Il Parlamento riapre, le carceri esplodono: ora si farà qualcosa? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2025 Mentre, dopo la pausa estiva, oggi il Parlamento riapre, il sistema carcerario italiano sta attraversando una delle crisi più gravi della sua storia recente. È quanto emerge dalla consueta analisi condotta da Rita Bernardini dell’associazione Nessuno Tocchi Caino sui dati ufficiali del ministero della Giustizia aggiornati al 31 agosto scorso, che fotografano una situazione drammatica e in continuo peggioramento. I numeri parlano chiaro: nei 190 istituti penitenziari italiani sono rinchiuse 63.167 persone detenute a fronte di soli 46.658 posti regolamentari effettivi. Questo significa un sovraffollamento medio nazionale del 135,38%, con una carenza di ben 16.509 posti letto. In pratica, ogni tre detenuti uno risulta di troppo. Otto istituti su dieci oltre la capienza - La situazione è ancora più allarmante se si considera che ben 158 istituti penitenziari su 190 - pari all’ 83% del totale - hanno più detenuti dei posti effettivamente disponibili. In queste strutture sono ammassate 58.630 persone in soli 41.164 posti, con un tasso di sovraffollamento che raggiunge il 142%. Particolarmente critica la condizione di 91 istituti (quasi la metà del totale) che superano addirittura la già drammatica media nazionale del 135,38%. Qui il sovraffollamento tocca punte del 164%, con 34.633 detenuti stipati in appena 21.116 posti disponibili. L’analisi di Rita Bernardini evidenzia situazioni al limite dell’umano. Il carcere di Lucca detiene il record negativo con il 259,46% di sovraffollamento: 96 detenuti in soli 37 posti effettivi, più di due detenuti e mezzo per ogni posto letto disponibile. Non va meglio negli istituti delle grandi città. Il carcere di San Vittore a Milano, con i suoi 1.162 detenuti in 526 posti, raggiunge il 220,91% di sovraffollamento. Situazione drammatica anche a Foggia (214,79%), Brescia (206,59%) e Latina (203,90%), dove i detenuti sono più del doppio rispetto alla capienza regolamentare. Tra gli istituti più noti, anche Regina Coeli a Roma presenta criticità significative con 1.125 detenuti in 572 posti (196,68% di sovraffollamento), mentre il carcere di Lecce ospita ben 1.353 persone in 798 posti disponibili. L’analisi regionale rivela come il Sud sopporti il peso maggiore di questa emergenza. La Puglia si conferma la regione più sovraffollata d’Italia con il 173,56%: nei suoi 11 istituti sono rinchiuse 4.478 persone in soli 2.580 posti effettivi. Seguono il Molise (159,35%), il Friuli Venezia Giulia (158,21%) e la Lombardia (154,55%). Quest’ultima, pur essendo una delle regioni più ricche, presenta la situazione più critica in termini assoluti con oltre 9mila detenuti in meno di 6mila posti. Destano preoccupazione anche i dati di Veneto (152,84%), Basilicata (151,36%) e Lazio (150,77%), mentre solo tre regioni - Valle d’Aosta, Trentino- Alto Adige e Sardegna - riescono a contenere il sovraffollamento sotto la media nazionale. Interventi urgenti inesistenti - I dati analizzati da Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, in sciopero della fame da 30 giorni, non rappresentano solo fredde statistiche, ma fotografano una realtà in cui migliaia di persone vivono in condizioni che violano i più elementari principi di dignità umana. Il sovraffollamento carcerario non è solo un problema di spazio, ma compromette gravemente le possibilità di reinserimento sociale, aumenta le tensioni all’interno degli istituti e rende praticamente impossibile qualsiasi programma educativo o riabilitativo. Senza dimenticare la drammatica conta dei suicidi, giunti a 61 detenuti dall’inizio dell’anno. La situazione appare particolarmente grave se si considera che i 4.616 posti dichiarati inagibili dal ministero della Giustizia potrebbero alleviare solo parzialmente l’emergenza, portando comunque il sovraffollamento a livelli inaccettabili. L’analisi dell’associazione Nessuno Tocchi Caino mette in luce come questa non sia una crisi temporanea, ma un problema strutturale del sistema penitenziario italiano che richiede interventi immediati e coraggiosi. Proprio ieri, la senatrice Anna Rossomando (vicepresidente del Senato) e il professor Gian Luigi Gatta hanno partecipato al laboratorio Spes Contra Spem - Nessuno Tocchi Caino presso il braccio G8 del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Presenti, come sempre animatori dei laboratori, Gianni Alemanno e Fabio Falbo, lo “scrivano di Rebibbia”. Rita Bernardini ricorda, come già raccontato su queste pagine da Valentina Stella, che la vicepresidente è stata incaricata dal presidente Ignazio La Russa di scrivere un testo di legge - condiviso trasversalmente - per combattere il sovraffollamento nelle carceri. Nel frattempo il ministro della Giustizia continua a ripetere che il sovraffollamento penitenziario sia legato soprattutto all’abuso della custodia cautelare. Che ci sia un abuso, è indubbio e si spera vivamente che il guardasigilli ci metta mano, però i numeri ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sul sovraffollamento ci raccontano altro. L’ex garante nazionale Mauro Palma, raggiunto da Il Dubbio, spiega che dall’inizio dell’anno al 31 agosto, la popolazione carceraria è cresciuta di 1306 unità. Di questi, soltanto 186 sono persone in attesa di primo giudizio. L’aumento riguarda invece i detenuti definitivi, cresciuti di 1213. Una differenza che, spiega Palma, ribalta la narrazione: il punto non è che “si entra di più”, bensì che “si esce di meno”. In altre parole, il sistema non riesce a garantire percorsi di deflazione della pena, tra misure alternative, liberazioni anticipate e strumenti di reinserimento. Un altro dato rilevante sottolineato da Palma riguarda la composizione della popolazione carceraria. La percentuale di stranieri sul totale resta pressoché invariata, ferma al 31,8 per cento. Cade quindi anche l’idea che il sovraffollamento sia spinto dalla carcerazione dei migranti. La dinamica è tutta interna al funzionamento del sistema penale e penitenziario. C’è poi un paradosso ulteriore che fa notare l’ex garante nazionale: mentre i detenuti aumentano, i posti regolamentari si riducono. Nel periodo considerato, la capienza ufficiale è scesa di 41 unità. Nel calcolo, inoltre, sono inclusi spazi che non esistono più o che non sono mai stati effettivamente utilizzati, come i 98 posti dell’istituto femminile di Pozzuoli, chiuso, o i 24 posti del carcere di Gjader, in Albania, rimasto vuoto. Numeri che gonfiano la statistica ma non alleggeriscono affatto le celle. Oggi, come detto, il Parlamento riprende i lavori. Non è questione ideologica, né elettorale. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sempre detto di credere che gli interessi del Paese vadano anteposti a quelli di partito. Sacrosanto. Una misura trasversale, anche se può non favorire la propria appartenenza politica, sarà però ricordata dalla Storia come un gesto umano che dia il senso di uno Stato civile, di diritto e, magari, di esempio. Salute dietro le sbarre, tra carenze, diritti negati e urgenze dimenticate di Ivana Barberini rendsanita.it, 10 settembre 2025 Scarsa formazione, servizi disomogenei, assenza di coordinamento e numeri crescenti di suicidi: la sanità penitenziaria resta ai margini del SSN. Medici e Polizia penitenziaria chiedono un modello unico, nazionale e integrato. Dalle patologie psichiatriche alla scabbia, dalle dipendenze alle cure odontoiatriche inesistenti, nelle carceri italiane il diritto alla salute resta spesso un’utopia. Medici e Polizia penitenziaria denunciano la frammentazione territoriale, l’assenza di coordinamento e il vuoto formativo per chi opera in questi contesti. E mentre i numeri dei suicidi aumentano, la sanità penitenziaria continua a essere la “parente povera” del Servizio Sanitario Nazionale. Servirebbe un modello unico, nazionale e strutturato, ma anche una riforma culturale, prima ancora che organizzativa. Ne abbiamo parlato a TrendSanità con Antonio Maria Pagano, Presidente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe), e Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). “Le motivazioni che possono spingere un medico a lavorare all’interno del carcere sono molteplici - spiega Pagano -. C’è chi è mosso dal desiderio di aiutare, ma anche chi è attratto dalla sfida professionale che comporta lavorare in un ambito tanto complesso. Qui il corpo diventa spesso un mezzo per ottenere benefici, per uscire dalla cella o un linguaggio per esprimere disagio. Servono competenze cliniche, medico-legali e una buona conoscenza delle normative, perché bisogna sapere a che punto del processo si trova il detenuto quando si rivolge a noi. Fino al 2010 - prosegue - medici, infermieri e operatori sanitari erano dipendenti o consulenti del Ministero della Giustizia, scelti direttamente dai direttori degli istituti. Erano pagati a prestazione. Con il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, è cambiato tutto: oggi sono dipendenti del SSN, ma l’organizzazione dell’assistenza resta disomogenea, a “macchia di leopardo”, con differenze tra le varie aziende sanitarie, tra servizi di