Il carcere che toglie anche la speranza di Silvia Grilli Grazia, 11 settembre 2025 Un’altra donna si è uccisa nel penitenziario di Sollicciano, a Firenze. È il 61° suicidio in una cella italiana dall’inizio dell’anno. Dobbiamo capire che questi non sono episodi isolati, ma la prova dell’indifferenza del nostro Paese. Una giovane donna di 26 anni, una detenuta nel carcere di Sollicciano, a Firenze, si è suicidata. Dall’inizio dell’anno è il terzo suicidio nello stesso carcere, uno dei peggiori d’Italia, dei più abbandonati, tranne che per l’ostinazione dei volontari. Ed è il terzo suicidio in pochi giorni in Italia. La giovane donna rumena di 26 anni si è impiccata all’alba, nella sua cella. L’hanno soccorsa ma era troppo tardi. Era in carcere da quasi un anno, per avere aggredito un uomo anziano che cadendo aveva riportato lesioni gravi. Il suo avvocato la ricorda, nell’ultimo incontro, “di buon umore” perché le aveva comunicato la possibilità di fare istanza dei domiciliari, avendo ottenuto una disponibilità dall’unica persona che la aiutava. Anche una donna di 52 anni si è impiccata con un lenzuolo, giovedì scorso a Rebibbia. Nel 2025, dal primo gennaio, si sono suicidate 61 persone in carcere, compreso un ragazzo minorenne. Antigone racconta l’estate “drammatica” nelle carceri italiane romasette.it, 11 settembre 2025 A fine agosto le carceri italiani ospitavano 63.167 detenuti. Fra questi, finora a togliersi la vita nel 2025 sono stati in 61 detenuti, 23 dei quali da quando è iniziata l’estate, tre mesi nei quali si sono registrati i suicidi di tre donne (quattro in totale quest’anno, numeri che difficilmente in passato si erano registrati) e quello di un ragazzino di 17 anni recluso in un Istituto penale per minorenni. A stilare il bilancio di fine estate, stagione drammatica per i suicidi in carcere quando molte attività si fermano, comprese quelle scolastiche e di volontariato, e le persone sono più sole, è oggi, 10 settembre, l’associazione Antigone. I posti di fatto non disponibili sono ormai 4.615, rispetto ai 51.274 conteggiati dal ministero della Giustizia, e dunque il tasso di affollamento reale ha raggiunto il 135,5%. “Era dai tempi del grande sovraffollamento penitenziario, che portò l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che non si arrivava a questi numeri”, osserva il presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Quello indicato è comunque un tasso di affollamento medio, dato che sono ormai 59 gli istituti penitenziari in cui il tasso di affollamento è pari o superiore al 150% (tre persone ogni due posti disponibili), e 8 istituti hanno un tasso di affollamento del 200% e oltre: Lucca (262%), Milano San Vittore (226%), Foggia (214%), Brescia Canton Mombello (205%), Busto Arsizio (204%), Latina (204%), Lodi (202%) e Como (200%). “Nelle carceri si sta sempre peggio - sono ancora le parole di Gonnella - e sempre meno la pena si sconta nell’ambito della legalità costituzionale. Proprio a partire da questa evidenza, nei prossimi giorni lanceremo una nuova campagna per chiedere riforme urgenti”. “Si misura in carcere lo stato di salute della democrazia” di Luca Borioni ideawebtv.it, 11 settembre 2025 Gherardo Colombo a Cuneo per parlare di giustizia: “Le riforme tecniche non bastano, serve educare”. Il suo volto resta indissolubilmente legato a “Ma­ni pulite”, l’inchiesta che incise profondamente sul sistema della corruzione esistente al tempo, strettamente legato al finanziamento occulto dei partiti politici. A distanza di trent’anni, però, l’ex magistrato Gherardo Colombo è costretto a ripetere una constatazione amara: “Mani pulite è finita da tempo. Non è finita la corruzione. Il vero problema è che la cultura dell’illegalità è rimasta, in forme più o meno evidenti. È un fenomeno diffuso, difficile da scalfire. Per questo insisto sul nodo culturale: senza una consapevolezza condivisa, nessuna riforma sarà davvero efficace”. L’impegno per la sua battaglia culturale lo porta domani sera (venerdì) all’evento organizzato nel Salotto della Fon­dazione Industriali a Cuneo, dalle 21, per approfondire il tema “Il senso del carcere, tra giustizia e democrazia”. Dottor Colombo, perché oggi queste due parole sembrano evocare più problemi che certezze? “Perché spesso si ritiene che la democrazia sia una istituzione meramente formale. Si vota, qualcuno vince, e chi vince può comportarsi come vuole, senza alcun limite: insomma, una specie di dittatura della maggioranza legittimamente eletta. Ma la natura della democrazia adottata dalla nostra Costi­tuzione è diversa: questa afferma infatti che la sovranità appartiene al popolo “che la esercita nelle forme e nei limiti” che la Co­stituzione stessa stabilisce. E il primo limite - che in realtà è il fondamento di tutto il sistema - è il riconoscimento della pari di­gnità di ogni persona. Se chi esercita il potere calpesta la dignità di chiunque, la democrazia perde la sua sostanza”. Giustizia e democrazia sono quindi legate in modo indissolubile? “Sì, vanno a braccetto. Nel momento in cui si nega un diritto fondamentale a una sola persona, la democrazia è compromessa e la giustizia si stravolge. Attenzione, ci sono Paesi in cui la parola democrazia è intesa in senso meramente formale. Guardi agli Stati Uniti: lì la pena di morte convive con un sistema formalmente democratico, ma che nella sostanza nega il riconoscimento della pari dignità universale. Dignità che nella democrazia sostanziale non può perdersi mai (ragion per cui è esclusa la pena di morte)”. Entriamo nel tema del carcere in Italia. Perché il sistema sembra non funzionare più? “Non è che non funziona più, non ha mai funzionato, qualunque fosse l’amministrazione che governasse il Paese. Ci so­no stati tentativi di riforma, alcuni anche trasformati in leg­ge, ma i risultati non hanno scalfito la convinzione di fondo, secondo la quale il carcere ha il compito esclusivo di fare soffrire chi ha commesso un reato. L’ordinamento penitenziario, introdotto nel 1975, se fosse applicato alla lettera, cambierebbe la vita dei detenuti. Nel 1986 un passo avanti importante si è fatto con la cosiddetta legge Gozzini, che tra l’altro ha aumentato la platea delle misure alternative al carcere. Faccio notare che paradossalmente, mentre aumenta il numero delle persone sottoposte a pene alternative, au­menta anche la popolazione car­ceraria. Tra il 2015 e il 2018 ci sono stati tentativi di riforma globale, finiti quasi nel nulla. Contemporaneamente per alcune categorie di detenuti le condizioni si sono notevolmente aggravate. Insomma, le condizioni sono rimaste tali da rendere quasi impossibile qualsiasi forma di rieducazione”. Si parla infatti delle carceri come di “università del crimine”... “In carcere si impara spesso a delinquere meglio. La pena non assolve alla funzione che la Costituzione le assegna, cioè la rieducazione. E finché sarà così, la società non avrà nulla da guadagnarci”. Lei ha citato anche i diritti negati, come quello all’affettività... “Certo. La Corte costituzionale a gennaio dello scorso anno ha dichiarato incostituzionale il divieto di incontri intimi tra detenuti e partner. Però, il diritto è stato fin qui applicato una o due volte, e solo grazie alla de­terminazione di alcuni magistrati di sorveglianza. Gua­rdiamo invece ai paesi confinanti: in Francia, Svizzera, Austria l’affettività in carcere è una regola. Da noi resta un tabù, la regola c’è, ma il sistema non si è strutturato perché venga applicata. In situazione analoga si trova il sistema di giustizia riparativa introdotto nel 2022 dalla Riforma Cartabia: sulla carta esiste, ma ancora non sono stati emanati i provvedimenti amministrativi perché possa essere applicata nella generalità dei casi”. Il confronto con l’Europa ci vede arretrati anche sul piano delle strutture... “Se guarda le foto delle carceri norvegesi si accorgerà subito della distanza che ci separa dai paesi più evoluti. In Italia le prigioni sono sovraffollate, spesso vi si vive in condizioni disumane”. In più, in Italia, sembra che il carcere sia percepito come un mondo a parte, da nascondere... “Il sistema penitenziario è molto lontano da quel che prevede la Costituzione, ma l’elettorato nella grande maggioranza lo vuole così. Il carcere dà la misura della realizzazione effettiva del sistema democratico voluto dalla Costituzione. La soluzione? Dovrebbe passare attraverso l’educazione della cittadinanza”. Quindi una riforma non può essere solo tecnica... “È necessario che tutti noi ci educhiamo al rispetto della dignità di qualunque persona. Non basta cambiare le leggi se la società non è pronta ad accoglierle. Bisogna lavorare nelle scuole e nella società civile, aiutando i cittadini a comprendere che il rispetto della dignità umana è un principio che non si può negoziare. Le parole di un esponente di governo, che afferma come sia per lui una gioia constatare “come noi non lasciamo respirare” un detenuto trasportato in auto per un trasferimento, danno la dimostrazione di come si sia lontani dalla Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”“. In definitiva, la misura della salute della democrazia e della giustizia si vede nelle carceri? “Proprio così. È lì, nel modo in cui trattiamo chi si trova nelle condizioni di maggior debolezza, che si capisce se la nostra democrazia è sostanziale o solo formale”. Il carcere non è vendetta: perché la giustizia riparativa riguarda anche i nostri adolescenti di Alexia Delzenne L’Opinione, 11 settembre 2025 “Il carcere non è vendetta” non è stata un’attenuante emotiva, ma la domanda politica e culturale messa al centro dall’incontro che si è svolto il 4 settembre al Palazzo San Sebastiano, nell’ambito del Festivaletteratura, con Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze e la moderatrice Verdiana Benatti. Il confronto ha spostato l’asse dal castigo alla responsabilità, dalla punizione alla riparazione del danno e della fiducia sociale. L’Italia ha scolpito nella Costituzione che la pena deve “tendere alla rieducazione”: un principio spesso evocato e troppo raramente valutato nei suoi esiti. La questione, oggi, è tutta qui: che cosa funziona davvero per ridurre la recidiva, sostenere le vittime e restituire sicurezza alle comunità? Bortolato ha scelto di abbandonare il ping-pong ideologico - il “buonismo” contrapposto al “pugno di ferro” - per tornare al terreno, più faticoso ma decisivo, delle evidenze: programmi mirati, percorsi di responsabilizzazione, lavoro e formazione dentro e fuori dal carcere, giustizia riparativa quando le condizioni lo consentono. In questo quadro, la giustizia riparativa è stata delineata con precisione: non un condono morale, non una sostituzione della pena, non un obbligo a “perdonarsi”, ma un insieme di procedure che mette al centro il danno prodotto e prova - in modo volontario, mediato e sicuro - a ricomporre almeno in parte la frattura. Si tratta di chiarire i fatti, riconoscere le responsabilità, prevedere azioni concrete di riparazione simbolica e materiale. Quando avviene, avviene accanto alla pena, non al posto della pena. È stato sgombrato il campo da alcuni equivoci ricorrenti. Il primo riguarda l’equazione “più carcere uguale più sicurezza”. Il carcere resta necessario e va usato senza timidezze davanti a reati gravi e a pericolosità attuale, ma oltre una certa soglia l’inasprimento “a volume” non migliora gli esiti: in assenza di trattamento, studio, lavoro e percorsi strutturati di responsabilizzazione, l’uscita somiglia a una porta girevole. Dirlo con chiarezza non significa cedere sul principio punitivo, ma orientarlo al risultato: la domanda pubblica non è quanto puniamo, bensì quanto riduciamo il rischio che accada di nuovo. Secondo fraintendimento: l’umanità come sinonimo di debolezza. In un sistema costituzionale, umanità significa al contrario fissare standard professionali esigenti - salute garantita, accesso allo studio, lavoro effettivo, programmi di responsabilizzazione verificabili - e pretenderne il rispetto. Non è morbidezza, è alzare l’asticella: chiedere di più a chi ha sbagliato, non di meno. Terzo equivoco: scambiare la riparativa per una terapia delle emozioni. Non lo è. È un metodo con regole, filtri di idoneità, volontarietà delle parti, tutela rigorosa delle vittime e cornici etiche e giuridiche precise. Quando mancano sicurezza, consapevolezza del fatto o condizioni minime di equilibrio, semplicemente non si fa. È, in altre parole, una possibilità adulta: affianca la pena, non la sostituisce; chiede responsabilità, non pacificazione forzata; produce chiarimenti, assunzioni di impegni e, talvolta, riparazioni concrete. Il tema delle vittime è emerso come banco di prova della serietà del sistema. Dire che il carcere non è vendetta ha significato prendere sul serio i loro bisogni: verità, riconoscimento del torto, risarcimenti effettivi, protezione. La riparativa, quando percorribile, può offrire qualcosa che il processo spesso non dà: una parola diretta sull’accaduto, informazioni precise, impegni concreti. Non pacificazione forzata, ma giustizia che prova a ricucire ciò che è stato strappato. La prospettiva minorile ha reso ancora più evidente l’urgenza del cambio di passo. La devianza giovanile chiede risposte tempestive, mirate, educative: mediazione penale, lavori socialmente utili, sviluppo di competenze, coinvolgimento delle famiglie e della comunità. In questo ambito la riparativa incide su due versanti decisivi: la responsabilizzazione del minore e la riduzione del danno per chi ha subito. L’errore non si cancella, ma può diventare un punto di ritorno verso la cittadinanza, a condizione che l’intervento sia esigente, monitorato e sostenuto da una rete di adulti competenti. È una scelta, questa, che non alleggerisce la risposta dell’ordinamento: la rende più selettiva e più utile, perché orientata a prevenire nuove offese. Su ciò che funziona, l’incontro ha richiamato alcune leve concrete. I programmi devono essere differenziati: non esistono reati “qualunque” né biografie intercambiabili; violenza domestica, reati contro il patrimonio, dipendenze richiedono strumenti diversi. Lavoro e studio non sono benefit, ma condizioni per una ricaduta minore: competenze reali e legami con il territorio diminuiscono l’attrazione della recidiva. I percorsi responsabilizzanti, che esigono l’ammissione del fatto, la comprensione del danno e, dove possibile, la riparazione, danno sostanza alla finalità rieducativa dell’articolo 27 della Costituzione. Le misure alternative serie, infine, non alleggeriscono la pena: la orientano a un esito migliore, con controlli e obblighi che rendono verificabile l’impegno. Perché questo dibattito è contato - e conta - oltre Mantova? Perché non ha riguardato soltanto una visione culturale, ma scelte concrete di bilancio, priorità istituzionali, formazione degli operatori e, soprattutto, la fiducia dei cittadini. Una pena ridotta a sola punizione non basta; una pena ridotta a solo progetto sociale tradisce la domanda di giustizia. La via stretta è una pena utile: ferma e proporzionata, ma misurata sui risultati e capace di restituire qualcosa di concreto alla comunità. Il contributo più prezioso emerso dall’incontro è proprio l’insistenza sulle metriche: indicatori chiari per valutare ciò che funziona e ciò che no, al riparo tanto della retorica indulgente quanto di quella punitiva. In questo senso emerge un’agenda realistica: chiarire principi, mostrare pratiche, distinguere gli strumenti efficaci da quelli simbolici, ancorare ogni scelta a obiettivi verificabili. La scoperta dell’educazione affettiva. “In carcere si può cambiare” di Alessandro Cannavò Corriere della Sera, 11 settembre 2025 I lavori di consapevolezza a Bollate: “I reati di natura sessuale sono quelli con il più alto tasso di negazione”. Quanto vorrei essere utile per rintracciare e fermare qualcuno che sta per commettere il mio reato “. In 25 anni di lavoro, per Roberto Bezzi, responsabile dell’Area educativa del carcere di Bollate, questa frase pronunciata da più detenuti condannati per femminicidio, resta una delle più belle e potenti nel dimostrare i segni di un cambiamento. Bezzi partecipa a “L’educazione affettiva degli InVisibili”, l’incontro in programma sabato 13 settembre alle 16.3o, che avrà come ospiti anche il direttore generale della Fondazione Reggio Children Christian Fabbri e Martina Fuga, presidente di Coordown. Il mondo delle carceri, dell’infanzia (attraverso una rete di asili-modello) e della disabilità per trattare da punti di vista meno considerati, un tema- chiave nei rapporti tra maschi e femmine. A Bollate gli autori di femminicidi, reati sessuali e maltrattamenti sono circa un quinto dei 140o detenuti. “Il primo lavoro da fare è stabilire un percorso di consapevolezza del reato - spiega Bezzi. L’obiettivo è fornire gli strumenti che anticipino un’eventuale recidiva. Seguiamo il modello messo a punto dall’Istituto Pinell di Montreal, pioniere nell’intersezione tra la psichiatria forense e il sistema giudiziario. Abbiamo due équipe, la UTI (Unità di Trattamento Intensivo) per chi ha commesso un reato sessuale e la UTM (Unità di Trattamento per i Maltrattamenti). C’è poi un lavoro trasversale psicologico sulla consapevolezza. Le unità coinvolgono criminologi, psicologi, educatori, psicodiagnostici e un’arteterapeuta”. Chi accetta di farsi aiutare, si sottopone a vari tipi di terapie collettive, come la hot seat, la sedia calda, in cui si è pronti alle domande senza barriere non solo degli operatori ma anche degli altri detenuti. C’è inoltre una presa in carico di coloro che usufruiscono di misure alternative o hanno finito la pena. Fra tutti i reati di cui gli operatori di Bollate devono occuparsi, quelli di natura sessuale o per maltrattamenti hanno il più alto tasso di negazione. “È qui è il grande problema culturale - riprende Bezzi. Non è che si neghi l’atto, non lo si considera come reato. Osi adduce come giustificazione la provocazione di lei”. Ma Bezzi mette in luce anche un altro aspetto: “Il rapporto patologico di succubanza della ex vittima con il reo. Ci sono donne che continuano a portare il