Cisterna Il Dubbio, 12 settembre 2025 Nella seduta dell’Assemblea costituente del 3 dicembre 1947 (in A. C., pag. 4327) si giocò una disputa che, per molti decenni a seguire, ha incuriosito e arrovellato i soli costituzionalisti. Si discuteva del potere del presidente della Repubblica di non procedere alla promulgazione di una legge costituzionale, così come accade per le leggi ordinarie (articolo 74). Ritirato l’emendamento dell’on. Preti che negava espressamente il rinvio delle fonti costituzionali, venne invece accolta la proposta dell’on. Perassi di rimettere alla prassi la soluzione della delicata questione. Naturalmente non vi sono precedenti, se non la lettera, inviata il 22 ottobre 2010 da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione affari costituzionali del Senato e, per conoscenza, ai presidenti dei due rami dell’Assemblea, in cui il presidente della Repubblica condensava tutte le proprie perplessità in ordine ad alcuni snodi della proposta di legge costituzionale 2180/ S (il cd. lodo Alfano costituzionale), variamente tendenti ad alterare lo status del capo dello Stato. Per il resto ci si è sempre affidati alla penetrante moral suasion che, come noto, il Colle esercita sui provvedimenti legislativi di origine governativa al momento del loro inoltro alle Camere. Una nota previa che non deve considerarsi eccentrica e che, piuttosto, molto potrebbe avere a che vedere con la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere che è al giro di boa per la seconda lettura in Parlamento. Il Quirinale, come presidente del Csm, e quale destinatario di una parte non marginale del disegno di legge costituzionale in discussione che prevede, anche, lo sdoppiamento e il mero sorteggio dei componenti dell’organo di autogoverno ha - come dire - necessariamente assunto un profilo prudente e attento per non essere coinvolto in un dibattito che si profila al calor bianco in vista del previsto referendum confermativo; il cui epilogo è percepito come la madre di tutte le battaglie nel preteso regolamento dei conti tra magistratura e politica. Eppure, potrebbe restare sullo sfondo, come un incubo per la maggioranza che sostiene la riforma, la possibilità che il Quirinale possa azzerare l’intero iter parlamentare e imporre ai sensi dell’articolo 74 una “seconda” doppia lettura alle Camere, iniziativa questa che escluderebbe una conclusione utile del percorso parlamentare ossia l’approvazione della riforma entro la legislatura in corso. Non si intende, ovviamente, “tirare per la giacchetta” la massima autorità costituzionale del paese, ma solo considerare alcuni punti della questione che anche l’avvocatura tutta dovrebbe attentamente prendere in considerazione proprio a procedere dalla collocazione che il disegno di legge assegna al presidente della Repubblica nel nuovo assetto della giurisdizione. Uno. È certo che la locuzione “separazione delle carriere” sia una vera e propria truffa delle etichette; la riforma non separa le carriere dei magistrati, ma come autorevolmente quanto solitariamente prospettato (F. Adornato) realizza una netta separazione dei poteri, spacchettando il potere giudiziario in un potere requirente e in un potere giudicante. La nota geometria dei poteri dello Stato vedrebbe il sorgere di un nuovo potere costituzionale tutto organizzato esclusivamente intorno alla funzione inquirente e requirente. Due. Come questo enorme upgrading costituzionale si renda compatibile con la parità delle parti processuali ai sensi dell’articolo 111 Cost. resta un mistero. Mentre l’avvocatura non ha alcun segno tangibile ed esplicito di riconoscimento nella Carta costituzionale, il pubblico ministero si vedrebbe conferita una dignitas e, quindi, una auctoritas che la Costituzione vigente non solo non ha previsto, ma non neppure voluto. Attualmente, infatti, l’articolo 107 si limita a prevedere uno status del pubblico ministero, dal punto di vista delle guarentigie costituzionali, non perfettamente speculare a quello del giudice (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”) con una copertura “debole” della propria autonomia e indipendenza; e sebbene l’articolo 104 reciti che l’intera “magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, l’articolo 101 che reca l’introito di principio alle norme sulla giurisdizionale - non a caso puntualizza che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e non il pubblico ministero. La riforma Nordio, probabilmente nel tentativo di esorcizzare ogni dubbio e ogni sospetto circa un’eventuale soggezione del pubblico ministero al potere esecutivo, ha esaltato il potere inquirente sino al punto da collocarlo a fianco del potere giudicante (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”), in una simmetria che non prevede eccezioni di sorta; al punto che per entrambi i Csm di nuovo conio si è previsto che al loro vertice vi sia il presidente della Repubblica. Questa collocazione, sia detto con la necessaria franchezza, rende allo stato strumentali e inconsistenti le preoccupazioni di quanti tratteggiano scenari “gelliani” nell’intento della maggioranza; è chiaro che sia costituzionalmente improponibile che la presidenza della Repubblica si possa trovare al vertice di un ordine inquirente controllato dall’esecutivo, poiché indirettamente questo controllo si estenderebbe sino al Quirinale dimidiato e svilito proprio perché posto a capo di una corporazione di funzionari sostanzialmente amministrativi dipendenti dal Governo. Tre. È vero, però, che anche dando corso alla (nuova) piena autonomia e indipendenza del potere requirente, la riforma Nordio colloca la presidenza della Repubblica in una dimensione non collimante con la trama complessiva delle norme costituzionali che riguardano il capo dello Stato (come si ricordava già nel 2010 per altre ragioni). La Costituzione, infatti, solo all’articolo 87, dopo aver minutamente regolato le modalità di elezione del presidente, ha precisato le funzioni quirinalizie stabilendo che “il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”. Un enunciato di somma rilevanza giuridica e assiologica che mal si concilia con la prevista modifica dello stesso articolo 87 che consegna al capo dello Stato la presidenza di entrambi i Csm, poiché quell’unità di rappresentanza è contraddetta dall’esclusione dell’avvocatura e, quindi, della difesa dal massimo patrocinio istituzionale. In altri termini: non si può immaginare di collocare il presidente della Repubblica in un ordito costituzionale che ne contraddica la matrice unitaria e rischi di schierarlo sul versante di una parte processuale (si pensi solo alla prassi del Csm delle cc. dd. pratiche a tutela dei singoli magistrati o degli uffici inquirenti). Quattro. Tornando, quindi, alla possibilità che il presidente della Repubblica non promulghi la legge costituzionale di separazione dei poteri dopo il completamento della doppia lettura parlamentare, deve tenersi in conto che la migliore dottrina costituzionalistica, e in tempi non sospetti, ha ritenuto che questo potere di rinvio di un disegno di legge costituzionale possa/ debba essere esercitato ogni qualvolta la modifica della Carta fondamentale intacchi il principio di separazione dei poteri e, quindi, il costante mantenimento di efficaci meccanismi di checks and balances (da ultimo, Romboli, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, in Luciani - Volpi (a cura di), Il Mulino, 1997, pag. 297 e, con diverse sfumature Modugno, Mortati, Pizzorusso, Cuocolo, Galeotti, Pezzini e altri) nonché, comporti violazione del principio di ragionevolezza. Il passaggio al Colle, quindi, si prospetta come non scontato e puramente neutrale, poiché la riforma intacca proprio prerogative e funzioni della presidenza della Repubblica e, quindi, potrebbe costringere il Quirinale a un rinvio alle Camere dagli effetti non prevedibili. Almasri, su Bartolozzi il governo valuta il ricorso alla Consulta di Irene Famà e Francesco Malfetano La Stampa, 12 settembre 2025 L’obiettivo è estendere l’immunità alla capo di gabinetto di Nordio. Un anno fa Meloni voleva sostituire il ministro con Chiara Colosimo. I rapporti con le milizie libiche, il governo che temporeggia sino a far scadere i termini e a lasciare libero il generale accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, le contraddizioni, i dietrofronti. La giunta per le autorizzazioni a procedere affronta l’affaire Almasri, ma a tenere banco è la questione Giusi Bartolozzi. La capo di gabinetto del ministero della Giustizia è indagata dalla procura di Roma per aver mentito ai giudici quando è stata sentita come testimone sul caso. E la maggioranza tenta di temporeggiare, nella speranza di salvarla, pensando a un possibile ricorso alla Consulta. La giunta è chiamata a decidere se far scattare o meno l’immunità per il Guardasigilli Carlo Nordio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano responsabili, secondo il tribunale dei ministri, di omissioni e garbugli che hanno portato alla liberazione del generale, arrestato su mandato internazionale, e al suo rimpatrio con un volo di Stato. Bartolozzi, potente collaboratrice di via Arenula, è però una figura “laica” e Fratelli d’Italia, in accordo con tutta la maggioranza, ha sollecitato gli uffici per capire se è possibile sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione da parte della Camera nei confronti dell’autorità giudiziaria. Una strada, insomma, per ampliare l’ombrello dell’immunità anche a lei. Riccardo Magi di +Europa li definisce degli “azzeccagarbugli”, mentre dal Movimento 5 Stelle attaccano: “La loro logica è nota da decenni: scappare dalla giustizia, sfruttando le posizioni di potere”. Questione complessa quella del caso Almasri. Durante la riunione della Giunta per le autorizzazioni, il relatore Federico Gianassi (Pd) ripercorre la vicenda e le accuse mosse ai vertici dell’esecutivo. Non solo. Nelle trentasei pagine di relazione ricorda i rapporti tra l’Italia e le milizie libiche sulla questione immigrazione e ricostruisce quei giorni concitati di metà gennaio in cui il ministro della Giustizia “omette di intervenire” e la premier Giorgia Meloni, “nel difendere la scelta del governo”, punta il dito contro le toghe: “L’espulsione di Almasri è avvenuta per ragioni di sicurezza nazionale, dopo che la magistratura ne ha disposto la scarcerazione”. Ma sarebbe bastato un intervento del Guardasigilli per cambiare il finale di questa storia. La ricostruzione di Gianassi è precisa, scrupolosa. Legge tutte le trentasei pagine, non tralascia nulla, e raccontano che sia tra l’opposizione sia tra i compagni di partito c’è stato chi ha mostrato qualche segno di insofferenza. Nessuno, però, ha espresso perplessità sulla relazione, la preoccupazione maggiore pare sia stata la questione Bartolozzi. A Palazzo Chigi non lo dicono apertamente, ma l’amarezza è palpabile. La nuova esplosione del caso Bartolozzi ha scavato un fossato di silenzio tra i vertici di Fratelli d’Italia e la capo di gabinetto del Guardasigilli. Ed è proprio questo silenzio, raccontano alcuni parlamentari di lungo corso, a rievocare un episodio che nei palazzi romani non si è mai davvero dissolto. Fine luglio 2024, Transatlantico di Montecitorio. Le Europee sono appena passate, sui giornali stanno per rimbalzare i sospetti di un complotto giudiziario contro Arianna Meloni, il caso dossieraggi denunciato da Guido Crosetto e, soprattutto, l’affaire Sangiuliano-Boccia. In quel clima e dopo mesi di tensione con Palazzo Chigi, un cambio in corsa al ministero della Giustizia appare più che probabile un po’a tutti. Altro che difficoltà a trovare un successore - come si scrisse allora. In realtà Giorgia Meloni aveva già scelto il nome: Chiara Colosimo. Tanto che nei corridoi di Montecitorio la presidente dell’Antimafia veniva salutata da alcuni autorevoli esponenti della maggioranza come “la nuova ministra”. Poi, la frenata. Fu la stessa premier a congelare il piano, convinta dai suoi fedelissimi che un altro terremoto avrebbe minato l’immagine del governo. Meglio, dissero, imbrigliare Nordio stringendo un patto con chi ne controllava umori e mosse: Giusi Bartolozzi, da pochi mesi promossa da vicecapo a capo di gabinetto. Un compromesso che allora sembrò la soluzione, ma che oggi - confidano attorno alla premier - appare come un errore di cui Meloni si sarebbe amaramente pentita. Le verità di Giusi Bartolozzi sul caso Almasri di Ermes Antonucci Il Foglio, 12 settembre 2025 I magistrati accusano la capo di gabinetto di Nordio di aver detto il falso, ma dalle carte emerge l’opposto. Le deduzioni fantasiose dei pm. E se Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, sul caso Almasri avesse detto la verità, quando ha riferito di non aver mai sottoposto al ministro della Giustizia la bozza del provvedimento che avrebbe evitato la scarcerazione del generale libico? La decisione della procura di Roma di indagare Bartolozzi per “false dichiarazioni” al Tribunale dei ministri appare più che forzata, quasi abnorme proprio sulla base delle carte depositate dai magistrati e anche della prassi che, come riferiscono al Foglio più fonti con una certa esperienza nei corridoi di Via Arenula, regola i rapporti tra il Guardasigilli e il capo di gabinetto. Nella sua relazione, il Tribunale dei ministri qualifica come “inattendibile e mendace” la versione fornita da Bartolozzi ai giudici per due ragioni principali. Tutto ruota attorno alla mancata sottoposizione da parte di Bartolozzi al ministro Nordio della bozza di provvedimento che era stata intanto preparata dal Dipartimento affari di giustizia e che avrebbe consentito di convalidare l’arresto ed evitare la scarcerazione del generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale. Ai giudici Bartolozzi ha riferito di non aver nemmeno presentato al ministro Nordio la bozza del provvedimento, anche perché quest’ultimo doveva valutare “un quadro molto più complesso”, che chiamava in causa anche informazioni provenienti dai servizi segreti. Un riferimento indiretto alle conseguenze negative che l’arresto di Almasri avrebbe potuto generare per la situazione degli italiani in Libia, come riferito ai giudici proprio dal direttore dell’Aise (i servizi segreti per l’estero), Giovanni Caravelli. Eppure per il Tribunale dei ministri la versione di Bartolozzi sarebbe “intrinsecamente contraddittoria” dal momento che lei stessa ha dichiarato che col ministro Nordio si sentiva “quaranta volte al giorno”: “Sempre ogni cosa che arriva... noi ci sentiamo immediatamente”. In secondo luogo, le dichiarazioni di Bartolozzi sarebbero false perché sarebbe “logicamente insostenibile che si sia arrogata il diritto di sottrarre al ministro un elemento tecnico da valutare e tenere in considerazione ai fini della decisione da assumere”. Anche perché così facendo “avrebbe derogato alla prassi costantemente seguita di informare il ministro di ogni cosa”. A ben vedere, sono le osservazioni del Tribunale dei ministri a risultare contraddittorie, per quanto poi siano state prese come oro colato dalla procura di Roma. Bartolozzi infatti ha riferito al Tribunale che era sua abitudine sentire il ministro numerose volte al giorno, ma non ha mai detto che era sua prassi sottoporgli ogni bozza elaborata dai singoli dipartimenti, cosa del resto inconcepibile per chiunque abbia conoscenza di come funzioni l’attività del ministro della Giustizia. Quest’ultimo ogni giorno trova sulla propria scrivania una pila alta un metro di documenti (decreti, protocolli d’intesa, proroghe di carcere duro, ordini di servizio, ecc.) da firmare. Sarebbe impensabile se al ministro venissero anche sottoposte le bozze predisposte dai dipartimenti, in un ping-pong che rischierebbe di essere infinito. La verità è molto semplice ed è rintracciabile in una dichiarazione resa da Bartolozzi al Tribunale dei ministri, ma da questo poi “dimenticata” nelle sue osservazioni conclusive: “Gli uffici tecnici preparavano le bozze di provvedimento che lei sottoponeva al ministro; lei riferiva al ministro che sceglieva e lei gli portava la bozza in linea con i desiderata del ministro”. E’ ormai chiaro quali fossero i “desiderata” del ministro, o per meglio dire del governo (e dei servizi), che ha comunque commesso l’errore originario di non porre il segreto di stato sull’intera vicenda: evitare il mantenimento in carcere di un soggetto fondamentale per gli accordi diplomatici con la Libia nella lotta all’immigrazione clandestina. Se questi erano i desiderata di Nordio e del governo, non si comprende per quale ragione Bartolozzi avrebbe dovuto sottoporre al ministro della Giustizia una bozza di provvedimento che andava nella direzione opposta. La decisione di Bartolozzi, dunque, non è affatto “contraddittoria”, né ha portato a “sottrarre al ministro un elemento tecnico da valutare”, come sostiene il Tribunale dei ministri, ma si è semplicemente allineata con la scelta politica assunta sul caso dal ministro Nordio in accordo col governo. Le conclusioni del Tribunale dei ministri si basano quindi su mere deduzioni non suffragate dalla logica e dalla prassi in uso a Via Arenula. Deduzioni colte al balzo dai pm romani, che in questo modo hanno potuto muovere contro Bartolozzi un’ipotesi di reato non “in concorso” con quelli contestati agli esponenti del governo, escludendo la capo di gabinetto dalla procedura di richiesta di autorizzazione a procedere. Mettendo così nei guai la maggioranza. Detenuti, perquisizione con denudamento da autorizzare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2025 La Cassazione, sentenza n. 30544 depositata oggi, ha accolto con rinvio il ricorso dell’imputato condannato per resistenza a pubblico ufficiale. Non scatta il reato di resistenza a pubblico ufficiale per il detenuto che si rifiuta di sottoporsi a una perquisizione “con denudamento” in assenza di una specifica autorizzazione in merito. Lo ha stabilito la Cassazione penale, sentenza n. 30544 depositata oggi, accogliendo con rinvio il ricorso dell’imputato contro la decisione della Corte di appello di Napoli che l’aveva condannato ex art. 337 codice penale. Al detenuto veniva contestato di aver usato minaccia e violenza per sottrarsi alla perquisizione disposta al termine di un colloquio con i familiari; denunciando: “Voi fate un abuso di potere”. L’imputato ha lamentato il mancato riconoscimento della causa di giustificazione prevista dall’art. 393 bis cod. pen., per il caso in cui, un pubblico ufficiale abbia ecceduto i limiti delle proprie attribuzioni. In particolare, la reazione all’ordine di spogliarsi, secondo il ricorrente, trovava ragione nel fatto che la perquisizione “particolarmente invasiva”, sarebbe stata disposta senza un “motivato autorizzatorio”. Per la VI Sezione penale il ricorso è fondato. La mancata autorizzazione, sostenuta dall’imputato, osserva la Corte, non è contestata. Inoltre, quest’ultimo per rimarcare il comportamento anomalo degli agenti aveva sottolineato il fatto che la sanzione inflittagli era stata “particolarmente lieve” (tre giorni di isolamento), rispetto ad altri casi analoghi. Il giudice di appello, ricostruisce poi la Cassazione, aveva affermato che non vi sarebbero ragioni per dubitare di quanto affermato dalla polizia penitenziaria, e cioè che si trattava di una “perquisizione ordinaria e non con denudamento”. Per la Corte di secondo grado, infatti, le dichiarazioni della Polizia sarebbero “attendibili” in quanto prive di un “interesse inquinante”, mentre quelle dell’imputato sarebbero “di per sé” dotate di una “minore capacità dimostrativa” dei fatti narrati “in assenza di qualsivoglia riscontro”. Per la Cassazione il ragionamento “non può essere condiviso”. Considerato il rilievo del tema nel processo, si legge nella decisione, esso avrebbe dovuto essere “accertato con rigore”; mentre le deposizioni del personale di polizia penitenziaria “non potevano di per sé esautorare da approfondimenti probatori, essendo gli agenti soggetti non del tutto terzi rispetto alla ricostruzione alternativa dell’imputato”. In definitiva, per la Suprema corte il quadro complessivo non è chiaro. Il giudice del rinvio dovrà allora procedere con un nuovo giudizio chiarendo i seguenti punti: a) se fossero presenti, oltre agli agenti, altre persone; b) quali erano le procedure ordinarie dopo i colloqui; c) quali i rapporti dell’imputato con gli agenti; d) cosa fu accertato nel procedimento disciplinare; e) se la tesi della perquisizione arbitraria fu sostenuta sin da subito; f) quale sanzione disciplinare veniva inflitta per comportamenti di quel tipo; e) se vi erano stati in precedenza comportamenti abusivi da parte degli agenti. Spoleto (Pg). Detenuto muore in carcere. Sappe: “Carceri in collasso” di Simone Francioli umbriaon.it, 12 settembre 2025 Un detenuto tossicodipendente è morto mercoledì pomeriggio nel carcere di Spoleto. A denunciarlo è il segretario per l’Umbria, Fabrizio Bonino: “Ancora una volta le carceri umbre sono teatro di gravissimi episodi che confermano lo stato di profonda emergenza in cui versano gli istituti penitenziari della nostra regione. A Spoleto è deceduto un detenuto tossicodipendente di origini extracomunitarie, nonostante i tempestivi interventi del personale di polizia Penitenziaria e sanitario. Un episodio tragico le cui dinamiche sono al vaglio della magistratura, ma che si inserisce in un contesto già fortemente critico”. C’è anche altro: “Solo a inizio settimana, nello stesso istituto spoletino, sono stati rinvenuti nel cortile di alta sicurezza 7 smartphone, una chiavetta Usb, 3 sim card e materiale per la ricarica, con ogni probabilità introdotti con l’utilizzo di un drone. Un ritrovamento - prosegue Bonino - che segue di pochi giorni il sequestro di due ingenti quantitativi di droga destinati a un detenuto. Nella stessa mattinata e nello stesso reparto detentivo, una violenta rissa fra detenuti è stata sedata a fatica dai pochi agenti presenti ed intervenuti, i quali, però, a loro volta, sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso a causa delle lesioni riportate”. Problemi anche ad Orvieto, dove sono “stati ritrovati 4 telefoni cellulari e 80 grammi di sostanza stupefacente, introdotti attraverso lanci mirati dall’esterno, oltre il muro di cinta. Solo lunedì scorso, sempre a Orvieto, un Ispettore di Polizia Penitenziaria è stato oggetto di una violenta aggressione da parte di un detenuto straniero, riportando ferite che hanno necessitato una prognosi iniziale di 30 giorni. Tutti questi eventi critici non possono certamente essere impediti se non attraverso l’invio in Umbria di un contingente di uomini importante che possa sanare le storture colpevolmente operate negli anni scorsi da un’Amministrazione regionale toscana che non abbiamo difficoltà a definire matrigna”. Il sovraffollamento in Umbria - spiega il Sappe - fa registrare un tasso del +24,64%, mentre in Toscana è del 3,29%: “Le condizioni di lavoro del personale sono da troppo tempo al limite dell’umana sopportazione”, l’ennesimo sos di Bonino. Roma. Rebibbia piange Daniela e Flavio: altre due morti che si potevano evitare di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 12 settembre 2025 Sabato mattina eravamo ancora sotto l’impressione del suicidio di Daniela Zucconelli a Rebibbia femminile, quando si è diffusa la notizia che Flavio Evangelista (inutile nascondere i cognomi, ormai) si era tolto la vita al braccio G12 di Rebibbia Nuovo Complesso. Vi ricordate di Flavio? Avevamo raccontato la storia del suo tentato suicidio, avvenuto l’8 luglio al nostro braccio G8. Era stato salvato per miracolo dai suoi compagni di cella e da altre persone detenute e poi ricoverato nella terapia intensiva di un ospedale esterno al carcere. 35 anni, malato di cancro al terzo stadio, con diverse metastasi, aveva compiuto quel gesto estremo anche perché non riceveva nessuna terapia da 3 mesi e mezzo. Dopo il ricovero in ospedale era stato riportato, come se nulla fosse, al nostro braccio, per poi essere trasferito in una cella con 6 persone al braccio G12. Erano riprese le terapie? Era tenuto sotto sorveglianza a vista dopo il suo gesto estremo? Non lo sappiamo, ma sappiamo che Flavio, oltre a essere ammalato, era un tossicodipendente grave, che aveva commesso i suoi reati proprio per questa dipendenza. Quindi non sarebbe dovuto stare in carcere, ma ai domiciliari o ricoverato in una comunità terapeutica. Sta di fatto che sabato mattina, quando i suoi compagni erano usciti dalla cella per andare all’aria, Flavio ha avuto il tempo di preparare un altro cappio con le lenzuola per appendersi alle sbarre della finestra. Questa volta il suo gesto gli è stato fatale e non è bastato il trasporto in ospedale per salvarlo. Un’altra morte annunciata, una morte che si poteva evitare. No, signor ministro Nordio, non è bastata una cella affollata per impedirgli il suicidio - come lei aveva ipotizzato in una sua agghiacciante battuta, in cui ha sostenuto che il sovraffollamento aiutava le persone detenute a vigilare le une sulle altre. Non si è riusciti a trasferirlo in una comunità terapeutica - dove Lei, signor Ministro, immagina di portare migliaia di persone detenute tossicodipendenti, come ha promesso nel Consiglio dei ministri del 22 luglio scorso. Non è stato mandato neanche agli arresti domiciliari, dove era già stato nel corso della sua detenzione, perché non si è trovato nessun domicilio dove potesse stare, visto che non aveva una famiglia che lo accogliesse. Agli atti del nostro ufficio di scrivano, rimangono le sue reiterate richieste di essere trasferito in un carcere del Molise, per rimanere più vicino ad una delle sue due figlie di 9 e 18 anni. Neanche questo è stato possibile, probabilmente perché anche in quegli istituti non c’è nessun posto libero. Signor Ministro, con Daniela e Flavio, siamo arrivati a 60 suicidi dall’inizio dell’anno. Morti assurde, che si sarebbero potute evitare se i nostri istituti di pena non fossero al collasso, in un inverosimile sovraffollamento, senza personale per la vigilanza e il trattamento, senza prospettive di riforma e senza speranza. Signor Ministro, lei continua a pensare che il nostro Stato “perderà la faccia” se sarà approvato un provvedimento finalizzato a ridurre il sovraffollamento carcerario? Non le sfiora l’idea che il nostro Stato la sua credibilità l’abbia già persa, assistendo inerte a queste morti assurde? Milano. Luigi Pagano: “Voglio far dialogare Terzo settore e carcere” di Ilaria Dioguardi vita.it, 12 settembre 2025 Nominato dal sindaco Beppe Sala come Garante delle persone private della libertà personale del capoluogo lombardo, Luigi Pagano dice: “Milano è una città ricca di volontariato di grande qualità, forse manca una logica di insieme per quanto riguarda il carcere”. Dopo 40 anni di lavoro in carcere “mi sembra il coerente completamento”, dice Luigi Pagano, fresco di nomina come garante delle persone private della libertà personale di Milano. Direttore di diverse carceri italiane, tra cui San Vittore dal 1989 al 2004, è stato vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap. “L’aspetto sociale è quello che mi interessa di più. Vedendo la popolazione detenuta di oggi, per me è molto importante l’interfaccia con il territorio”. Pagano, lei nel 2019 era andato in pensione lasciando il posto di comando al Dap regionale. Come mai ha deciso di continuare a dare il suo contributo? Mi sembra il coerente completamento di 40 anni di lavoro in carcere, prendendolo da una prospettiva interessante, che è quella del lavoro con gli enti locali che oggi è, forse, l’aspetto più importante del carcere. Mentre un tempo si aveva una composizione detenuta di un certo tipo (la “mala milanese” per intenderci), oggi negli istituti di pena ci sono persone emarginate, con questo non voglio dire che per colpa dell’emarginazione commettono reati, ma sicuramente hanno degli handicap già dall’inizio. Quando parla di emarginati a chi si riferisce? Le carceri sono piene di irregolari, tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici, poveri. Sono persone verso le quali forse le politiche sociali sono molto più importanti di quelle penali. Magari come garante posso organizzare il settore esterno, posso essere un’interfaccia importante con il carcere per poter portare fuori molte persone ed attuare, anche in questi casi, l’Ordinamento penitenziario. Mi sembra abbastanza coerente con il mio percorso professionale, una strada verso la chiusura di un cerchio, che mi vede “dall’altra parte” stavolta, se così si può dire: sono garante dei diritti delle persone private della libertà personale dopo essere stato direttore di diverse carceri e vicecapo del Dap. Perché era urgente nominare subito un nuovo garante, dopo la fine del mandato, lo scorso, 6 agosto, di Francesco Maisto? Una volta che c’è un’istituzione di garanzia, bisogna dare continuità ad una figura che è importante. Magari non lo è ancora nei fatti perché è un’istituzione nuova, risale a dopo la sentenza Torreggiani che ci condannò in Europa (è una sentenza del Tribunale europeo dei diritti dell’uomo-Cedu, del gennaio 2013, che ha condannato l’Italia per il grave sovraffollamento delle carceri e per trattamenti inumani e degradanti, ndr). Deve ancora essere rodata e non soltanto il garante locale ma anche lo stesso garante nazionale. Però dare continuità a quest’istituzione è un modo per dire: “Noi ci occupiamo anche dell’aspetto penitenziario che in genere, ahimè, la politica tende a mettere da parte”. Nel suo lavoro di Garante, da dove comincerà? L’aspetto sociale è quello che mi interessa di più. Per me è molto interessante ed importante, come dicevo, l’interfaccia con il territorio: soprattutto in considerazione della composizione della popolazione detenuta di oggi. Già prima lo era, ma un tempo i detenuti in Italia avevano, nella maggior parte dei casi, una casa e una famiglia. Oggi invece molte persone nascono già con handicap di emarginazione: è la politica sociale che deve essere presente. Ne parlerò anche con l’Assessorato al Welfare del comune di Milano, credo che il primo passo sia quello di mettere insieme tutte le componenti sociali che sono disponibili. Con tutti coloro che vogliono partecipare, nel mondo del volontariato e del Terzo settore, vorrei che si creasse non solo la possibilità di aumentare le risorse da investire, ma anche di allocarle positivamente. Credo che l’interfaccia esterna sia molto importante, come l’accoglienza, un alloggio per dormire: tutto quello che può servire per fare un po’ a meno del carcere e risolvere qualche altro problema. Che significherebbe anche portare fuori un po’ di persone in strutture che possano ospitarle e diminuire (per quel che può essere fatto) il problema del sovraffollamento. Il fine pena della maggior parte dei detenuti è di uno-due anni, sono persone che potrebbero ottenere una misura alternativa. Ma molti non hanno una casa e non possono andare agli arresti domiciliari. Non c’è il lavoro, quindi non si possono far lavorare. Il sovraffollamento è un problema che in alcuni istituti tipo Bollate e Opera può essere gestito in una maniera diversa rispetto ad una casa circondariale, che ha limiti d’azione più ristretti. Lavorare con l’interfaccia esterna, secondo me, è fondamentale anche per cercare di aumentare delle attività che si possono fare nelle carceri. Milano è una città che già è ricca di volontariato di grande qualità, forse manca una logica di insieme per quanto riguarda il carcere, che bisogna cercare di aggregare. Bisogna soltanto coltivare il volontariato milanese e prendere tutto ciò che di buono si può, come del resto ha già fatto il precedente garante, Francesco Maisto, che è un maestro da questo punto di vista. Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della Giustizia, aggiornati al 31 agosto 2025, i detenuti sono 63.167, a fronte di una capienza regolamentare di 51.274 posti. Ma i posti disponibili sono, in realtà, 46.705 e il sovraffollamento raggiunge il 135%. Secondo un’analisi del garante nazionale delle persone private della libertà personale del 30 maggio scorso, in Lombardia l’affollamento negli istituti di pena raggiunge il 153,28%. Nell’ultima intervista che lei ha rilasciato a Vita, affermava che “non si può fare a meno di una misura deflattiva, che sia la liberazione anticipata, l’amnistia o l’indulto” e che “bisogna cambiare la cultura nelle carceri”. Continua a pensarlo? Assolutamente sì. Bisogna cambiare la cultura nelle carceri, delle carceri e sulle carceri. È chiaro che in una situazione di questo genere, in cui non parliamo di centinaia di persone, ma di migliaia e migliaia di persone, è evidente che soltanto con qualche misura deflattiva, se vuoi, puoi cambiare le cose. Le altre proposte (non ce ne sono state molte, in verità) sono abbastanza nebulose. L’unica proposta è quella di costruire dei container. Si tratta di 16 moduli prefabbricati in otto istituti penitenziari. Si è dovuto rifare il bando per un aumento nella stima dei costi, che sono lievitati a 45,6 milioni di euro, per 384 posti. La fine dei lavori è prevista per la primavera del 2026... Serviranno soltanto ad aumentare i detenuti e a diminuire lo spazio godibile per loro, che poi è il fondamento nella vita penitenziaria interna. I container toglieranno spazio ai cortili, a luoghi in cui poter fare delle attività. Consideriamo che l’Italia, con 65mila detenuti, fu condannata con la “sentenza Torreggiani”. Abbiamo superato le 63mila persone, non manca molto a quella cifra. I dati dei posti disponibili bisogna anche saperli analizzare. Ci spieghi meglio... Dobbiamo considerare il fatto che, nelle carceri, bisogna attuare delle distinzioni, le categorie non sono omogenee. C’è l’isolamento per motivi sanitari, di giustizia, di disciplina. C’è la media sicurezza, l’alta sicurezza, il 41 bis. Ci sono i nuovi giunti, le sezioni per le persone tossicodipendenti. Voglio dire che non si può calcolare che tutti i posti disponibili sono nelle sezioni in cui c’è effettivamente bisogno di ospitare le persone. Se c’è una sezione femminile di 100 posti e ci sono 50 detenute, 50 posti rimarranno vuoti. I cosiddetti posti disponibili, quindi, diventano meno di quanti vengono denunciati perché, a volte, sono in sezioni che non sono mai piene. La cosa eccezionale, rivoluzionaria, sarebbe quella di applicare le leggi. Come diceva Lucio Dalla: “L’impresa eccezionale è essere normale”. Noi in Italia sappiamo fare le cose eccezionali, ci riesce un po’ più difficile fare le cose normali, le cose che devono essere pensate ed organizzate. Se incominciamo a programmare, vediamo che da un punto di vista amministrativo, di organizzazione e burocratico, cominciamo a essere fallaci. Non si riesce a fare un discorso prospettico rispetto all’aumento dei detenuti, sarebbe fondamentale. La Corte Costituzionale ha sollecitato diverse volte il legislatore di tener conto anche del riflesso delle leggi sull’aspetto penitenziario. Se si continuano a emanare fattispecie penali, ma poi non ci sono i penitenziari con posti sufficienti, non si sa dove mettere le persone. A seguito di un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino del 5 agosto 2025, per la prima volta, un uomo ristretto nel carcere “Lorusso e Cotugno” ha ottenuto di scontare la pena ai domiciliari (anche) in ragione delle condizioni di sovraffollamento. Che significato ha, secondo lei, questa ordinanza? Questo pronunciamento è importante. Nel 2013, quando stavamo ancora lavorando per superare la crisi dopo la “sentenza Torreggiani”, ci fu una sentenza della Corte costituzionale, la 279, che dichiarò inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di sorveglianza di Venezia e Milano in merito al sovraffollamento carcerario perché non poteva occuparsene, spetta al legislatore. Ma contestualmente evidenziò la gravità della situazione detentiva, definendola “intollerabile” e in contrasto con i principi costituzionali e convenzionali, sollecitando il legislatore ad intervenire. Sono quei presupposti che poi ha adottato il Tribunale di sorveglianza di Torino. Spero che l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino possa essere il presupposto per una normativa ad hoc, così come chiedeva la Corte costituzionale già 12 anni fa. Torino. La Garante dei detenuti Monica Cristina Gallo, dieci anni dalla parte dei diritti di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 12 settembre 2025 La sala della Colonne del Comune non è riuscita a contenere tutti - volontari, operatori carcerari, rappresentanti delle istituzioni - che hanno voluto essere presenti per ascoltare l’ultima relazione di Monica Cristina Gallo, garante della libertà personale della Città di Torino, sulla situazione dei luoghi di detenzione torinesi. Segno - come ha sottolineato il sindaco Stefano Lo Russo - che la città e le realtà che ruotano attorno ai penitenziari sono grati alla garante per la passione e la dedizione con cui ha svolto il suo gravoso mandato. Sarà sostituita dalla romana Diletta Berardinelli, nominata il 10 settembre da Lo Russo. “Ci lascia un’eredità impegnativa per lo stile misurato ma coraggioso nel difendere i diritti dei detenuti in applicazione alla Costituzione che ci esorta a fare in modo che il tempo della pena sia dedicato alla rieducazione di è autore di un reato, spesso soggetti vulnerabili con alle spalle storie drammatiche”. Torino, tra le prime città d’Italia, nel 2004 ha istituito la figura del garante comunale delle persone detenute, e nel 2015 ha nominato per un quinquennio Monica Cristina Gallo, incarico riconfermato per altri cinque anni e scaduto nel luglio scorso. La nuova garante Berardinelli avrà un compito gravoso, come ha indicato la stessa garante che in questo decennio con il suo ufficio ha creato “una rete stabile di ascolto delle fragilità dei reclusi - 4340 i colloqui in 10 anni - e di collaborazione fra tutti i soggetti preposti a lavorare perché i diritti dietro le sbarre vengano rispettati”. Anche il nostro giornale è grato a Monica Cristina Gallo che ha incoraggiato la pubblicazione della rubrica “La Voce dentro” per sensibilizzare i nostri lettori sui temi della detenzione. La relazione della garante, sintesi di un corposo volume “Dieci anni dalla parte dei diritti”, redatto con Claudio Sarzotti, docente di Sociologia del diritto nell’Ateneo torinese che ha elaborato i dati dei luoghi di detenzione torinesi - il carcere “Lorusso e Cutugno”, l’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti” e il Centro di permanenza per il rimpatrio - ha denunciato ancora una volta le numerose criticità. Sovraffollamento cronico (alle Vallette i reclusi sono 1400 per circa mille posti disponibili), strutture fatiscenti e malsane, ristretti sempre più giovani, suicidi (14 a Torino in 10 anni su 648 in tutta Italia) e il diritto alla salute non garantito in un contesto dove l’uso di psicofarmaci è 5 volte superiore rispetto all’esterno. Un disagio diffuso emerso con forza dalla ricerca di Claudio Sarzotti che ha ricordato come negli istituti di pena torinesi è patito non solo dai ristretti ma anche dagli operatori carcerari che lavorano in strutture non adatte alla rieducazione ma finalizzate esclusivamente al contenimento punitivo del recluso. Ed è nella linea della denuncia della difesa dei diritti delle persone più fragili l’ultima proposta della garante e cioè l’intitolazione dell’Osservatorio sui trattamenti sanitari obbligatori (Tso) della Città di Torino - istituito durante il suo mandato - ad Andrea Soldi, malato di schizofrenia morto 10 anni fa a 45 anni in seguito ad un Tso. Il procedimento giudiziario avviato dai familiari si è concluso con una sentenza che ha accertato le responsabilità di chi ha eseguito erroneamente e in modo violento il trattamento. Cuneo. Quando il carcere diventa un’impresa: “Parliamo di dignità lavoro e autonomia” di Antonio Ferrero La Stampa, 12 settembre 2025 Il racconto Davide Danni, presidente di “Panaté Società Benefit”. Da domani a domenica Cuneo ospita il festival “Art.27 Expo - Fatti in carcere”. “Fino al 2019 non sapevo cosa potesse esserci dietro quelle mura, allora mi sono detto: se non possiamo portare la città dentro al carcere portiamo il carcere nelle città. Così è sorta l’idea di far nascere queste realtà di economia carceraria, metterle insieme e dire: facciamoci vedere, facciamoci conoscere, portiamo un messaggio di buone pratiche. Questo è il principio che ha sempre connotato questa manifestazione. Noi non vogliamo portare fuori la polemica, non portiamo fuori i limiti, non portiamo fuori tutte le cose che non vanno. Tutti sanno che ci sono tantissimi problemi irrisolti nelle carceri, ma se noi portiamo fuori delle buone pratiche che possono diventare modelli di stimolo, allora faremo qualcosa che potrà veramente essere utile per un cambiamento”. Tutto nasce nel 2019 - Davide Danni, presidente di “Panaté Società Benefit” e cofondatore dell’Associazione Art.27 che da tre anni organizza “Art.27 - Expo” a Cuneo, racconta l’origine della sua attività. “L’occasione di portare il lavoro in carcere nasce da un caso fortuito successo nel 2019, quando noi eravamo già operativi con un piccolo laboratorio di produzione di prodotti da forno. Avevamo cominciato a fare questi prodotti da utilizzare nell’ambito dei nostri locali e in modo fortuito veniamo in contatto con il dottor Gaetano Pessolano, responsabile dell’area trattamentale della Casa Circondariale di Cuneo, che viene a sapere che abbiamo questa attività esterna e così ci provoca dicendo: perché non venite a fare questo lavoro all’interno del carcere e provate a coinvolgere qualche detenuto nel processo di lavoro? Quindi siamo proprio passati dal negozio al carcere da perfetti ignoranti delle dinamiche di un carcere”. Aspetto umano ed economico - È molto istruttiva la vicenda di Danni e della sua società perché fin dall’inizio coniuga l’aspetto umano a quello imprenditoriale. “Quindi inizia questa avventura dentro al carcere, creando una sorta di modello ibrido tra un’attività profit tradizionale è un’attività non profit. Certo, è un modello particolare e difficile da gestire perché è un’impresa che deve avere anche una finalità di inclusione ma, al tempo stesso, deve limitare i rischi connessi a coinvolgere persone con fragilità e con delle storie alle spalle e che, ovviamente, vanno accompagnati in un percorso di inserimento”. “Non è volontariato, facciamo impresa” - In questa attività, però il fondatore della società Panatè è molto netto nello spazzare via i dubbi legati alle motivazioni della sua azione: non si tratta di volontariato ma di impresa attenta alla dignità umana. “Non esiste il concetto di volontariato né da parte loro né da parte nostra. Su questo tema c’è ancora poca chiarezza. Noi vogliamo fare impresa ma restituendo dignità alla persona e l’uomo ottiene la dignità quando ha un lavoro, se può portare soldi in famiglia, comprarsi le medicine, le sigarette. Il nostro obiettivo è che l’uomo torni a essere uomo. Il festival Art.27 Expo - Fatti in carcere - Ecco, il festival “Art.27 Expo - Fatti in carcere” che si apre domani e oggi ha la sua anteprima presso la casa circondariale di Cuneo con il tavolo tecnico “Il lavoro come strumento per l’attuazione del dettato costituzionale” (introdotto dal presidente del Cnel Renato Brunetta), vuole smentire questi luoghi comuni. La stessa differenziazione dell’offerta di eventi presenti a Cuneo da domani a domenica dimostra come quello dell’economia carceraria sia un tema che riguarda tutti, anche chi non ha alcun interesse per le sorti dei detenuti. Infatti, oltre ai diversi tavoli di riflessione tecnica, che riuniranno alcuni tra i principali esperti di tematiche legate alla giustizia e dell’organizzazione dei sistemi carcerari su scala nazionale, ci saranno numerose occasioni di approfondimento indirizzate alla cittadinanza nel suo complesso, con concerti, spettacoli teatrali, talk e presentazioni che uniranno libri, fumetti e poesia. La storia di Massimiliano Cirillo - In questo senso è esemplare il caso di Massimiliano Cirillo, un detenuto che nel 2019 ha iniziato a lavorare con noi, nel 2023 è stato scarcerato e da allora continua a lavorare con noi e tutti i giorni, da uomo libero, entra nel carcere di Cuneo e gestisce il laboratorio”. Una sfida che diventa nazionale - Da quest’anno, la sfida si allarga a tutto il territorio nazionale: “Alla fine ognuno di noi ha la possibilità di essere utile al cambiamento, ognuno per il suo ruolo ha la possibilità di essere parte attiva in questo percorso. L’obiettivo del festival e dell’associazione è avere la funzione di fare advocacy, richiamare l’attenzione e sensibilizzare il territorio”. La forza del progetto è proprio nella semplicità modesta con cui Davide Danni sintetizza la sua iniziativa: “Obiettivamente, non è nulla di strano rispetto cosa si faceva fuori: si tratta di coinvolgere delle persone dentro a un processo di lavoro insegnando loro un mestiere facendole sentire utili a un progetto che è anche di crescita personale”. Milano e Catanzaro. “Chance”, un progetto per sostenere i minorenni detenuti minori.gov.it, 12 settembre 2025 Si chiama “Chance” il progetto promosso da Terre des Hommes per favorire il dialogo tra minorenni detenuti, agenti e operatori offrendo nuove possibilità di espressione, crescita e comprensione reciproca. Il progetto - avviato a inizio 2025 con il sostegno di Enel Cuore, onlus del Gruppo Enel - coinvolge ragazzi, agenti e operatori degli Istituti penali per i minorenni di Milano e Catanzaro in percorsi laboratoriali che mirano a far emergere capacità e passioni dei ragazzi e degli agenti, attivando nuove risorse educative e relazionali. “Secondo i dati più recenti (30 aprile 2025) - si legge nel sito di Terre des Hommes - sono 611 i minori detenuti in Italia. Di questi, 72 si trovano al Beccaria di Milano - l’IPM con il più alto numero di presenze - e 25 a Catanzaro. I ragazzi detenuti che abbiamo incontrato portano con sé vissuti di estrema fragilità, oltre che storie traumatiche del viaggio migratorio che rendono più complesso l’approccio relazionale sia tra i pari che con le diverse figure adulte”. I primi tre laboratori, già realizzati, hanno aiutato giovani detenuti e agenti a valorizzare inclinazioni e creatività attraverso varie forme di espressione artistica, come il disegno, la fotografia e l’improvvisazione teatrale. Accanto ai laboratori, Chance si arricchisce della collaborazione con BuddyJob, la nuova realtà del gruppo OneDay nata per accompagnare i giovani nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. BuddyJob porterà all’interno dell’Istituto penale per i minorenni Beccaria di Milano due momenti di incontro con i ragazzi detenuti: il primo appuntamento sarà collettivo e dedicato a una riflessione sui propri desideri e sul proprio futuro; il secondo, più personalizzato, punterà sull’individuazione delle attitudini personali e su consigli più pratici. Altri materiali e notizie si trovano su questo sito alla tematica Minorenni detenuti, raggiungibile dal menu di navigazione “Temi”. Cuneo. Il caso del detenuto troppo grasso per stare in cella: “Non sappiamo dove metterlo” di Sandro Marotta La Stampa, 12 settembre 2025 Il direttore del dipartimento di Medicina legale dell’Asl di Torino: “Quella di Cuneo è una situazione che difficilmente si risolverà in tempi brevi”. “Sembra che tutte le celle d’Italia dedicate agli obesi siano occupate”: così il medico legale Roberto Testi, direttore del dipartimento di Medicina legale dell’Asl di Torino, sul caso del detenuto cuneese che, a causa di una grave obesità e del diabete, da più di 15 giorni è ricoverato e piantonato nel reparto di Medicina d’urgenza dell’ospedale di Cuneo. Il suo caso ha fatto emergere un vuoto di strutture e tutele sanitarie per le persone obese private della libertà e, scavando, si scopre che la situazione è complessa perché ci sono dei temi in conflitto tra loro, come la costituzionalità delle cure, le risorse della sanità e l’obbligo di detenzione e sicurezza. “Al momento non sappiamo cosa fare di lui - dichiara Roberto Testi, direttore del dipartimento di Medicina legale dell’Asl di Torino - perché le celle “bariatriche” si trovano solo nel carcere di Torino, ma sono tutte occupate e lo saranno per molto tempo”. Tutto gira intorno alle “camere di pernottamento per soggetti ristretti affetti da disabilità motoria”, cioè celle per disabili e obesi; sono stanze che hanno “una