base, salute mentale, dipendenze ed équipe multidisciplinari”. “Prima - aggiunge Capece - c’erano medici dedicati esclusivamente all’assistenza sanitaria dei detenuti. Li conoscevano, sapevano distinguere chi aveva davvero bisogno da chi cercava un pretesto per uscire dal carcere. Oggi, con medici esterni spesso poco esperti, è più facile che si autorizzi un accesso in Pronto Soccorso per paura di reazioni violente. Poi lì, in ospedale, si scopre che non c’erano reali motivi clinici e si torna indietro. Il tutto, dopo aver organizzato una scorta e una macchina e impegnati diversi agenti. In alcuni penitenziari si potevano fare anche le analisi del sangue e in più c’erano dentisti, psicologi, specialisti che visitavano regolarmente i detenuti, addirittura c’erano sale operatorie di emergenza, quasi mai usate”. “Il nostro ruolo, rappresentando le donne e gli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria che vivono la realtà delle carceri nella prima linea delle sezioni detentive 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, è proporre soluzioni concrete ai problemi reali - afferma Capece -. Le tossicodipendenze creano da sempre enormi difficoltà gestionali, così come la presenza di persone con disturbi psichiatrici. Dopo la chiusura degli OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario), molti di loro sono finiti in carcere, perché le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) sono pochissime. E così anche chi non dovrebbe stare in carcere, finisce per restarci. L’assistenza psichiatrica è carente, ma l’ASL fa poco per potenziare questi servizi. Il personale sanitario è insufficiente e noi agenti penitenziari ci troviamo a fare anche da educatori, assistenti, ascoltatori, infermieri e cappellani. Crediamo che tutti questi problemi si possano affrontare tornando a un modello di sanità penitenziaria autonomo e strutturato, com’era prima di essere inglobato nel SSN. Un modello che funzionava”. “Il rapporto medico-paziente in carcere è anomalo - chiarisce Pagano. Nella sanità territoriale, è il paziente a scegliere il medico. In carcere no, il medico è assegnato. In alcuni casi si può fare richiesta di uno specialista esterno, ma serve l’autorizzazione. Chi sta in carcere, normalmente (ma non è scontato), ha lo stesso gruppo di medici, almeno per l’assistenza di base. Per le visite specialistiche, invece, o viene lo specialista in istituto oppure la persona accede a un ambulatorio esterno tramite prenotazione. In tutto questo, è fondamentale includere anche gli aspetti giuridici nell’anamnesi. Sapere a che punto è il procedimento, cosa sta accadendo nell’istituto. Anche un malessere improvviso può dipendere da dinamiche non cliniche ma ambientali”. “Come Società Italiana di Sanità Penitenziaria - sottolinea Pagano - abbiamo proposto un modello unico, valido su tutto il territorio. Lo abbiamo presentato al Ministero e al nostro Congresso. Serve un’organizzazione sanitaria coerente, integrata, formativa. La relazione di cura in carcere è complessa: coinvolge aspetti sanitari, giuridici, penitenziari. Gli istituti sono spesso inadeguati, costruiti prima della riforma dell’ordinamento penitenziario. Spazi vetusti che influenzano negativamente la salute di tutti, detenuti, agenti, operatori sanitari e il burnout è dietro l’angolo”. “Ad oggi non esiste un sistema nazionale di rilevamento dello stato di salute nelle carceri - spiega Pagano. L’unico studio è del 2014, realizzato per un progetto CCM. Le patologie psichiatriche coinvolgono circa il 10% della popolazione detenuta. Le dipendenze riguardano più del 30%, ma superano il 70% se si considerano anche i casi non dichiarati. L’HIV è oggi residuale, mentre la tubercolosi in forma latente è presente soprattutto tra chi proviene da contesti fragili o comunque da territori dove è ancora endemica. Il carcere, spesso, è il primo vero contatto con un medico, per questo la sanità penitenziaria ha anche un valore preventivo importantissimo. Le malattie cutanee, come la scabbia, sono frequenti, ma l’isolamento dei casi è difficile da attuare per carenze igieniche, sovraffollamento, strutture inadeguate. L’igiene è responsabilità dell’amministrazione penitenziaria, non del servizio sanitario. Grave anche la situazione odontoiatrica. Molti detenuti, infatti, soprattutto tossicodipendenti, hanno gravi problemi dentari. Le cure odontoiatriche non rientrano nei LEA, a parte le estrazioni, cura delle carie e poco più. Chi non può pagare, quindi, resta senza denti. Solo chi ha soldi può permettersi cure complete, creando disparità anche all’interno del carcere. Serve un’odontoiatria sociale, pubblica, accessibile”. “In una situazione di sovraffollamento cronico - aggiunge Capece - dove ogni anno passano oltre 100 mila persone, anche garantire il diritto alla salute diventa un’impresa. Le malattie psichiche sono le più diffuse, seguite da disturbi gastrointestinali, obesità, diabete e osteoporosi, spesso legati a cattiva alimentazione, carenza di vitamina D e sedentarietà. Mancano gli screening e ciò comporta ritardi diagnostici gravi. Spesso poi siamo noi poliziotti i primi a intervenire in casi di autolesionismo o tentativi di suicidio”. “Una volta uscite, le persone tornano cittadine come tutte le altre - spiega Pagano -, ma manca un sistema per garantire la continuità delle cure. A volte ci comunicano la scarcerazione lo stesso giorno e riusciamo al massimo a consegnare un primo ciclo di terapia e a redigere una “lettera di dimissione” che ha il fine di informare il medico di famiglia di quanto fatto durante il periodo detentivo. Più complesso il discorso per chi va agli arresti domiciliari. Se la sanità penitenziaria si occupa solo di chi è fisicamente in carcere, queste persone restano senza assistenza o, se devono fare una visita medica, devono seguire tutto l’iter insieme all’avvocato e chiedere l’autorizzazione del giudice. Ciò comporta anche dei costi, per questo proponiamo una sanità penitenziaria che segua anche le persone sottoposte a misure restrittive. Avere servizi dedicati nelle Asl consentirebbe di garantire continuità di cura anche fuori dal carcere. “La sanità penitenziaria è oggi frammentata e disomogenea - continua Pagano - e manca una formazione obbligatoria. Servirebbe già nei corsi di medicina generale e nelle scuole di specializzazione. Lavorare in carcere richiede consapevolezza, conoscenze giuridiche, capacità di redigere relazioni per i magistrati. Non basta saper curare e, se l’assistenza in carcere resta residuale, affidata a chi ha un po’ di tempo libero, non si costruisce competenza”. “Il Presidente della Repubblica Mattarella ha definito quella dei suicidi in carcere una vera emergenza sociale - ricorda Capece. Nel 2024 si sono contati 246 decessi in carcere, di cui 91 per suicidio. Numeri che parlano da soli. Ma a fare seriamente riflettere è anche l’alto numero di suicidi che si registra tra gli appartenenti al Corpo: dal 2000 ad oggi parliamo dell’inaccettabile numero di 100. Il Governo ha inserito la prevenzione dei suicidi e dell’autolesionismo tra le priorità e ha istituito, con il DPR 13 novembre 2024 n. 217, il ruolo tecnico per i medici della Polizia Penitenziaria con formazione specifica e aggiornamenti professionali obbligatori. Abbiamo ottenuto 103 posti, ma le procedure sono ferme, vanno avviati i concorsi. Serve riconoscere la specificità della medicina penitenziaria. Un esempio concreto? Gli ospedali dei comuni sede di istituti penitenziari dovrebbero avere reparti di medicina protetta, dove detenuti e sicurezza siano entrambi tutelati. Un modello da estendere e regolamentare”. Secondo i dati del Garante dei detenuti - conclude Capece -, ci sono almeno 9.715 persone con pene definitive inferiori a un anno. Sono persone che potrebbero scontare la pena fuori, sul territorio. C’è chi è dentro per tre mesi, sei mesi, perfino uno. Ma il carcere non può essere la risposta a tutto. La custodia cautelare dovrebbe essere riservata solo a chi è realmente pericoloso, non può diventare la norma per chiunque. Si possono controllare le persone ai domiciliari, chi lavora in azienda o in progetti di recupero ambientale o chi segue un percorso di reinserimento. È possibile, occorre cambiare mentalità. Pensare che la detenzione sia l’unica soluzione, anche per pene brevi, è sbagliato e pericoloso. Non voglio passare per buonista: chi commette un reato deve pagare. Ma la pena detentiva non può essere l’unica via. Soprattutto quando parliamo di chi ha meno di un anno da scontare”. Luigi Pagano: “Il carcere non rieduca più, è solo contenitore di fragilità sociali” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 10 settembre 2025 L’ex direttore di San Vittore: “La politica rischia di usarlo come discarica sociale, per nascondere invece che per educare”. “La situazione raramente è stata felice, ma oggi temo che il carcere si stia piegando a una logica di ordine pubblico: si rinchiudono tossicodipendenti, malati psichiatrici, borseggiatori, spacciatori. Figure che danno fastidio alla gente più che rappresentare un pericolo reale”. Luigi Pagano, 70 anni, che nel 2019 era andato in pensione lasciando il posto di