sugo in carcere ai compagni violenti. Mentre lavoriamo sulla consapevolezza, c’è il rischio che loro si raccontino un’altra storia”. Ma qual è la concezione della donna oggi nelle carceri? “Dipende dalla cultura di provenienza. Una cosa è certa: qualsiasi azione noi facciamo, vanno dati sempre messaggi di parità di genere. Per quanto riguarda, invece, le detenute, devono essere educate alla emancipazione, nel loro vissuto hanno spesso storie complementari all’uomo violento”. La ormai copiosa presenza femminile in ruoli-guida nelle carceri, dalla direttrice alla capa della polizia, penitenziaria alle dottoresse è un altro elemento che aiuta il cambiamento. “Nella cultura penitenziaria si porta in genere rispetto al mondo civile che è qui per aiutarti. E se chi ti aiuta è una donna, questo favorisce un’evoluzione culturale”. Bollate si appresta, inoltre, a mettere in atto le disposizioni sul diritto all’affettività dei detenuti sancite da una sentenza della Corte Costituzionale. “Ma nessuna nuova opportunità avrebbe senso se non ci fosse, come qui, un clima di relazioni sane, che si basano su una fiducia reciproca tra noi e i detenuti”. Presto le urne sulle “carriere” per aggirare la mina Almasri di Errico Novi Il Dubbio, 11 settembre 2025 L’apertura della questione dinanzi alla Consulta per la dirigente di via Arenula può disinnescare la “trappola libica” solo se si arriva al referendum in pochi mesi. Come uscirne? Ecco il quesito che costringe Palazzo Chigi a scervellarsi: come sfuggire alle sabbie mobili in cui si è tramutata, nella migliore tradizione degli incubi, la marcia trionfale verso la separazione delle carriere. È evidente come ai piani alti del centrodestra si sia diffusa, da alcuni giorni, una certa tensione. All’origine c’è un atto mancato: la rinuncia al segreto di Stato sul caso Almasri. Si riflette, con amarezza, sulla sottovalutazione dell’alert lanciato a inizio anno, nelle fasi iniziali dell’affaire libico, da Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza con delega ai Servizi: sarebbe preferibile apporre il segreto di Stato sulla vicenda. Altri, nella cerchia ristretta della premier Giorgia Meloni, fecero notare, non senza elementi di verità naturalmente, come una mossa simile avrebbe scatenato contro il governo una tempesta di accuse su inconfessabili traffici con la Libia. Il rimedio, si disse, sarebbe stato peggiore dei rischi (il “male” poi derivato dal rimpatrio del militare- torturatore non era ancora del tutto prevedibile). Solo Mantovano, da magistrato, aveva intravisto con più chiarezza il pericolo. Ma ora è tardi. Ed è troppo tardi anche per ignorare la trappola creatasi con l’indagine su Giusi Bartolozzi, capo Gabinetto del ministro, Carlo Nordio, autore della riforma- clou. Nelle analisi delle ultime ore, sempre più faticose e rarefatte, visto il prevalere dell’allarme per la crisi internazionale, l’unica via d’uscita per il governo sembra consistere in una decisa accelerazione dei tempi. Bisogna stringere sull’iter delle carriere separate, in modo che il via libera definitivo, il sì in quarta lettura a Palazzo Madama, arrivi nel giro di un mese, e comunque prima che le residue energie di Esecutivo e maggioranza vengano definitivamente risucchiate dalla sessione di Bilancio. È così che si spiega il colpo di frusta scoccato ieri nella Conferenza dei capigruppo a Montecitorio: mandato al relatore in commissione programmato per martedì 16 settembre, approdo nell’Aula per il voto finale il giorno stesso (come riferito in dettaglio in altro sevizio del giornale, ndr). “Il governo, come aveva promesso, tira dritto con i tempi più brevi possibili sul sì in terza lettura della riforma della giustizia: e i tempi sono quelli già stati registrati all’epoca della riforma Renzi”, sdrammatizza Luca Ciriani, ministro ai Rapporti col Parlamento, di FdI. Ma la scelta non è esattamente neutra: se non ci si sbriga e non si arriva entro i primissimi mesi dell’anno al referendum confermativo sulla riforma, ci sono due rischi fatali. Il primo: più passa il tempo e più aumentano le probabilità che piombi, nel pieno della campagna per il Sì alle carriere separate, un rinvio a giudizio per Bartolozzi, con tutto quanto ne seguirebbe per l’immagine del governo e in particolare di Nordio, figura simbolo della riforma. Ma il secondo fantasma che si aggira nei palazzi del governo è di una generica esposizione ad altre iniziative giudiziarie comunque ostili alla maggioranza, che indebolirebbero ulteriormente il fronte del Sì nella consultazione sulle carriere dei magistrati. Non a caso la capo Gabinetto di Nordio è ormai apertamente definita “l’ostaggio catturato dalla magistratura”, pronta, secondo l’interpretazione condivisa anche ai vertici dell’Esecutivo, a “consegnare Bartolozzi nelle mani dell’opposizione affinché ne faccia il bersaglio immediato delle peggiori accuse nei nostri confronti, proprio alla vigilia del voto sulla riforma Nordio”. Perciò, prima ci si arriva, al voto pro o contro la separazione delle carriere, e meglio è, pensa chi, nella cabina di regia del governo, ha ancora tempo per occuparsi delle questioni giudiziarie. Come segnalano le prime schermaglie, nella Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio, sul caso Almasri, al centro della nuova strategia dell’Esecutivo c’è l’iniziativa, parallela allo sprint sulla riforma in Parlamento, per sollevare conflitto di attribuzioni sulla mancata richiesta di autorizzazione a procedere per Bartolozzi. Intanto (come riferito in dettaglio da un altro articolo, ndr) l’organismo presieduto da Devis Dori ha chiesto agli uffici tecnici un approfondimento per valutare se sussista la connessione fra gli illeciti contestati alla dirigente di via Arenula e le accuse rivolte dal Tribunale dei ministri a Nordio, Piantedosi e Mantovano. A invocare una verifica tecnica, sono stati in particolare i deputati che in Giunta rappresentano Fratelli d’Italia. E non sembra un caso, visto che sullo sfondo dell’intera vicenda c’è l’investimento politico della stessa Giorgia Meloni sulla separazione delle carriere. Una volta che la Giunta si sarà espressa, dovrà poi essere l’Aula di Montecitorio a deliberare il conflitto di attribuzioni e sottoporlo alla Corte costituzionale. A uno snodo simile ci si potrebbe Dopodiché Palazzo della Consulta si prenderebbe il tempo necessario per verificare l’ammissibilità del conflitto: circa 6 mesi secondo la prassi prevalente. Ma se la Corte valutasse di dover “stringere” il più possibile all luce del particolare rilievo politico istituzionale della questione, i mesi potrebbero scendere a quattro. Vorrebbe dire, certo, che l’impallinamento mediatico di Bartolozzi, e quindi di Nordio, e quindi dell’intero governo che ha voluto la separazione delle carriere, resterebbe sospeso per un bel po’, anche se l’argomento sarebbe comunque usato dagli avversari nella campagna referendaria. Fino alla pronuncia della Consulta, la vulnerabilità del centrodestra sarebbe attenuata. D’altra parte, i margini sono sottili, e i rischi restano. Un no della Corte costituzionale allo scudo per la capo Gabinetto di Nordio sarebbe esiziale, se arrivasse prima del voto popolare sulla riforma. Il ricorso al conflitto dinanzi al giudice delle leggi è dunque una possibilità da maneggiare con cautela, per Palazzo Chigi. La verità è che la strada fino all’eventuale vittoria del Sì sulla riforma Nordio è piuttosto una giungla. E pensare di poter sfuggire a tutto questo, sarebbe da illusi. “Le carriere separate non devono diventare un referendum su Meloni” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 settembre 2025 Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere Penali. Secondo lei esiste un asse politico Anm/ Pd per fronteggiare insieme il referendum per la separazione delle carriere? L’Anm si difende sostenendo che vanno ovunque li invitano, anche da Atreju. Se sostengono questo, difficile contestare la loro posizione. Il problema sono invece gli argomenti che usano contro la riforma e che svieranno il dibattito dall’oggetto del referendum al suo presunto significato politico. Mi spiego meglio. Prego... Quando l’Anm sostiene che questa riforma sarebbe l’anticamera della sottoposizione del pm all’Esecutivo - argomento che noi penalisti contestiamo fortemente - lo fa utilizzando una tesi in realtà priva di motivazioni giuridiche. Infatti il testo della riforma esclude drasticamente questa ipotesi; anzi, al contrario il testo normativo prevede un Consiglio superiore dei pubblici ministeri che godrà della stessa autonomia e indipendenza di quello dei giudici. Possono anche sostenere che non hanno un’alleanza politica con Pd, ma nei fatti utilizzano gli stessi argomenti della politica e quindi da questo punto di vista c’è una consonanza. Però il problema non è tanto l’Anm, quanto il Partito Democratico. Ci spieghi meglio… Il Pd fa lo stesso tipo di ragionamento dell’Anm ma in maniera più cinica, cercando di trasformare il referendum in un plebiscito “Meloni sì, Meloni no” che ovviamente è tutto politico e non giuridico. Diranno anche la riforma l’ha voluta Berlusconi e rappresenta il pezzo di un puzzle per minare le garanzie costituzionali insieme alle altre riforme già messe in atto... Il Pd ha coscienza sporca. Questa è una riforma voluta sì da Berlusconi ma anche da Giovanni Falcone, così pure da Maurizio Martina quando era segretario dei dem. Sulla separazione delle carriere non aveva da ridire neanche l’attuale responsabile giustizia dei Pd, Debora Serracchiani. Su questo punto replicano che allora parlavano di separazione delle funzioni senza sconvolgere l’assetto costituzionale… Mi pare che invece a quei tempi già si era parlato di separazione delle funzioni: il discorso che fece Martina seguiva la riforma Castelli, non veniva fatto al momento della riforma Castelli. Invece è indubbio che pure alcuni esponenti del Partito Democratico, anche prestigiosi benché senza cariche, come Goffredo Bettini, si siano posti il problema rispetto alla terzietà del giudice che può essere risolto solo con la separazione delle carriere. Giuliano Pisapia era - e spero lo sia ancora - a favore della separazione delle carriere, e certamente non gli si può imputare nessun disegno di piegatura antidemocratica del sistema della giustizia. Certo, al Pd viene bene dire che questa riforma è il segno di una deriva di un disegno tendenzialmente autoritario perché fa presa nel dibattito politico. Ma siamo in presenza di uno sviamento costruito a tavolino che si allontana dal cuore della riforma. Non dobbiamo però dimenticare un aspetto. Quale? Che questa torsione attorno ai contenuti della riforma viene anche alimentata talvolta da chi nel campo della maggioranza questa riforma la propone, proprio perché anche loro vogliono trasformare la faccenda in un referendum ma in questo caso pro o contro magistratura. Quindi lei non condivide quando - non sappiamo se volontariamente o meno - si usano altri argomenti per colpire la magistratura in questi mesi? Tipo come ha detto Nordio “i magistrati che sbagliano cambino mestiere”? O come Zangrillo che attacca le valutazioni professionali? Ci sono talmente tanti argomenti per dimostrare che il sistema giustizia non funziona e che la soluzione risiede anche e soprattutto nella separazione delle carriere e nella riforma del Csm che non occorre usare altri argomenti. Gli italiani sarebbero abbastanza maturi da non dover subire un imbarbarimento della discussione; sono i protagonisti del dibattito che lo stanno imponendo. Quindi secondo lei anche la maggioranza sbaglia nella propria comunicazione? Io non voglio la separazione delle carriere o la riforma del Titolo IV per tagliare le unghie alla magistratura. La voglio per evitare quelle distorsioni che ci sono state tanto dal punto di vista ordinamentale, con la scarsa terzietà dei giudici, quanto rispetto al funzionamento del Csm - e su questo mi sembra che i magistrati siano piuttosto evasivi - per rimettere la situazione sui binari corretti. I binari corretti certamente non sono quelli su cui ha camminato il treno guidato da Luca Palamara in un lungo periodo, e prima e dopo di lui da altri molto spesso con le stesse logiche di esasperazione correntizia, di cooptazione, di mercato delle nomine e via discorrendo. Non mi pare che l’Anm abbia mai fatto i conti con tutti questo. Ieri su Panorama, Cesare Parodi ha detto: “Davvero credete che da anni vi sia un piano sistematico della magistratura - coordinato con non si sa quali modalità e da soggetti non facilmente individuabili - per attaccare sistematicamente il governo e boicottare le sue leggi?” Che ne pensa? Non c’è bisogno di un complotto - che a parer mio non esiste - per dire che le cose vanno male. Io penso al fatto che, invece, c’è stata sempre, nelle diverse stagioni politiche, una sorta di concezione proprietaria delle questioni di giustizia da parte dell’Anm che, infatti, ogni tanto confonde il proprio ruolo: quasi fosse un’istituzione e non un sindacato, qual è in realtà. Si tratta di quella concezione proprietaria per cui poi qualsiasi riforma attinente al campo della giustizia o aveva il preventivo assenso della magistratura o finiva per non passare. Mi faccia capire meglio: lei quindi non è d’accordo con chi sostiene, ad esempio, che colpire il capo di Gabinetto Giusi Bartolozzi nasconda la volontà di colpire la separazione delle carriere e Nordio? O che i giudici rinviando alle CGUE la questione sui rimpatri vogliono riscrivere la politica migratoria del Governo? No perché, le ripeto, io non credo ai complotti. Va salvaguardata l’autonomia e l’indipendenza del singolo magistrato che prende una decisione su un singolo caso. Il giudice deve fare il giudice, e questo significa anche valutare la legittimità di una legge rispetto alla Costituzione e alle norme sovranazionali. Al contrario ci troveremmo dinanzi ad una involuzione del sistema giustizia che sarebbe irricevibile. È la concezione proprietaria della magistratura sui temi della giustizia che va contrastata, senza banalizzarla e involgarirla con il tema dei complotti. In vista del referendum, secondo lei la magistratura perderà o acquisirà consensi alleandosi con l’opposizione? Nordio sostiene sia “pernicioso”... Come dimostrano anche i social dell’Anm - con esempi e con parole d’ordine che fanno parte della propaganda politica del più basso livello - esiste il rischio di far apparire il corpo della magistratura sbilanciato rispetto a certe alleanze politiche. Se si discutesse invece all’altezza del merito dei problemi che questa discussione pone, questo rischio non si correrebbe. Ma non mi pare che lo stiano facendo. Cosa direbbe ad un avvocato che è tentato di non votare ‘sì’ al referendum perché prevede il sorteggio - soluzione non contemplata nella proposta dell’Ucpi - e perché porta la firma della destra? Io andrò a votare “Sì” alla riforma perché i rischi della riforma, come il sorteggio, mi sembrano minori rispetto ai vantaggi. Ma soprattutto da vecchio radicale quello che dico è che per me ci sono dei temi su cui le etichette politiche non contano, io vado a vedere sostanzialmente la tessitura. È vero che si poteva fare in maniera diversa, ma se stiamo a questo punto anche per responsabilità degli interlocutori: l’Anm ora non può lamentarsi se fin dall’inizio si è opposta totalmente a tutti i punti della riforma senza proporre alternative. Cassano: “I magistrati non aderiscono a fazioni. Le critiche aiutano, ma no al dileggio” di Francesco Grignetti La Stampa, 11 settembre 2025 La presidente uscente della Cassazione: “Autonomia e indipendenza vanno praticate in concreto”. Margherita Cassano è appena uscita dall’organico della magistratura dopo una carriera lunga e strepitosa. Prima donna ad essere stata Presidente della Cassazione. L’avevano accolta con grandi applausi forse perché qualcuno si aspettava in lei una figura malleabile, ma non è stato così. “Non penso che quando si parla di una donna la si possa necessariamente identificare con un essere fragile e indifeso, no? Ognuno ha la sua formazione. Io devo ringraziare dei maestri che mi hanno insegnato non soltanto a tentare di esercitare al meglio la professione, ma anche che non basta declamare l’autonomia e l’indipendenza. Bisogna praticarle in concreto”. E lei, pur di formazione conservatrice, ha criticato severamente la riforma Nordio sulla separazione delle carriere. Non la convince la creazione di un corpo separato dei pubblici ministeri, né lo sdoppiamento dei Csm... “Cercherò qui di semplificare al massimo il mio pensiero. Primo, è indubbia prerogativa esclusiva del legislatore fare le scelte di sua pertinenza. Secondo, quando queste scelte hanno ricadute sull’organizzazione giudiziaria o sul funzionamento della giustizia, il Consiglio superiore della magistratura non solo può, ma deve fornire il suo contributo. Lo prevede l’articolo 10 della legge costituzionale istitutiva del Csm. Ebbene, in attuazione dell’articolo 10, il Consiglio superiore della magistratura ha formulato un parere che mette in luce talune criticità nell’adozione di questa riforma. È un parere che è stato adottato con la totalità del voto dei consiglieri togati, compreso il mio, e ha visto il voto dissenziente di alcuni togati laici, espressi dal Parlamento. Sulla base di queste premesse e riaffermando ciò che è già scritto in quel parere, ho ribadito quali possono essere i profili di criticità”. Il principale? “La Costituzione vieta espressamente di istituire giurisdizioni speciali oltre quelle esistenti. Ma l’istituenda Alta corte (che dovrà occuparsi dei profili disciplinari del magistrati, ndr) è indubbiamente una nuova giurisdizione. Lo dice la Corte costituzionale, non io. La Corte in più occasioni ha riaffermato la natura giurisdizionale del procedimento a carico dei magistrati. Quindi, in chiave propositiva e di apporto tecnico alle scelte esclusive del legislatore, noi poniamo questo interrogativo tecnico che non è stato molto ripreso nel dibattito: è possibile senza una modifica costituzionale prevedere un’ulteriore giurisdizione speciale? E c’è un secondo problema. Sempre la Costituzione prevede