porta di ingresso più grande, la doccia interna, le rampe per il passaggio delle carrozzine”, come ha spiegato a La Stampa l’ex garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. La mancanza di spazi dedicati ai reclusi obesi sembra essere un problema strutturale italiano: “Come provveditorato regionale ho provato a chiedere ad altri istituti se ci fossero celle bariatriche libere, ma sembra che tutte quelle d’Italia siano occupate - continua il medico legale Testi. È una situazione che difficilmente si risolverà in tempi brevi”. Questa settimana il magistrato di sorveglianza - il giudice che monitora la condizione dei detenuti - dovrebbe decidere sulla sua sorte. Il problema a lungo termine però rimane e potrebbero emergere anche questioni costituzionali sul trattamento nutrizionale; si apre infatti lo scenario di un “caso Cospito” al contrario, dove cioè si vieterebbe a un detenuto di mangiare in nome della sua salute. Questo però violerebbe, tra gli altri, gli articoli della Costituzione relativi ai diritti inviolabili dell’uomo e al fatto che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”. “Gli agenti non possono dire a una persona in carcere di non mangiare - argomenta Testi -. Tutti hanno il diritto di ricevere cibo da casa, cucinare in cella, comprare il “sopravvitto”. Questo non è un problema di carenza di sorveglianza e nemmeno di sanità, perché noi curiamo tutti. Il punto è prima di tutto che cosa deciderà il magistrato e dopo cosa farà lui della sua salute”. Un’altra opzione diversa dalla detenzione sarebbe ricoverarlo alle Molinette, l’unica struttura in Piemonte dove è presente sia un reparto generico destinato al ricovero dei reclusi (il “repartino” con 19 posti letto), sia uno specifico di chirurgia bariatrica. Anche qui la questione è complessa: “La chirurgia bariatrica non ha posti letto dedicati - precisa Mario Morino, direttore della Chirurgia Generale 1 alle Molinette -, non c’è un reparto specifico, perché l’obesità è solo la situazione che innesca altre patologie su cui poi intervengono gli specialisti di ciascun settore, per esempio il nefrologo o il cardiologo. Solo dopo si ricorre all’intervento di riduzione del peso, ambito su cui Torino è effettivamente il punto di riferimento regionale”. Sul quadro dell’uomo di più di 260 chili potrebbe incidere anche l’episodio in cui, quando era ospitato in una Rsa della provincia di Cuneo, ha minacciato di morte il personale. Per questo è stato rinviato a Cerialdo, anche se non ci è mai rientrato perché, appunto, le celle non lo consentivano. Sassari. Adelma ha una nuova famiglia: i detenuti della Comunità di don Gaetano di Luca Fiori La Nuova Sardegna, 12 settembre 2025 Da un anno si dedica come volontaria alle persone ospiti della Comunità. I capelli corti e grigi incorniciano il viso luminoso. Dietro gli occhiali lo sguardo resta fermo, anche quando si fa lucido di emozione. La voce è calma, pacata, di chi ha trovato la serenità e non vuole lasciarla più andare via. Adelma Cassano, 72 anni residente a Tissi, racconta la sua seconda vita, seduta nella piccola biblioteca della comunità “Don Gaetano Muntoni” di San Giorgio, tra scaffali di libri e il brusio che arriva dalla fattoria didattica poco distante, dove gli ospiti accudiscono animali e coltivano la terra, come parte del loro percorso di rinascita. Per 35 anni dipendente delle Poste, questa donna - che qui si muove come se fosse a casa - non è solo una volontaria: Adelma è diventata per molti dei ragazzi della comunità quasi una mamma. Li abbraccia, ogni tanto, perché conosce le loro storie e sa che dietro quegli sguardi duri spesso c’è solo bisogno di gesti semplici, di calore, di carezze che sono mancate. Li accompagna in centro a Sassari per fare le commissioni e nei loro occhi legge smarrimento, sorpresa, emozione. “Una volta - ricorda con dolcezza - un ragazzo, bello come il sole, è uscito in permesso dopo otto anni di detenzione. Quando l’ho portato in un centro commerciale gli stava venendo un capogiro: non era più abituato a trovarsi in mezzo a tanta gente. Lì ho capito davvero quanto sia difficile ricominciare”. Prima di arrivare qui, Adelma è stata anche impegnata nel sindacato, dove ha imparato ad ascoltare, a mediare, a difendere i diritti di chi aveva meno voce. “Forse - sorride - anche quella esperienza mi è servita, oggi metto la stessa passione nel dare una mano a chi vuole ripartire”. L’incontro con la comunità è stato casuale ma decisivo. “Conoscevo don Gaetano Galia per averlo visto ad alcune conferenze - racconta - e un giorno mi fa: “Non sei mai venuta nella nostra comunità?”. Sono andata a pranzo, ho portato i dolcetti e da quel giorno questo posto è diventato casa mia. Non sono più andata via”, dice con gli occhi lucidi. A sostegno di don Gaetano operano anche due suore, che affiancano gli ospiti nelle attività quotidiane e nei momenti di crescita spirituale, rendendo l’ambiente ancora più familiare e accogliente. “Suor Cristiana e suor Ornella - racconta Adelma divertita - che qui per ridere chiamiamo suor monella”. Da un anno e mezzo Adelma ha iniziato a frequentare la comunità fondata da don Gaetano e ora è una pedina importante di questo posto, dove a chi ha sbagliato viene data una seconda possibilità. “La comunità offre uno spazio di reinserimento - spiega don Gaetano - a detenuti che, avendo compiuto un processo di revisione della propria vita e degli errori che hanno commesso, possono usufruire delle misure alternative al carcere: affidamento ai servizi sociali, arresti domiciliari, permessi premio, semilibertà”. “Le prime volte - sorride Adelma - mia figlia mi diceva: “Sei matta”, soprattutto quando mi mandavano davanti al carcere di Bancali a prendere i detenuti in permesso premio. Anche gli ergastolani. Ma io non ho mai avuto paura”. Ora si sente parte di quel mondo. “Mi mettono a pelare patate, a pulire, a fare commissioni. Io faccio quello che serve, come si fa in una famiglia”. E i ragazzi la vedono davvero come una madre: una presenza discreta, capace di ascoltare e di restituire dignità con un gesto o una parola. “Quando si confidano e mi trattano come una mamma - racconta con un sorriso che le illumina il volto - io sento che il vuoto che avevo dentro si riempie”. Negli ultimi mesi anche la fede di Adelma, che prima vacillava, ha trovato forse qualche risposta. “Qui in comunità - racconta con emozione - partecipo alla messa di don Gaetano, un momento di comunione forte che unisce tutti, anche i ragazzi di fede musulmana. Ma la cosa più curiosa e che ora ho le chiavi della chiesa di Tissi - aggiunge sorridendo - e apro tutti i giorni il portone per i fedeli. Mio figlio da lassù si starà facendo delle grandi risate e starà dicendo: mamma sei diventata San Pietro?”. Mantova. Il pane dei detenuti per ricordare il gesto di Giuseppina Rippa Gazzetta di Mantova, 12 settembre 2025 Il pane realizzato dai detenuti nel laboratorio artigianale “Sapori di libertà” della casa circondariale cittadina distribuito da Anpi Cgil per ricordare il gesto di Giuseppina Rippa, uccisa dai nazisti per aver offerto del pane, appunto, ai soldati italiani prigionieri. Quel gesto di straordinaria umanità verrà commemorato l’11 settembre alle 17 alla Camera del Lavoro di via Altobelli, nel giorno dell’82° anniversario della sua morte. L’iniziativa vedrà la presentazione del libro di Marco Cerri, “Mantova settembre 1943 il gesto di Giuseppina Rippa”, pubblicato da Anpi Mantova provinciale “Renato Sandri”. Giuseppina Rippa, cui insieme a Vittorio Veronesi è dedicata la sezione Anpi della Cgil, fu una giovane donna di Marmirolo, che l’11 settembre 1943 mentre una colonna di soldati italiani, fatti prigionieri dai tedeschi, transitava per piazza Martiri di Belfiore, compì un gesto semplice ma dal valore immenso: prese del pane dalla sua borsa della spesa e tentò di offrirlo loro. Per questo suo gesto di umanità, venne uccisa dai tedeschi. L’evento sarà un’occasione per approfondire questa storia grazie al saggio di Marco Cerri, che ricostruisce la vicenda attraverso testimonianze e documenti storici. Paola Longari, presidente Anpi Mantova provinciale “Renato Sandri” sottolinea che “Anpi, in occasione della presentazione del libro, intende reiterare il proprio rifiuto del riarmo e la corsa agli armamenti, promuovendo la solidarietà internazionale e la convivenza pacifica tra i popoli”. Magda Aristarco, presidente della sezione Anpi Cgil “Rippa - Veronesi” aggiunge: “Quello che abbiamo pensato non sarà solo un momento di ricordo storico. L’associazione “Sapori di libertà” di Mantova, per onorare il gesto di Giuseppina, ha donato il pane che sarà distribuito durante la presentazione, un simbolo tangibile di quella generosità che le costò la vita”. Venezia. “Mettersi alla prova in roccia”, nuove forme di educazione attraverso l’arrampicata Ristretti Orizzonti, 12 settembre 2025 L’Università Ca’ Foscari ospiterà dall’11 al 23 settembre 2025 presso Tesa 1 a CFZ Zattere la mostra fotografica “Mettersi alla prova in roccia”, promossa dall’Associazione La gabbianella e altri animali con il finanziamento della Regione del Veneto, in collaborazione con l’USSM (Ufficio Servizio Sociale per Minorenni) del Ministero di Giustizia. Il progetto, che sarà inaugurato il 10 settembre alle ore 17.30, riguarda minorenni e giovani adulti che hanno compiuto alcuni reati, per i quali l’Associazione, in collaborazione con l’Ufficio del Servizio Sociale per Minorenni (Ussm) e il Cai, ha cercato nuove forme di educazione attraverso l’arrampicata e il contatto con la montagna. La mostra documenta il loro percorso alle prese con la montagna con lo scopo di dimostrare che questi giovani si possono recuperare molto meglio con l’educazione che con la detenzione. SI chiude quest’anno un progetto educativo triennale, ideato e attuato dalla APS “La gabbianella e altri animali” per i minorenni e giovani adulti che vivono la “Messa alla prova” con i Servizi Sociali del Ministero di Giustizia. Nel primo anno il progetto si chiamava semplicemente “Arrampicare” e aveva ricevuto un piccolo finanziamento dalla Regione del Veneto; da questo venne realizzata una prima mostra, presso Emergency, con le belle foto di Federico Sutera e un ulteriore finanziamento del CAI nazionale. Poi la Regione rinnovò il progetto che questa volta divenne biennale e comprese, in un nuovo finanziamento, anche un prodotto finito che lo potesse illustrare. Così nacque il filmato del secondo anno, fatto dal regista Giovanni Sambo. Nel terzo anno, quello in corso, il cosiddetto “prodotto illustrativo” prevede un “Diario” delle uscite, senza la collaborazione di professionisti, ma solo con foto scattate dal cellulare della stagista di Ca Foscari, Caterina Cosatto. Le fotografie, il filmato, i diari costituiscono la mostra. I ragazzi hanno dovuto imparare le tecniche di arrampicata, la disciplina che prevede ubbidienza assoluta alla guida alpina che ha diretto il corso, la necessità di sostenersi a vicenda ed avere fiducia l’uno nell’altro. Hanno in molti casi conosciuto per la prima volta nella vita la natura montana, hanno allargato i loro orizzonti, hanno affrontato alzatacce e sperimentato cosa significa andare in montagna senza adeguato equipaggiamento (quando non l’hanno portato). Ma soprattutto hanno vissuto un’esperienza che ha dato loro tanta autostima e tanta soddisfazione, dopo una vita difficile. E questo non è poco e per alcuni è stato motore, ovviamente accanto ad altre esperienze della “Messa alla prova”, di reali cambiamenti di vita. Ancona. Note di libertà in carcere quando la musica unisce i mondi Il Dubbio, 12 settembre 2025 Ad Alessandra Nazzaro il premio “La casa in riva al mare 2025”. “Suonare qui con voi è bellissimo, mi avete fatto ritrovare una forza e un’audacia che pensavo di aver perso. Ora che finalmente vi posso guardare negli occhi vi ringrazio di cuore per il premio che mi avete attribuito”. Con queste parole Alessandra Nazzaro, vincitrice del premio “La casa in riva al mare 2025”, si è rivolta agli oltre cinquanta detenuti del carcere di Barcaglione. La cantautrice, tra gli otto vincitori di Musicultura 2025, era stata scelta da una giuria speciale composta da persone detenute presso la Casa di Reclusione di Ancona. A giugno aveva ricevuto il riconoscimento sul palco dello Sferisterio di Macerata, direttamente dalle mani di due membri della giuria usciti in permesso per l’occasione. Mercoledì ha mantenuto la promessa: incontrare chi l’aveva apprezzata e votata, portando la sua musica dentro le mura del carcere. Nel piazzale interno della struttura, affacciato sull’Adriatico, Nazzaro ha eseguito Ouverture davanti a una sessantina di detenuti, alle autorità e a una rappresentanza di studenti coinvolti nelle attività di Musicultura. La sua voce ha inaugurato l’atto finale del progetto “La casa in riva al mare”, promosso dal Garante dei diritti della persona della Regione Marche, Giancarlo Giulianelli, e riconosciuto nel 2024 dal ministero della Giustizia come “best practice” per il suo valore culturale e sociale. Il progetto, nato per mantenere vivi dentro il carcere stimoli emotivi, culturali e momenti di solidarietà, ha visto i detenuti impegnati per mesi in laboratori di musica e scrittura guidati dal direttore artistico di Musicultura, Ezio Nannipieri. Dopo la selezione dei vincitori e la premiazione allo Sferisterio, l’incontro di mercoledì ha rappresentato la conclusione del percorso 2025. Oltre a Nazzaro, si sono esibiti Elena Mil, Frammenti, Ibisco, Moonari, Abat- jour e Silvia Lovicario, tutti protagonisti dell’ultima edizione del festival. Non sono mancati i contributi dei detenuti: Guerino ha portato un rap scritto per l’occasione, mentre Klodjan, Massimo, Mauro, Giuseppe ed Elvis hanno condiviso riflessioni, poesie e storie nate dal lavoro nei laboratori. “Questa è la serata finale di una storia iniziata a marzo, passata dallo Sferisterio ma che si è svolta prevalentemente qui dentro, con la musica, con Musicultura - ha sottolineato Giulianelli -. Lo scopo non è solo portare vita esterna nella struttura carceraria, ma anche far capire a chi è fuori che chi è qui dentro può e deve avere un futuro, una nuova possibilità di vita”. Il gran finale ha unito tutti: i vincitori di Musicultura e i venticinque detenuti della giuria del Barcaglione hanno intonato insieme “La casa in riva al mare” di Lucio Dalla, accompagnati alla chitarra da Nannipieri. “Una festa gioiosa, armoniosa, commovente - ha commentato il direttore artistico -. Credo che chi era presente abbia toccato con mano quanto queste iniziative portino conforto a chi vive in condizioni di privazione della libertà, ma anche quanto chi sta fuori possa arricchirsi umanamente dall’incontro con i detenuti”. Milano. Freedom Sounds, quando la musica è evasione: in scena la band del carcere di Opera di Marianna Vazzana Il Giorno, 12 settembre 2025 Freedom Sounds, quando la musica è evasione: in scena la band del carcere di Opera. Il gruppo, formato in gran parte da detenuti, si esibirà domani sera a Quarto Oggiaro. Il motore? Un agente di polizia penitenziaria appassionato di rock. “La musica consente di evadere. Lecitamente, s’intende”. Lo precisa l’agente di polizia penitenziaria Francesco Mondello che ha fondato la band “Freedom sounds” nel carcere di Bollate. La mente vola subito alla scena finale del film “The Blues Brothers” con i protagonisti finiti in prigione che cantano e suonano Jailhouse Rock facendo scatenare tutti i detenuti sulle note di Elvis Presley. A Milano la situazione si ribalta perché i musicisti escono dal carcere. Sempre lecitamente, s’intende: questa band domani sera, sabato 13 settembre, porterà il rock in piazza Capuana, a Quarto Oggiaro. Appuntamento dalle 18 al Circolo Arci Itaca Aps (ingresso libero). Un’iniziativa promossa con il supporto dell’Associazione Monzino e il patrocinio del Municipio 8. Note e voci volano in alto, oltre le sbarre, sgretolando le mura che separano il penitenziario dal resto del mondo. “I componenti della band cambiano nel tempo, a seconda di uscite e ingressi - spiega l’assistente capo Mondello -. E non potrebbe essere altrimenti. Ma immutato è