comando al Dap regionale, è stato nominato dal sindaco Beppe Sala come Garante delle persone private della libertà personale per il Comune del capoluogo lombardo. La sua esperienza è lunghissima, perché rimettersi in gioco? “Vorrei guardare avanti, e non indietro. Sono stato direttore di diverse carceri italiane (a San Vittore dal 1989 al 2004, ndr), ho contribuito tra l’altro a fondare il primo Icam, l’Istituto per la custodia attenuata delle madri detenute. Ho ideato la casa di reclusione di Bollate, il cui modello “aperto al lavoro” determina tuttora un tasso di recidiva inferiore al 20 per cento rispetto alla media nazionale superiore al 70. Ancora, abbiamo creato il reparto La Nave destinato alla cura dei detenuti con problemi di dipendenza. Deve essere sempre un lavoro di squadra, forse ancora di più che per altri ambiti. Quando sono andato in pensione pensavo di fermarmi ma di fronte alle carenze non potevo restare a guardare: per fare ancora la mia parte, ho deciso di candidarmi come Garante dei detenuti”. La crisi è generale… “Il carcere non può diventare il contenitore delle marginalità che le città non sanno affrontare. Abbiamo smarrito la funzione principale della pena, che dovrebbe essere rieducativa e tesa al reinserimento: in questa fase il carcere è contenitore di vite fragili scambiate per minacce”. I numeri confermano la cronicità dell’emergenza? “In Lombardia il sovraffollamento è oltre il 130 per cento. San Vittore è il simbolo: spazi fatiscenti, reparti stipati. È paradossale, perché dovrebbe ospitare nel miglior modo possibile chi si trova in attesa di giudizio. Invece proprio lì la compressione dei diritti è più evidente”. Nel 2013 la sentenza Torreggiani condannò l’Italia per trattamenti inumani nelle celle. Da lì era partito un impegno a ridurre la pressione detentiva... “Anche oggi se si volesse davvero cambiare, servirebbero provvedimenti deflattivi: indulto, amnistia, ampliamento della liberazione anticipata. Ma temo manchi il coraggio politico di imboccare questa strada”. Lei cita anche l’ergastolo ostativo... “È la pena senza benefici per chi non collabora. Così il fine rieducativo dell’articolo 27 si svuota: resta solo un ergastolo senza uscita. Giusto punire, ma non cancellare la possibilità di cambiare”. Perché era urgente nominare un nuovo garante? “La proroga dell’ultimo mandato di Maisto, rimasto in carica sei anni, era scaduta il 6 agosto. L’urgenza era data proprio dalla situazione insostenibile degli istituti: sovraffollamento, suicidi, emergenze che in un mese come agosto si ripresentano ogni anno con gravità crescente”. Al carcere Opera arriva la nuova direttrice Rosalia Marino, a San Vittore Maria Pitaniello... “I direttori restano figure di riferimento indispensabili: senza di loro non si regge una macchina che già cammina sul filo dell’emergenza, e il caso dell’Ipm Beccaria, con i recenti fatti di cronaca, i tentativi di rilancio, il sovraffollamento e una direzione vacante da decenni, merita attenzione: lì si gioca la partita più delicata, quella dei ragazzi e giovani adulti”. Lei prende il testimone dall’ex magistrato Francesco Maisto, rimasto in carica per sei anni... “È un compito che non si può eludere. C’è molto da fare e credo di avere competenze da mettere in campo. In passato si respirava indifferenza sul carcere, oggi c’è persino un certo accanimento. La politica rischia di usarlo come discarica sociale, per nascondere invece che per educare. Bisogna tenersi lontani da quell’idea. È il contrario di quello che dovrebbe essere: il carcere che lavora per riaprire le porte, non per chiuderle”. Nei sondaggi sul referendum, il Sì alla riforma Nordio è solo al 50% di Giovanni Maria Jacobazzi e Errico Novi Il Dubbio, 10 settembre 2025 Nel giorno della notizia sull’iscrizione di Bartolozzi a registro indagati, una fonte parlamentare di FdI rivela: se la consultazione confermativa sulla separazione delle carriere si tenesse oggi, la vittoria sarebbe in bilico. Chi dava per scontato un viaggio in discesa verso l’agognato Sì al referendum sulle carriere separate ora è servito. Chi pensava che la riforma Nordio, l’epocale divorzio fra giudici e pm con tanto di sorteggio ammazza-correnti, fosse una pura formalità, dovrà ricredersi. Anche se non serviva l’apertura dell’indagine su Giusi Bartolozzi, figura chiave del ministero da cui è nato il ddl costituzionale, per immaginarlo. Anzi: è notizia delle ore precedenti alla scoperta dell’iscrizione di Bartolozzi a registro degli indagati che, soprattutto dalle parti di Fratelli d’Italia, circolano sondaggi per nulla rassicuranti sul referendum “carriere separate”. Non c’è l’ombra del cappotto fantasticato da molti nei mesi addietro, magistrati inclusi: il via libera degli elettori alla riforma Nordio e i No in cui spera l’Anm sono di fatto alla pari. Entrambi sul 50%, con il consueto margine di errore reclamato, come sempre in casi del genere, dagli istituti demoscopici. Certo, è un dato che va passato per una lunga serie di filtri. Ma è comunque indicativo, e si intreccia, inevitabilmente, con la notizia del giorno. Vale a dire, con il rischio che i “nemici” delle carriere separate possano impallinare, da qui alla consultazione confermativa, il guardasigilli autore della legge costituzionale in quanto gravato da una capo Gabinetto sotto accusa, se non già sotto processo. Ma prima di tutto il dato demoscopico, che almeno cronologicamente precede l’informazione di garanzia destinata a Bartolozzi: una autorevole fonte parlamentare di Fratelli d’Italia, dotata di approfondita conoscenza del dossier carriere separate, ha rivelato al Dubbio che il partito della premier ha già da un po’ iniziato a commissionare sondaggi riservati sull’orientamento degli elettori in vista della consultazione confermativa. E appunto, riferisce la fonte, le percentuali del Sì e del No sono “in assoluto equilibrio”. Non è scattato l’allarme rosso, dalle parti di Meloni, Nordio e dei vertici del governo in materia di comunicazione, dal sottosegretario di Stato Fazzolari in poi, solo perché è evidente come una parte degli intervistati, ad oggi, non abbia ben chiaro cosa sia la separazione delle carriere e, in molti casi, neppure sappia che la giustizia è oggetto di un’epocale riforma. Una parte almeno delle “opinioni” raccolte non è, dunque, davvero “consapevole”. Ma il dato vero è anche un altro, è più “di prospettiva” e riguarda proprio l’elettorato meloniano in senso stretto: i fan di Fratelli d’Italia - o almeno lo zoccolo duro che ha votato in passato già per Alleanza nazionale - non ha affatto una tradizione “garantista”. Non ha mai percepito la magistratura come “nemico”. Non è insomma assimilabile al vecchio elettorato berlusconiano, che, se esistesse ancora, voterebbe allineato, coperto e senza defezioni per il Si alla separazione delle carriere. “Non va fatta alcuna sovrapposizione automatica fra i nostri elettori e l’orientamento per il referendum sulla riforma”, è la considerazione ripetuta nelle ultime ore a Palazzo Chigi. Dove la preoccupazione c’è, ovviamente, anche se, come detto, la relativa distanza temporale dal referendum tende a mitigare l’alert. Certo non si sottovalutano i sondaggi. Si spiega così la catechizzazione di ministri come Musumeci o Zangrillo, finora distantissimo dal dossier giustizia ma arrivato nei giorni scorsi a reclamare “il merito” anche nella carriera dei magistrati. Ed è solo l’inizio. Le contromisure successive sono in pare già note: il reclutamento, quale portavoce a Palazzo Chigi, di un giornalista molto esperto di giustizia come l’attuale direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci, non a caso autore di uno dei più clamorosi scoop giudiziari dell’ultimo quarto di secolo, quello sulla cosiddetta casa di Montecarlo, costato l’uscita di scena proprio a un leader della destra, Gianfranco Fini. E anche alla luce dei sondaggi tutt’altro che entusiasmanti commissionati dalla presidente del Consiglio, il piano, nei prossimi mesi, si svilupperà con un rigoroso “addestramento mediatico” di tutte le prime linee del centrodestra, dai ministri ai parlamentari più in vista. “In modo che nessuno dei nostri confonda il Csm con un gestore di telefonia mobile”, chiosa con una punta d’amarezza la fonte che per prima ha segnalato al Dubbio i sondaggi sulla riforma. Si è detto dell’elettorato di destra. Certo, del 29 per cento tuttora attribuito a Fratelli d’Italia dalle opinioni di voto, non tutti sono anche culturalmente di destra in senso proprio. Ma una parte lo è. Ed è la parte, quantificabile più o meno intorno a quel 12 per cento che è la quotazione storica di An, appunto, prima ancora che di FdI, da cui si rischia di non ottenere una risposta compatta, affidabile, quando in primavera si celebrerà la consultazione popolare sulla riforma Nordio. “Il fatto di essere la coalizione tuttora assistita dal maggiore consenso non vuol dire nulla”, si ricorda a Palazzo Chigi, “chi voterebbe oggi per noi, e per Fratelli d’Italia in particolare, potrebbe tranquillamente astenersi al referendum sulle carriere”. Come si farà a trascinare costoro alle urne e ribaltare in modo netto quel fifty fifty che oggi raccontano i sondaggi riservati, non lo sanno con definitiva certezza né Meloni, né Nordio, né Mantovano né chiunque altro, come Chiocci, contribuirà alla battaglia per il Sì. Ma non riuscirci, quello a Palazzo Chigi lo sanno benissimo, significherebbe portare l’attuale premier ai nastri di partenza delle prossime Politiche azzoppata, al punto da pregiudicarne la permanenza al vertice del governo nella prossima legislatura. Serracchiani: “Questa destra, dal panpenalismo al sadismo penale” di Angela Stella Il Dubbio, 10 settembre 2025 Le responsabile giustizia del Pd: “Dall’inizio della legislatura gli poniamo l’emergenza nazionale delle carceri: sovraffollate, fatiscenti, senza spazi trattamentali, con carenze di organico. Abbiamo denunciato la piaga dei suicidi in carcere, quattro volte superiori alla media dei suicidi fuori dal carcere, e lui ha avuto la sfrontatezza di dire che i suicidi non c’entrano con il sovraffollamento e anzi che è positivo, una specie di prevenzione del suicidio”. Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Partito democratico. Il capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, è indagata dalla Procura di Roma per la vicenda Almasri. Che ne pensa? Mi auguro serva a fare chiarezza, in una vicenda in cui le responsabilità si presentano con evidenza. L’apertura del fascicolo da parte della Procura di Roma in effetti non stupisce. Certo colpisce apprendere che sarebbe indagata per il reato di false informazioni fornite al Pubblico Ministero. Del resto il Tribunale dei Ministri aveva messo agli atti che le sue dichiarazioni erano parse addirittura “mendaci”. Passiamo all’altro tema che tiene banco. Secondo Nordio “sarebbe estremamente pernicioso” per l’Anm allearsi col Pd in vista del referendum sulla separazione delle carriere “perché la magistratura così si dimostrerebbe nei confronti dei cittadini ancora più politicizzata”. Un’altra perla di un ministro livoroso verso la categoria cui per anni è appartenuto, evidentemente senza soddisfazione. In Italia c’è ancora una Costituzione che separa i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, e che affida a quest’ultimo il compito di porre limiti agli altri due. Ricordi il ministro che “la giustizia è amministrata in nome del popolo” e che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il vero scopo di Nordio è indebolire il potere giudiziario e ridurre le garanzie dei cittadini. Il PD difenderà i valori fondanti della democrazia e della Costituzione. Secondo lei la magistratura dovrebbe fare un mea culpa su qualcosa? Ha commesso l’errore di prestare il fianco alla narrazione dello strapotere delle correnti ed avrebbe dovuto impegnarsi maggiormente nell’autoriformarsi. Per Matteo Renzi, “c’è un gruppo di toghe brune che fanno capo a Mantovano e vogliono la rivincita sulle toghe rosse”. Che idea si è fatta di questo dibattito? Il conflitto di certa destra con la magistratura viene da lontano. Già Almirante nel 1971 diceva che dovere esclusivo dei giudici è “applicare la volontà del legislatore”, proponeva di smantellare il Csm e sorteggiare i membri. Come vuol far Meloni. Non so il colore delle toghe, ma quello della premier e del suo sottosegretario si sanno. Meloni, Zangrillo, Musumeci, Nordio: nel giro di poche settimane la premier e tre ministri hanno attaccato la magistratura su vari fronti. L’opposizione sarà unita e abbastanza forte per contrastare la narrazione della maggioranza? L’opposizione sarà unita e quindi forte. Chi vince le elezioni non può aver le mani libere, in una democrazia liberale ci sono dei confini. Questo Governo non accetta limiti e ha una idea di democrazia illiberale e autoritaria, perciò attacca il potere giudiziario e lo indebolisce. Il nodo non sarà la separazione delle carriere ma la sopravvivenza della nostra democrazia. I sondaggi danno in vantaggio i ‘sì’ alla separazione. Riuscirete a mobilitare il popolo di sinistra e mandarlo alle urne a dire ‘no’? È un referendum senza quorum, vince chi porta un voto in più. Si mobiliterà con noi una vasta area in cui ci sono tante forze e associazioni della società civile. Sono convinta che il popolo non si lascerà strumentalizzare da chi pensa di utilizzare pessime riforme per i propri biechi fini. Secondo Lei la Meloni alla fine personalizzerà il referendum come fece Renzi? Vedremo. Noi faremo la nostra parte, spiegheremo che questo referendum ha formalmente contenuti tecnici ma è sostanzialmente politico, poiché rappresenta il grimaldello con cui la destra scardina la Costituzione, che non ha scritto e non vuole. Lei sabato scorso ha visitato nuovamente il Cpr di Gradisca. Che situazione ha trovato? Una situazione senza senso. Ero lì con la collega Rachele Scarpa proprio per vedere e testimoniare. Abbiamo incontrato uomini che sono in Italia da venti e più anni, che parlano perfettamente italiano, che lavoravano in Italia, che qui hanno la famiglia, ma che finiscono in CPR perché non hanno i documenti in regola. Tra l’altro, dopo questo periodo di detenzione amministrativa, come viene definita, non vengono neppure rimpatriati. Sovraffollamento al 135 per cento. Sessantuno suicidi in carcere. Nordio istituisce una task force. Specchietto per le allodole? Nordio dovrebbe vergognarsi. Dall’inizio della legislatura gli poniamo l’emergenza nazionale delle carceri: sovraffollate, fatiscenti, senza spazi trattamentali, con carenze di organico. Abbiamo denunciato la piaga dei suicidi in carcere, quattro volte superiori alla media dei suicidi fuori dal carcere, e lui ha avuto la sfrontatezza di dire che i suicidi non c’entrano con il sovraffollamento e anzi che è positivo, una specie di prevenzione del suicidio. La Russa insieme a Rossomando sta lavorando ad un testo per deflazionare la popolazione carceraria. Ma stanno trovando uno sbarramento da parte dei delmastriani e della Lega. Secondo lei alla fine verrà approvato? Ringrazio la vice presidente Rossomando per la sua serietà e la determinazione. Purtroppo i precedenti non rendono ottimisti. Alla Camera è stata già affossata dalla maggioranza la pdl Giachetti sulla liberazione anticipata che avrebbe dato una prima risposta al tema del sovraffollamento. L’intransigenza di un pezzo di maggioranza oggi è un ostacolo. Lei all’evento ‘Giustizia e Costituzione’ aveva preannunciato che avreste messo in campo una pdl che richiamasse i lavori degli Stati generali Esecuzione penale. A che punto siete? Stiamo lavorando ai testi e presenteremo una serie di pdl che raccoglie gran parte del lavoro svolto in occasione degli Stati generali, aggiornandolo e tenendo conto di nuove esigenze e dei più recenti interventi della Corte costituzionale. Che giudizio dà in tema di giustizia e immigrazione di questi mille e passa giorni di Governo Meloni, Nordio, Piantedosi? Doveva essere una destra che riduceva i reati, chiudeva i porti e bloccava gli immigrati. Invece questi ministri parolai hanno solo introdotto nuovi reati, sono passati dal panpenalismo penale al sadismo penale, non hanno chiuso un bel niente e hanno aperto in Albania un Cpr vuoto e costosissimo. Saranno ricordati per essere riusciti in un’impresa che resterà a loro vergogna: liberare un criminale accusato di crimini gravissimi che avevano già arrestato e che hanno riaccompagnato in Libia addirittura con un volo di Stato. L’unico vero rimpatrio riuscito a questo Governo. Indagine su Bartolozzi. Verifiche sul rebus immunità di Simona Musco Il Dubbio, 10 settembre 2025 La Giunta per le autorizzazioni della Camera al lavoro per stabilire se il reato contestato alla dirigente di via Arenula sia connesso a quello del guardasigilli. Il caso Almasri si abbatte di nuovo su via Arenula. E questa volta con l’iscrizione sul registro degli indagati di Giusi Bartolozzi, capo di Gabinetto del ministro Carlo Nordio, indagata per false dichiarazioni davanti al Tribunale dei ministri. Il reato ipotizzato dalla Procura di Roma, guidata da Francesco Lo Voi, è il 371 bis del codice penale, e prevede una pena fino a quattro anni di reclusione. L’annuncio arriva a ridosso dell’avvio dei lavori della Giunta per le autorizzazioni della Camera, che ha analizzato le oltre 1.300 pagine di atti che compongono il fascicolo sull’autorizzazione a procedere formulata dal Tribunale dei Ministri nei confronti di Nordio, del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano. Atti, dunque, che contengono anche la versione completa delle dichiarazioni di Bartolozzi alle tre giudici. Una versione - stando al documento depositato dal “collegio istruttore” a inizio agosto - “da ritenere sotto diversi profili inattendibile e, anzi, mendace”. La Giunta, presieduta da Devis Dori, inviterà i ministri e il sottosegretario coinvolti a comparire o inviare una memoria. Il silenzio appare, però, scontato. E si potrebbe valutare già nella riunione di oggi alle ore 14 il coinvolgimento di Bartolozzi. Un elemento, ha sottolineato il deputato di Forza Italia Enrico Costa, “che la Giunta non potrà non tenere in considerazione ai fini delle proprie conclusioni”, un fatto nuovo, ha aggiunto il forzista Pietro Pittalis, che “dovrà essere oggetto di una comune riflessione”, acquisendo “gli elementi