come garanzia generalizzata per ogni cittadino, e quindi anche per il magistrato, che tutte le sentenze siano appellabili in Cassazione. Per i magistrati, invece, pare previsto solo un ricorso alla medesima Alta Corte. Insomma, sarebbe fondamentale capire se anche queste sentenze saranno suscettibili o meno di ricorso per Cassazione”. Eppure, a dispetto dei vostri argomenti, il governo e il centro-destra spingono in Parlamento per approvare al più presto la riforma con clamorosa accelerazione... “Mi auguro che i contributi offerti dalle varie figure professionali mosse soltanto da uno spirito di collaborazione (perché le istituzioni devono cooperare, sa) possano essere prese in esame. Sicuramente la magistratura non è mossa da intento di polemica né di contrapposizione. Siccome la sua attività consiste quotidianamente nella interpretazione delle norme, forse noi abbiamo la possibilità, o meglio la fortuna di cogliere tecnicamente alcune aporie, alcune questioni, che, se affrontate preventivamente, consentono poi di evitare problemi in sede applicativa o interpretativa. Quindi io mi auguro che siano intesi per quello che sono: non rilievi di chi aderisce a questo o quello schieramento politico, perché noi non aderiamo. Siamo al di fuori di questa contrapposizione politica. La nostra è una legittimazione tecnico-professionale e con questo spirito facciamo vedere i problemi”. Si sono dimenticati della Cassazione, insomma, ma forse quella scelta va letta assieme alle polemiche che la maggioranza di recente ha rivolto alla Suprema corte per alcune sentenze non gradite. Lei trova normale che nell’anno di grazia 2025 si debba difendere il ruolo della Cassazione in Italia? “Io mi auguro che le sentenze pronunciate dai magistrati in nome del popolo italiano possano essere studiate e anche essere oggetto di critiche, ma motivate, non contestate genericamente in maniera tale da arrivare a delegittimare una funzione sovrana dello Stato. Perché se arrivassimo a queste situazioni patologiche, noi incrineremmo i fondamenti dello Stato di diritto”. È però un periodo incandescente nei rapporti tra magistratura e politica... “Come ho avuto modo di dire in altre occasioni, le sentenze di tutti i giudici, compresi quelli di legittimità, possono e devono essere oggetto di critica. La critica ci aiuta a crescere. Ma una critica che si trasformi in dileggio, in negazione stessa di una funzione dello Stato, non è più qualificabile come tale”. A proposito di carriere separate, lei ha ricordato che il Parlamento la vedeva molto diversamente qualche anno fa... “Accadeva nel 1999: con la legge 479, si previde che prima di essere assegnati alle funzioni di pubblico ministero, obbligatoriamente i magistrati dovessero esercitare funzioni giudicanti collegiali. Perché è nel Collegio che si stempera l’individualismo. È nel collegio che si impara a rimettere in discussione le proprie convinzioni e a confrontarsi con gli altri, e si affina la sensibilità della prova su cui si deve fondare l’esito del processo. Quindi sì, nel giro di poco tempo, si ha avuto un percorso esattamente opposto” Almasri, FdI tenta la via del conflitto di attribuzioni su Bartolozzi di Simona Musco Il Dubbio, 11 settembre 2025 Al via i lavori in Giunta: lunga relazione del dem Gianassi sul caso nato dal rimpatrio del generale libico. Trentaquattro omicidi, 22 violenze sessuali documentate, torture sistematiche e detenzioni arbitrarie. È questo il ritratto del generale libico Njeem Osama Almasri, capo della Polizia giudiziaria di Tripoli liberato dal governo italiano lo scorso gennaio, dopo l’arresto avvenuto a Torino su ordine della Corte penale internazionale. Un ritratto tracciato da Federico Gianassi, deputato del Pd, nella relazione letta in Giunta per le Autorizzazioni sulla richiesta di procedere nei confronti dei ministri Carlo Nordio (Giustizia) e Matteo Piantedosi (Interno), e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Tutti e tre sono accusati di favoreggiamento; a Piantedosi e Mantovano si contesta anche il peculato, mentre a Nordio l’omissione di atti d’ufficio. La questione arriva alla Camera 24 ore dopo la diffusione della notizia dell’iscrizione sul registro degli indagati di Giusi Bartolozzi, capo di Gabinetto di Nordio, accusata di false dichiarazioni davanti al Tribunale dei Ministri. Intorno alla sua figura il centrodestra ha tentato di accendere un faro, sostenendo la necessità di chiarire se a dover procedere sia il Tribunale ordinario o quello dei Ministri. A sollevare il tema, il capogruppo FdI in Giunta Dario Iaia, sostenuto da Forza Italia, Lega e Noi Moderati. Secondo Iaia, “potrebbe ipotizzarsi una connessione tra i reati contestati a Bartolozzi e quelli contestati al ministro Nordio” e quindi “potrebbe esserci un’attrazione di quel reato sulle contestazioni rivolte al guardasigilli”. Ciò avrebbe dunque obbligato il Tribunale dei Ministri, stando al suo ragionamento, a chiedere l’autorizzazione a procedere anche per la capo di Gabinetto, cosa che non è avvenuta. Per ora si tratta di un ragionamento tecnico, rispetto al quale Iaia ha chiesto un approfondimento agli uffici, ma non è escluso che il centrodestra possa chiedere all’Ufficio di presidenza di Montecitorio di sollevare davanti alla Consulta un conflitto di attribuzioni tra Camera e autorità giudiziaria. Ciò non bloccherebbe l’iter in Giunta, mentre nel frattempo, come da prassi, l’indagine su Bartolozzi rimane comunque “congelata” fino alla fine del procedimento principale. Il M5S ha reagito con durezza: “Vogliono addirittura estendere l’immunità a una persona che non è parlamentare e che non è accusata di concorso nei medesimi reati dei ministri?”, si legge in una nota congiunta delle deputate Daniela Torto, Enrica Alifano e Carla Giuliano. “Se così fosse, noi diremmo no. Sarebbe al di là di ogni logica, l’ennesima forzatura delle norme da parte del centrodestra”. Il presidente della Giunta, Devis Dori (Avs), ha precisato che “la questione non esiste in questo organismo parlamentare”. La relazione di Gianassi ha ricostruito gli eventi legati al caso Almasri: “Nell’arco dei tre giorni (19-21 gennaio) si sono tenute riunioni di emergenza (...) per valutare le conseguenze dell’arresto di Almasri, le possibili ritorsioni contro il Governo italiano e la gestione della cooperazione con la Cpi”. L’Aise avrebbe segnalato “il rischio di tensioni a Tripoli”, con possibili azioni ostili contro cittadini italiani e interessi economici, in particolare l’impianto Eni a Mellitah, in un contesto di rapporti rafforzati con la milizia libica Rada. Sulla strategia del governo, Gianassi evidenzia come Meloni avesse dichiarato che l’espulsione era per “ragioni di sicurezza nazionale”, conseguenza della “scelta autonoma della magistratura di disporre la scarcerazione dell’esponente libico”. Tuttavia, dall’istruttoria emerge “la strategia condivisa dai membri del governo nelle riunioni del 19 e 20 gennaio sul “mancato intervento” del ministero della Giustizia, condizione che ha determinato la liberazione dell’Almasri”. La relazione ricostruisce anche i crimini di Almasri. Il mandato della Corte penale internazionale lo accusa di crimini contro l’umanità e di guerra, consumati nella prigione di Mitiga, dove avrebbe avuto un ruolo direttivo nella milizia Sdf/Rada. Le violenze sistematiche hanno riguardato oltre 5.000 detenuti, con torture, percosse, privazioni di cibo, maltrattamenti sessuali e omicidi, quattro per arma da fuoco, dodici per torture, sedici per mancanza di cure mediche e due per esposizione a condizioni climatiche estreme. La Corte ha rilevato anche persecuzioni, lavori forzati e discriminazioni basate su religione, credo, genere, orientamento sessuale e opinioni politiche. Almasri è ritenuto responsabile come autore materiale, coautore, mandante, istigatore o complice, ordinando le violenze senza lasciare tracce visibili e punendo le guardie che mostravano clemenza. Accuse per le quali le opposizioni chiedono chiarimenti in aula, alla luce delle dinamiche ricostruite dal Tribunale dei Ministri. A replicare è stato il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri: “Forse (i capigruppo di opposizione, ndr) si sono distratti perché non solo c’è stata già una discussione al Senato sul tema - ha detto - ma è in corso nel Parlamento una discussione sulle richieste di processare i ministri, si sta discutendo proprio oggi nella giunta della Camera”. Altro tema affrontato in Giunta è stato l’accesso ai documenti. Dori ha depositato una proposta di modifica dell’articolo 18-bis del Regolamento della Camera, per consentire ai deputati non membri della Giunta di consultare gli atti trasmessi dal Tribunale dei Ministri “solo dopo che la Giunta abbia concluso l’esame e depositato la relazione in Assemblea”. E a invocare la pubblicità dei documenti è stato il deputato di Forza Italia Enrico Costa, secondo cui limitare l’accesso solo alla richiesta del Tribunale dei ministri impedirebbe ai deputati di fare valutazioni libere anche sugli atti non valorizzati dal Tribunale stesso. Dori, nel frattempo, ha invitato Piantedosi, Nordio e Mantovano a presentarsi in audizione il 17 o 18 settembre, o alternativamente a depositare memorie entro il 15 settembre. La possibilità di audizione appare però remota. Il calendario, dunque, dovrebbe andare avanti come stabilito, fino al voto del 30 settembre. A difesa di Bartolozzi, intanto, è intervenuta Mariastella Gelmini (Noi Moderati): “Su Giusy Bartolozzi si è subito alzata la solita ridda di attacchi giustizialisti, ma non ci si dimette per un avviso di garanzia. Il governo sul caso Almasri ha fatto quello che era giusto e necessario per tutelare la sicurezza dell’Italia, nel pieno rispetto della legalità. Bartolozzi è il capo di gabinetto del ministro Nordio, non è membro del governo, ma la sua posizione è del tutto sistemica con quella dei membri dell’esecutivo. Pertanto, penso che per lei si debba valutare e chiedere l’autorizzazione alla Giunta per le autorizzazioni”. Il caso Almasri porterà a conflitti tra poteri di fronte alla Corte costituzionale di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 settembre 2025 Secondo i tecnici che assistono la maggioranza, Bartolozzi dovrà sottoporre autonomamente alla Camera la richiesta di essere “scudata” dal Parlamento, attraverso la sollevazione di un conflitto di attribuzione con il Tribunale dei ministri. Proprio quest’ultimo potrebbe sollevare un secondo ricorso alla Consulta. Uno o due conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Sarà questa la logica conseguenza giudiziaria del caso Almasri, come riferiscono al Foglio diverse fonti autorevoli della maggioranza. Ieri la Giunta per le autorizzazioni della Camera ha iniziato l’esame della richiesta di autorizzazione a procedere presentata dal Tribunale dei ministri nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano, per i reati di favoreggiamento, peculato e rifiuto di atti d’ufficio in relazione alla scarcerazione del comandante libico. Il presidente della Giunta, Devis Dori (Avs) ha invitato gli indagati a inviare memorie scritte entro il 15 settembre o a essere auditi il 17 o 18 settembre. Il centrodestra, attraverso il capogruppo di Fratelli d’Italia Dario Iaia, ha chiesto alla Giunta un approfondimento tecnico sulla possibilità di sollevare alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni da parte della Camera nei confronti del Tribunale dei ministri sulla vicenda di Giusi Bartolozzi, sottolineando che potrebbe ipotizzarsi una connessione tra il reato contestato nei suoi confronti (false informazioni ai giudici) e quelli rivolti agli esponenti del governo, e sostenendo quindi che anche per lei - seppur “laica”, cioè non ministro - si sarebbe dovuto chiedere un’autorizzazione a procedere. Un’ipotesi subito bocciata dal presidente Dori, che ha sottolineato il carattere “autonomo” del reato per cui Bartolozzi è indagata. La strada immaginata da FdI, in effetti, appare impervia. I tecnici che assistono la maggioranza, secondo quanto risulta al Foglio, escludono innanzitutto che la Giunta per le autorizzazioni possa chiedere al Tribunale dei ministri di integrare la sua relazione finale e valutare di aggiungere alle richieste di autorizzazione a procedere anche quella nei confronti di Bartolozzi, sulla base di un “nesso sistemico” tra le accuse rivolte a quest’ultima e quelle mosse a carico dei membri del governo. Alcuni costituzionalisti nelle ultime ore avevano ricordato il precedente del 2010, quando la Giunta presieduta all’epoca da Pierluigi Castagnetti chiese al Tribunale dei ministri di integrare la relazione che riguardava le accuse di corruzione ai danni del ministro Pietro Lunardi, aggiungendo una richiesta di autorizzazione a procedere anche per il cardinale Crescenzio Sepe, ritenuto all’epoca dai pm il presunto corruttore. A questa regola ci si era attenuti negli anni precedenti anche nei casi che avevano riguardato gli ex ministri Vito Lattanzio e Gianni Alemanno. In tutti i casi, però, si era trattato di presunti reati in concorso fra ministri e cittadini “laici”. Da allora, inoltre, anche la disciplina costituzionale appare mutata. A scartare la possibilità di interloquire con il Tribunale dei ministri ci ha pensato proprio la Corte costituzionale con una sentenza (la n. 87 del 2012) che riguardava nientedimeno che Silvio Berlusconi, usando termini inequivocabili: “Non ha fondamento la pretesa di interloquire con l’autorità giudiziaria, secondo un canale istituzionale indefettibilmente offerto dal Tribunale dei ministri, nelle ipotesi in cui quest’ultima, esercitando le proprie esclusive prerogative, abbia stimato il reato privo del carattere della ministerialità”. La strada che Bartolozzi dovrà percorrere è quindi un’altra: sottoporre alla Camera la presunta violazione da parte del Tribunale dei ministri della disciplina riguardante i reati ministeriali, ritenendo di dover rientrare nello “scudo” parlamentare sulla base di un nesso teleologico con i reati contestati ai ministri, e chiedendo di sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. La questione sarebbe esaminata dall’ufficio di presidenza di Montecitorio e votata dall’Aula dopo il parere della Giunta per le autorizzazioni. Considerati i tempi normalmente utilizzati dalla Corte costituzionale per esaminare questioni del genere, la maggioranza potrebbe evitare che eventuali pronunce negative arrivino prima del referendum costituzionale sulla riforma della magistratura, scansando così ulteriori imbarazzi in vista dell’importante appuntamento politico (a meno che la questione non venga dichiarata subito inammissibile dalla Consulta). Il secondo conflitto di attribuzione potrebbe essere sollevato direttamente dal Tribunale dei ministri qualora la Giunta e poi l’Aula della Camera giungessero a negare, come prevedibile, l’autorizzazione a procedere nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano. Nel caso in cui il rifiuto si basasse su semplici ragioni di opportunità politica, senza alcun riferimento al “preminente interesse pubblico” perseguito dagli indagati, il Tribunale potrebbe ritenere la decisione della Camera non in linea con la normativa costituzionale e sollevare così un conflitto di attribuzione tra poteri dello stato davanti alla Consulta. Un secondo conflitto, come se non ne bastasse uno. Don Ciotti: “Incontrai la moglie di Riina in gran segreto a Corleone” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 11 settembre 2025 Gli 80 anni del fondatore di Libera e del Gruppo Abele: “Entrai in seminario già 20enne non con l’idea di fare il prete ma per spendermi per gli altri”. Il nipotino del mugnaio, la faccia scavata, fa oggi ottant’anni. E continua a macinare. Macina chilometri, macina incontri, macina preghiere e battaglie e sfuriate contro le ingiustizie. E nella canonica di Pieve di Cadore, tra i monti dove tutto iniziò e dove ha chiesto di farsi riportare “quando verrà il momento, con una tomba rivolta agli Spòute de Tór”, il gruppo dolomitico sullo sfondo del borgo natio, ricostruisce la sua storia di poveri, Calabrie, occhialerie, baracche, vocazioni, eresie... Partendo dal nonno del quale ereditò il nome: Pio Luigi Ciotti. Non tutti sanno che ti chiami Pio... “Perché da piccolo c’era chi mi chiamava come i pulcini: “Pio, Pio, Pio...”. Sai come sono i bambini: Pio, pio, pio. Allora lo rifiutai. Oggi è diverso. E quel nonno, che morì quando ero ancora piccolo, ce l’ho dentro. Lui e il suo mulino sul Piave”. Forse perché anche tu non ti fermi mai... “Così era il mulino. E ti abitui tanto alle pale mosse dall’acqua che, se si fermano, ti svegli di soprassalto. Per il silenzio”. Tanti anni fa ne parlasti a proposito del tuo rapporto col grano, il pane, Cristo, Betlemme... “B?t-lehem, “casa del pane”. Quando dico messa e arrivo a quel punto lì (“e prese il pane, gli rese grazie, lo spezzò...”) mi viene in mente il mulino. Sono sempre stato orgoglioso di dire che mio nonno era un “moliner”. Quando glielo espropriarono per fare il bacino artificiale del Cadore che lo avrebbe inghiottito, per lui fu l’inizio della fine. Era la sua vita, quel mulino. Ho la sua foto in camera...”