lo spirito del progetto, che sprona a imparare qualcosa di nuovo o a riscoprire una passione. A stare insieme agli altri e a trasmettere le proprie emozioni. A riscattarsi attraverso l’arte, con il suo linguaggio universale che annulla le differenze” anche tra detenuti e agenti, che lavorano fianco a fianco. “Ringraziamo il direttore Giorgio Leggieri, che ci ha sempre sostenuti”. Domani verranno eseguite cover rock di artisti italiani (Vasco, Zucchero e Rino Gaetano, per citarne qualcuno) e stranieri. Tra le voci, quella di un agente di polizia penitenziaria che canterà una canzone di Ligabue. Mondello non sarà sul palco ma, appassionato di batteria e chitarra, ha dato il la a tutto il progetto quasi 20 anni fa con un laboratorio: “Le officine musicali. Abbiamo cominciato insonorizzando un’aula con i cartoni delle uova. Poi è nata anche la band, che attualmente prova due volte a settimana. I componenti sono sei, tra i 26 e i 55 anni: due chitarristi, un batterista, un tastierista, un sassofonista e una bassista, una ragazza non detenuta che ha anche tenuto dei corsi nel carcere con l’obiettivo di passare il testimone. Tutti sono in regime di articolo 21, che disciplina il lavoro all’esterno. Parliamo quindi di detenuti che durante il giorno escono dal penitenziario per lavorare e che rientrano la sera”. Nel progetto si è aggiunta la sala rap, per i più giovani. Se ne parlerà anche domani, in occasione del concerto a Quarto Oggiaro, “un esempio di come la musica - dichiara Fabio Galesi, vicepresidente del Municipio 8 - possa diventare un mezzo di trasformazione e di speranza. Da diversi anni abbiamo stipulato una convenzione con il carcere di Milano Bollate per le attività di pubblica utilità rivolte ai detenuti in articolo 21, cercando di coinvolgere cittadini e associazioni del territorio per creare momenti di inclusione e socializzazione”. “Le piattaforme social non devono essere delle terre di nessuno” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 settembre 2025 Le attività delle piattaforme social vanno regolamentata per evitare che siano delle “terre di nessuno” in cui tutto è consentito. Parte da questo il professor Salvatore Sica, ordinario di Diritto privato nell’Università di Salerno, nel commentare i recenti fatti con al centro la diffusione di foto e video privati. Il quadro normativo esistente va ampliato per evitare alcune derive, per tutelare gli utenti della rete e per responsabilizzare chi riempie di contenuti le piattaforme. Di qui l’utilità anche di una “carta di identità digitale”. La regolamentazione del lavoro delle piattaforme social non è, dunque, più rinviabile. “Mi porrei, prima di tutto - dice al Dubbio Salvatore Sica - le seguenti domande. Le piattaforme sono semplici autostrade nelle quali il gestore non deve avere responsabilità? Se su queste autostrade c’è una macchia di carburante, potenzialmente pericolosa, esiste un obbligo ad intervenire? O ancora, visto che ormai l’attività di intermediazione della rete costituisce una delle principali, se non la principale attività economica nel mondo, le piattaforme dovrebbero rispondere o comunque dovrebbero incrementare i meccanismi e gli strumenti di sorveglianza della rete? La mia personale opinione è che siamo a un punto di non ritorno. Andrebbe ripreso l’antico brocardo del diritto romano, ubi commoda, ibi incommoda. Le big tech della comunicazione rappresentano un fatturato a cifre enormi rispetto al quale devono inevitabilmente assumersi le responsabilità di impresa”. In tale contesto si inserisce la questione della libertà di manifestazione del pensiero e del pericolo che la censura o il controllo dei contenuti venga esercitato dai privati. “Una soluzione - evidenzia l’accademico dell’Università di Salerno - potrebbe essere quella di prevedere strumenti a disposizione dell’interessato di segnalazione urgentissima con poteri di sospensione cautelare del contenuto da parte delle piattaforme, senza tralasciare poi la presenza di un’Autorità di controllo, che potrebbe essere o l’Agcom o il Garante per la privacy con prerogative di provvedimenti cautelari “effettivi” o per l’illiceità del contenuto o per la violazione dei dati personali. Si potrebbe infine anche pensare a un procedimento speciale, con il controllo giudiziario, per verificare la necessità che il contenuto sia temporaneamente o definitivamente rimosso dalla rete. Di sicuro non si può continuare con la deriva alla quale stiamo assistendo. Una deriva che, tra l’altro, sta generando anche nuove forme di reato”. Siamo passati dalla divulgazione di contenuti, condita da morbosità, al linguaggio d’odio. Ecco perché va tenuta alta la guardia e il ruolo del legislatore in questo momento è particolarmente importante. “Non dimentichiamoci - afferma il professor Sica - che si sta sviluppando una vera e propria nuova categoria di reati, che sono sostanzialmente l’evoluzione in senso digitale del classico reato di estorsione con un ragionamento tanto semplice, quanto spietato: cancello certi contenuti, se mi paghi. C’è un disegno di legge con primo firmatario l’onorevole Piero De Luca, che da un lato riafferma, in coerenza con la disciplina europea, in particolar modo con la Direttiva 2000/ 31 sul commercio elettronico, la responsabilità delle piattaforme. Viene tuttavia effettuata una sottolineatura maggiore rispetto all’attuale impostazione, che viceversa prevede sostanzialmente l’irresponsabilità delle piattaforme, “salvo che” non abbiano concorso con la propria condotta alla causazione dell’illecito o abbiano omesso un intervento tempestivo. Il profilo di interesse di questa proposta, a mio avviso, risiede anche nel fatto che si prevede l’obbligo di riscontri immediati con la predisposizione, in qualche maniera, di un front office digitale, che dia seguito alle segnalazioni degli utenti circa contenuti illeciti che li riguardano. Il terzo elemento è l’istituzione di un “Osservatorio nazionale per l’uso della rete”, perché occorre in qualche maniera definitivamente alle spalle, a meno che non vogliamo rassegnarci all’idea di piattaforme social come contenitori dell’immondizia globale”. I più critici ritengono che l’eccessiva regolamentazione, con una stretta sull’utilizzo dei social, rievoca quello che succede nei regimi autoritari. Si tratta, però, una preoccupazione infondata. “La libertà di manifestazione del pensiero - conclude Salvatore Sica -, “senza se e senza ma”, l’abbiamo già vissuta e abbiamo visto a quale risultato ha portato. Ma anche nella più coerente interpretazione dell’articolo 21 della Costituzione, se dobbiamo riferirci soltanto al contesto italiano o alla “Freedom of speech” di matrice statunitense, non c’è una libertà che non conosca dei limiti. I limiti sono quelli del rispetto degli altrui diritti della personalità e oggi mi sembra che si sia già oltre. Quindi, non c’è più una questione di equilibrio tra diritti di pari rango costituzionale, ma c’è piuttosto un tema di riequilibrio a favore della tutela della persona umana”. Fine vita, azzerato il Comitato Resta il nodo sanità pubblica di Francesca Spasiano Il Dubbio, 12 settembre 2025 Nessuna modifica sulla strumentazione del Servizio sanitario dopo l’altolà della Consulta. E spunta la stretta: “Il suicidio assistito non è un diritto”. Con un passo indietro del centrodestra e un’ulteriore stretta, ma soltanto di principio. Riparte così il dossier sul fine vita al Senato, dove ieri c’è stata la prima riunione sul tema delle Commissioni Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama dopo la pausa estiva. I lavori sul testo hanno ripreso il via con gli emendamenti dei due relatori, Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia: sette proposte di modifica, che sostanzialmente vertono sul Comitato nazionale di valutazione. Uno dei punti più discussi della legge, a partire dall’iniziale etichetta “etica” che era già sparita dal ddl incardinato in Senato. Ora si fa di più, per andare incontro alle richieste delle opposizioni: si dismette l’idea di un organismo unico di nomina governativa per valutare le richieste e si ripristinano i già esistenti comitati etici territoriali, guidati a livello nazionale da un Centro di coordinamento. Tale Centro - si legge in uno degli emendamenti - è “competente al rilascio del parere obbligatorio sulla sussistenza o meno dei requisiti per l’esclusione della punibilità di cui all’articolo 580”, istigazione o aiuto al suicidio. E sarà composto da nuove figure, tra cui un giurista “scelto fra i professori universitari di materie giuridiche o fra gli avvocati abilitati al patrocinio di fronte alle giurisdizioni superiori”, un bioeticista, un medico specialista in anestesia e rianimazione, terapia intensiva e del dolore, un medico specialista in medicina e cure palliative, un medico specialista in psichiatria, un medico specialista in medicina legale, uno psicologo, un infermiere e un farmacologo. Il testo non specifica in che modo saranno nominati, ma in base alla normativa vigente dovrebbero essere indicati tramite decreto del ministro della Salute. Mentre per ciò che riguarda procedure e tempi, gli emendamenti specificano che “il centro di coordinamento acquisisce agli atti il parere, non vincolante, del Comitato etico territoriale del luogo di cura e assistenza del richiedente, da rilasciare entro sessanta giorni dalla suddetta ricezione della richiesta dell’interessato”. Entro ulteriori 60 giorni si potranno disporre ulteriori accertamenti, per poi rilasciare - con una proroga di un mese al massimo - il parere definitivo. In caso di esito negativo per il paziente, la richiesta può essere ripresentata non prima di 120 giorni, e soltanto “in caso di sopravvenienza dei medesimi requisiti” da soddisfare. Fin qui le modifiche sostanziali, per le quali Zanettin parla di apprezzabili aperture da parte del centrodestra. Anche se lo sforzo non sembra scaldare il cuore dell’altro principale negoziatore in campo, il dem Alfredo Bazoli, per il quale “anziché avvicinare punti di mediazione, i nuovi emendamenti proposti dai relatori sul fine vita li allontanano. I nodi infatti rimangono, se possibile aggravati”. “Si stringono ulteriormente i requisiti rispetto alle indicazioni della Corte, con le sofferenze che devono essere incoercibili, oltre che intollerabili - spiega il vicepresidente del gruppo Pd a Palazzo Madama - Vengono inseriti comitati territoriali, come chiedevamo, ma al prezzo di duplicare le valutazioni sulla sussistenza dei requisiti, che ora dovranno essere fatte sia da un comitato territoriale sia da quello nazionale. Con conseguente duplicazione dei tempi e ulteriori incertezze”. Poi ci sarebbe quella modifica al primo articolo, con la quale si chiarisce che in “nessun caso la legge riconosce alla persona il diritto a ottenere aiuto a morire”. E dietro la quale ci intravede la mano di Fratelli d’Italia. Ma soprattutto resta il nodo più grande relativo al Servizio sanitario nazionale, che resta escluso in termini di personale, strumentazione e farmaci. Laddove la Consulta, nell’ultima sentenza dello scorso luglio, parla esplicitamente di un ruolo di garanzia del Ssn. In questo senso, l’esigenza di restare nel solco tracciato dei giudici, per evitare che la legge abbia già un posto prenotato davanti alla Consulta, resta il cruccio principale anche per Forza Italia. Che lavora per trovare la quadra: “Il dialogo nella maggioranza è ancora aperto”, ragiona il relatore azzurro, che sarebbe disponibile ad “affinare” il ruolo del Ssn. In particolare per ciò che riguarda la strumentazione, che nel caso in esame davanti alla Corte permetterebbe a una paziente completamente paralizzata di autosomministrarsi il farmaco, equiparando l’eutanasia al suicidio assistito. “È un work in progress”, dice Zanettin: potrebbe arrivare dell’altro, semmai ci fosse l’intesa. Magari entro le prossime due settimane, quando è fissata la data per la presentazione dei subemendamenti. Occupano una casa abbandonata per ospitare migranti esposti al gelo, il giudice assolve tutti di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 12 settembre 2025 La sentenza ricalca quella della Corte d’appello del novembre 2024: allora furono assolti in 19 dall’invasione di edifici. È reato occupare una casa cantoniera dismessa se serve per salvare le vite dei migranti che attraversano la frontiera franco-italiana a piedi, senza cibo e attrezzature adeguate? Sì, ma anche per il Tribunale di Torino (giudice Giulia Casalegno) il reato è giustificato dallo stato di necessità. Tradotto: quando si tratta di salvare delle persone non c’è reato che tenga. È la seconda volta che i giudici del capoluogo si esprimono allo stesso modo: stamattina hanno incassato l’assoluzione 13 attivisti - italiani, francesi, inglesi e nord europei difesi tra gli altri da Gianluca Vitale, Laura Martinelli ed Elisabetta Montanari - che a seguito del primo sgombero della casa cantoniera di Oulx l’avevano rioccupata per proseguire l’attività di accoglienza dei migranti provenienti dalla rotta balcanica. L’edificio, in disuso da anni, è stato occupato per la prima volta a dicembre 2018 e ribattezzato “Chez JésOulx”. Da allora ha offerto cibo, vestiario e assistenza medica a centinaia di migranti che hanno tentato di raggiungere la Francia attraverso le Alpi. A seguito degli sgomberi, l’ultimo dei quali risale al 23 marzo 2021, si sono incardinati due processi: nel primo erano imputati 19 tra anarchici, antagonisti e militanti No Tav accusati di invasione di terreni o edifici, ma a novembre dello scorso anno sono stati assolti dalla Corte d’Appello, che ha riconosciuto la scriminante dello stato di necessità. Lo prevede l’articolo 54 del Codice penale, secondo cui non si può perseguire chi ha commesso un reato perché “costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona”. Oggi anche il giudice monocratico ha sposato la tesi dei colleghi e il processo è stato definito ancora prima di aprire l’istruttoria. In questo secondo filone si era costituita parte civile l’Anas, cui compete la gestione della Statale 24 e - almeno sulla carta - della casa cantoniera (un edificio demaniale). Nel periodo oggetto delle indagini le strutture “ufficiali” da sole non riuscivano a far fronte agli arrivi, centinaia al giorno: a Bardonecchia erano disponibili due posti letto, mentre il rifugio Massi, gestito dai salesiani, poteva ospitare venti persone, ma solo per la notte. Inoltre è stato accertato che, prima dell’occupazione, in alta valle erano morti 15 migranti per la fame e il freddo o per cadute accidentali nei dirupi. Le telecamere installate dalla Digos del resto hanno filmato il viavai di persone dentro e fuori la casa cantoniera, documentando l’attività quotidiana degli attivisti a favore dei richiedenti asilo. Anche per questo, lo scopo umanitario dell’occupazione è stato pienamente riconosciuto dai giudici. Migranti. “I nostri cari scomparsi in mare. Siamo soli a cercare la verità” di Marika Ikonomu Il Domani, 12 settembre 2025 La presidente dell’Associazione tunisina delle madri degli scomparsi attende risposte dalle istituzioni, Latifa Al-Walhazi: “La situazione in Tunisia è peggiorata. Ed è anche colpa di Meloni”. Chiudere le frontiere e bloccare gli arrivi sulla sponda sud dell’Europa non significa limitare le partenze, ma aumentare il rischio di morire in mare per chi migra. Nel Mediterraneo centrale, dal 2014 a oggi, secondo il portale Missing migrants dell’Oim, almeno 25.459 persone sono morte o scomparse. La Tunisia è tra le prime nazionalità di arrivo in Italia - nel 2024 l’11,6 per cento circa degli arrivi via mare - e risulta anche tra le prime nazionalità di rimpatrio, per gli accordi milionari chiusi tra i governi di Roma e Tunisi. Di fronte alle migliaia di morti e scomparsi, però, le famiglie sono lasciate sole. “Dal 2011 a oggi, sono cambiati diversi governi. Ogni volta incontriamo nuove persone. Ogni volta ricominciamo da capo”, racconta Latifa Al-Walhazi, presidente dell’Associazione tunisina delle madri degli scomparsi, a Roma per rappresentare la sua organizzazione. Dal 2011 a oggi le istituzioni non sono state capaci di dare risposte. Il fratello, Ramzi, risulta