utili al fine di valutare”. La questione è spinosa. Anche perché, non trattandosi di reati in concorso con i ministri, ma di un reato autonomo - commesso non durante la gestione del caso Almasri, ma durante le indagini del Tribunale dei Ministri - la soluzione di estendere lo scudo anche a Bartolozzi in quanto concorrente, ipotesi prevista dall’articolo 4 della legge costituzionale 2019/ 89, verrebbe meno. L’idea alternativa, però, è che si possa trattare di reato connesso o che la difesa rivendichi una sorta di unità e di concertazione delle attività tra ministri e capo di gabinetto - in quanto reati commessi nell’ambito dello stesso presunto disegno criminoso - attraendo sotto la competenza della Giunta anche l’esame della posizione di Bartolozzi. Un’ipotesi avvalorata dalle dichiarazioni di solidarietà, arrivate in serata, del ministro Nordio, che ha mantenuto la linea della difesa ad oltranza, espressa già ad agosto. Bartolozzi, si legge in una nota, “ha sempre agito nella massima correttezza e lealtà, informandomi tempestivamente ed esaurientemente delle varie fasi della vicenda Almasri e di tutti gli aspetti ad essa relativi. Sulla base di questi ho fondato le mie valutazioni”. Eppure, nei documenti del Tribunale dei Ministri, la sua versione è definita “intrinsecamente contraddittoria”: da un lato affermava di aggiornare Nordio “quaranta volte al giorno”, dall’altro di non avergli mai sottoposto la bozza di provvedimento redatta dagli uffici che avrebbe potuto impedire la liberazione di Almasri. Per i magistrati è “insostenibile” che si sia arrogata il diritto di trattenere un atto tecnico di rilievo, venendo meno agli obblighi del suo incarico. In ogni caso, l’eventuale connessione dipenderà non tanto dalla Giunta, ma da come la Procura di Roma interpreterà la posizione di Bartolozzi. A quel punto, potrebbe essere sollevato conflitto di attribuzioni o, addirittura, elaborato un provvedimento normativo, cosa che, però, scatenerebbe feroci polemiche politiche. Non è chiaro se ci siano precedenti del genere, rispetto ai quali, ha chiarito Dori al Dubbio, gli uffici stanno facendo verifiche. Ed è proprio sulla questione connessione/ concorso che, in queste ore, la Giunta starebbe ragionando. A confortare tali ipotesi anche il commento del costituzionalista Stefano Ceccanti: “La cosa strana è che non sia stata indagata già allora insieme ai ministri, visto che viene descritta come facente parte di una rete - ha commentato all’Ansa l’esponente del Pd -. La cosa a mio avviso dovrebbe evolvere nel senso che viene chiesta l’autorizzazione anche per lei, la sua indagine dovrebbe confluire nell’altra. Secondo me il caso dovrebbe essere integrato con la richiesta di autorizzazione”. Per Bartolozzi, però, potrebbe aprirsi anche un altro fronte. Inevitabile, dice una fonte del Csm: l’avvio di un procedimento disciplinare. Secondo una “giurisprudenza costante”, infatti, l’obbligo di rispettare le regole deontologiche vale anche per i magistrati fuori ruolo, come Bartolozzi. Un atto dovuto, in presenza di presunti atti dolosi. Il che vuol dire che il procuratore generale, a breve, potrebbe aprire un fascicolo con l’incolpazione, informando Bartolozzi e aprendo un’istruttoria sul caso. Il pg può poi archiviare o trasmettere alla sezione disciplinare del Csm. L’opposizione, intanto, è sul piede di guerra. E a rilanciare la richiesta di dimissioni è la responsabile Giustizia del Pd, Debora Serracchiani: “Chiediamo con forza un passo indietro immediato e un’assunzione di responsabilità da parte del governo. La giustizia non può essere amministrata da chi è a sua volta sotto inchiesta per fatti così gravi. E non si evochi il garantismo perché qui stiamo parlando di precondizioni essenziali per assumere e svolgere ruoli così importanti. Abbiamo un ministro della Giustizia indagato per favoreggiamento e omissione di atti d’ufficio e la sua capo di Gabinetto, Giusi Bartolozzi, per false dichiarazioni ai magistrati. In un Paese normale conclude Serracchiani - chi riveste incarichi così delicati avrebbe già rassegnato le dimissioni per rispetto delle istituzioni e dei cittadini”. Ieri Bartolozzi è stata vista a Palazzo Chigi dopo un passaggio al ministero, ufficialmente per incontri già programmati. Da via Arenula trapela che “il clima è sereno” e che non ci sia alcuna preoccupazione. Ma la coincidenza dei tempi e il peso politico della vicenda rendono la serenità difficile da immaginare. Dalle comunicazioni al ministro all’uso dell’aereo di Stato: le “bugie” contestate a Bartolozzi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 settembre 2025 I giudici: le tesi della dirigente contraddittorie e insostenibili. Come all’inizio di questa storia, quando il procuratore della Repubblica di Roma Francesco Lo Voi trasmise al Tribunale dei ministri l’esposto contro la premier Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano, è ancora un atto dovuto dello stesso magistrato a riaccendere conflitti e polemiche tra l’amministrazione della giustizia e la politica. Perché dopo la denuncia del Tribunale sulla “versione inattendibile e anzi mendace” da lei fornita sulla vicenda Almasri, difficilmente il procuratore Lo Voi poteva fare altro che iscrivere il nome di Giusi Bartolozzi sul registro degli indagati. Per un reato commesso il 31 marzo scorso, quando fu sentita come testimone dallo stesso Tribunale. Che non ha contestato alla capo di Gabinetto di Nordio l’omissione di atti d’ufficio e il favoreggiamento di Osama Almasri in concorso con il ministro (ipotesi per cui avrebbe dovuto sottoporre anche la sua posizione al vaglio della Camera) bensì alcune presunte “false dichiarazioni”. Secondo le tre giudici che compongono il collegio, sono almeno quattro le circostanze da cui si evince che Bartolozzi ha mentito durante l’inchiesta. Soprattutto quando ha sostenuto di non avere sottoposto a Nordio la bozza di provvedimento preparata dal Dipartimento affari di giustizia che avrebbe consentito di convalidare l’arresto ed evitare la scarcerazione del generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale. “Un mero esercizio tecnico”, l’ha definito Bartolozzi, di cui non gli avrebbe nemmeno parlato, perché il ministro doveva valutare “un quadro molto più complesso”. Per i giudici questa versione “è intrinsecamente contraddittoria” visto il flusso continuo di informazioni tra la capo di Gabinetto e il Guardasigilli su “ogni cosa che arriva... noi ci sentiamo almeno quaranta volte al giorno, immediatamente”, come riferito da lei stessa. “In secondo luogo - prosegue il Tribunale - è logicamente insostenibile che si sia arrogata il diritto di sottrarre al ministro, che le aveva prospettato la necessità di studiare le carte, un elemento tecnico da valutare e tenere in considerazione ai fini della decisione da assumere”. Non solo perché in questo modo “avrebbe derogato alla prassi costantemente seguita di informare il ministro di ogni cosa”, ma pure perché proprio Bartolozzi ha spiegato di “condividere l’interpretazione giuridica” della magistrata in servizio al Dag che aveva redatto la bozza, Cristina Lucchini, “di cui riconosceva l’alta professionalità”. Il terzo punto riguarda i tempi della decisione che Nordio doveva prendere sul destino di Almasri, lasciati scadere nonostante la sollecitazione della Procura generale di Roma e provocandone la liberazione. Secondo la capo di gabinetto “noi stavamo lavorando... Prima che il ministro si determinasse è arrivata la comunicazione della scarcerazione... Le implicazioni erano notevolissime... c’era purtroppo la domenica di mezzo... il tempo era talmente stretto che è stato un battibaleno... L’arresto non aveva termini, date, scadenze... Noi non ci siamo mai posti il problema dei termini, né le colleghe mi hanno mai detto “scade, non scade”... almeno con me no... Pensavamo di avere più tempo, e invece è andata come è andata”. Queste dichiarazioni, denuncia il Tribunale, “risultano smentite da quella della dottoressa Guerra (direttrice generale degli Affari internazionali e cooperazione giudiziaria, ndr) che ricordava espressamente di aver parlato del problema dei termini da rispettare”. E la dottoressa Lucchini “le aveva informate che l’udienza della Corte d’appello era fissata al 21 gennaio”. L’ultima presunta bugia della capo di Gabinetto riguarda le decisioni sul rimpatrio del libico, fatto con un aereo di Stato a disposizione dei servizi segreti. Bartolozzi ha testimoniato che nelle riunioni riservate a cui lei ha partecipato, tenute con Palazzo Chigi e i vertici della sicurezza, “mai si era affrontato il tema del “dopo”, e in particolare del come Almasri sarebbe andato via nel caso l’arresto non fosse stato convalidato”. Tuttavia “gli altri partecipanti” hanno riferito che in quegli incontri si discusse anche di questo, oltre che delle questioni giuridiche sulla legittimità dell’arresto, “convenendo altresì, in tali riunioni, sulla necessità/opportunità di espellerlo e rimpatriarlo tramite volo Cai” cioè la compagnia aerea dei Servizi. Queste considerazioni del Tribunale dei ministri hanno portato all’iscrizione di Bartolozzi sul registro degli indagati, a cui secondo il codice