. Le Dolomiti, l’occhialeria, lo svuotamento della montagna: sei una sintesi del Cadore... “È vero. Mia mamma Olga lavorava all’antica fabbrica di occhiali “Lozza”, a Calalzo. Avevamo una foto sua al lavoro con tutte le colleghe. C’è un supermercato, ora. Quando ci passo sospiro”. Hai conosciuto Leonardo Del Vecchio, il padre della Luxottica? “Una volta gli scrissi per chiedergli una mano ma purtroppo non mi rispose. So che era una brava persona. Con una forte etica del lavoro”. Anche tuo padre, Angelo, era uno che sgobbava... “Partì da qui quando aveva 14 anni. E scese col fratello più grande, Adone, per fare il manovale in un cantiere delle ferrovie, a Pizzo Calabro. E da lì a Caulonia. Pensa: questa terra era così povera che a metà degli Anni Venti del ‘900 andarono in Calabria! Lo racconto sempre, quando vado giù. Ricordando l’affetto con cui lui parlava di queste donne calabresi così povere e generose con lui, il ragazzino costretto a portare “calderelle”, i blocchi incandescenti di calce viva più grandi di lui. Da lì, finì a Napoli”. Napoli? “Nei documenti municipali è rimasta traccia dei Ciotti. Mio papà faceva il capomastro per un’impresa di Penta, vicino a Salerno. Dieci anni, restò lì. Vivevano, lui, la mamma e mia sorella maggiore, al Vomero”. E quando arrivarono a Torino? “Prima tornarono al Nord ma ad Alba. Per un cantiere che faceva le nuove fogne”. E tu ci finisti dentro. Toni Mira nel libro in uscita oggi col titolo “Vi auguro di essere eretici”, sostiene ridendo che fu il battesimo giusto per uno destinato a tirar fuori persone infognate nei problemi... “Ero un bambino irrequieto. Mia mamma fu costretta a portarmi all’ospedale. Avevo un taglio allo zigomo, lei mi fermò l’emorragia (praticità delle donne) piazzandomi sulla guancia una molletta da bucato”. E finalmente, dopo tanto peregrinare, Torino... “Vivevamo in una baracca dentro il cantiere che costruiva il Politecnico. Non osavo dirlo, a scuola, che vivevamo in una baracca col pavimento in terra battuta. Solo più tardi abbiamo avuto un appartamento. Eppure mio papà era così grato alla città per averlo accolto che quando morì, a 99 anni, volle essere sepolto lì. Vicino alla mamma. Anche lei era venuta via straziata dal Cadore. Per loro Torino era la città dell’ospitalità”. Tu invece... “Torino mi ha dato tutto. E io le ho dato tutto quello che potevo. Ma per tutta la vita mi sono rimaste dentro le mie montagne. E son venuto su a Pieve di Cadore per chiedere ai cadorini, quando sarà, di essere riportato qui”. E loro? “Mi vogliono bene. Adesso poi, scherzi del destino, la sindaca è figlia di una emigrazione diversa. Si chiama Sindi Manushi, fa l’avvocato, i suoi arrivarono con le prime navi cariche di disperati dall’Albania. Pensa un po’, la storia...”. Tua mamma, racconti, era un’appassionata di storia... “Mio papà aveva la quinta elementare, mia mamma la sesta. Ma leggeva moltissimo. Fino alla fine ha continuato a chiedermi libri. Di storia. Ho in testa il giorno nel ‘53 in cui la tromba d’aria portò via 47 metri della Mole Antonelliana. Portò via anche il tetto della baracca. Ricordo la mamma che ci stringeva forte forte. Cose che ti segnano”. Ricordi anche il calamaio che tirasti alla maestra? “Mia madre mi aveva arrangiato un grembiule senza il fiocco. La maestra si spazientì, mi chiamò “montanaro”, io reagii nel modo sbagliato. “Hai fatto male, ma ti capisco”, disse la mamma. Fu difficile, per me, inserirmi a Torino. Anche per questo cominciai giovane a occuparmi degli altri ragazzi, che venivano soprattutto dal Veneto o dal Sud”. L’incontro con Dio? “Frequentavo la parrocchia Beata Vergine delle Grazie, feci la prima comunione lì. Ricordo una lapide col nome di un ragazzo che abitava nei pressi: Pier Giorgio Frassati. Papa Leone XIV l’ha fatto santo domenica”. Cominciò tutto là, in parrocchia? “La vita, diciamo, curvò le mie strade facendomi incrociare tante persone. Volevo essere utile. Il primo gruppo lo chiamammo “Gioventù Impegnata”. Un nome segno dei tempi. Non entrai in seminario da bambino. Avevo vent’anni e il vecchio cardinale di Torino Maurilio Fossati decise di sperimentare “vocazioni adulte”. Avevo studiato per diventare elettrotecnico. Non entrai in seminario dicendo: “Farò il sacerdote”. Ma “vado a vedere se può essere un percorso da fare”. Sentivo il desiderio di spendere la mia vita per gli altri”. Farti “mangiare dagli altri”, dice chi ti vuol bene e ti implora di non esagerare con gli impegni… “È la mia vita. Il tempo dell’amore non viene stabilito da chi ama, ma da chi ha bisogno di essere amato. E aiutato. Sono gli altri che mi dettano l’agenda. Non posso dire no”. Alla fine hai preso i voti... “L’ho detto più volte: avevo bisogno di prendere una sana pedata che mi spingesse dentro. Che mi facesse capire se fosse davvero la strada giusta”. E il cardinale Pellegrino disse ai tuoi ragazzi: “Tranquilli, non ve lo porto via, come parrocchia gli affido la strada”... “E lì nacque il Gruppo Abele. Avevo visto un bellissimo servizio di Sergio Zavoli, “I giardini di Abele” su Franco Basaglia e l’apertura dei manicomi. Il nome Abele non ci metteva dalla parte delle vittime rispetto ai carnefici: in fondo i ragazzi che accoglievamo erano entrambe le cose. Il nome era una risposta alla domanda che Caino pone a Dio nella Bibbia: “Sono forse io il custode di mio fratello?”“. Tu rispondi: sì... “Esatto. Dovevamo farci carico del problema. Essere “custodi” dei nostri fratelli e sorelle meno fortunati. Stare dalla parte dei poveri. Di chi fa più fatica. E quando parlo di poveri non parlo solo di povertà materiale. Ho conosciuto tante persone coi soldi ma in crisi. Povertà esistenziali che chiedono aiuto”. Pensi a persone come Edoardo Agnelli? “Anche. L’ho conosciuto. Era un ragazzo gentile e fragile. Con dentro una grande sofferenza. Veniva a parlarmi, mi scriveva lettere di duecento pagine... Qualcuno, non so come, venne a sapere che avevamo questo rapporto e avrebbe fatto carte false per avere un memoriale. Non ne parlammo mai. Proprio perché, per noi, era solo un giovane in difficoltà. Che aveva più diritto ad essere protetto”. E l’Avvocato? “Per lui era un sollievo sapere che il figlio, che viveva in un mondo tutto suo, aveva questo rapporto con noi. Sapere che ogni tanto mi invitava a pranzo lo rassicurava. La solitudine può schiacciare”. È una tua “arte”, sapere ascoltare... “Non so se sia un’”arte”. Certo, io ascolto. Cerco di capire. Di cogliere nelle persone le positività che ci sono dentro ciascuno. E far leva su questo”. C’è qualcuno, negli anni, da cui ti sei sentito tradito? “Tradito... C’è qualcuno che non ce l’ha fatta. Mi consola, però, che molti sono cambiati davvero. Penso a persone come Doretta Graneris che col suo ragazzo uccise la sua famiglia. Cinquant’anni sono passati, e ancora non è riuscita a perdonarsi. Non la voleva nessuno quella ragazzina plagiata da un assassino che paradossalmente è poi uscito di galera prima di lei. Noi l’abbiamo accolta. Mai pentiti d’averlo fatto”. Tu insisti: noi, noi, noi... “Questa non è una storia mia: è nostra. Ognuno di noi, presto o tardi, se ne va. Tu, io, tutti... E poi? Dobbiamo fare in modo che ci sia una continuità nelle cose, nell’attenzione alle persone. Tutti possono cambiare. Tutti”. Vuole dire che la vita, per dirla col Manzoni, è piena di “Fra Cristofori”? “Sì, ne ho conosciuto tanti. Tanti. E sia chiaro: non ho mai fatto sconti. Mai detto “poveretto, colpa del sistema, della società...” Mai creduto nella “pacca-terapia”. La pacca sulle spalle assolutoria. Hai sbagliato? Devi risponderne. Proprio per darti la possibilità di cambiare. Dopodiché dentro ogni persona c’è qualcosa di buono”. Mafiosi compresi? “Certo, sono quelli che non scrivono libri e che non danno interviste alla tivù. Ma ne ho viste tante, di persone che in silenzio hanno preso coscienza del male fatto ad altri e a se stessi. Conversioni vere”. Anche nella ‘ndrangheta? “In questo momento, in questo momento! Anche nella ‘ndrangheta, sì. Pensa alla rivolta in questi anni di tante donne che dicono basta”. Non la moglie di Totò Riina Ninetta Bagarella, stando alla testimonianza di quando l’hai incontrata... “Aveva chiesto di vedermi, la vidi in gran segreto a Corleone. Mi disse: “Parrino, sono cresciuta nell’Azione Cattolica”. Risposi: “Anche io signora ma abbiamo preso strade diverse”. “Sa, preghiamo tanto”. “Forse io un po’ di meno, signora, ma ho sempre pensato che la preghiera è tradurre le parole in fatti...”. Sapevi che suo marito aveva detto a un compagno di cella “Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo”? “Quella intercettazione in carcere non era stata ancora pubblicata. Non lo sapevo io, non lo sapeva lei. Era preoccupata per il marito in galera e per i figli. Capii che era stato lui a suggerirle di chiedere l’incontro: “Cerca il parrino”. Avrebbe voluto incontrarmi. Ma non si sarebbe mai abbassato a farmelo chiedere”. Nel libro con Toni Mira c’è la tua delusione per come sta andando con la scomunica dei mafiosi... “Per papa Francesco la scomunica aveva una funzione medicale: inchiodare le persone alle proprie responsabilità. La Chiesa non ti butta fuori: vuole spingerti a cambiare. Ti offre la possibilità di rimediare al male fatto. L’obiettivo resta la conversione”. Però la scomunica pare arenata... “Ci sono difficoltà. Speravamo che dopo l’incontro di Francesco a Roma coi familiari delle vittime e l’intervento a Sibari in cui denunciò “l’adorazione del male” invocando la scomunica si parlasse infine un po’ di mafia nella dottrina sociale della Chiesa, nel catechismo, nel diritto canonico...”. Invece, hai detto, “qualcuno in Vaticano ci ha frenati”. “Ripeto: volevamo incontrare Francesco per sottoporgli le nostre preoccupazioni. Non ci siamo riusciti...”. Ma c’è ancora, la mafia? Non pare più un tema centrale... “Certo che c’è ancora la mafia. E ci sono i mafiosi. Anche perché l’ultima mafia è sempre la penultima. Nel codice genetico dei mafiosi c’è un imperativo: rigenerarsi. Si rigenerano, loro. Tocca a noi, noi società civili, associazioni, movimenti, rigenerarci”. La corruzione? “Lo dico anche nel libro: mafia e corruzione vanno a braccetto. Certo, le mafie sono cambiate, non sono più quelle della stagione delle stragi. Ma mai come oggi sono saldate”. Sempre convinto che il ponte di Messina “unirà due cosche”? “Detta così è una forzatura. Ma insisto: c’è il rischio che invece che unire due coste possa unire due cosche. Ci sono storie, testimonianze, documenti che dimostrano questo rischio. Ridicolizzarlo può essere pericoloso”. Gian Carlo Caselli ha detto che il tuo “capolavoro” è stata la legge sulla confisca dei beni mafiosi: quanti miliardi avete recuperato? “Noi? È lo Stato che con quella legge votata dalle Camere grazie al milione di firme raccolte, ha recuperato aziende, terreni, credibilità... Noi con Libera gestiamo solo una parte minore di questi beni”. È per quella legge che sei sotto scorta da decenni? “Avevo già avuto problemi prima che nascesse Libera. Tutto iniziò quando capii che ogni morto di droga era un morto di mafia. Quello era il nodo: il traffico di droga. Fu allora che la prefettura di Torino mi avvertì che c’erano state delle intercettazioni telefoniche e c’era rischio che qualcuno...”. Sei un eretico, come provoca il titolo del tuo libro? “È preso da una mia lettera: “Vi auguro di essere eretici. / Eresia viene dal greco e vuol dire scelta. / Eretico è la persona che sceglie e, / in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità...”. È questo il senso di questi ottant’anni? “Sì. Io sono una persona cosciente, non è un modo di dire, delle mie fragilità”. E l’Italia? È cosciente delle sue fragilità? “Non so. Vedo crescere l’individualismo, i personalismi. Io, io, io... Mi preoccupa l’indifferenza, la superficialità. Al centro non c’è più l’ecosistema ma l’”Ego-sistema”. Non solo da noi. Ci sono cinque persone (cinque!) che in questi momenti di grande conflitto, guerre, genocidi, fragilità, hanno guadagnato negli ultimi tempi il 114% in più dei loro capitali. Cinque in tutto il mondo. Mentre cinque miliardi di persone già povere stanno peggio. Serve una riflessione. Forse non c’è mai stata tanta corruzione nel mondo. Basta vedere come Trump intende la trattativa. Questi si sentono padroni del mondo. Si sentono immortali”. È la tesi di Mattarella: con i potentati del Web sono tornate le Compagnie delle Indie... “Vedo tre grandi fratture. La prima è il disordine geo-politico e le guerre in atto. La seconda le disuguaglianze e la crisi sociale, con la forbice che si allarga sempre di più. La terza: in un pianeta ormai ai limiti c’è una tecnologia che non ha un timone. Il cambiamento climatico non è una minaccia futura: è la realtà. Oggi. Ma c’è anche una crepa tecnologica: i nostri dati sono la nuova materia prima usata per influenzare i nostri comportamenti. C’è una crisi della verità. Non è più l’etica a stabilire i limiti del fare, ma la potenza della tecnica”. Hai citato i genocidi: parli di Gaza? È ustionante il dibattito sull’uso della parola... “Scusa: come si fa a non parlare di genocidio? Quando vedi bombardare ospedali, scuole, tendopoli? Uccidere decine di giornalisti che raccontavano quello che succede? Se non è un genocidio certo sono stati creati tutti gli strumenti perché questo avvenga”. C’è chi dirà: occhio, rischi l’antisemitismo... “Sarebbe assurdo. È una vita che mi batto contro ogni razzismo. E non sono equidistante. Sono “equivicino”: ho a cuore sia il diritto di Israele ad esistere sia il diritto dei palestinesi a non essere annientati. Non possiamo tacere. Come non possiamo tacere sulla prigionia in Venezuela, da mesi, di Alberto Trentini. Vedo troppi silenzi. Troppe prudenze, troppi compromessi, troppe mezze parole... E non ne posso più, delle mezze parole”. “Diritto di difesa negato? La violazione va dimostrata”, dice la Cassazione di Tiziana Roselli Il Dubbio, 11 settembre 2025 Il caso di un detenuto a cui è non è mai stato recapitato il plico con gli atti: per la Suprema Corte la violazione dei diritti sanciti dalla Cedu deve avere un impatto concreto sul processo. Con la sentenza n. 30182 della sezione penale, la Corte di Cassazione ha tracciato un confine netto e rigoroso, adottando un approccio più stringente e meno garantista: le violazioni dei diritti del detenuto accertate dalla Corte Edu contano solo se dimostrano un impatto reale, diretto o indiretto, sul processo e sulla condanna. La vicenda riguarda un detenuto condannato all’ergastolo per omicidio aggravato dalla Corte d’Assise d’Appello di Messina, che aveva chiesto alla Cassazione di eliminare gli effetti della condanna sulla base di una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tutto nasce nel 2016, quando alcuni atti difensivi inviati dal suo legale furono trattenuti durante il regime di 41-bis e consegnati solo un anno dopo, a dibattimento già avviato. Lo Stato italiano aveva riconosciuto a Strasburgo la violazione del diritto alla vita privata e del diritto a un ricorso effettivo (artt. 8 e 13 Cedu). La difesa sosteneva che questa violazione avesse compromesso il diritto di difesa: l’imputato non avrebbe potuto valutare l’opzione del rito abbreviato, che avrebbe ridotto la pena, né indicare tempestivamente testimoni a discarico. Per questo aveva chiesto alla Cassazione di revocare la condanna o di rideterminarne la pena applicando direttamente la diminuzione prevista dal rito abbreviato. Il procuratore generale aveva chiesto il rigetto, sostenendo che la violazione riguardava solo la corrispondenza e il diritto a un ricorso effettivo, senza incidere direttamente sul diritto a un equo processo, e che mancasse un nesso concreto tra il blocco della corrispondenza e le scelte processuali dell’imputato. La Cassazione ha colto l’occasione per chiarire i principi chiave del nuovo rimedio straordinario introdotto nel 2022 per rimuovere gli effetti di condanne emesse in violazione della Cedu. Le violazioni accertate dalla Corte Edu, anche se relative a diritti “strumentali” rispetto al diritto di difesa, come il diritto alla corrispondenza, possono giustificare un ricorso straordinario solo se hanno avuto un effetto concreto sulle prerogative difensive e un’incidenza, anche indiretta, sulla sentenza di condanna. I ricorsi basati su violazioni indirette devono indicare chiaramente e in modo documentato come queste abbiano inciso sul processo e sul risultato finale. Senza questa specificità, il ricorso non può essere accolto. Applicando questi principi al caso concreto, la Cassazione ha bocciato l’istanza del detenuto, evidenziando diverse lacune: non è stato dimostrato come la mancata consegna del plico abbia effettivamente impedito l’esercizio del diritto di difesa; non sono stati indicati i testimoni pretermessi né gli effetti delle loro eventuali deposizioni; non è stato provato che l’imputato fosse rimasto completamente ignaro del procedimento, potendo comunque ricevere informazioni tramite colloqui con il difensore o atti notificati; la questione del mancato accesso al rito abbreviato è stata sollevata solo ora, mai nei precedenti gradi di giudizio. Di conseguenza, la richiesta è stata giudicata generica e pretestuosa, con condanna del detenuto al pagamento delle spese processuali. Prescrizione, la legge Orlando finisce davanti alla Consulta di Antonio Alizzi Il Dubbio, 11 settembre 2025 La Corte d’Appello di Lecce si rivolge alla Corte Costituzionale: al vaglio del giudice delle leggi la sospensione del regime sui reati commessi tra il 2017 e il 2018. La prescrizione torna al centro del dibattito giudiziario. Con un’ordinanza, la Corte d’appello di Lecce ha deciso di sospendere il processo a carico di un imputato e di rivolgersi direttamente alla Corte costituzionale. In discussione non c’è solo il destino del singolo procedimento, ma un nodo che riguarda centinaia di fascicoli in tutta Italia: la sorte dei reati presuntivamente commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, gli anni della cosiddetta “legge Orlando”. Il caso riguarda un imputato accusato per fatti contestati nell’agosto 2017. La difesa dell’imputato aveva chiesto l’assoluzione, ma in subordine aveva invocato la prescrizione, che a conti fatti sarebbe maturata a febbraio 2025. La Corte d’appello ha però ricordato che le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza “Polichetti” del giugno 2025, hanno stabilito che in quel triennio si applica ancora la sospensione della prescrizione introdotta nel 2017: un anno e mezzo “congelato” dopo la sentenza di primo grado. Questo sposterebbe, secondo i giudici, la scadenza al 2026. Eppure il collegio di merito ha scelto di non limitarsi ad applicare il precedente. La Corte d’appello di Lecce ha rilevato che proprio questa interpretazione rischia di scontrarsi con i principi della Costituzione. Per i giudici, mantenere in vita per via giurisprudenziale la sospensione Orlando solo per i reati commessi tra il 2017 e il 2019 significherebbe creare un regime transitorio mai previsto dal legislatore, e per di più peggiorativo per l’imputato. Per capire