scomparso dal 1° marzo 2011. Perché suo fratello ha scelto di partire? Tutto è cominciato con la rivoluzione del 2011. Da quel momento mio fratello ha iniziato a dire che voleva andare in Europa. Aveva finito gli studi ma non aveva un impiego, faceva lavoretti ogni tanto, ma non era soddisfatto. Voleva partire per comprare una protesi a nostro padre, che ha perso la gamba in un incidente sul lavoro. Abbiamo provato a dissuaderlo, a dirgli che qui i soldi per vivere ce li avevamo. Un parente di un suo amico lavorava come trafficante ed era sicuro partire con lui. Ha avvisato nostro fratello maggiore che sarebbe partito. Mi ha chiamato solo quando era sulla barca e mi ha chiesto scusa. Riuscivo a sentire tutto: il rumore dell’acqua, le parole dei suoi compagni di viaggio. Al telefono sentivo che erano felici, applaudivano. Mi ha attaccato dicendo che erano arrivati in Italia. Da quel momento non abbiamo più saputo nulla. Per due mesi il suo cellulare continuava a squillare, senza risposta. E poi più nulla. Abbiamo organizzato manifestazioni per chiedere al governo cosa fosse successo loro. Ma niente. In quel periodo molte associazioni organizzavano truffe. Ci chiedevano soldi, promettendo informazioni su dove fossero i nostri familiari. Giocavano con il nostro dolore. Nel 2016 avete fondato un’associazione... Un’associazione no profit per mobilitare le famiglie e cercare la verità. Spesso le donne non comunicavano la scomparsa dei figli perché, temendo fosse una cosa illegale, avevano paura di dirlo al governo. Noi raccogliamo le storie e inviamo le informazioni al ministero degli Esteri tunisino, così da scoprire se i figli si trovano all’estero. In alcuni casi siamo riusciti a fare test del Dna. È stata mia madre, insieme ad altre quattro donne, a creare l’associazione. Lo hanno fatto con le loro finanze. Poi ho iniziato anche io a collaborare, per cercare la verità, non solo per me ma per le altre madri che vedevo soffrire. Perché è fondamentale ritrovare il corpo? Prima di tutto vogliamo sapere la verità, qualsiasi essa sia, anche se è dolorosa. Ho incontrato molte donne, madri di persone scomparse. I loro figli hanno perso la vita e loro vogliono sapere come. Le madri non sanno nemmeno cosa chiedere a dio: che dio abbia pietà del figlio oppure se pregare per il suo ritorno. Molte famiglie sono state distrutte dalla scomparsa dei loro figli. Perché se sai dov’è il corpo sai dove andare a trovarlo. L’anima di mia madre brucia. Ora deve essere operata per quanto ha pianto. Da allora la nostra gioia non è piena, anche se sono felice per il successo dei miei figli, è una felicità effimera. La Tunisia è considerata dall’Italia e dall’Ue un “paese sicuro”. La maggior parte delle persone rimpatriate dall’Italia è di nazionalità tunisina. Nel 2022, secondo i dati del garante, erano il 71 per cento dei rimpatri. Chi decide di partire? La situazione in Tunisia è pessima. Io penso non esista l’immigrazione illegale, muoversi è un diritto. Siamo tutti esseri umani e tutti abbiamo il diritto di vivere. In Tunisia la situazione è peggiorata con il governo Meloni che ha chiuso le frontiere. Chi parte e viene intercettato in mare viene riportato in Tunisia, anche chi proviene dai paesi subsahariani che in realtà lo vedono come un paese di passaggio verso l’Europa. Invece rimangono in un limbo. Ai giovani chiedo spesso come mai vogliono venire qui in Italia. Dicono che in Tunisia non c’è niente da fare e vogliono venire in Europa. Si fanno condizionare dai famigliari che ce l’hanno fatta, sono attratti dai loro racconti. E oggi partono anche ingegneri e dottori. Sanno che non è facile e che c’è il rischio di morire in mare, ma per loro è meglio partire e rischiare che rimanere in Tunisia. Siete in contatto con altre associazioni? Sono andata da poco in Senegal e Camerun per incontrare altre organizzazioni. In Tunisia e Senegal se ne può parlare, possiamo avere un dialogo con le autorità e tra noi famigliari. In Camerun, invece, la situazione è peggiore, è illegale parlare delle persone scomparse. Abbiamo trovato storie devastanti. Inizialmente è stato molto complicato parlare con le famiglie, erano diffidenti. Piano piano ci siamo guadagnati la loro fiducia. E dopo tanto tempo abbiamo abbattuto il muro. Ho raccontato la storia di mio fratello e li ho incoraggiati a parlare dei loro. Di farsi sentire, di organizzarsi e di non avere paura. Bisogna coinvolgere le famiglie e ascoltarle. A volte ci sentiamo stanchi, a volte arriviamo al punto in cui non riusciamo più ad accettare nulla. Ma le madri ci aspettano, vogliono una risposta. In difesa dell’Europa democratica di Dacia Maraini Corriere della Sera, 12 settembre 2025 Pace e diritti: 450 milioni di persone vivono liberamente lì dove prima erano necessari permessi, passaporti e cambi di denaro. Da ogni parte sento voci che criticano, denigrano, screditano, l’Europa. Perfino alcuni nostri raffinati intellettuali parlano dell’Europa come se fosse ormai morta, pronta per essere seppellita. Alla radio ieri mattina ho sentito un uomo usare addirittura la parola “marcia”. Ha detto proprio così, L’Europa è marcia, che ci sta a fare? Per prima cosa io chiederei a chi critica e inveisce, di proporre una alternativa. È troppo facile criticare, disprezzare una realtà senza suggerire una possibile alternativa. Altrimenti sono parole al vento. Parole che suonano suicide oltre tutto perché noi siamo l’Europa. Ci abbiamo messo secoli per capire che non dobbiamo scannarci perché abbiamo interessi comuni e radici che si intrecciano nel sottosuolo etico e culturale. Sembra che abbiamo dimenticato che da quando c’è l’Europa non abbiamo più avuto guerre. Fino alla fondazione dell’Unione europea i paesi come la Francia, la Spagna, l’Italia, l’Inghilterra si sono affrontati in guerre feroci che hanno portato rovina, povertà e odio. L’Unione ci ha permesso una pace che è durata 80 anni e dura ancora. E come trascurare la bella istituzione che è l’Erasmus’? Tantissimi giovani dei paesi europei hanno avuto la possibilità di viaggiare a prezzi modici, entrare nelle università di altri paesi, imparare le lingue, conoscersi e scambiarsi pareri, interessi e fare progetti comuni. Da ricordare inoltre lo Schengen, che ha favorito la circolazione delle persone, delle merci, delle idee, dei progetti. 450 milioni di persone hanno potuto circolare liberamente lì dove prima erano necessari permessi, passaporti, cambi di denaro e controlli di frontiera. Per ultimo vorrei citare la moneta unica che ha permesso una stabilità economica e la possibilità di ricevere enormi prestiti per lo sviluppo delle zone depresse e tanti altri progetti. Ma, come dice un ingegnoso personaggio di Rossini, nell’aria circola un venticello calunnioso dalla voce suadente, “un venticello impercettibile/ un’auretta gentile/ che insensibile, sottile/ leggermente, dolcemente, / incomincia a sussurrar. …” È la voce insinuante e avvincente dei Social che suggerisce con parole apparentemente veritiere che la democrazia è ormai un attrezzo inutile, che i valori europei sono falliti, che i nostri valori, le nostre idee, le nostre conquiste valgono meno di una cicca. A questo punto la mia ingenua ma opportuna domanda è: ammettiamo che l’Europa e la democrazia siano in crisi: cosa vorreste mettere al suo posto? Quale sarebbero i nuovi modi di governare che comportino benessere e pace? A me pare che, con tutte le sue spinose difficoltà, i suoi ritardi, i suoi conflitti, la libertà di pensiero, di parole e di movimento, ovvero l’essenza del cittadino responsabile e libero, siano per il momento garantite solo dalla democrazia. L’Europa non è solo burocrazia, lentezza, inefficienza e corruzione, che pure ci sono. Ma quello che dovrebbe farci inorgoglire sono i nostri grandi inventori, i nostri scienziati, i nostri pensatori, i nostri artisti. Noi siamo europei perché siamo cresciuti leggendo Platone e Tolstoj, Dante e le sorelle Brontë, ascoltando Mozart e Verdi. Noi siamo europei perché, dopo tanti disastri e tante false promesse, abbiamo scoperto alcuni valori che condividiamo e di cui dovremmo essere orgogliosi. I difetti ci sono e soprattutto ci sono stati quando l’Europa era divisa, non aveva consapevolezza di sé e ci sono stati paesi che si sono creduti più forti, più bravi, più puri degli altri. Da tali pretese sono nati gli orrori del nazismo, del fascismo e delle guerre fratricide. Ma proprio la vittoria sui razzismi e i nazionalismi che hanno portato tanto strazio e dolore, ci ha fatto scoprire i valori che sono stati registrati nella nostra bella Costituzione. Eppure, il venticello oggi sta diventando più persuasivo e sussurra nell’orecchio soprattutto dei giovani e sostiene con voce seducente che ormai in epoca di tecnologia, ci vuole un governo di esperti tecnocrati, e la massa deve stare al gioco e ubbidire. I soldi e il potere sono la sola misura di progresso e civiltà. Il venticello intanto “piano piano, terra terra/ va scorrendo, va scorrendo/va ronzando, va ronzando/nell’orecchie della gente / s’introduce destramente/ e le teste e i cervelli/ fa stordire, e fa gonfiar”. Un bel vento di cambiamento ci vuole, dicono molti. Senza rendersi conto che il venticello seducente che va crescendo, “prende forza a poco a poco/ diventa il tuono, la tempesta/ che nel sen della foresta/ va fischiando…”. Giù il cappello di fronte alla capacità del grande Rossini di capire la forza dei venticelli messi in moto da bocche interessate… Ma è questo che vogliamo? Al posto di una democrazia faticosamente conquistata vogliamo dare tutto il potere a dei ricchissimi tecnocrati perché la sanno più lunga e hanno le armi in mano? Almeno ditelo chiaro, amici che disprezzate la grandissima conquista che è la democrazia nata da secoli di errori e fallimenti. Ditelo sinceramente che volete buttare a mare la libertà del cittadino per amore della sicurezza e del guadagno. Un ringraziamento va a Mattarella che ha parlato chiaro, esortando gli europei, ma soprattutto gli italiani, a riflettere sull’importanza di un risultato politico ed etico che tanto ci è costato e vale la pena di difendere. Venezuela. Trecento giorni senza Alberto Trentini, in carcere a Caracas senza un perché di Laura Berlinghieri La Stampa, 12 settembre 2025 Il cooperante di 46 anni è in cella dal 15 novembre ma il Venezuela ancora non gli ha formalizzato nessuna accusa. La disperazione della madre: “Portatelo a casa, parlatene come avete fatto con altri italiani”. Trecento giorni, oggi, senza Alberto Trentini. Trecento giorni, per la sua famiglia del Lido di Venezia, senza poter vedere il cooperante di 46 anni, detenuto nel carcere El Rodeo I, alla periferia di Caracas, ancora senza la formalizzazione di uno straccio di accusa. Trecento giorni senza che la diplomazia italiana sia riuscita a riportarlo a casa. Gli appelli della mamma Armanda Colusso sono tutti uguali: “Riportatemelo a casa”. Si rivolge alla politica: “Non possiamo più aspettare, vogliamo risposte”. Si rivolge ai giornalisti: “Si deve parlare di mio figlio come si è fatto per altri italiani che, grazie anche al clamore mediatico, hanno fatto ritorno a casa”. È andata a Roma, all’ultima udienza del processo per l’omicidio di Giulio Regeni. Ha partecipato a un’iniziativa organizzata da Articolo 21 alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ha letto l’ennesima lettera. Ma ancora non ci sono segnali di speranza tangibile per il cooperante del Lido, arrivato il Venezuela il 17 ottobre 2024 per una missione umanitaria e, meno di un mese dopo, arrestato e condotto in carcere. Cos’è successo - Era il 15 novembre di un anno fa. Alberto Trentini stava viaggiando da Caracas a Guasdualito, nel sudovest del Paese, insieme all’autista della ong francese Humanity & Inclusion, quando è stato fermato a un posto di blocco da alcuni agenti del posto. Le accuse non sono mai state formalizzate. Si parla di terrorismo, cospirazioni ai danni delle autorità venezuelane: ipotesi chiaramente del tutto infondate e, comunque, mai realmente messe nero su bianco. Il 46enne si trovava in Venezuela per conto della ong francese, impegnata a dare supporto alle persone con disabilità. Laureatosi in Storia moderna e contemporanea all’Università di Venezia, era subito partito con un orizzonte larghissimo: prima il diploma in assistenza umanitaria a Liverpool, poi il master in sanificazione delle acque a Leeds. E, dopo, le missioni umanitarie in giro per il mondo: Paraguay, Nepal, Grecia, Perù, Libano, Ecuador, Bosnia, Etiopia, Colombia. L’ipotesi più probabile è che l’intera vicenda della sua detenzione sia da intendere come rappresaglia del governo venezuelano per le aspre critiche al regime di Maduro. Il 15 novembre, dunque, Trentini viene arrestato e condotto nel carcere El Rodeo I. La sua famiglia, a Venezia, non sa niente. Gli viene negata qualsiasi telefonata, persino al suo avvocato. I genitori scopriranno cos’è accaduto solo a distanza di diverse ore. Riusciranno a collocarlo nel carcere alla periferia di Caracas solo dopo giorni. Riceveranno la prima telefonata dopo mesi: il 16 maggio. Ne seguirà soltanto un’altra, il 26 luglio. Trentini - che soffre di alcuni problemi di salute - dice ai genitori di stare bene, li rassicura. Ma chiede di fare presto. La diplomazia - Nel frattempo, vengono attivati i canali diplomatici. La storia di Alberto viene resa nota all’indomani della liberazione di Cecilia Sala, in Iran. Circostanza che regala fiducia alla famiglia. Ma, a distanza di mesi, Trentini è ancora lì, in condizioni sconosciute, con un futuro sconosciuto. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani e l’ambasciata italiana in Venezuela seguono il caso fin dagli inizi. Luigi Vignali viene nominato inviato speciale, per gestire i casi di una quindicina di italiani detenuti in Venezuela, tra cui appunto il cooperante veneziano. Ma i negoziati restano estremamente difficili. Risale a ieri, poi, l’ennesimo appello dell’avvocato della famiglia, Alessandra Ballerini, già al fianco dei genitori di Giulio Regeni. “Vogliamo Alberto Trentini libero, riportatelo a casa”. Chiede. Ancora. Ma Alberto resta a Caracas: senza un perché. Venezuela. Il ministro degli Esteri: “I suoi diritti non sono violati, il processo farà il suo corso” di Roberta Polese e Anna Teresa Maselli Corriere del Veneto, 12 settembre 2025 “Conosco bene il caso di Alberto Trentini, i suoi diritti umani non sono stati violati: ha un avvocato, è sotto processo, c’è un’azione legale e seguirà il suo corso”. Il ministro degli Esteri del Venezuela Ivàn Gil ha risposto così alle domande del giornalista della Cnn che due giorni fa gli ha chiesto conto del cooperante veneziano. Oggi sono 300 giorni che Alberto è ostaggio delle autorità venezuelane senza alcun motivo, con un’accusa pretestuosa e infondata di terrorismo. L’intervista alla Cnn rilasciata al giornalista italiano Stefano Pozzebon è l’unico atto pubblico in cui il governo venezuelano dice ufficialmente qualcosa su Alberto Trentini. Il colloquio tra Gil e il giornalista inizia dalle tensioni con il governo americano in merito alle strategie antidroga dell’amministrazione Trump, ma al termine del dialogo il reporter della Cnn non si lascia sfuggire l’occasione di fare una domanda: “Il mio connazionale Alberto Trentini è detenuto qui dall’ottobre dello scorso anno. Sono passati 11 mesi e non ha ancora visto un giudice né ha potuto parlare con la sua famiglia”. “Sì - risponde Gil - ma i suoi diritti umani non sono stati violati. Conosco molto bene questo caso”. Il giornalista ribatte: “Dovrebbe vedere un giudice”. “Ha un avvocato, è sotto processo - risponde Gil - C’è un’azione legale in corso. C’è un procedimento che deve essere rispettato. In Venezuela ci sono migliaia di tribunali che rappresentano tutte le nazionalità: colombiani, peruviani, italiani, accusati di molti reati. Il più comune è il traffico di droga”. L’elemento nuovo è l’avvocato di cui parla il ministro, mai emerso prima, tuttavia con la droga Alberto Trentini non c’entra nulla. Dal 15 novembre scorso Alberto è detenuto nel carcere El Rodeo I, situato nello Stato di Miranda, a circa 30 chilometri da