il pubblico ministero deve provvedere “immediatamente”, purché in presenza di “un fatto determinato e non inverosimile”, riconducibile a un’ipotesi di reato. Dopodiché l’indagine sulle “false informazioni” si sospende finché non viene definito il procedimento nel quale sono state rese, e questo dipenderà dai tempi delle decisioni della Camera dei deputati sui componenti del governo per cui è stato chiesto il processo. Le forzature del Tribunale dei ministri che hanno portato all’indagine contro Bartolozzi di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 settembre 2025 I magistrati non hanno chiesto l’autorizzazione a procedere anche per la capo di gabinetto, nonostante abbiano definito centrale il suo ruolo nella vicenda Almasri. I costituzionalisti Ceccanti e Curreri: “Decisione dei giudici incoerente”. Il trappolone. A servirlo è stato il Tribunale dei ministri, che ha chiesto al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano per il caso Almasri, ma non ha fatto lo stesso con il capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giusi Bartolozzi, pur sottolineando il ruolo centrale ricoperto da quest’ultima nell’intera vicenda. Risultato: la procura di Roma ieri ha iscritto Bartolozzi nel registro degli indagati per false dichiarazioni rese al Tribunale dei ministri. Una mossa che appare irrazionale a diversi costituzionalisti. Per Stefano Ceccanti, “l’autorizzazione parlamentare va richiesta per qualsiasi imputato laico, cioè non ministro, che ha commesso presunti reati in regia con i ministri”. Tra questi soggetti, spiega Ceccanti, ex parlamentare del Pd, rientra appunto Bartolozzi, che “viene descritta dai magistrati del Tribunale dei ministri come facente parte di un sistema. In alcuni passaggi la capo di gabinetto viene rappresentata come una figura che ha persino rivestito un ruolo più importante dello stesso ministro Nordio”. “Di conseguenza, il tribunale ha commesso un’incoerenza interna nel non avanzare la richiesta di autorizzazione anche per Bartolozzi. Avrebbe dovuto valutare il suo ruolo facendo prevalere il profilo sistematico e chiedere l’autorizzazione a procedere”, aggiunge il costituzionalista. Sulla stessa linea anche Salvatore Curreri, costituzionalista e docente all’Università di Enna, secondo cui “è evidente che il Tribunale dei ministri per cercare di colpire solo Bartolozzi, prevedendo la richiesta di autorizzazione nei confronti degli altri tre, doveva separare il più possibile l’ipotesi di reato contestata alla capo di gabinetto. In altre parole, doveva mettere in luce che Bartolozzi ha commesso un reato autonomo, da perseguire in via autonoma, senza dover passare per l’autorizzazione parlamentare”. Così è avvenuto: il Tribunale dei ministri ha contestato a Bartolozzi di aver fornito una versione “inattendibile e mendace”, soprattutto per quanto riguarda i passaggi che hanno portato Nordio a non prendere in esame il provvedimento che era stato preparato dai propri uffici e che avrebbe consentito di evitare la scarcerazione del comandante libico Almasri. False dichiarazioni, appunto. Un reato a prima vista autonomo rispetto a quelli contestati dal Tribunale dei ministri agli esponenti del governo (favoreggiamento per tutti, peculato per Piantedosi e Mantovano, omissione di atti d’ufficio per Nordio). In realtà, sottolinea Curreri, “da quanto è possibile leggere dalla relazione del tribunale, Bartolozzi risulta coinvolta in modo centrale nella vicenda Almasri e ha agito tenendo sempre informato il ministro. Non a caso lo stesso Nordio ha detto che tutte le azioni di Bartolozzi sono state esecutive dei suoi ordini e si è assunto tutta la responsabilità politica e giuridica su quanto avvenuto”. Anche per Curreri, dunque, il Tribunale dei ministri avrebbe dovuto ragionare in termini sistemici e chiedere l’autorizzazione a procedere anche per Bartolozzi, anche se quest’ultima non era inizialmente indagata dalla procura di Roma: “Il Tribunale dei ministri non agisce sulla base delle indicazioni della procura. Una volta che incrocia un reato che ritiene possa essere stato commesso dal ministro, la procura si arresta subito e trasmette gli atti al Tribunale dei ministri, che svolge tutta l’attività di indagine e ogni valutazione senza alcuna perimetrazione del proprio ambito di intervento”. La via del “reato autonomo” per sottrarre Bartolozzi allo “scudo” parlamentare risulta dunque una forzatura non da poco da parte del Tribunale dei ministri, immediatamente accolta con favore dalla procura di Roma guidata da Francesco Lo Voi. E ora? Per Ceccanti “il caso dovrebbe essere integrato con la richiesta di autorizzazione anche nei confronti di Bartolozzi. La Giunta delle autorizzazioni della Camera potrebbe chiedere al Tribunale dei ministri di integrare la sua richiesta. In assenza di risposta, la Camera potrebbe promuovere un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale”. Per Curreri “è prevedibile che la procura di Roma non chiederà al Parlamento l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bartolozzi e si arriverà così a uno scontro istituzionale. A quel punto la capo di gabinetto potrebbe sollevare un’eccezione a difesa della sua posizione individuale nel corso del procedimento penale, oppure la Camera potrà sollevare un conflitto di attribuzione contro la procura per la mancata richiesta di autorizzazione a procedere”. Caso Almasri, le manovre della maggioranza per evitare il processo a Bartolozzi di Vitalba Azzollini* Il Domani, 10 settembre 2025 L’iscrizione nel registro degli indagati della capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, rischia di avere ripercussioni sul piano politico, facendo emergere le responsabilità di ministri e sottosegretari, anche se salvati dal Parlamento. Per questo la maggioranza cercherà di sottrarla al percorso ordinario della giustizia. Ci si aspettava che anche la capo di gabinetto del ministro Carlo Nordio, Giusi Bartolozzi, fosse chiamata a rispondere del ruolo svolto nel caso di Osama Njeem Almasri, il comandante libico arrestato e poi rimpatriato con volo di Stato nel gennaio scorso, e così è stato. Bartolozzi è stata iscritta nel registro degli indagati dalla procura di Roma per il reato di cui all’art. 371-bis del codice penale, che punisce chiunque, tra l’altro, “rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa” dinanzi al pubblico ministero o al procuratore della Corte penale internazionale. Bartolozzi era stata sentita dal PM del Tribunale dei ministri sul caso Almasri. Dalle pagine della richiesta di autorizzazione a procedere nei riguardi del guardasigilli, del ministro Matteo Piantedosi e del sottosegretario Alfredo Mantovano, emerge la posizione cruciale di Bartolozzi nella vicenda relativa al torturatore libico: in particolare, la funzionaria avrebbe avuto la possibilità di far firmare al ministro il provvedimento finalizzato a evitarne la liberazione, ma ciò non avvenne. Il Tribunale ha definito la ricostruzione della capo di gabinetto “una versione da ritenere sotto diversi profili inattendibile e, anzi, mendace”, date le contraddizioni e le incoerenze logiche in cui è incorsa. Ed è di questo che la “zarina” oggi viene chiamata a rispondere. La vicenda sottende una questione abbastanza complessa. Per Bartolozzi si è aperto l’ordinario percorso giudiziario, separandone le sorti rispetto a quelle di Nordio, che invece potrà essere sottoposto a giudizio solo nel caso di autorizzazione della Camera. Ma la mancata estensione alla funzionaria dello stesso regime speciale previsto per il ministro potrebbe dare luogo a problemi che virano dall’ambito giuridico a quello politico. Proviamo a districare la matassa. La normativa vigente (legge costituzionale n. 1/1989) prevede la procedura davanti al Tribunale dei ministri solo per i reati “commessi dal Presidente del Consiglio o dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni”. Ma la legge (n. 219/1989) dispone altresì che “se il procedimento è relativo ad un reato commesso da più soggetti in concorso tra loro” - quindi, non solo ministri, ma anche soggetti terzi che, pur non essendo ministri, sono comunque coinvolti - la Camera cui è stata richiesta l’autorizzazione deve indicare quali di questi soggetti possono ritenersi “scudati” e quali, invece, possono essere sottoposti a procedimento penale. Nel caso Almasri, tuttavia, il Tribunale dei ministri non ha sottoposto al Parlamento la valutazione della posizione di Bartolozzi ai fini dell’autorizzazione a procedere, pur avanzando - come detto - seri dubbi di credibilità circa la sua testimonianza. Quindi, il Parlamento stesso non potrebbe evitarle l’iter giudiziario. Cosa può accadere ora - È praticamente certo che la maggioranza assoluta della Camera respingerà l’autorizzazione a procedere nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano. Pertanto, il rischio è che soltanto Giusi Bartolozzi finisca sotto processo, ed eventualmente sia condannata per la vicenda Almasri. Una simile possibilità comporterebbe rilevanti conseguenze giuridiche, che finirebbero inevitabilmente per avere pesanti ripercussioni politiche. Ministri e sottosegretario sarebbero stati salvati dal