il nodo occorre ripercorrere le riforme sulla prescrizione. Nel 2017 la legge Orlando aveva introdotto una novità: dopo la sentenza di primo o secondo grado, la prescrizione restava sospesa. Una misura che voleva impedire che reati gravi si estinguessero durante i tempi lunghi dell’appello o della Cassazione. Nel 2019 la legge Bonafede aveva irrigidito ulteriormente il sistema, prevedendo una sospensione praticamente “senza scadenza”, ma rinviandone l’entrata in vigore al 1° gennaio 2020. Infine, nel 2021, la riforma Cartabia ha cancellato quel meccanismo, introducendo al suo posto due nuovi istituti: la “cessazione” della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (articolo 161- bis del codice penale) e l’”improcedibilità” se il processo d’appello o di Cassazione supera termini massimi prefissati (articolo 344- bis del codice di procedura penale). Secondo la Cassazione, le norme Bonafede e Cartabia valgono solo per i reati dal 2020 in avanti. Di conseguenza, i reati commessi nel triennio 2017-2019 resterebbero agganciati alla sospensione Orlando. Ma la Corte d’appello non è d’accordo con questo principio: se il legislatore ha abrogato quella sospensione, essa non può rivivere per via interpretativa, tanto più se comporta un effetto in malam partem, cioè sfavorevole all’imputato. Il punto, sottolineano i giudici, non è soltanto tecnico. È un problema di legalità e di ragionevolezza. La legge penale, per Costituzione, non può essere applicata oltre i suoi limiti letterali e non può punire di più senza una base normativa chiara. “È il testo della legge, e non l’interpretazione successiva, che deve avvertire i cittadini sulle conseguenze delle proprie condotte”, ricorda l’ordinanza citando la giurisprudenza costituzionale. Ora la parola passa alla Consulta. Se accoglierà la questione, per i reati commessi tra il 2017 e il 2019 la prescrizione continuerà a scorrere senza sospensioni automatiche dopo la sentenza di primo grado, come accadeva con la vecchia legge Cirielli. In caso contrario, resterà valido l’orientamento delle Sezioni Unite, con l’effetto di allungare i tempi di estinzione di quei procedimenti. La vicenda dell’imputato passa così in secondo piano. La Corte costituzionale sarà chiamata quindi a decidere se la “sospensione Orlando” sia definitivamente archiviata o se, nonostante le abrogazioni formali, debba sopravvivere ancora per quel breve ma cruciale periodo. Una scelta che, a quanto pare, potrebbe incidere non solo sui singoli processi, ma sull’intero equilibrio tra esigenze di giustizia e garanzie dell’imputato. Riforma Cartabia, divieto di espatrio applicato in via automatica se la pena è sostituita con Lpu di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2025 La previsione di aggiuntive prescrizioni è imposta dalla legge in chiave social preventiva quando viene sostituita la pena detentiva breve e anche in caso di patteggiamento. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 30440/2025 - ha respinto il ricorso di un condannato con pena sostitutiva che lamentava l’applicazione del divieto di espatrio di cui sosteneva l’illegittimità qualificandola come pena accessoria che il giudice aveva a suo avviso erroneamente stabilito nei suoi confronti al di là di una giustificazione fondata su un accertamento della sua pericolosità. La Cassazione chiarisce che ha già affermato che in caso di sostituzione di una pena detentiva breve applicata in base all’articolo 52 bis della legge 689/1981 introdotto dalla Riforma Cartabia scattano automaticamente anche le prescrizioni dell’articolo successivo sempre aggiunto dalla novella del 2022 (articolo 56 ter della stessa legge). Non si tratta quindi di pene accessorie ulteriori che andrebbero fondate con specifico giudizio del magistrato sulla pericolosità del condannato. Inoltre tali prescrizioni limitative della libertà personale del soggetto condannato si applicano anche in caso di pena patteggiata oggetto di sostituzione. Il ricorrente riteneva la statuizione del giudice in merito al divieto di espatrio in contrasto con la giurisprudenza tanto costituzionale quanto della Cedu. Al contrario, la Cassazione penale fa rilevare che le prescrizioni imposte dall’articolo 56 ter in caso di sostituzione della detenzione breve con la semilibertà, la detenzione domiciliare o il lavoro di pubblica utilità non rispondono all’esigenza di contenere la pericolosità del condannato ma sono misure aggiuntive previste in chiave social preventiva come espressamente affermata e definita in sentenza. Sardegna. Il carcere è un inferno, ma per donne, minori e internati di più di Andrea Carboni indip.it, 11 settembre 2025 Un’inchiesta sulle condizioni delle persone detenute in carcere Sardegna, tra sovraffollamento, strutture inadeguate e percorsi di reinserimento insufficienti. Esistono detenuti di serie B? Questa è la domanda che sorge spontanea analizzando i dati della popolazione carceraria, composta principalmente da uomini adulti che scontano la loro pena in condizioni spesso insostenibili. Oltre a questo nutrito gruppo, esistono altre fette della popolazione detenuta che meritano particolare attenzione, soprattutto perché si scontrano con un sistema detentivo originariamente concepito solo per i maschi adulti. Le strutture carcerarie sarde non sono pensate per le poche donne presenti e non rispettano alcune prescrizioni di legge previste per le sezioni femminili, ma la condizione dei minorenni è ancora peggiore. Il carcere minorile è considerato “fuorilegge” in alcune sue parti dalla garante regionale dei detenuti, oltre a essere uno dei più affollati secondo l’associazione Antigone. Ci sono poi gli internati, un altro gruppo di detenuti - che sarebbe più corretto chiamare ex-detenuti - che vive una condizione difficile da immaginare: hanno scontato la loro pena ma sono considerati socialmente pericolosi. Indip offre uno sguardo sulle condizioni di chi vive ai margini del sistema carcerario sardo. Le donne detenute nell’isola, secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia, corrispondono a poco più del 2% della popolazione carceraria. A fine giugno, nei penitenziari di Uta e Bancali, risultano presenti 56 donne, sette in più rispetto all’inizio dell’anno quando si contavano 34 detenute a Uta e 15 a Bancali. Nel complesso l’incidenza di atti di autolesionismo e tentativi di suicidio è nettamente maggiore tra le donne e il fatto che le donne siano poche, nella routine della detenzione, non gioca a loro vantaggio. Il sistema carcerario infatti è pensato per la detenzione maschile e risulta poco adatto alle esigenze femminili. Nella quotidianità, le detenute trovano davanti a loro barriere invisibili che complicano ulteriormente la loro situazione. La garante regionale dei detenuti Irene Testa spiega che “in alcuni istituti troviamo ancora bagni dove mancano i bidet”, nonostante siano obbligatori nelle sezioni femminili da ormai 25 anni. In alcuni casi è difficile trovare dei vestiti all’interno degli istituti perché, come spiega Testa, “alcuni penitenziari non vendono indumenti intimi femminili o non hanno delle taglie adatte”. Anche l’organizzazione dei vari blocchi detentivi pone seri problemi, che emergono per esempio quando le donne hanno bisogno di cure mediche. Sia a Sassari che a Uta il Servizio di assistenza intensificato (Sai), cioè la struttura che ospita i reparti ospedalieri degli istituti penitenziari, si trova all’interno del blocco maschile. Non rimane che adattarsi, per cui se una detenuta deve essere ricoverata nel Sai viene ricavata una stanza apposita, ma rimane pur sempre all’interno della sezione maschile. Oltrepassare i limiti, cambiare prospettiva - Le attività che le donne possono svolgere in carcere sono limitate. Il fatto che siano poche dovrebbe essere un vantaggio, perché si può lavorare con più attenzione sul reinserimento sociale e al contempo migliorare le loro condizioni di detenzione. Invece, allo stato attuale, sono pochissime quelle che possono lavorare fuori dal carcere, mentre chi lavora al suo interno non ha un contratto formale dato che le attività sono considerate trattamentali. Sono quindi occupazioni a breve termine, poco professionalizzanti eppure risultano molto partecipate. In questo scenario le associazioni che operano nelle sezioni femminili sono gli ultimi baluardi che offrono alle detenute la possibilità di reinventarsi per guardare al futuro. I progetti proposti da queste realtà hanno permesso alle detenute di cimentarsi in varie attività come corsi di cucina professionalizzanti, oppure pubblicare un libro - Oltre, Pettirosso editore - nel quale, liberamente, si raccontano. Da diverso tempo, i ragazzi che entrano nell’unico Istituto penale per i minorenni (Ipm) dell’isola sperimentano una situazione al limite della decenza. “L’istituto di Quartucciu è fuorilegge, la struttura non è a norma”, spiega Irene Testa; durante le sue visite trova “vetri rotti e grate arrugginite, prese elettriche pericolose, perdite d’acqua, oltre a due sezioni pericolanti”. Insomma, lo Stato cerca di insegnare qualcosa ai ragazzi relegandoli in un edificio “in condizioni strutturali peggiori rispetto a qualsiasi altro carcere per adulti dell’isola”, spiega la garante. Si trova in un complesso di 20.000 metri quadri costruito negli anni ‘70 come carcere di massima sicurezza. Oggi è in gran parte fatiscente e di conseguenza completamente inadeguato per accogliere dei minori. L’edificio principale è circondato da caseggiati in stato di abbandono e inoltre il secondo piano dell’immobile in cui alloggiano i ragazzi risulta chiuso perché pericolante. Dal 2024 sono in corso dei lavori di ristrutturazione, ma la consegna prevista per il 20 luglio scorso non è stata rispettata, quindi i ragazzi dovranno aspettare settembre per avere delle stanze ristrutturate, dove però andranno solo a dormire. Infatti, fa notare Testa, “tutte le attività trattamentali e il personale rimangono nel vecchio blocco, anch’esso da ristrutturare”. Un problema non secondario riguarda anche la collocazione extraurbana dell’Ipm, posto che si trova in un luogo impossibile da raggiungere con i mezzi pubblici, questione che provoca notevoli disagi quando si tratta di effettuare semplici colloqui con i familiari, ma anche quando si progettano delle attività di reinserimento all’esterno della struttura. Anche in queste condizioni, solo l’attenzione costante da parte della direzione dell’istituto, oltre alla disponibilità dei volontari e degli stessi lavoratori dell’istituto, consente di sopperire a questa grave mancanza. Il limbo degli internati - Gli internati sono detenuti che hanno già scontato la loro pena ma, essendo considerati socialmente pericolosi, possono essere privati della libertà in previsione di una reiterazione del reato. Si parla impropriamente di “ergastolo bianco” perché, di fatto, questa misura di sicurezza può essere estesa per un periodo pari agli anni previsti per la pena già scontata. Se anche questa proroga della detenzione avesse potuto avere un senso, la sua funzione è stata compromessa da un sistema che non fornisce l’assistenza adeguata. Nel 2024 si contano 35 internati destinati alla casa di reclusione di Isili. Questa struttura, secondo la relazione della garante, dispone di soli 20 posti per queste persone. Di conseguenza il tasso di occupazione relativo alla sola sezione degli internati raggiunge il 175%, contro un’occupazione del 40% della sezione dei detenuti comuni. Qui, anche a causa della grave mancanza di personale, non sono disponibili attività qualificate. Tutte le attività quindi sono ridotte e gli internati lavorano per pochissime ore al giorno. Oltre agli internati presenti a Isili, altri 16 sono ospitati presso la Residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza (Rems) di Capoterra. Le Rems sono strutture residenziali con funzioni terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative, dove vengono accolti i condannati con disturbi mentali. Gli ospiti di queste strutture dovrebbero partecipare a percorsi terapeutici riabilitativi e abilitativi, ma a Capoterra, nei fatti, non vengono rispettate le prescrizioni riguardanti il personale, cioè il primo tassello che dovrebbe garantire la piena esecuzione di queste importanti attività. Come se non bastasse, lo stesso direttore sanitario denuncia il fatto che non ci siano mai stati, negli ultimi dieci anni, progetti da parte della Asl, della Regione o dello Stato. Nella Rems di Capoterra le attività di riabilitazione sono dimezzate, così la struttura non assolve pienamente alla sua funzione trasformandosi in un ennesimo carcere. Qui i percorsi di degenza durano il doppio rispetto a tutte le altre strutture, una condizione che fa segnare l’ennesimo triste record. Infatti, è la Rems che registra i tempi di degenza più lunghi a livello nazionale. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Carcere, Nordio conferma la gravità sanitaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 settembre 2025 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha risposto all’interrogazione parlamentare presentata dalla deputata del Partito Democratico Debora Serracchiani e altri colleghi lo scorso 28 maggio. La richiesta, già trattata su queste pagine, riguardava le gravi carenze sanitarie denunciate nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere. La risposta del Ministro conferma ufficialmente quanto riportato Come spiegato da Monica Bizaj, presidente dell’associazione, il 27 maggio scorso, dopo aver ricevuto la lettera dei detenuti, ci si è rivolti all’onorevole Serracchiani, che ha presentato un’interrogazione a risposta scritta al Ministro. Nel documento, i detenuti lamentavano la “carenza di assistenza sanitaria” e l’” assenza totale del dirigente sanitario dell’Istituto, dottor Pasquale Iannota”. L’interrogazione sollevava problematiche drammatiche: mancanza di cure mediche da quasi due anni, assenza quasi totale di medici generici, assistenza inadeguata per malati di cancro, diabetici senza cure da oltre un mese. Inoltre, veniva segnalata la mancata disponibilità del dottor Iannota a incontrare una delegazione di detenuti. La risposta di Nordio, seppur formale, contiene elementi importanti che confermano gran parte delle denunce. Il Ministro ricorda che le funzioni sanitarie sono transitate all’Ssn con il d.P.C.M. del 1° aprile 2008, precisazione legale che sembra però un tentativo di ridimensionare le responsabilità dirette dell’Amministrazione penitenziaria, la quale pure mantiene obblighi di vigilanza. Il Ministro aggiunge che l’Amministrazione penitenziaria “sollecita costantemente le competenti Autorità sanitarie affinché adottino ogni iniziativa necessaria, con particolare riferimento agli psicologi e psichiatri”. Ma non vengono fornite prove specifiche di questi solleciti, né si parla dei risultati ottenuti. Questo lascia l’impressione che si tratti più di dichiarazioni teoriche che di azioni concrete e verificabili. Il punto più importante della risposta arriva quando Nordio riconosce chiaramente che “il Provveditorato regionale ha partecipato a una riunione del 6 giugno 2025, constatando, effettivamente, la gravità delle carenze della sanità sammaritana”. Questa ammissione ufficiale conferma in toto le denunce dei detenuti e dell’interrogazione. L’uso della parola “effettivamente” non lascia spazio a dubbi: il ministero ammette che le carenze esistono davvero e sono gravi. Si tratta di un passaggio fondamentale che dà ragione a tutte le preoccupazioni sollevate dall’associazione “Sbarre di Zucchero” e dalla deputata Serracchiani. La ricostruzione ministeriale degli interventi precedenti sembra dimostrarne l’inefficacia: già l’ 8 marzo 2023 il Provveditorato di Napoli aveva firmato un documento con l’Asl per verificare il funzionamento dei servizi sanitari. A settembre 2024, dopo ulteriori lamentele, era stata proposta una riorganizzazione del servizio di medicina generale. Eppure, a giugno 2025, è stata necessaria una nuova riunione in cui si è constatata nuovamente la gravità della situazione. Questa cronologia fa sorgere dubbi legittimi sull’efficacia degli interventi precedenti e sulla capacità dell’amministrazione di risolvere concretamente i problemi denunciati. Per quanto riguarda le soluzioni future, il Ministro si limita a dire che “sono comunque in corso contatti con i vertici politici della Regione Campania, per un rapido incontro al fine di addivenire a una ormai improcrastinabile soluzione della questione”. La parola “improcrastinabile” conferma l’urgenza della situazione, ma l’espressione “sono in corso contatti” è piuttosto vaga e non dà tempi precisi né garanzie concrete sui risultati. Una parte particolarmente delicata della risposta riguarda la gestione dei detenuti con disturbi psichiatrici. L’interrogazione parlamentare aveva denunciato che “i detenuti affetti da disturbi psichiatrici risultano gestiti come detenuti ordinari a causa dell’assenza di posti nelle Rems”. La risposta di Nordio su questo punto è tecnica ma non del tutto rassicurante. Il guardasigilli spiega che ci sono due percorsi diversi: uno per le “persone detenute/ imputabili affette da disturbi di salute mentale” attraverso sezioni sanitarie speciali, e un altro per le “persone affette da disturbi mentali autrici di reati non imputabili sottoposte a misure di sicurezza” attraverso le Rems. Per il primo caso, il Ministro conferma che la Regione Campania ha 6 Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (Atsm), “di cui una presente all’interno della casa circondariale di S. Maria Capua Vetere dotata di 20 posti letto attivata nel luglio 2012”. Ma non vengono forniti dati sulla reale operatività di questa sezione, su quanti posti sono occupati, se c’è personale specializzato. Questi elementi sarebbero stati fondamentali per capire se il servizio funziona davvero. Per le Rems, il Ministro spiega che la Regione Campania ha un Punto Unico Regionale per gestire la lista di attesa e dispone di due strutture: la Rems di San Nicola Baronia (Asl Avellino) e la Rems di Calvi Risorta (Asl Caserta). Anche qui non vengono forniti dati sui tempi di attesa, sulla capienza delle strutture, sui criteri di priorità. Queste informazioni sarebbero state essenziali per capire se il sistema funziona realmente. Il Ministro cita il decreto-legge n. 92/ 2024, convertito nella legge n. 112/ 2024, che introduce incentivi per il personale sanitario che opera in carcere e migliora la condivisione dei dati sanitari. Resta da vedere se questi strumenti normativi avranno un impatto concreto e tempestivo sulla situazione di Santa Maria Capua Vetere. Un elemento potenzialmente positivo è l’attivazione di un “Gruppo tecnico di monitoraggio” previsto da un recente accordo, che dovrà verificare lo stato dei servizi sanitari regionali e i trasferimenti interregionali. Questo gruppo dovrebbe verificare “lo stato delle reti dei servizi sanitari regionali e provinciali attivate”, i “trasferimenti interregionali per motivi di salute” e “lo stato di attuazione delle attività inerenti alle condizioni strutturali e/ o organizzative”. Una delle accuse più specifiche contenute nella lettera dei detenuti riguardava il comportamento del dottor Pasquale Iannota, dirigente sanitario dell’istituto, accusato di essere poco presente e di aver rifiutato di incontrare una delegazione di detenuti. La risposta del Ministro non parla per niente di questa questione, ignorando completamente una delle criticità più gravi segnalate. L’accusa è seria e meritava almeno una verifica e una risposta dettagliata, anche per la dignità del dirigente stesso, essendo stato segnalato nell’interrogazione. Mancano del tutto dati concreti: numero di medici in servizio, rapporto medici/ detenuti, tempi di attesa per le visite, numero di prestazioni erogate. Senza questi elementi, è impossibile valutare compiutamente la gravità della situazione. Non viene dato alcun riscontro sulle situazioni individuali più gravi segnalate, come i malati di cancro e i diabetici senza cure, casi che potrebbero mettere a rischio vite umane. La cronologia degli interventi (2023, 2024, 2025) descrive una crisi permanente, sollevando seri dubbi sull’efficacia dell’azione amministrativa centrale nel costringere le autorità regionali e locali a intervenire. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere è chiaramente l’emblema di un sistema carcerario in profonda crisi. Monza. Il carcere degli orrori, tra violenze, cimici e scabbia di Dario Crippa Il Giorno, 11 settembre 2025 Alcuni detenuti cercano di andare in isolamento pur di avere più spazio. Violenze all’ordine del giorno. Ora anche cimici e scabbia. Benvenuti all’inferno, un “manicomio criminale”, dove nel 2024 si sono registrati 13 casi di aggressione al personale e 23 di lesioni tra detenuti, e un’altra decina si sono contati negli ultimissimi mesi (5 ad agosto, 1 suicidio a luglio). Questa la situazione alla casa circondariale di via Sanquirico a Monza. L’ultima aggressione, il 31 agosto al reparto psichiatrico dell’ospedale San Gerardo di Monza, “rappresenta l’ennesima manifestazione di un sistema allo sfascio”. In quell’occasione, un detenuto piantonato ha aggredito due agenti, causando loro lesioni con prognosi rispettivamente di 5 e 15 giorni, e ha colpito anche il personale sanitario della struttura. “Quello che sta accadendo a Monza non può più essere considerato un caso isolato: si tratta dell’ennesima aggressione in un contesto lavorativo ormai compromesso”. Agenti di polizia penitenziaria esausti, logorati da carichi di lavoro insostenibili determinati da una grave carenza di organico (gli agenti sono 279 sui 296 previsti), con turni massacranti, assenza di riposi e il mancato rispetto delle normative sulla sicurezza e l’igiene del lavoro. “Il sovraffollamento ha assunto proporzioni drammatiche (oltre l’80%), con 746 detenuti a fronte di una capienza di soli 411 posti”. In molte sezioni, pensate per accogliere 50 persone, si arriva a ospitarne 75, costringendo i detenuti a dormire su brandine pieghevoli. In alcuni casi, poi, le camere vengono ora chiuse per disinfestazioni da cimici da letto e scabbia, causando ulteriori problemi nella gestione degli spazi e aumentando la tensione tra la popolazione detenuta, con il timore di un possibile contagio o epidemia di massa. “Le disinfestazioni si ripetono in continuazione - dice il presidente regionale dell’Uilpa, Domenico Benemia. Non si fa in tempo a sanificare un ambiente che subito bisogna ripartire con la bonifica di un altro. Noi agenti siamo troppo pochi e spesso capita che una persona che ha finito il proprio turno venga richiamata poche ore dopo per tornare a lavorare nel turno di notte. Siamo sfibrati, molti di noi non stanno bene”. Non è raro che detenuti con gravi problemi psichiatrici, provenienti da istituti di tutta Italia, vengano trasferiti a Monza senza che vi siano le condizioni per gestirli. L’istituto accoglie 500 detenuti con problemi di tossicodipendenza, la metà ha anche problemi psichiatrici. “E col loro comportamento, compromettono gravemente l’ordine e la sicurezza. Le sezioni di prima accoglienza, quelle a monitoraggio sanitario e le sezioni ex art. 32 O.P. ospitano persone “fuori circuito”, rendendo la gestione di questi reparti ancora più problematica. Addirittura alcuni detenuti - nota Uilpa -, pur di non condividere celle sovraffollate e inadeguate, preferiscono chiedere volontariamente di essere messi in isolamento”. Le organizzazioni sindacali (S.a.p.pe. - Si.na.p.pe - O.s.a.p.p. - Uil.pa - U.s.p.p.) “chiedono risposte urgenti ed immediate, altrimenti saranno costrette a proclamare lo stato di agitazione”. Firenze. Detenuta suicida in carcere, aperto un fascicolo per omicidio colposo corrieretoscano.it, 11 settembre 2025 La Procura di Firenze ha aperto un fascicolo per omicidio colposo in merito alla morte di una detenuta rumena di 26 anni, trovata impiccata nella sua cella nel carcere di Sollicciano. Al momento non risultano indagati. La pm Ester Nocera ha delegato la polizia scientifica per effettuare rilievi dettagliati nell’area del decesso. La 26enne era stata condannata, in primo grado con rito abbreviato, a 4 anni e 8 mesi per un’aggressione commessa nei confronti di un uomo di 91 anni nel centro storico di Firenze. La sentenza, non definitiva, aveva determinato la sua permanenza in carcere, anche a causa dell’assenza di familiari nella città. Secondo la ricostruzione, la giovane si sarebbe tolta la vita impiccandosi a un pilastrino del balconcino della cella, utilizzando un lenzuolo come corda. Il tentativo di soccorso da parte del personale penitenziario e sanitario si è rivelato purtroppo inutile. La delicata vicenda si inquadra in un contesto più ampio di tensione all’interno della sezione femminile di Sollicciano. Poche ore prima, alcune detenute avevano appiccato un incendio provocando l’intossicazione di otto persone, tra cui agenti penitenziari. Secondo il sindacato Uilpa, il carcere presenta condizioni critiche: sovraffollato (circa 158% oltre la capienza), con carenza di personale e strutture fatiscenti, tanto da essere definito “invivibile”. A livello nazionale, il gesto della detenuta si inserisce nel drammatico trend del 2025, che ha già registrato 60 suicidi in carcere, di cui quattro riguardano donne, oltre a un detenuto in una Rems e tre operatori penitenziari. Torino. La Garante uscente Monica Cristina Gallo: “Il carcere ha fallito” di Luca Rondi altreconomia.it, 11 settembre 2025 La Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino lascia l’incarico dopo oltre dieci anni di attività. In questa intervista racconta da dentro la “frustrazione” nel vedere l’immobilismo della politica rispetto alla “fallimentare e irriformabile” situazione degli istituti di pena. Con particolare riferimento alla condizione di abbandono dei giovani adulti a cui ha dedicato un libro. “Un sistema fallimentare e irriformabile”. Monica Cristina Gallo non usa mezzi termini: la frustrazione è il sentimento che prevale in conclusione del suo secondo mandato da Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino. Il 15 settembre, dopo dieci anni, lascia l’ufficio di via Palazzo di città. Sono tante le “vene scoperte” che denuncia la Garante. Dalla “chiusura su sé stesso” del carcere cittadino da 1.466 presenze al 31 agosto alla riapertura del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) fino all’abbandono dei neomaggiorenni all’interno del Lorusso Cutugno. Proprio su questo aspetto, Gallo ha deciso di scrivere un libro intitolato “18+1. Diciotto anni e un giorno”, pubblicato a maggio 2025 per Effatà editrici per raccontare la solitudine e il “vuoto” vissuto dai più giovani in carcere. Dottoressa Gallo, che cosa è cambiato in questi dieci anni? MCG Ho iniziato nel 2015 in un momento pieno di ottimismo e speranza: eravamo all’indomani della sentenza Torreggiani e si aprivano i lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale. Si respirava l’idea che qualcosa si stesse muovendo nella direzione giusta. Chiudo, invece, in un momento estremamente difficile, per diverse ragioni: il sovraffollamento è ormai così grave che non riusciamo più a garantire tutti i colloqui individuali necessari; l’approccio, sia all’esterno sia all’interno, è sempre più securitario e il carcere, di conseguenza, si chiude sempre di più su sé stesso. Ed è questo che fa più male: fin dall’inizio abbiamo cercato di costruire collaborazioni con realtà del territorio per portare miglioramenti all’interno, ma da tre anni a questa parte ogni protocollo deve essere preventivamente approvato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Una decisione che di fatto ha paralizzato tutto. Un carcere chiuso fa male a tutti: i direttori sono privati della possibilità di essere creativi nella gestione; i funzionari giuridico-pedagogici possono contare sempre meno su quella rete esterna che un tempo sosteneva il loro lavoro, e lo si vede dal numero crescente di chiamate all’ufficio del Garante per situazioni di emergenza; anche gli agenti, sempre più isolati e con meno occasioni di confronto con l’esterno, affrontano difficoltà crescenti. E tutto questo avviene in un clima di generale indifferenza: i cittadini dimenticano facilmente che, dietro a quelle mura, vive un piccolo paese nel cuore della città, con oltre tremila persone tra detenuti, operatori e personale. Perché al termine del suo mandato ha deciso di scrivere un libro sui neomaggiorenni? MCG Nel 2020 abbiamo realizzato una ricerca quantitativa per fotografare la presenza e le condizioni dei ragazzi negli istituti, ma non mi bastava. Col tempo, man mano che i giovani ci hanno conosciuto e si sono fidati, hanno iniziato a raccontarsi. Ho sentito il dovere di restituire al mondo esterno ciò che ho ascoltato: la sofferenza dei giovani non è un fatto privato, ma un problema che riguarda l’intera comunità. Non serve entrare in carcere per accorgersene: basta guardare i dati sugli accessi al pronto soccorso e l’aumento dei Trattamenti sanitari obbligatori tra gli adolescenti. Che cosa ha capito dai loro racconti? MCG Ho capito che uno degli aspetti decisivi è il distacco col mondo adulto. Per questo ho coinvolto anche collaboratori più giovani, nel tentativo di creare relazioni di fiducia. C’è un dato innegabile: l’immobilismo. In dieci anni i percorsi formativi non si sono mai evoluti e i corsi tradizionali -elettricista, carpentiere, falegname- non riescono più a intercettare né a coinvolgere questi ragazzi. Non possiamo restare fermi mentre il loro movimento, non solo fisico -migliaia di chilometri percorsi dai giovani stranieri- ma anche emotivo, è rapidissimo. Mi auguro che all’esterno questo sia un momento di riflessione e studio, per affrontare davvero il problema. In carcere, purtroppo, non è così: il ministero ha ascoltato le mie preoccupazioni ma non è stato fatto nulla di concreto. E nel frattempo i giovani restano abbandonati. Torino. Diletta Berardinelli è la nuova Garante dei detenuti: “Mamme e Cpr tra le mie priorità” La Repubblica, 11 settembre 2025 Sarà Diletta Berardinelli la nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino. Il sindaco Stefano Lo Russo ha firmato l’atto di nomina. Nata a Roma, 51 anni, Berardinelli vanta oltre vent’anni di esperienza in contesti nazionali e internazionali, con particolare attenzione alla tutela dei diritti umani e alla promozione di percorsi educativi e inclusivi in ambito penitenziario. “In questi anni il lavoro della Garante è stato prezioso e determinante - sottolinea Lo Russo - ringrazio della disponibilità tutte le persone estremamente qualificate che si sono rese disponibili a ricoprire l’incarico. Preso atto degli orientamenti espressi dalla Conferenza dei capigruppo, ho deciso di nominare Diletta Berardinelli quale nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. A lei vanno i migliori auguri di buon lavoro in un ruolo di grande responsabilità in cui la Città crede molto”. Diletta Bernardinelli sostituisce Monica Gallo, che era entrata in carica il 17 luglio del 2015. “Questa nomina è per me fonte di grande soddisfazione e ringrazio il sindaco e il Consiglio comunale per la fiducia che mi hanno accordato”, sono le prime parole della nuova garante. Che spiega: “Raccolgo il testimone da Monica Gallo, con cui ho avuto il piacere di collaborare, e che ha svolto questo lavoro negli ultimi dieci anni con un approccio silenzioso e insieme pragmatico e rigoroso, da cui trarrò certamente ispirazione”. Bernardinelli fa poi l’elenco delle priorità: “Sono consapevole che le criticità da affrontare saranno molte e lo farò mettendo davanti a tutto l’attenzione per le persone private della libertà, soprattutto quelle più fragili come donne, mamme con bambini, giovani adulti, persone con fragilità psichiatriche e persone detenute nei Cpr in costante dialogo e collaborazione con la commissione Legalità e diritti delle persone private dalla libertà personale del Consiglio comunale, con tutte le istituzioni coinvolte, con il mondo del Terzo Settore e con gli istituti di pena”. Venezia. Detenuti al lavoro nel call-center per la Ulss di Venezia cgm.coop, 11 settembre 2025 “Un ponte di umanità e riscatto”. Prendiamo una bella storia di rete dal nuovo numero di Vita sulla città più bella del mondo, Venezia. Nella complessità delle sue contraddizioni, tra l’assalto dei turisti e lo spopolamento, il magazine racconta anche chi la sceglie e si impegna per renderla più sostenibile e viva. Tra questi, la nostra cooperativa socia NoiGroup che da novembre 2024 ha attivato un call center per il Cup dell’Usl presso il carcere di Santa Maria Maggiore. Ci lavorano una decina di detenuti che ogni giorno rispondono a circa mille telefonate. Ci siamo fatti racconatare il progetto dal presidente di NoiGroup Fabio Panizzon. Come nasce il progetto in collaborazione con la casa circondariale di Santa Maria Maggiore? Il progetto nasce da un’esigenza profonda: offrire alle persone detenute una concreta possibilità di riscatto, far sentire che anche dietro le sbarre esiste una vita fatta di dignità e speranza. Grazie all’impegno del Direttore Generale dell’ULSS Serenissima Dott. Contatto e il direttore del Carcere Dott. Farina è nata questa iniziativa. Su questa spinta la cooperativa Noigroup, con il supporto del personale carcerario e dell’ULSS 3 Serenissima, ha voluto creare uno spazio di lavoro capace di dare voce e capacità ai detenuti, trasformando un’idea in un’opportunità vera. È una sfida di umanità e fiducia, per dimostrare che tutti possono ricostruirsi, anche in condizioni difficili. L’esperienza si inserisce in una rete più ampia di cooperazione e inclusione sociale che Noigroup coltiva da anni. Come si sviluppa la giornata lavorativa? Ogni giorno i detenuti che lavorano nel CUP mettono al servizio degli altri la loro attenzione, la pazienza e l’impegno. Ricevono le chiamate, prenotano visite, ascoltano le paure e le speranze degli utenti. Quel telefono non è solo uno strumento, ma un ponte di umanità che porta lavoro, ma anche dignità, orgoglio e senso di responsabilità. Attualmente sono circa una decina i detenuti coinvolti. La mattina alle otto 3 detenuti con un operatore guida si mettono alle loro postazioni fino alle 12.00. Dopo un ora di pausa riprende il lavoro l’operatore con altri 3 detenuti. Abbiamo concordato con gli educatori del carcere che il part time era piu indicato. Altri 2 detenuti invece, escono al mattino vanno presso il call center di Mestre rientrano a fine turno. Noigroup sta lavorando per ampliare l’offerta lavorativa con attività di tipo tecnologico, per offrire maggiori opportunità di crescita professionale. Vedere questi uomini e donne dedicarsi con passione a un’attività così importante fa capire quanto il lavoro rappresenti una vera redenzione. Ci dai qualche numero (persone coinvolte, contratti, attività giornaliera svolta)? Sono circa una decina i detenuti coinvolti tra assunti e tirocini nel progetto CUP, con oltre 20.000 chiamate gestite finora, a testimonianza di un impegno costante e qualificato. Uno di loro hanno ottenuto proposta di lavoro anche dopo la scarcerazione, riuscendo ad avviare un reale percorso di reinserimento sociale e imprenditoriale. Quale futuro per questo progetto? Il futuro è quello di un seme che sta germogliando e vuole crescere forte. L’idea è ampliare l’esperienza del CUP in carcere, aumentando il numero di operatori e diversificando le attività, specialmente verso ambiti tecnologici più avanzati. Si vuole inoltre replicare questo modello in altri istituti penitenziari, potenziando la collaborazione con le istituzioni, le aziende e le realtà del territorio. Così si contribuisce non solo a creare lavoro, ma soprattutto a costruire nuove speranze e percorsi di reinserimento sociale. Cosa significa per un detenuto intraprendere un percorso lavorativo all’interno della casa circondariale? Per i detenuti rappresenta un’importante occasione di riscatto personale e sociale. Significa riscoprire la propria umanità, acquisire competenze, assumersi responsabilità e trovare dignità in un contesto difficile. Il lavoro crea un senso di appartenenza e aiuta a superare solitudine e disperazione. È spesso la prima vera luce in una realtà complessa, una reale