Caracas. Il carcere è uno dei più critici del Paese, costantemente sotto monitoraggio di associazioni che ne denunciano la violarante zione di diritti umani. Il 7 gennaio 2025 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani ha dichiarato che la detenzione di Trentini, senza accuse formali (che poi sono state emesse ma che appaiono strumentali) né contatti regolari con l’esterno, rappresenta una situazione di rischio urgente e irreparabile, e ha quindi chiesto al governo venezuelano di garantirne l’integrità fisica e psicologica, oltre a informare pubblicamente sulle sue condizioni. Alberto ha chiamato due volte la mamma Armanda Colusso, prima a maggio e poi sabato 26 luglio, le ha detto di stare bene, ma di essere stremato dal regime di prigionia. Intanto la vicenda del coopeveneziano dipendente della ong Humanity & Inclusion, continua a indignare la società civile e a consumare nel dolore la sua famiglia e i tanti amici che non hanno mai smesso in questi 300 giorni di invocare il suo ritorno. Ieri sera l’associazione Articolo 21, con il coordinatore Beppe Giulietti e l’attrice Ottavia Piccolo, hanno lanciato una nuova campagna social: “Chiediamo a tutti di condividere sulle proprie bacheche, di postare le parole: “Sono passati trecento giorni da quando si trova sequestrato in un carcere del Venezuela, non un giorno di più, libertà per Alberto Trentini”, spiega Giulietti. Parallelamente proseguirà fino a domenica, a Mestre, la quattordicesima edizione del Festival della Politica, dedicato quest’anno ad Alberto: “L’unica sua “colpa” - ha detto il direttore Nicola Pellicani - è quella di aiutare gli altri come ha fatto per tutta la vita. Credo che un festival che si occupa di grandi temi d’attualità abbia il dovere di ritagliare uno spazio civico per chiederne la liberazione”. Il programma prevede infatti un evento speciale, una chiamata a raccolta di giornalisti, scrittori, attori, la società civile tutta, domani alle 11.30 al Chiostro del Museo M9. Saranno presenti Massimo Cacciari, Marco Damilano, Annalisa Cuzzocrea, Pietro Del Soldà, Sara Sanzi, Articolo 21 ma l’invito è esteso a chiunque voglia unirsi. “La differenza fra altri casi drammatici che ho seguito negli anni - continua Giulietti -, da Ilaria Alpi a Mario Paciolla, è che Trentini è vivo. Negli altri casi possiamo solo rivendicare verità e giustizia per le vittime, qui invece la pressione dell’opinione pubblica deve essere un pungolo, deve far sì che il nome di Trentini non venga archiviato e dimenticato”. Esplicito, in tal senso, l’appello di mamma Armanda durante la Mostra del Cinema: “Mi chiedo spesso: cosa penserà questo ragazzo del suo Paese che per mesi l’ha abbandonato e non si è attivato per liberarlo? Vorrei gridare la mia disperazione e che il mio grido oltrepassasse l’oceano per arrivare in Venezuela a chi lo tiene prigioniero”. Il Ministero degli Esteri, dal canto suo, continua la trattativa per il rilascio dell’operatore umanitario anche grazie all’inviato speciale in Venezuela Luigi Vignali, al quale però un mese fa il governo venezuelano ha chiuso la porta in faccia. Medio Oriente. Il Parlamento Ue prende posizione: “Riconoscere la Palestina” di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 12 settembre 2025 Una risoluzione del Parlamento Ue chiede agli Stati membri di fare passi più decisi per fermare Israele. Nel testo non c’è la parola “genocidio”. Votano a favore Forza Italia. Riconoscere lo Stato palestinese, sanzioni a ministri estremisti e coloni, sì allo stop di fondi a Israele, dura condanna per il blocco degli aiuti umanitari, il concetto per cui il diritto all’autodifesa non giustifica quanto sta accadendo nella Striscia. È piuttosto dura, per quanto con alcune “smussature”, la risoluzione approvata dal Parlamento Europeo riunito in plenaria a Strasburgo sulla situazione a Gaza, definita “al punto di rottura”. Un testo faticosamente negoziato tra i partiti della maggioranza europeista che sostiene Ursula von der Leyen (Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi), che un po’ a sorpresa ha superato una difficile prova. Un voto che ha però visto l’ennesima spaccatura della maggioranza del governo a Roma: sì di Forza Italia, no della Lega e astensione di FdI. Il testo, ha affermato Carlo Fidanza, capodelegazione meloniano nei Conservatori, “non ha raggiunto l’equilibrio che avremmo voluto e che il dramma di Gaza avrebbe richiesto”. “Finalmente - esulta invece, per il Pd, Cecilia Strada - il campo progressista ha sbloccato l’ignobile stallo del Parlamento Europeo su Gaza che andava avanti dal 7 ottobre”. Nel complesso, il testo (non vincolante) è stato approvato con 305 sì, 151 no e 122 astenuti. Il Ppe si è spaccato (circa un terzo ha votato contro), molto più compatti i Socialisti e democratici (cui appartiene il Pd). Il testo è frutto di un negoziato con momenti di alta tensione. Alla fine, il Ppe ha ritirato un emendamento che in sostanza respingeva il riconoscimento dello Stato palestinese (se non a condizioni durissime). In cambio i socialisti hanno ritirato un emendamento in cui si parlava di “prova lampante che a Gaza si sta perpetrando un genocidio”. Un’espunzione che ha fatto gridare allo scandalo M5s (che infatti ha votato contro) parlando di “risoluzione debolissima” e “un tradimento della memoria di oltre 60.000 civili uccisi”. Va detto che il Ppe è riuscito a far passare altri quattro emendamenti, tutti a smussare alcune formulazioni nei riguardi di Israele. Rimane comunque un testo abbastanza duro, la cui prima novità, lo accennavamo, è il riferimento esplicito allo Stato palestinese. Il Parlamento, si legge, “invita gli Stati membri a valutare la possibilità di riconoscere lo Stato di Palestina nell’intento di realizzare la soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati”. Il testo appoggia in pieno l’annuncio della presidente della Commissione Von der Leyen, mercoledì nel discorso sullo Stato dell’Unione, di sospendere i pagamenti bilaterali tra Bruxelles e Israele e “appoggia la sospensione parziale dell’accordo di associazione Ue-Israele”. Non basta: il Parlamento si esprime a favore di sanzioni contro ministri estremisti del governo israeliano (come già annunciato da Von der Leyen senza però fare nomi): il testo cita il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il collega alla Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir (entrambi dell’estrema destra israeliana). Ulteriori sanzioni anche per i coloni violenti, e una dura condanna alla politica israeliana di espansione delle colonie in Cisgiordania. In primo piano naturalmente il dramma umanitario. Il Parlamento Europeo “esprime seria preoccupazione per la catastrofica situazione umanitaria nella Striscia” e “condanna fermamente il blocco degli aiuti umanitari a Gaza da parte del governo israeliano che ha provocato una carestia nel nord di Gaza”, chiedendo “la fornitura senza ostacoli e su vasta scala di aiuti umanitari”. E inoltre “condanna le ripetute violazioni del diritto internazionale umanitario a Gaza, compresi i trasferimenti forzati di massa”. Certo, c’è pure la rinnovata condanna “con la massima forza” dei “barbari crimini perpetrati da Hamas contro Israele”. Si afferma però che “il diritto di Israele di difendersi non può giustificare un’azione militare indiscriminata a Gaza e nella regione”, e si “esprime preoccupazione per le continue operazioni militari nella Striscia di Gaza che hanno causato sofferenze insopportabili per la popolazione civile, in particolare i bambini”. La richiesta è di un cessate il fuoco immediato. “Indignazione> anche per “l’uccisione di 248 giornalisti e 508 operatori umanitari, nonché per i ripetuti attacchi contro ospedali e convogli umanitari”. Il Parlamento, inoltre, “esprime solidarietà ai cristiani di Gaza e della Cisgiordania e sottolinea che essi svolgono un ruolo umanitario e sociale essenziale”. Medio Oriente. Io, giornalista a bordo, cacciata da Flotilla di Francesca Del Vecchio La Stampa, 12 settembre 2025 La bontà dello scopo umanitario resta, ma censurare la stampa non è mai un buon segnale. “Giornalista pericolosa”. È un’etichetta che non pensavo mi si potesse attribuire, quando ho accettato di raccontare l’avventura della Global Sumud Flotilla verso Gaza. Ma è ciò che è successo e che ha comportato la mia espulsione dalla missione. Riavvolgiamo il nastro. Ad agosto vengo invitata da un’attivista, conosciuta mesi prima, a partecipare come giornalista alla spedizione verso Gaza. Ne parlo con la portavoce italiana, Maria Elena Delia, che mi dice: “Ne saremmo felici”. L’obiettivo è raccontare la missione, luci e ombre. Provare a portare aiuti a Gaza è ammirevole, anzi doveroso. Ma è doveroso anche raccontare la verità. Torno ai fatti: arrivo a Catania, luogo di partenza della spedizione italiana e del training per i partecipanti. Il mio giornale, La Stampa, apre una rubrica quotidiana sul sito, a mia firma: un diario di bordo, che comincia dalle attività di preparazione. Nel raccontare, parto dal “manuale” che ci hanno inviato e mi soffermo sul tema della “non violenza”. All’arrivo nel luogo del training, viene chiesto a tutti di consegnare i cellulari. Nei giorni successivi verrà chiesto anche di lasciarsi perquisire. Motivi di sicurezza, dicono. Il corso, tuttavia, non inizierà prima di un’ora e mezza e chiedo se sia possibile mettersi a scrivere restando fuori ed entrando al termine del lavoro. La risposta è no. Quando il corso comincia, dentro ci sono altri giornalisti (estranei agli equipaggi) con tanto di macchine fotografiche e telecamere. Al termine della sessione - che comprende la simulazione di un abbordaggio e di un arresto - chiedo se ci siano contrarietà al fatto di scriverne. Mi viene detto di no, purché non entri nei dettagli. È accettabile. È la cronaca del primo giorno, con qualche vago riferimento di contesto. Ometto - perché non avrebbe aggiunto nulla - che gli organizzatori abbiano sorpreso un attivista con un sacchetto di McDonald’s e abbiano chiesto ai testimoni di cancellare eventuali video. A posteriori, però, mi sembra indicativo del clima generale. Il diario che scrivo dei giorni successivi è meno denso: nessuno vuole o può parlare, nessuno può avvicinarsi alle imbarcazioni, nemmeno accompagnato. La sfiducia è palpabile. L’unica cosa che si possa riportare sono i requisiti per la convivenza in barca. Nel frattempo, la partenza viene rimandata. Chiedo di assistere a un turno di sorveglianza notturna alla flotta, con la promessa di scriverne solo dopo la partenza, una volta cessate le ragioni di sicurezza. Dopo un sì poco convinto, si passa alla latitanza: nessuno risponde più. Dopo pochi giorni, la mia presenza viene messa in discussione: me ne accorgo perché vengo rimossa dalle chat di gruppo. Dopo qualche insistenza, mi chiama un membro del “Direttivo”, Simone. Mi comunica la decisione di mandarmi via per aver rivelato “informazioni sensibili” che avrebbero potuto minare la sicurezza della missione. Sono incredula. Ottengo di riparlarne a voce con Maria Elena Delia, il giorno dopo, mentre decine di altri cronisti (estranei alla missione) al porto filmano le barche, i kit di Starlink non ancora installati. Spiego le esigenze della mia professione. Mi dico consapevole che occorra cautela, ma insisto anche sul fatto che si debba trovare una sintesi. Concordiamo che, da quel momento in poi, ci sarà più dialogo. Penso che la crisi sia rientrata e mi avvio alla prima esercitazione in mare. Poco dopo, mi rincorre un altro attivista, Giuliano. Con lui c’è Simone e una ragazza del Direttivo che non si presenta e dice: “Non possiamo fidarci di te”. I toni sono accesi. “Sei una giornalista pericolosa, hai detto al mondo dove si tiene il nostro corso”. Le sfugge un dettaglio: il luogo del training era noto a molti esterni all’organizzazione, a colleghi, a fotografi. Provo a spiegare, ancora, il valore del racconto giornalistico. Ma hanno già preso la loro decisione. “Sei pericolosa. Il tuo giornale ci ricopre tutti i giorni di m***a”. Ecco il punto. Capisco che potrei parlare per ore: non otterrei nulla. Mi restituiscono il passaporto - ritirato, come farebbe un organo di polizia - mi cacciano letteralmente fuori dal porto, informandomi che non avrei potuto prendere l’autobus di ritorno insieme con gli altri. Sono le due del pomeriggio: resto sotto al sole per ore, senza sapere come rientrare a Catania. Mi tornano in mente le parole di Vittorio Arrigoni: “Restiamo umani”. Passo tutta la sera a fare autocritica. Rileggo i miei pezzi. Inizio a convincermi che la questione è solo una: il mio lavoro è stato considerato “non allineato”. Quando ho accettato di salire a bordo della Flotilla, speravo di poter fare quello che la mia professione comporta: osservare e riferire. Senza addomesticare. Né farsi addomesticare. Non è stato possibile. Eppure, per me resta chiaro che quanto è successo non scalfisce la bontà della missione, l’intento umanitario. Essere espulsa, però, mi ha ricordato una cosa, che riguarda il ruolo del giornalismo: quando uno sguardo viene allontanato, perché non lo si considera “utile allo scopo”, si perde un’occasione. Quella di capire, un po’ meglio, il mondo che ci circonda. Russia. Nelle prigioni di Putin c’è un altro Paese: parla il politico e attivista Davidis da Vilnius di Andrea Massaroni* Corriere della Sera, 12 settembre 2025 Intervista al co-presidente dello Human Rights Defense Center Memorial e responsabile del progetto Support for Political Prisoners - Memorial da tre anni vive in esilio in Lituania, insieme alla famiglia. Un caffè a ridosso del centro, scelto per poter conversare tranquilli, nelle ore del primo pomeriggio che minaccia pioggia. Al tavolo si siede Sergey Davidis, co-presidente dello Human Rights Defense Center Memorial e responsabile del progetto Support for Political Prisoners - Memorial. Da tre anni vive in esilio in Lituania, insieme alla famiglia. Lo ha costretto l’impossibilità di continuare a lavorare in Russia senza mettere a rischio la propria libertà. È la vigilia del vertice tra Putin e Trump, fissato per il 15 agosto. Davidis commenta asciutto: “Non c’è molto da attendersi. Putin non cerca compromessi, Trump cerca solo riflettori”. Quando ha capito di dover lasciare la Russia? “Il peggioramento è iniziato già nel 2020, con gli emendamenti costituzionali. Subito dopo hanno introdotto un enorme pacchetto di leggi repressive. La struttura di Navalny è stata dichiarata “estremista”, e questo ha reso criminale chiunque la sostenesse. Le leggi sugli “agenti stranieri” e sulle “organizzazioni indesiderate” hanno colpito chiunque facesse attività pubblica. E a Memorial ci siamo trovati in una posizione insostenibile. Quando abbiamo classificato come prigionieri politici alcune persone condannate per “terrorismo”, l’ufficio del Procuratore ha presentato dichiarazioni al tribunale accusandoci di giustificare il terrorismo. In teoria e in pratica, persone sono già finite in carcere per questo”. Il 24 febbraio inizia l’invasione. Subito entrano in vigore i nuovi reati: “diffusione di informazioni false sull’esercito” e “disonorare l’esercito”. Tradotto: chiunque critichi la guerra commette un reato. “Per noi era impossibile. Ogni detenuto perseguito con queste leggi doveva essere considerato prigioniero politico. Ma per spiegare perché, avremmo dovuto ripetere le sue parole: diventando passibili dello stesso reato. Il 1° marzo 2022 la polizia fa irruzione negli uffici di Memorial a Mosca, nel quadro del procedimento contro il collega Bakhrom Khomroev, accusato di “terrorismo” per il suo lavoro sui diritti umani. Il 6 marzo, dopo voci di chiusura delle frontiere, lascio la Russia in macchina con moglie e figlie, stabilendomi in Lituania”. Quanti sono oggi i prigionieri politici? “Dipende da come si contano. La nostra lista, basata sui criteri PACE del Consiglio d’Europa, registra poco più di 1000 casi. OVD-Info ne indica circa 1600. Se allarghiamo a chiunque sia detenuto con motivazioni politiche, stimiamo 3700 persone. Noi cerchiamo di aiutarli. E poi ci sono i civili ucraini rapiti: almeno settemila. Deportati in Russia, senza accuse formali, spesso