Parlamento, ma sul piano politico rischierebbero un “processo indiretto”. E se dalle carte del procedimento contro Bartolozzi emergessero loro responsabilità, anche se formalmente non giudicati, sostanzialmente lo sarebbero, ottenendo una condanna implicita. Per tutti questi motivi ci si può attendere che, come ipotizzato da alcuni costituzionalisti, la Camera si attivi mediante la Giunta per le autorizzazioni a procedere: innanzitutto, chiedendo al Tribunale dei ministri chiarimenti sulla mancata domanda di autorizzazione a procedere anche nei confronti di Bartolozzi; e poi sollevando un conflitto di attribuzioni, vale a dire accusando il Tribunale di avere, con tale omissione, impedito alla Camera di esercitare le proprie prerogative costituzionali, e cioè di valutare se anche la capo di gabinetto, oltre a ministri e sottosegretario, avesse agito in nome di un superiore interesse pubblico e, quindi, potesse essere sottratta a un processo. Insomma, la maggioranza cercherà in ogni modo di evitare che Bartolozzi vada a giudizio. Lo scontro tra politica e magistratura, data la posta in gioco, stavolta sarà forse più cruento di quelli precedenti. *Giurista La Cassazione: intercettazioni valide anche senza un nuovo decreto di Antonio Alizzi Il Dubbio, 10 settembre 2025 Ribadita la legittimità delle captazioni ambientali in case già monitorate, anche se riattivate da remoto. Un principio che ha impatti cruciali per le indagini antimafia. La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su un tema cruciale per le indagini antimafia e di criminalità organizzata: l’utilizzabilità delle intercettazioni ambientali effettuate in un domicilio già monitorato con microspie installate in precedenza. Con la sentenza n. 29735 del 26 agosto 2025, depositata dalla Sesta sezione penale, i giudici hanno respinto la gran parte dei ricorsi proposti nel processo contro il cosiddetto clan Silenzio, radicato nell’area di Napoli, fissando un principio destinato a fare giurisprudenza. La questione ruotava attorno a un’eccezione difensiva precisa: secondo i legali degli imputati, le conversazioni registrate in un appartamento sarebbero state inutilizzabili perché mancava un nuovo decreto di autorizzazione all’installazione delle microspie. L’impianto tecnico, infatti, era stato collocato in casa nel corso di un diverso procedimento e successivamente “riattivato da remoto” nell’ambito del fascicolo che riguardava l’associazione camorristica. Gli avvocati avevano richiamato anche una nota tecnica del gestore del sistema, datata agosto 2020, che segnalava anomalie nel funzionamento delle apparecchiature. A loro avviso, quel documento avrebbe dovuto inficiare la validità di tutte le captazioni. La Suprema Corte, però, ha demolito l’impostazione difensiva. “Nessun effetto sull’utilizzabilità delle captazioni assume il fatto che l’installazione delle microspie non fosse avvenuta per mezzo di un differente decreto”, scrivono i giudici. Per la Cassazione, infatti, per la riattivazione da remoto non era necessario la previa acquisizione del provvedimento di autorizzazione. In altre parole, se l’ingresso in casa per collocare l’apparato è già avvenuto sulla base di un decreto valido, non serve ripetere la procedura quando si tratta soltanto di riaccendere e utilizzare il dispositivo con un nuovo provvedimento di intercettazione. Non solo. La nota tecnica richiamata dalle difese riguardava malfunzionamenti sopravvenuti e non aveva alcuna incidenza sulle conversazioni effettivamente utilizzate per sostenere l’accusa. Quelle registrazioni, infatti, erano tutte anteriori alla segnalazione di agosto 2020. La Corte di Cassazione ha colto così l’occasione per ribadire alcuni punti fermi. Le conversazioni intercettate in modo legittimo hanno pieno valore probatorio. Non serve, come accade invece per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, un sistema di riscontri esterni “rafforzati”. Serve piuttosto un’attenta interpretazione del contesto e degli interlocutori, ma il dato di partenza resta che ciò che gli imputati dicono, se captato in modo regolare, può fondare una sentenza di condanna. È il principio fissato a suo tempo dalle Sezioni Unite nella sentenza “Sebbar”. Sul piano più generale, la Cassazione chiarisce anche come leggere la nozione di partecipazione a un’associazione mafiosa. Non occorre, spiegano i giudici, che l’imputato compia direttamente reati-fine. È sufficiente la “messa a disposizione” stabile del proprio ruolo al sodalizio, la collocazione nei rapporti gerarchici con gli affiliati certi, la disponibilità a sostenere l’organizzazione. Sono elementi che, messi insieme, valgono a dimostrare la partecipazione. Quanto agli esiti concreti, i ricorsi sono stati rigettati quasi integralmente. Solo per alcuni imputati la Suprema Corte ha disposto l’annullamento con rinvio su parti limitate delle condanne. Campania. Carceri sovraffollate, diritti emarginati: parlano i responsabili regionali di Antigone di Gabriella De Rosa byoblu.com, 10 settembre 2025 Suicidi in aumento, caldo asfissiante e violenze all’ordine del giorno. La situazione nelle carceri in Italia resta preoccupante nonostante il decreto svuota-carceri di Nordio. I detenuti vivono in condizioni di sovraffollamento estremo dove i loro diritti sono spesso messi da parte. Ne abbiamo parlato con Riccardo di Antigone Campania, l’osservatorio regionale dell’associazione Antigone, che tutela sul territorio i diritti e le garanzie del sistema penale, per constatare anche se ci sono maggiori problematiche nelle carceri del sud. Qual è la situazione generale delle carceri campane? Ci sono istituti penitenziari che presentano maggiori criticità? Viviamo una stagione in cui sono all’ordine del giorno le notizie sul sovraffollamento delle carceri a livello nazionale con un tasso del 133,6%, una situazione che si sta intensificando e diventando cronico. In Campania abbiamo 1297 detenuti in più per un totale di 7494 detenuti in tutto il territorio regionale. I dati critici sono sul carcere di Poggioreale con un tasso di sovraffollamento del 156,23%: 2081 persone detenute su 1332 posti di capienza effettiva. Il carcere di Salerno segue con un tasso di sovraffollamento del 146% e poi quello di Benevento 141% e Secondigliano 134%. Una gravissima problematica è la carenza del numero di educatori in rapporto con quello dei detenuti ed educatori. La nostra Costituzione parla di una funzione educativa della pena. Noi di Antigone preferiamo parlare di funzione risocializzante della pena. A Poggioreale sono 20 educatori per più di 2000 detenuti. Una situazione che si aggrava con la stagione estiva per i mesi di ferie. Per questa carenza di educatori abbiamo riscontrato ritardi sui riscontri e sulle relazioni essenziali per ottenere permessi premio e autorizzazione al lavoro esterno. Quali sono le condizioni sanitarie nelle nostre carceri? La questione sanitaria è grave e allarmante nelle nostre carceri. Assenza di medici specialisti che entrano nelle carceri, radiografie e visite devono essere prenotate esternamente perché le liste d’attesa sono quelle ordinarie non speciali o diversificate, il bisogno della scorta che non sempre è disponibile. A causa di tutte queste complicanze, le visite saltano e bisogna rifare tutto da capo. C’è poi la salute mentale che riscontra altri problemi per una insufficienza di gestione. A livello nazionale, secondo la stima di Antigone, circa il 14% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi e circa il 21% assume stabilizzanti dell’umore con regolarità. In Campania abbiamo riscontrato un uso di psicofarmaci al bisogno non di uso emergenziale ma abitudinario, dato con finalità di contenzione e gestione: questo incrementa i problemi di patologie psichiche. In questo scenario che ruolo gioca la tossicodipendenza e l’abuso di sostanze nelle carceri? Come Antigone come giudicate la proposta di Nordio di far defluire i tossicodipendenti nelle comunità per evitare il sovraffollamento? La tossicodipendenza è uno dei nodi problematici delle carceri. Inoltre, non sempre e non a tutti è garantito l’accesso a piani di reinserimento e di recupero. Ad esempio, il reparto Roma del carcere di Poggioreale ha un ottimo programma per il reinserimento, ma al quale accedono detenuti già in fase di recupero, mentre i detenuti ancora in terapia metadonico sono ai piani inferiori ammassati in celle in 8 o in 10 senza alcuna effettiva prospettiva di cura, di superamento e di reinserimento. Per quanto riguarda la proposta di Nordio, dal nostro punto di vista, è una proposta illusoria e non risolutiva. Nel piano di Nordio, chi ha commesso reati legati alla droga può scontare fino a 8 anni in una comunità terapeutica. L’attuale legge invece prevede l’affidamento ai servizi sociali per tutti i detenuti che hanno pene residue di 6 anni. Se da una parte la proposta di Nordio ampliando di due anni raggiunge più persone, dall’altra parte si rivela essere più rigida. Mentre l’affidamento ai servizi è una misura malleabile che ben si presta ad un intervento funzionale e all’effettivo recupero e non si accompagna necessariamente ad una misura restrittiva della libertà, la