seconda chance che cambia la prospettiva di vita di molti. Ci racconti di cosa si occupa la cooperativa Noi Group e quali sono i progetti in attivo in questo momento? Noigroup è una realtà con più di 25 anni di storia dedicata all’inclusione lavorativa di persone con disabilità, malattie invalidanti e situazioni di svantaggio sociale. Oltre al progetto CUP in carcere, la cooperativa gestisce numerose attività che spaziano dall’assistenza a persone fragili fino ai servizi in ambito sanitario e sociale. Grazie a un modello imprenditoriale basato sulla collaborazione con numerose aziende, ha permesso la creazione di oltre 200 posti di lavoro dedicati a persone con disabilità, impiegando oggi più di 600 lavoratori. Noigroup rappresenta un ponte importante tra il mondo delle imprese, le istituzioni e i cittadini più vulnerabili, portando avanti un impegno di formazione, lavoro e inclusione con grande attenzione ai valori umani. Cuneo. “Per Chi Crea - Parole Liberate”: i testi dei detenuti diventano canzoni cuneodice.it, 11 settembre 2025 Il festival articolato in tre concerti si terrà nell’ambito di Art. 27 Expo a Cuneo nel fine settimana. “Per Chi Crea - Parole Liberate” è un festival musicale articolato in tre concerti e organizzato dall’etichetta Baracca & Burattini di Paolo Bedini con il sostegno di MIC e SIAE, che si terrà nella cornice della manifestazione Art.27 Expo (Cuneo, 11/14 settembre), l’unico evento in Italia interamente dedicato alla valorizzazione delle produzioni carcerarie. Sul palco, si alterneranno sei gruppi musicali under 35 tra i più interessanti emersi negli ultimi anni. Alvise Nodale, finalista alle Targhe Tenco 2025, Dimaggio e i Lumenea accompagnati da Ambrogio Sparagna suoneranno venerdì 12 settembre (ore 20.00), prima dell’intervento di Gherardo Colombo alla manifestazione (“Giustizia e democrazia: il senso del carcere”, ore 21.00). Sabato 13 settembre saranno in scena Synaesthesia e L’isola dei cipressi viventi alle ore 15.30, e Big Dave alle ore 17.30. Tutti i musicisti coinvolti nel festival hanno partecipato o parteciperanno al progetto musicale, culturale e sociale “Parole Liberate. Oltre il muro del carcere”, nato da un bando creato dall’omonima associazione ed emanato dal Ministero della Giustizia che ogni anno propone a detenute e detenuti di scrivere un testo destinato a diventare canzone grazie al contributo di molti protagonisti della scena musicale italiana e non solo. I brani scelti nelle ultime due edizioni sono stati raccolti in due album realizzati da Baracca & Burattini. Attualmente è in preparazione il Terzo volume. Ma l’iniziativa non è limitata all’ambito discografico ma vede la partecipazione dei musicisti a presentazioni e concerti che si svolgono dentro e fuori le carceri. I due album “Parole Liberate Volume 1” e “Parole Liberate Volume 2” sono stati presentati presso la sala stampa della Camera dei Deputati, hanno vinto il Premio Lunezia 2022 e il Cremona Award 2024, e si sono classificati al secondo e terzo posto alle Targhe Tenco nella sezione album a progetto. Attualmente è in preparazione il Volume 3. Il testo scelto dalla giuria del Premio Parole liberate 2025 è “Vieni a cercarmi” di Elena Scaini. “Ci è stato inviato (insieme ad altri due testi ed un modulo firmato) dalla detenuta Elena Scaini il giorno 31 dicembre 2024, ultimo giorno utile per partecipare al bando. - ricorda Paolo Bedini, direttore di Baracca & Burattini - Due mesi dopo Elena, condannata a 18 anni di detenzione per aver ucciso il marito che la maltrattava, ha posto fine alla sua esistenza suicidandosi all’interno del carcere di Mantova. Il progetto ‘Per Chi Crea’ Parole Liberate è realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura e di SIAE, nell’ambito del programma ‘Per Chi Crea’. www.baraccaeburattini.eu. Lecce. “One Step Outside”, lo sport come strumento di rieducazione provincia.le.it, 11 settembre 2025 Oggi, giovedì 11 settembre, alle ore 10.30, a Palazzo Adorno, la Provincia di Lecce ospita la conferenza stampa di presentazione di “One Step Outside”, il progetto dedicato ai detenuti che si trovano attualmente presso l’Istituto di pena del capoluogo salentino, di età compresa tra 20 anni e 45 anni, sia uomini che donne, e che promuove lo sport come strumento ed opportunità di rieducazione, attraverso il potenziamento dell’attività sportiva. Il progetto è promosso da Asd Rinascita Refugees, in partnership con Nuova Atletica Copertino Asd Aps, Specialmente Asd Aps, IISS Bachelet di Copertino, Rinascita Società Cooperativa Sociale ed è patrocinato dalla Provincia di Lecce. È condiviso con la Direzione della Casa Circondariale “Borgo San Nicola” di Lecce ed è finanziato dalla misura Sport di tutti - Carceri, promossa dal Ministro per lo Sport e i Giovani, tramite il Dipartimento per lo Sport e realizzata in collaborazione con Sport e Salute Spa. Ad illustrare tutte le attività previste e gli obiettivi prefissati, interverranno: Stefano Minerva, presidente della Provincia di Lecce, Vincenzo Domenico Nobile Mariano, referente di progetto e presidente di Nuova Atletica Copertino Asd Aps e direttore sportivo Specialmente Asd Aps, Luca Balasco, referente regionale Sport e Salute, Maria Teresa Susca, direttrice del Carcere Borgo San Nicola di Lecce, Antonio Palma, presidente di Rinascita Società Cooperativa Sociale, Gianmarco Negri, presidente di Asd Rinascita Refugees, Giuseppe Manco, dirigente scolastico IISS Bachelet, Cinzia Conte, educatrice della Casa Circondariale di Lecce, Maria Mancarella, garante dei diritti delle persone private della libertà personale per la Città di Lecce. “One Step Outside” vuole essere uno strumento contro il disagio sociale ed economico, deterrente sociale contro il rischio criminalità, mezzo di rieducazione per la popolazione detenuta. Ligi e obbedienti, le regole si rispettano: è la natura umana di Paola Mariano La Stampa, 11 settembre 2025 Un mega test spiega una tendenza collettiva più diffusa di quanto previsto: si seguono le norme anche se non c’è una specifica pressione sociale che le giustifichi. Un grande esperimento sociale dimostra che il rispetto è del tutto incondizionato e viene dall’interno di ciascuno di noi per almeno un individuo su quattro. E, comunque, per la stragrande maggioranza vince l’obbedienza. Anche quando non conviene. Rispettare le regole è nella natura umana anche quando trasgredire non danneggerebbe nessuno, anche quando nessuno scoprirebbe che le abbiamo infrante, addirittura anche quando nessuna pressione sociale ci spinge all’obbedienza: in poche parole, siamo ligi e rispettosi. Sono questi gli aggettivi che connotano fino a sette persone su 10. Lo suggerisce un gigantesco esperimento sociale che ha coinvolto oltre 14 mila persone ed è stato condotto dall’Università di Nottingham (Gran Bretagna) e dall’Università di Aarhus (Danimarca). Pubblicato su “Nature Human Behaviour”, lo studio prova che un quarto di noi seguirà le regole sempre e incondizionatamente, anche se obbedire ci danneggia. Insomma, le regole sono dei valori intrinseci e radicati, indipendenti dal giudizio altrui. In tutte le società, ogni giorno, la vita sociale è regolata da innumerevoli norme. Il motivo per cui le persone seguono le regole, in particolare le leggi e le norme sociali, è oggetto di dibattito da sempre. Il test, ora, dà una serie di risposte e apre nuove prospettive. Coordinato da Daniele Nosenzo, lo studio si basa su una serie di giochi al pc. Il primo e più dirimente consisteva nel chiedere a ciascun individuo di far avanzare una pedina, farla fermare al semaforo rosso per poi proseguire fino al traguardo nel minor tempo possibile, con in palio 20 dollari alla fine di ogni gara. Il montepremi diminuiva di secondo in secondo e, quindi, sarebbe stato per tutti più conveniente “passare con il rosso” così da guadagnare il più possibile. I partecipanti sapevano che erano coperti dall’anonimato e che trasgredire non avrebbe comportato nulla di male per gli altri. E tuttavia la maggioranza delle persone ha scelto l’obbedienza, finendo per guadagnare meno. “Nei nostri esperimenti iniziali - scrivono gli autori del lavoro - il 55-70% dei partecipanti si conforma a una regola arbitraria e costosa, anche se agisce in modo anonimo e da solo e le violazioni non danneggiano nessuno”. Questo dimostra che le persone si aspettano il rispetto delle regole e lo considerano socialmente appropriato a prescindere. L’agire dei partecipanti non cambia di molto anche quando gli sperimentatori li invogliano a trasgredire, facendo notare loro che altri hanno già trasgredito a loro vantaggio: questo indica che la violazione delle regole è un comportamento solo in piccola parte contagioso. Ma i ricercatori sono andati oltre e hanno voluto capire che cosa ci sia alla base di questa inclinazione al rispetto delle regole: per capire se dietro ci sia l’influenza delle aspettative sociali, il team ha chiesto ai partecipanti se pensavano che gli altri avrebbero seguito le regole. Effettivamente, coloro che pensavano che gli altri avrebbero rispettato le regole erano più propensi a rispettarla a loro volta, dimostrando che le persone hanno convinzioni interiori su ciò che è socialmente accettabile e adattano le loro azioni di conseguenza. Tuttavia, l’aspettativa sociale non spiega del tutto l’obbedienza; circa il 25% delle persone continua a seguire la regola indipendentemente da ciò che pensano o fanno gli altri, pur sapendo che infrangere la regola non avrebbe danneggiato nessuno. Questa è stata la scoperta più importante, afferma il primo autore Simon Gaechter: “Ciò dimostra un rispetto intrinseco per le regole. Date a queste persone una regola e loro la seguono incondizionatamente”. “Riteniamo che la nostra dimostrazione dell’esistenza di un sostanziale rispetto incondizionato delle regole sia un risultato importante - concludono i ricercatori -. Il motivo è che il rispetto intrinseco delle regole è senza dubbio necessario per l’ordine sociale in molte situazioni in cui gli incentivi esterni - che forniscono ragioni basate sull’interesse personale per il rispetto delle regole - sono deboli o assenti e le conseguenze per gli altri non sono evidenti”. Se i giudici scusano il marito violento di Fabrizia Giuliani La Stampa, 11 settembre 2025 Le sentenze non si discutono, dice l’adagio. Ma le sentenze sono parole pubbliche, discorso pubblico che accompagna la storia di un Paese. Sono espressione della sua cultura e al contempo fattore di condizionamento: influenzano la politica, il senso comune, la comunicazione. Dunque, se ne può parlare, a volte se ne deve. La premessa è necessaria quando si affronta un terreno delicato come quello della violenza contro le donne, nel quale lo sviluppo legislativo degli ultimi vent’anni è stato impetuoso. Non è retorica: il corpus di misure approvato negli ultimi quindici anni, anche su impulso delle sollecitazioni sovranazionali, ha trasformato profondamente il nostro sistema normativo. È cambiato il modo di riconoscere e descrivere il fenomeno; è cambiata la lettura delle sue cause, lo sguardo sui rapporti familiari, affettivi e sessuali. Si è letteralmente capovolta una grammatica che faceva delle relazioni un attenuante della violenza - la logica che sosteneva il delitto d’onore, abrogato solo nel 1981 - trasformandole in aggravanti - dallo stalking (2009) alla prima legge di recepimento della Convenzione d’Istanbul (2013), dalle misure a tutela degli orfani di femminicidio (2018) al Codice Rosso (2019) fino alle ultime disposizioni per il contrasto della violenza, e della violenza domestica in particolare (2023). Cambiano le leggi perché la storia cammina, come diceva qualcuno. In questo caso la spinta viene dalla libertà che le donne conquistano e soprattutto esercitano. La premessa è necessaria per inquadrare le motivazioni della sentenza del Tribunale di Torino, dove il pestaggio quasi letale nei confronti di una donna che racconta anni di sopraffazioni viene definito umanamente comprensibile se ricondotto al contesto. Così, il colpo che quasi devasta il viso di Lucia Regna - un lavoro chirurgico di sei ore, ventuno placche di titanio, la ricostruzione del nervo oculare, invalidità permanente - è letto come esito di un conflitto scatenato dalla decisione di lei di “sfaldare” il nucleo familiare, lasciarlo, avviare una nuova relazione. Gesti unilaterali che l’uomo subisce e ai quali - comprensibilmente, come leggiamo - reagisce. Lei diventa implicitamente corresponsabile della violenza: se non avesse rotto l’unità familiare, se non avesse scelto un altro uomo, forse non avrebbe rischiato di perdere la vita. È stata questa linea interpretativa a portare alla condanna Cedu nei confronti dell’Italia per i reati di violenza domestica - i più noti: sentenze Talpis contro Italia del 2 marzo 2017, Landi c. Italia, 7 aprile 2022; P.P. c. Italia del 13 febbraio 2025. Eppure, i segni di un’inversione ci sono, a cominciare dalle pronunce della Cassazione che afferma come il delitto di violenza domestica sia un reato che riguarda la “mera condotta”: conta solo l’agire dell’autore, non il dato soggettivo, estraneo alla fattispecie, della reazione di chi lo subisce. “Pretendere da chi subisce docilità o comportamenti appropriati inverte l’oggetto dell’accertamento che viene illogicamente, e senza alcun fatto giuridico a supporto, spostato dalla condotta dell’autore all’eventuale condotta della vittima, sino a determinare una forma di vittimizzazione secondaria su di essa vietata dall’ordinamento giuridico”. (Sez. 6, n. 37978 del 03/07/2023, B., Rv. 285273). C’è da chiedersi se siano conosciute queste parole, se non si faccia abbastanza per rimuovere gli ostacoli che ne impediscono la circolazione. Il lavoro culturale che tanto invochiamo parte da qui. Piantedosi rilancia l’allarme migranti e antisemitismo di Luciana Cimino Il Manifesto, 11 settembre 2025 La giornata del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi è stata piena e l’unica cosa che è emersa è la strumentalizzazione della sicurezza per portare avanti politiche ai limiti del razzismo e le torsioni per giustificare la condotta di Israele e sminuire quello della Global Sumud. Un’intervista a un quotidiano bolognese, un incontro in Calabria e il question time alla Camera: la giornata del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi è stata piena e l’unica cosa che è emersa è la strumentalizzazione della sicurezza per portare avanti politiche ai limiti del razzismo e le torsioni per giustificare la condotta di Israele e sminuire quello della Global Sumud Flottilla. “L’antisemitismo - ha detto il ministro - è uno degli aspetti più preoccupanti emerso all’indomani del 7 ottobre e ha determinato un rafforzamento di tutti i dispositivi di osservazione e controllo riferiti agli obiettivi riconducibili allo Stato di Israele e alle comunità ebraiche”. E sempre con la chiave dell’antisemitismo ha spiegato la necessità di “assicurare protezione” alle “comitive culturali, turistiche o sportive” di cittadini israeliani in vacanza in Sardegna e nelle Marche. Ha poi difeso l’uso del taser, definito “strumento imprescindibile” da parte delle forze dell’ordine, nonostante i due decessi causati questa estate dal suo utilizzo. Per Piantedosi anche al taser sarebbe dovuto “un calo complessivo del 9% dei reati” rispetto al 2024. “Vista l’incidenza dei reati commessi da migranti abbiamo anche rafforzato i rimpatri: 12% in più”. “Dati ridicoli - ha detto il Pd - Il governo strumentalizza il tema della sicurezza, cercando di creare allarmismo per giustificare interventi reazionari e liberticidi, come il decreto sicurezza”. E il ministro ieri ne ha dato conferma annunciando un Cpr a Bologna “per rimpatriare gli spacciatori” con un intero pacchetto di misure tra cui il mantenimento della zona rossa. “I casi riguardanti gli stranieri sono solo lo 0,49%, uumeri talmente esigui da smontare la retorica dell’invasione”, contestano i dem. Quanto ai rom, Piantedosi si è vantato di aver ridotto il “numero degli insediamenti formali e informali e delle presenze negli insediamenti su tutto il territorio nazionale”. Il ministro “alimenta l’odio”, ha commentato l’Arci. Migranti. La cortina fumogena che avvolge i Cpr di Gianfranco Schiavone L’Unità, 11 settembre 2025 È nota l’assoluta opacità che avvolge il sistema dei Centri per il rimpatrio. Chiunque abbia cercato di accedere per qualunque legittima ragione a questi luoghi si è scontrato con un muro alzato dall’Amministrazione. Ciò risponde a una strategia per limitare la conoscenza delle condizioni interne: degrado strutturale, condizioni inumane, uso massiccio di psicofarmaci. Ad aprile il Ministero dell’Interno ha emanato una circolare dal testo incredibile nella quale si cerca in tutti i modi di ostacolare il monitoraggio dei CPR persino per coloro che possono accedervi senza autorizzazione. Sotto il profilo giuridico un centro di detenzione amministrativa (al di là dell’aberrazione di tale nozione su cui ora non mi soffermo) non è una struttura di espiazione penale, né tanto meno un luogo dove vengono rinchiuse persone pericolose i cui legami con l’esterno vanno ridotti al minimo. Nel diritto dell’Unione Europea la funzione del trattenimento in un CPR è esclusivamente limitata a impedire l’allontanamento di una persona da espellere; il trattenimento deve avere “la durata quanto più breve possibile ed è mantenuto solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio “(Direttiva 115/CE/20008 art. 15 par. 1) mentre “i pertinenti e competenti organismi ed organizzazioni nazionali, internazionali e non governativi hanno la possibilità di accedere ai centri di permanenza temporanea (...). Tali visite possono essere soggette ad autorizzazione” (Direttiva, art. 16 par.4). L’accesso ai centri deve pertanto sempre essere garantito e le eventuali procedure autorizzative devono essere snelle e non possono essere usate quali strumenti per ostacolare il diritto di accesso. Eppure è tristemente nota l’assoluta opacità che avvolge il sistema dei CPR (centri per il rimpatrio). Chiunque (amministratore locale, giornalista, ricercatore, membro di