senza nome. Li conosciamo solo grazie agli scambi di prigionieri: qualcuno torna e racconta chi aveva in cella. Tutti gli altri restano invisibili”. I minori rapiti dai territori occupati dell’Ucraina non sono inclusi nelle nostre liste perché tecnicamente non sono privati della libertà: risultano affidati a famiglie affidatarie o tenuti in orfanotrofi. Le manifestazioni di protesta per liberare Navalny nel 2021 sono state imponenti eppure non hanno prodotto risultati. La repressione è asfissiante. Ha vinto il conformismo? “Non è conformismo spontaneo, è il frutto di 25 anni di strangolamento. Putin ha distrutto ogni spazio di libertà: media indipendenti, Ong, partiti. Ha eliminato i punti di cristallizzazione della società. Così oggi non esistono luoghi dove incontrarsi od organizzarsi. Perfino adolescenti di 14 anni sono finiti in carcere per tentativi di attivismo. Non è entusiasmo, è sopravvivenza. La gente si adatta per paura”. Perché Navalny è tornato in Russia? “Non tornò per morire, ma per stare con il suo popolo. Non posso parlare per lui, ma è possibile che Nelson Mandela sia stato un modello. Era un talento raro, capace di mobilitare i giovani, di trasformare ogni occasione in un risultato. Anche in carcere restava il principale nemico di Putin. Lo temevano al punto da perseguitare ancora oggi chi aveva fatto piccole donazioni alla sua fondazione, tre o quattro anni fa. La sua morte, nel febbraio 2024, è stata una sconfitta, ma ha mostrato che un’altra Russia esiste”. E l’opposizione oggi? “Quando non c’è alcuna prospettiva di successo, è naturale che i conflitti interni crescano. Piccoli nuclei divisi che discutono fra loro più di quanto incidano sul regime. È un meccanismo psicologico: se manca la speranza di vittoria, prevale la lotta intestina. È ciò che il potere vuole”. Come si giustifica il regime agli occhi dei cittadini? “All’inizio era solo una dittatura corrotta. Ma con il tempo ha cercato una base ideologica. L’ha trovata nella storia e nei valori tradizionali. Ha trasformato la memoria in propaganda, la tradizione in strumento di legittimazione. Lo schema è semplice: lo Stato è sempre superiore all’individuo, l’obbedienza è virtù, la grandezza nazionale conta più della libertà. Non è nuovo, ma in Russia è potente perché si intreccia con l’eredità imperiale e militare. Così il regime si presenta non solo come potere, ma come incarnazione della storia russa”. Perché Putin ha scelto la guerra? “È stata la decisione di un uomo solo. Nemmeno il Consiglio di Sicurezza era unanime sul riconoscere le repubbliche separatiste. Non c’era domanda sociale. Nemmeno per la Crimea, nel 2014, la gente chiedeva l’annessione. Fu accettata perché sembrava senza costo. L’errore dell’Europa fu accettare quell’annessione senza reagire. Un errore fatale che ha aperto la strada al 24 febbraio 2022”. Il regime è solido? “C’è un proverbio russo: non si può stare troppo a lungo seduti sulla baionetta. Putin oggi sembra solido, ma non c’è nulla di inevitabile. Non è il leader storico e quasi medianico che qualcuno in Occidente descrive. È spietato, ma non invincibile. L’economia russa vive di materie prime: lo Stato può finanziare esercito e polizia senza bisogno della società civile. Ma la guerra logora e la mobilitazione riduce la forza lavoro. Le riserve accumulate sono state consumate. E le conquiste territoriali non portano benefici: regioni distrutte, costose da ricostruire, con popolazioni poco leali, abituate ad un altro livello di libertà. Eventi imprevedibili, come la marcia di Prigožin, dimostrano che il potere non è intoccabile”. E l’Europa? “L’Unione Europea parla di valori, ma li difende solo finché non costano. Putin lo sa. È convinto che l’Europa non abbia la volontà di sacrificare nulla per difendere i suoi principi. Così si sente incoraggiato. Il diritto internazionale non si difende da solo: senza forza resta lettera morta”. L’ambizione di contenere la violenza attraverso il diritto vive una crisi drammatica, tra la frammentazione degli Stati Europei e il neo autoritarismo di Trump... “È così. Se l’Occidente non ritrova quella determinazione, Putin non si fermerà: deve capire che la guerra in Ucraina non gli conviene, altrimenti allargherà l’aggressione”. Quali contributi per una pace giusta? “People First. È la campagna lanciata da due premi Nobel per la Pace: il Center of Civil Liberties di Kyiv e Memorial di Mosca con il sostegno di più di 70 organizzazioni: qualsiasi negoziato deve cominciare dalla liberazione dei prigionieri. Tutti: prigionieri di guerra, ostaggi civili, prigionieri politici. Non è solo umanità. È politica. Significa dire al popolo russo che non sono dimenticati e restituire le premesse per una società russa plurale. È un messaggio che mina la propaganda di Putin, che vuole identificare Russia e Putin come la stessa cosa”. Un consiglio di lettura per capire la Russia? “Il placido Don di Šolochov sulla guerra civile. Vita e destino di Grossman, che mostra la società sovietica schiacciata dal totalitarismo. Avamposto di Glukhovsky, fantascienza che descrive il futuro ma parla anche del passato e del presente. Tre specchi che aiutano a capire la Russia, che non è mai stata un blocco unico, ma un paese di contraddizioni”. Nel frattempo il caffè si è animato. La pioggia non batte più sugli ampi vetri. Le parole di Davidis, messe una dopo l’altra con cura scientifica, tratteggiano una realtà cruda e non consolatoria, mai confusa con la condizione naturale della Russia. Il regime è solido e spietato, ma non inevitabile. Non è un destino. Non ha la grandezza storica che qualcuno gli attribuisce in Occidente. È un potere che vive di repressione, propaganda ed economia estrattiva. Per ora il fronte interno è compatto. La partita decisiva è nelle scelte dell’Europa e degli Stati Uniti: se questi restano compromessi e incerti, Putin continuerà. Da questo caffè di Vilnius si rafforza una distinzione cruciale. Putin manipola la memoria per cancellare le differenze e imporre un’unica narrazione imperiale. L’Europa ha scelto la strada opposta: trasformare la memoria dei conflitti in fondamenta per la collaborazione. Dove per secoli si sono combattute guerre continue, oggi vediamo libera circolazione di persone, beni e idee. Dove imperavano le volontà di potenza nazionalistiche, ora prevale - imperfettamente, ma sostanzialmente - lo stato di diritto. Il risultato è misurabile: la società più longeva e socialmente tutelata della storia umana. Questo non rende l’Europa immune da problemi, ma chiarisce la posta in gioco. La battaglia per la memoria legittima il presente e tiene in ostaggio il futuro. Putin lo sa bene. Per questo trasforma la storia in propaganda, come fanno tutti i sovranismi. Il lavoro di Davidis - documentare i prigionieri, sostenerli economicamente, difendere la loro memoria - è un esercizio di diritto e il promemoria che la libertà richiede vigilanza attiva. Qualche giorno dopo il nostro incontro, un tribunale moscovita ha condannato in absentia Sergey Davidis a 6 anni di reclusione per giustificazione del terrorismo: la colpa è aver condiviso sui propri canali social un contenuto non gradito al regime. Memorial ha vinto il Nobel per la Pace 2022. *Portavoce del gruppo Più Europa Roma Russia. Il grido dell’avvocato Gorinov, prigioniero del regime di Putin di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 settembre 2025 Alexei Gorinov, avvocato ed ex deputato municipale di Mosca, in carcere dalla primavera del 2022, continua a restare in isolamento. Le sue condizioni di salute inoltre sono sempre più precarie. La storia di Gorinov è particolarmente significativa, dato che si inserisce nell’ambito della persecuzione giudiziaria che ha riguardato i dissidenti politici avviata poco dopo la guerra di aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. L’avvocato moscovita è stato arrestato il 26 aprile 2022 per aver criticato l’invasione dell’Ucraina di due mesi prima. Nei suoi confronti è stata applicata per la prima volta la legge sulle notizie false che screditano l’esercito. Per questo sta scontando una pena complessiva a dieci anni di carcere, a seguito di due distinte sentenze di condanna (l’ultima risale al novembre 2024). È di ieri la notizia della proroga - la quarta consecutiva - della detenzione in isolamento di Gorinov per altre due settimane nella colonia di Rubtsovsk. A comunicarlo sono stai i suoi difensori. Il trattamento in carcere riservato a Gorinov è disumano. I motivi riguardanti l’applicazione delle misure punitive sono tanto formali quanto pretestuosi. Le autorità carcerarie hanno contestato l’ultima volta ad Alexei Gorinov il fatto di non aver tenuto le mani dietro la schiena mentre si trovava fuori dalla cella senza manette. La volta precedente l’isolamento è scattato perché non ha mantenuto le mani dietro la schiena mentre riceveva le lenzuola pulite in cella. Un’altra volta ancora l’isolamento è stato applicato perché il detenuto ha lasciato sul comodino le lettere ricevute da parenti e amici che cercano di incoraggiarlo e tenergli alto il morale. Il trattamento riservato a Gorinov, sostengono i suoi avvocati, mira a rendergli sempre più difficile la vita dietro le sbarre e fargli pressione psicologica. Un monito, al tempo stesso, per altri prigionieri politici di cui, purtroppo, si parla sempre meno. Altro aspetto dell’accanimento perpetrato nei confronti dell’avvocato di Mosca riguarda l’applicazione delle norme sull’isolamento carcerario. Le infrazioni attribuite al detenuto Gorinov vengono esaminate da un’apposita commissione. L’isolamento viene applicato non per la durata massima di 15 giorni, ma per 14 giorni. Con questo meccanismo la direzione dell’istituto penitenziario si riserva di prorogare la misura più volte, se non viene raggiunto il tempo massimo della durata. L’ex deputato municipale sostiene che non intende violare alcuna regola in carcere e sulla pagina Telegram, gestita dai familiari e dai suoi avvocati, ha rilevato con amarezza che è passato da un “colonia a regime severo” ad una ‘ colonia punitiva’. Se da un lato la commissione sull’applicazione dell’isolamento è solerte, dall’altro lato nessun riscontro viene fornito al detenuto dalla direzione del carcere in merito alle richieste di essere sottoposto ad alcune visite mediche. Gorinov soffre di cuore e ha problemi respiratori. In passato ha avuto anche la tubercolosi. Le condizioni di salute si sono aggravate in oltre tre anni di carcere soprattutto per l’ambiente malsano della cella. “L’isolamento punitivo - racconta al Dubbio l’avvocato Denis Shedov, che è anche attivista di Memorial - avviene in una “baracca” sporca dalle dimensioni di circa otto metri quadrati. Il pavimento di legno presenta buchi dai quali entrano insetti; le pareti hanno pezzi di intonaco che si staccano e la pittura è ormai ammuffita. La piccola apertura che funge da finestra non consente di vedere quasi nulla. La branda è fissata al muro e viene staccata solo di notte. È presente un lavandino arrugginito, mentre il gabinetto è costituito da un tubo in una base di cemento, chiuso da una sfera di gomma che deve essere spostata durante l’uso”. L’unica compagnia in questi mesi di isolamento punitivo, come ha scritto Gorinov ai suoi difensori, è quella degli “amici pelosi’, vale a dire due topi che si introducono dal pavimento rotto e che condividono con il carcerato la “modesta razione di cibo giornaliera”. “Ormai è chiaro - aggiunge Shedov - si vuole rendere la vita di Alexei Gorinov impossibile. Lui è molto disciplinato e non ha mai violato nessuna regola all’interno della colonia carceraria in cui è ospitato. Presta la massima attenzione a tutto quello che gli viene chiesto di fare, proprio per non dare all’amministrazione penitenziaria il minimo pretesto per subire contestazioni e provvedimenti”. Anche la rete si è mobilitata per sostenere Alexei Gorinov. Oltre a Memorial e Ovd- Info, organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani in Russia, la piattaforma “Woodpicker” (Picchio) ha avviato una campagna per porre fine alla “detenzione sotto tortura” di Gorinov e proteggerlo da condizioni che mettono a rischio la sua vita. I visitatori della piattaforma possono scrivere alla Direzione del Servizio penitenziario federale e al Servizio penitenziario federale per il territorio dell’Altaj. Si possono chiedere, tra le varie cose, un’ispezione della colonia, volta a verificare le condizioni di Gorinov nella cella di punizione, o una visita medica non programmata con trasferimento, se necessario, in ospedale. Messico. Condizioni dei migranti rischiose e disumane L’Osservatore Romano, 12 settembre 2025 La denuncia dei vescovi delle diocesi di frontiera con gli Stati Uniti. I migranti messicani che cercano di oltrepassare il confine con gli Stati Uniti si trovano in condizioni rischiose e disumane: è quanto emerge dall’incontro, appena concluso a Piedras Negras, nello Stato di Coahuila, dei vescovi delle diocesi situate lungo la frontiera di Messico e Stati Uniti. I presuli, ancora una volta, denunciano la difficile situazione nella quale si trovano migliaia di persone. Per questa ragione hanno rivolto un appello non solo ai governi, ma a tutta la società civile, affinché si riconosca e si affronti la dignità violata. La rotta migratoria che attraversa il Messico è stata definita dall’episcopato “la più pericolosa del mondo”. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, i migranti, fuggendo da guerre, violenza e povertà estrema nei loro Paesi d’origine, si ritrovano in un territorio dove i pericoli si moltiplicano in modo esponenziale. Dallo scorso gennaio gli Stati Uniti hanno bloccato le principali vie legali di accesso all’asilo, come la possibilità di presentare domanda tramite l’App CupOne e il permesso umanitario. A questo si aggiungono i trasferimenti forzati, separazioni familiari e respingimenti verso Paesi terzi. L’insicurezza lungo la rotta è allarmante: rapimenti, estorsioni, sfruttamento lavorativo e violenza sessuale sono all’ordine del giorno. Lo smantellamento delle strutture di accoglienza, voluto dall’amministrazione statunitense, ha reso i migranti ancora più vulnerabili e invisibili, soprattutto nelle zone periferiche, dove vivono senza accesso a servizi di base per paura di essere perseguiti, detenuti o trasferiti forzatamente. Al riguardo monsignor Gustavo García Siller, vescovo di San Antonio, ha espresso una profonda frustrazione per le attuali politiche migratorie degli Usa: “La migrazione attuale è sempre complicata; non c’è dubbio, non è facile. Siamo stati molto proattivi come vescovi, ma con queste politiche abbiamo percepito una chiusura delle porte e un atteggiamento di difesa così intenso, che ci chiede nuove strategie”. L’incontro dei vescovi - riferisce l’agenzia Sir - non è stato solo un momento di riflessione, ma ha incluso una visita in un centro d’accoglienza, dove hanno ascoltato le testimonianze dei migranti. Questi racconti, definiti “struggenti” dal vescovo di Piedras Negras, monsignor Alfonso Miranda Guardiola, hanno rivelato la disperazione di chi ha venduto tutto per affrontare il viaggio. Molti hanno narrato di aver affrontato continui pagamenti e subito minacce da parte di reti criminali. Anche le organizzazioni umanitarie che operano al confine per fornire rifugio, assistenza giuridica e umanitaria alle persone in cerca di sicurezza stanno affrontando enormi difficoltà, poiché non hanno più i mezzi finanziari per continuare a operare e portare avanti il loro lavoro salvavita. Nel comunicato finale, i presuli hanno sollecitato un’azione immediata e coordinata per “aprire corridoi umanitari sicuri e legali per i migranti e i rifugiati più vulnerabili”. Hanno anche ribadito la loro ferma convinzione che ogni nazione ha il diritto di mantenere i propri confini, ma ha anche la responsabilità di garantire la vita umana e un’immigrazione sicura, ordinata e umana, incluso il diritto all’asilo. “La Chiesa - hanno concluso - riafferma la necessità prioritaria di uno stato di diritto che protegga le famiglie, in particolare dei migranti e dei rifugiati, che sono colpiti da nuove difficoltà”.