un’associazione diversa dall’ente gestore etc.) abbia cercato di accedere per qualunque legittima ragione a questi luoghi ha avuto l’esperienza di un muro alzato dall’Amministrazione, fatto innanzitutto di strategie dissuasive e dilatorie, di tempi infiniti, di sempre nuove richieste irragionevoli, di rinvi dell’ultimo minuto, ed infine di dinieghi all’accesso. L’opacità dei CPR non è un fatto episodico ma risponde a una strategia per limitare la conoscenza delle condizioni interne ai Centri. Degrado strutturale, condizioni inumane e degradanti, uso massiccio di psicofarmaci, è infatti il quadro che emerge, pressoché immutato nei decenni, da ogni rapporto che sia stato condotto con rigore scientifico e onestà intellettuale, chiunque ne sia stato l’autore, con ruoli istituzionali o meno. Da ultimo, solo in termini temporali, il rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti o punizioni inumani o degradanti (CPT) del 13.12.2024 le cui conclusioni sono agghiaccianti “Le condizioni di detenzione osservate in tutti i CPR visitati al momento della visita del 2024 potrebbero essere considerate simili a quelle esistenti all’interno delle unità di detenzione sotto il regime speciale dell’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario italiano”. La gravità della situazione emerge ancor più chiaramente alla luce della sentenza 96/2025 con la quale la Corte Costituzionale riconosce i gravissimi vizi di costituzionalità della detenzione amministrativa in quanto i “modi” del trattenimento sono infatti attualmente impropriamente disciplinati (o non disciplinati affatto) da fonti regolamentari non aventi forza di legge e spesso solo da semplici disposizioni amministrative. La scarna normativa vigente è dunque “del tutto inidonea a definire, in modo sufficientemente preciso, quali siano i diritti delle persone trattenute nel periodo - che potrebbe anche essere non breve - in cui sono private della libertà personale” (10). La sentenza, pur nella sua rilevanza, è certamente insoddisfacente nelle sue conclusioni (solo un forte monito all’Esecutivo a provvedere immediatamente all’emanazione di una disciplina del trattenimento). Come ha fatto giustamente osservare Francesco Pallante, la Corte “avrebbe potuto prendere a modello, in vista di una pronuncia additiva, la disciplina dell’ordinamento penitenziario, in modo da renderla, sia pure in via provvisoria, applicabile anche al caso della detenzione nei Cpr”. (“L’incerta questione della legalità costituzionale nel caso degli stranieri irregolari”, in Questione Giustizia, 25.07.25) Invece di dare esecuzione alle richieste di cambiamento poste dal Comitato UE (le cui raccomandazioni sono vincolanti per gli Stati) e di dare seguito al monito della Corte Costituzionale, l’unica iniziativa che sembra sia stata posta in essere finora dal Ministero dell’Interno è stata quella di emanare in data 18.04.25, a cura del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, una circolare dal testo francamente incredibile nella quale si cerca in tutti i modi di ostacolare il monitoraggio dei CPR persino a coloro che in applicazione, per analogia, dell’art. 67 della legge n. 354/1975 (ordinamento penitenziario), in combinato disposto con l’art. 19, c.3, del decreto legge n. 13/2017, possono accedere ai CPR senza autorizzazione preventiva del Prefetto territorialmente competente, ovvero i membri del Parlamento, nazionale ed europeo, i consiglieri regionali, nonché coloro che li accompagnano “per ragioni del loro ufficio” (La stessa formulazione si ritrova correttamente riportata anche nella cosiddetta direttiva Lamorgese sui CPR del 19.05.2022). Secondo la circolare invece quelli che accompagnano coloro che hanno il diritto di accesso ai CPR senza autorizzazione possono essere solamente “soggetti che seguono la personalità in quanto funzionalmente incardinati nel loro ufficio” (la stessa tesi è stata più volte sostenuta anche nel corso delle visite, vigorosamente ostacolate, al centro di Gjader in Albania). La lettura che la circolare pretende di imporre è chiaramente infondata in quanto l’espressione “per ragioni del loro ufficio” opera un rinvio generale al fatto che i parlamentari o gli europarlamentari o i consiglieri regionali hanno piena facoltà di avvalersi di esperti (giuridici, medici, mediatori linguistici) che ritengono utili nella data circostanza per potere leggere e comprendere pienamente ciò che intende monitorare, senza che ciò abbia nulla a che fare con il fatto che lo stesso parlamentare si avvale, per l’ordinario svolgimento delle sue funzioni, di uno staff strutturato di collaboratori. L’obiettivo è chiaro: ostacolare i parlamentari nelle loro visite, le quali se non possono essere impedite, devono almeno avvenire senza supporti tecnici, così da limitarne gli effetti. Non solo: secondo la citata circolare la finalità dell’accesso da parte dei parlamentari “deve limitarsi a una visita essendo riservato un ruolo ispettivo ai soli Garanti in base alle attribuzioni conferite dal loro incarico”. La norma dispone ben diversamente: i membri del Parlamento, nazionale ed europeo, i consiglieri regionali sono riportati nell’art. 67 della L. 354/1975 nella stessa lista insieme, tra l’altro, agli ispettori dell’amministrazione penitenziaria e ai garanti dei diritti dei detenuti, altri (art. 67, l. 354/1975), senza distinzione di funzioni e di poteri. La circolare richiede altresì di “disciplinare i tempi di durata di tali visite” e prevede che, anche a prescindere da questioni di sicurezza “il responsabile del servizio di vigilanza valuti se le visite dei soggetti che accedono senza autorizzazione possano comprendere colloqui con gli stranieri che ne diano disponibilità o che ne facciano richiesta” configurando in tal modo un potere di limitazione dei colloqui tra parlamentari e trattenuti da parte del responsabile del servizio di vigilanza. Si tratta anche in questo caso di una lettura tanto confusa quanto priva di fondamento, oltre che mortificante l’azione parlamentare. La parola “visita” non può certo essere intesa come visita di curiosità o di cortesia, sopportabile solo nella misura in cui le stesse “non determinino ritardi nell’espletamento dei compiti d’ufficio da parte delle autorità di Polizia che operano all’interno dei CPR né da parte degli enti gestori”. Nelle istruzioni impartite dalla circolare i visitatori “sono assistiti dal personale dell’Ente gestore per tutta la durata della visita” e in ogni modo la visita non deve “determinare un intralcio alle attività che il gestore svolge ordinariamente”. Si chiede altresì che “il colloquio (non) travalichi tematiche che gli stranieri possono approfondire tramite i colloqui con i propri difensori”. La circolare pretende dunque di limitare persino gli argomenti oggetto dei colloqui con i trattenuti, cercando di impedire ai parlamentari e ai loro collaboratori di approfondire proprio le questioni legate al trattenimento degli stranieri nel centro e alle modalità di attuazione dello stesso. Confido che il lettore abbia colto sia i chiari profili di illegittimità giuridica, che la gravità, sul piano sociale e politico, di un’impostazione che ha un sapore così esplicitamente autoritario. Spetterà ai parlamentari far valere le disposizioni di legge e non le arroganti pretese della circolare, anche già durante le visite di monitoraggio che fino a ottobre verranno svolte insieme al TAI (Tavolo Asilo e Immigrazione) insieme al viaggio nei CPR italiani di Marco Cavallo promosso dal Forum per la salute mentale (di cui ho scritto nell’edizione del 04.09.25) portando in ogni caso il caso dell’inaudita circolare all’attenzione del Parlamento con il rilievo che la questione merita. Valditara ha raccolto il mio appello sul minuto di silenzio per la pace: ora tocca a ciascun docente di Alex Corlazzoli* Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2025 Il comune desiderio di sensibilizzare i nostri studenti per “costruire la pace” è un segnale importante per comprendere che è sempre possibile cercare di trovare soluzioni insieme. “È giusto fare un minuto di silenzio nelle scuole per le vittime di tutti i conflitti”. È la dichiarazione che il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha rilasciato nel pomeriggio di ieri all’agenzia Ansa. L’inquilino di viale Trastevere ha sostanzialmente raccolto il mio appello lanciato dal blog de ilfattoquotidiano.it. In queste ore in Piemonte, dove è già suonata la prima campanella, in molte scuole hanno iniziato a farlo. Ora è arrivato l’ok anche dal ministro: “È senz’altro positivo - ha dichiarato Valditara - il minuto di silenzio che le scuole, nella loro autonomia, hanno deciso di dedicare alla commemorazione di tutte le vittime dei conflitti, in particolare i bambini, i giovani, che ogni giorno muoiono in tante zone di guerra nel mondo. La pace è un valore fondante della nostra civiltà”. Una risposta ai tanti docenti, presidi e genitori che in queste ore hanno condiviso l’appello lanciato dal nostro sito. Una proposta sostenuta anche da Giuseppe D’Aprile, segretario nazionale della Uil Scuola: “È un modo semplice e diretto per affrontare, nei vari ordini di scuola, il tema delle guerre e dei conflitti in atto. L’educazione è il primo strumento per creare consapevolezza. Gli insegnanti hanno il delicato compito di aiutare gli studenti a leggere la realtà. E quello del minuto di silenzio ci sembra un momento simbolico a cui è possibile dare molti significati, far seguire molti spunti di riflessione. Siamo certi - e ce ne faremo a nostra volta sostenitori - che il ministro Valditara vorrà approvare questa proposta che punta alla convivenza pacifica e offre un ‘seme di coscienza’ per costruire la cultura della pace e del rispetto dei diritti fondamentali, proprio in un momento nel quale a migliaia sono privati del loro diritto all’istruzione a causa della guerra, le scuole distrutte, le aule chiuse”. Questa condivisione comune tra politica, media, cittadini, sindacato è un fiore che spunta nell’arido terreno che ogni giorno coinvolge tutti noi nei conflitti. Il comune desiderio di sensibilizzare i nostri studenti per “costruire la pace” è un segnale importante per comprendere che è sempre possibile cercare di trovare soluzioni insieme. Ora tocca a ciascun docente il dovere di proporre questo minuto di silenzio per la pace perché nessuno sia escluso. *Maestro e giornalista ì Medio Oriente. Gli Accordi di Abramo in frantumi: chi ha strappato la tela? di Eleonora Ardemagni Avvenire, 11 settembre 2025 Siglati nel 2020 per normalizzare le relazioni tra Israele e parte del mondo arabo, sembravano il segno di una riconciliazione sotto la regia Usa. Ora è saltato tutto: vanno comprese le responsabilità. Rileggendo oggi il testo degli Accordi di Abramo, con cui gli Emirati Arabi e il Bahrein normalizzarono le relazioni con Israele nel 2020, non si può che provare l’amaro in bocca delle opportunità svanite. Almeno per parecchio tempo. I firmatari si impegnavano a “lavorare per l’avanzamento della causa della pace, della stabilità e della prosperità in Medio Oriente”. Parole forse un po’ retoriche, che sicuramente celavano forti interessi nazionali, ma che trasmettevano le tante speranze che quell’accordo storico schiudeva per la regione. Cinque anni dopo gli Accordi di Abramo sono ancora in vigore. Nessuno li ha fin qui cancellati, né formalmente ridimensionati. Però, la loro forza trasformatrice si è spenta, mese dopo mese, attacco dopo attacco, strage dopo strage. Il bombardamento di Israele contro la riunione di Hamas a Doha, in Qatar, è un altro strappo, l’ennesimo, a quella tela. Forse quello politicamente più grave per gli Stati del Golfo, perché ha violato la sovranità di uno di loro, portando la polvere dei bombardamenti dentro l’oasi politica del Qatar. Di certo, in un Medio Oriente in cui prevale la rapidità delle armi sulla fatica del dialogo, l’emirato degli Al Thani è politicamente “meno utile” di un tempo, nei calcoli di Israele e degli Stati Uniti. E le tante ambiguità che il mediatore Qatar ha fin qui abilmente maneggiato, anche su richiesta israeliana e americana, ospitando per esempio la leadership politica di Hamas, diventano ora motivo di vulnerabilità. Sono molti gli attori che hanno logorato la tela degli Accordi di Abramo, fino a strapparla. Innanzitutto, Hamas: il massacro del 7 ottobre e la presa di ostaggi sono stati attuati anche per impedire la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele, che sembrava davvero alle porte. Poi sono venute le scelte del governo israeliano: l’interminabile guerra a Gaza e soprattutto la fame dei palestinesi assediati nella Striscia, fino ai piani di annessione della Cisgiordania, che affosserebbero qualunque ipotesi di “due popoli e due Stati”. C’è un terzo attore, però, che ha una grande responsabilità nel fallimento politico e strategico - vedremo poi se anche formale - degli Accordi di Abramo: gli Stati Uniti di Trump. Il quale ha largamente contribuito a disfare la tela politica che aveva intrecciato nel primo mandato, con posizioni ondivaghe, talvolta contraddittorie, spesso schiacciate sulla linea del governo Netanyahu (vedi il “Piano Riviera”). Il risultato è l’ulteriore perdita di influenza americana. Il bombardamento israeliano su Doha mette in luce tutto questo, nelle ore in cui gli americani sostenevano di avere un piano (l’ennesimo) per il cessate il fuoco a Gaza: le bombe arrivano di nuovo a trattativa aperta. E stavolta l’obiettivo è in uno dei paesi più strettamente alleati degli Stati Uniti. Il Qatar è diventato il luogo dove i nemici regionali regolano i loro conti politici, prima l’Iran (con l’attacco alla base americana di giugno), ora Israele. Per Doha e i vicini la lezione è la stessa: la deterrenza americana nel Golfo non funziona più, né per frenare i nemici (Iran) né gli amici (Israele) di Washington. Per le monarchie del Golfo, l’inaffidabilità americana è ormai una realtà, anche se somiglia a un brutto sogno dal quale vorrebbero svegliarsi. Qualche giorno fa, gli Emirati Arabi hanno lanciato un segnale chiaro sugli Accordi di Abramo, dicendo pubblicamente che l’annessione di gran parte della Cisgiordania proposta dal governo israeliano sarebbe per Abu Dhabi una “linea rossa”. Un’espressione che, in politica internazionale, si è spesso rivelata inconcludente. Stavolta, però, la situazione pare diversa. Il viceministro Lana Nusseibeh, tra le voci emiratine più autorevoli, ha detto che è stato Israele, con le sue politiche, ad aver “rovesciato” il senso e lo spirito regionale degli Accordi. Quasi fosse Tel Aviv a essere uscita, nei fatti, da quell’intesa e non, eventualmente, possano essere gli Emirati a farlo. Un ribaltamento di prospettiva che fotografa quanto la speranza di un Medio Oriente davvero pacificato si sia, per ora, spenta. Francia. “Blocchiamo tutto”, se il web fa politica di Flavia Perina La Stampa, 11 settembre 2025 Bloquons tout, Blocchiamo tutto, è la nuova frontiera della protesta senza bandiere. Debutta oggi in Francia e compie un ulteriore passo avanti verso la smaterializzazione della politica: non ha capi riconoscibili, non ha divise come i vecchi Gilet Gialli, non nasce contro specifici provvedimenti come successe nel 2018 per l’aumento dei carburanti. Persino le sue origini sono avvolte dalla nebbia. Sono mesi che la stampa di Parigi cerca di venirne a capo: chi sono, da dove vengono, come ce l’hanno fatta? La pista principale porta a un canale della messaggistica Telegram, Les Essentiels, che nel maggio scorso fu il primo a pubblicare l’invito a fermare la Francia il 10 settembre. Solo 170 iscritti fino ad agosto, poi l’escalation su Tik Tok e Youtube. Un secondo gruppo, Indignamoci, si è manifestato il 15 luglio, subito dopo le misure di austerity annunciate da François Bayrou: più politicizzato a sinistra, ha dilagato in parallelo all’originale con l’effetto collaterale di tagliar fuori la destra dall’adesione alle manifestazioni. Il contatore ha cominciato a correre davvero due settimane fa. Oltre venti milioni di visualizzazioni per i contenuti dedicati su Tik Tok, settantamila conversazioni al giorno su X, cinquemila e più pagine a tema su Facebook, bot che generano oltre mille tweet al giorno. È così che il movimento si è fatto bolla, e la bolla ha sottomesso un pezzo della politica francese. La sinistra di Jean-Luc Mélenchon è stata svelta ad accodarsi, con il suo leader che si è offerto come generoso patrigno per un’insurrezione apparentemente senza padri. Il sindacato, pur di non restare indietro, ha aderito al blocco con numerose sigle a cominciare da quella dei ferrovieri: loro sì in grado di bloccare tutto. Il resto si capirà oggi, e vai a vedere se sarà il colpo di grazia per l’arcinemico Emmanuel Macron, l’atto finale del suo precipitare nel consenso - lo bocciano il 77 per cento degli elettori - e la fine delle sue ambizioni di leadership europea. Oppure, al contrario, una insperata “chance” di proporsi come argine al disordine che rischia di travolgere la Francia, l’incentivo che mancava ai partiti per trovare un accordo di governo che resista almeno fino alle Presidenziali del 2027. La riuscita della giornata (che prevede altre forme di boicottaggio, compreso il ritiro in massa di contante per mandare in crash le banche) ci darà anche il responso sulla nuova frontiera aperta da Bloque Tout. Non più partiti, ed era scontato. Ma neppure movimenti, neppure reti associative, neppure capipopolo-influencer alla Coluche o alla Beppe Grillo. Al loro posto, anonime bolle social che si auto-alimentano con estrema rapidità, capaci di condizionare i partiti e persino realtà strutturate come i sindacati tradizionali per condurle verso forme estreme di lotta. Oggi la bolla si manifesterà in carne e ossa sulle piazze francesi. Li vedremo, finalmente, li conteremo e li ascolteremo. Si capirà che cosa rappresentano: una giornata di ribellione generata da una fase di crisi del sistema, o la prima la manifestazione di un nuovo modello, il debutto di una web-politik senza riferimenti riconoscibili a cui basta un buon titolo - Bloquons tout lo è - per generare tempesta.