proposta di Nordio rischia di estirpare all’affidamento una serie di soggetti che prima ne beneficiavano chiudendoli in una detenzione domiciliare all’interno di una comunità. Altra cosa da sottolineare è che spesso le persone con diagnosi di tossicodipendenza non sono in carcere per reati particolarmente gravi, quindi, non sono tanti i detenuti che hanno una pena residua tra i 6 e gli otto anni. Sembra una misura più mediatica che altro. Tornando alla salute mentale in carcere: è un tema molto delicato, negli ultimi tempi c’è stato un aumento di suicidi. Si tratta di un dato registrato anche nelle carceri campane? Il problema della salute mentale è di gravissima urgenza che porta anche alla dibattuta questione dell’apertura di nuove Rems. Dal nostro punto di vista, l’approccio contenitivo come risposto alla salute mentale rischia di creare ulteriore disagio e ulteriore patologia e rischia anche di ampliare le possibili forme di contenzione quando sarebbe necessario una presa in carico sul territorio, come sancito a partire dalla legge Basaglia. Non dobbiamo tornare indietro. Non dobbiamo dimenticare quanto conquistato, anzi, è da lì che dobbiamo ripartire promuovendo un impegno sul territorio, un investimento sulle risorse territoriali e questo vale anche in ottica di prevenzione non tramite legge penale ma tramite interventi sociali. Una giustizia che non sia penale ma sociale. Sulla questione suicidi, il dato Antigone fino a maggio 2025 ha registrato che il carcere di Poggioreale insieme a quello di Verona è quello che ha avuto più suicidi in Italia con 6 totali. Nel 2025 su 58 suicidi nazionali 5 sono stati in Campania, l’ultimo il 15 agosto nel carcere di Benevento. Va aggiunto un suicidio nella Rems di San Nicola Baronia (AV)... Sono troppi i sucidi avvenuti negli ultimi mesi o giorni prima del fine pena. Ci lascia intendere come tanti di quei suicidi erano casi la cui storia detentiva non aveva portato alcuna prospettiva di reinserimento sociale, alcuna possibilità, alcun diritto di inventarsi o immaginare un dopo. La salute mentale, l’abuso di psicofarmaci e altri diritti calpestati formano tutta una serie di concause che contribuiscono a un tasso di suicidi elevato rispetto a quelli che avvengono fuori dalle carceri. Un’ultima cosa: i dati che abbiamo sui suicidi sono sicuramente al ribasso. Il primo motivo è che ci sono molte morti non accertate per le quali si aprono processi e non rientrano nelle statistiche, il secondo motivo è che molti muoiono per complicanze successive ad un tentativo di suicidio magari un ricovero in ospedale o altre conseguenze indiritte. Le stime dunque sarebbero più elevate. Quanta disparità c’è tra le carceri campane o del sud rispetto a quelle del nord o della media italiana, se c’è? Antigone ha registrato criticità maggiori o più acuite oppure la situazione è alquanto medesima su tutto il territorio nazionale? Non c’è una grande disomogeneità territoriale da un punto di vista delle condizioni detentive; I problemi e le criticità ci sono ovunque, uno delle carceri con più alto numero di suicidi è Verona, segue il Marassi di Genova. L’istituto più affollato al momento è il reparto femminile del San Vittore con un tasso del 236%, al secondo posto c’è Foggia con il 214%. Dunque, non parlerei di una disparità effettiva tra le varie regioni quanto piuttosto vi è una vera disparità all’interno della stessa regione tra grandi carceri e piccole carceri. Nelle piccole carceri si riescono a fare programmi di reinserimento, più persone hanno accesso al lavoro e c’è più rispetto dei diritti. Mentre quelle grandi sono un deposito di esseri umani marginalizzati. Tuttavia, va osservato come le disparità sociali tra Nord e Sud hanno sicuramente effetto sulle possibilità di reinserimento sociale per le persone che escono dal circuito penale che sicuramente in un contesto in cui circola più ricchezza, c’è più lavoro hanno più possibilità di risocializzazione. Quali sono gli ostacoli che incontrano i cittadini stranieri senza residenza e gli immigrati nel sistema penitenziario italiano? È rilevante vedere come nel carcere di Poggioreale ci siano più di 300 siano stranieri su oltre 2000 detenuti, molti dei quali in custodia cautelare con condanne molto brevi e che magari non hanno accesso a misure alternative in quanto non hanno domicilio. Per i detenuti stranieri vi sono profili di vulnerabilità ulteriori. In particolare è molto difficile se non impossibile formalizzare la domanda di permesso di soggiorno e asilo politico all’interno delle carceri nonostante si tratti di un diritto garantito dalla legge e che, anzi, in casi di maggiore vulnerabiltà come appunto è la detenzione dovrebbe godere di particolari tutele. Abbiamo sottoscritto un esposto al Garante dei diritti dei detenuti relativamente a questa tematica partendo da un fatto di cronaca: l’evasione dei due detenuti dal carcere di Poggioreale e dalla successiva pubblicazione della foto di uno dei due evasi senza volto oscurato da parte del deputato Borrelli che viola ogni diritto di privacy possibile. L’esposto è indirizzato a Borrelli relativamente alla violazione dei diritti di quell’individuo, al giustizialismo e sensazionalismo emergenzialista che reputiamo male assoluto e creazione di classismo e inimicizia perché pone alla gogna le persone senza conoscerne la storia e i motivi sociali alla base. I due evasi erano cittadini stranieri la cui richiesta di asilo politico non è mai stata proprio formalizzata. Questo è molto diffuso e fa parte di una sistematica violazione dei diritti della popolazione migrante detenuta esposta ad una condizione di ulteriore vulnerablità al momento dell’uscita del circuito detentivo. Per concludere, quali sono le proposte e le misure che Antigone metterebbe in campo? In cosa vi discostereste dallo svuota carceri di Nordio. Quai sono le soluzioni per affrontare questa emergenza? Per prima cosa, ci opponiamo fermamente alla costruzione di nuove carceri come proposta da Nordio come padiglioni e prefabbricati all’interno di carceri esistenti per una spesa ci circa 45,6 milioni di euro ovvero 118.800 per ogni posto nuovo che si andrebbe a creare. L’aspetto economico è rilevante dal momento in cui questa cifra potrebbe essere impiegata in misure di interventi sul territorio e in misure preventive. Ma al di là di questo, la costruzione di nuove strutture e nuove Rems sono tutte moltiplicazioni di contenitori, nel breve magari poni freno al problema ma sul lungo periodo moltiplichi esponenzialmente il problema perché moltiplichi la possibilità che ci possa essere una misura restrittiva della libertà. La risposta nel breve dovrebbe essere la maggiore concessione di misure alternative. Per il lungo termine invece va fatta una netta inversione di tendenza che consiste nell’allontanarsi dall’idea e dalla dinamica per la quale lo strumento penale è risolutivo dei conflitti sociali. Questo crea solo ulteriore marginalizzazione è creatore di conflitti sociali aumentando le fattispecie aumentando le pene e le ipotesi di contenzione aumenti la nascita e protrazione di stati di marginalità. Dunque, si deve investire in strumenti sociali come l’educazione, l’assunzione di assistenti sociali ampliamenti funzionalità dei SERD l’ampliamento consultori, asili nido, doposcuola comunali: interventi sociali. Il superamento di un’ottima emergenziale in quanto l’unica emergenza qui è quella del sovraffollamento ed è a causa dell’ipertrofia dello strumento penale e non della criminalità. Se andiamo a vedere i dati non ci sono aumenti di tassi di criminalità negli ultimi anni. C’è un problema di incremento delle fasce di marginalità sociale. Aumentano le persone che non possono avere misure alternative. Al giugno 2025 il 38,2% dei detenuti ha sotto i 3 anni di pena residua, un dato esplicativo. Milano. Luigi Pagano: “Il carcere di San Vittore è sorpassato. Servirebbe un’amnistia” di Luca Fazzo Il Giornale, 10 settembre 2025 Il Garante: “Ci sono più spazi umani a Opera o Bollate che ospitano i detenuti definitivi”. “Chi dice che San Vittore deve in ogni caso restare lì dove si trova non fa i conti con la realtà. Anzi, fa i conti sulla pelle degli altri”. Da una manciata di ore Luigi Pagano ha saputo di essere il nuovo Garante per i detenuti del Comune di Milano. Pagano, che è stato direttore del carcere di San Vittore per quindici anni, ha ricevuto la notizia con l’entusiasmo di chi si accinge a un compito che sa di poter svolgere bene. E spiega le sue linee proprio partendo da una delle questioni più annose: la sorte di San Vittore. Della chiusura del vecchio carcere si parla da decenni, ma ogni volta salta fuori chi dice; toglierlo di mezzo vorrebbe dire rimuovere il problema carcere dagli occhi della città... “Se si vuole mantenere vivo il tema del carcere si può lasciarne in piedi una parte, qualche cella da visitare, o si può riconvertirlo come hanno fatto a Torino con “Le Nuove”. Ma dire che San Vittore deve restare in piedi a tutti i costi vuol dire chiudere gli occhi sulla situazione tragica che si vive al suo interno. Il paradosso è che ci sono più spazi umani a Opera e Bollate, che sono carceri per detenuti definitivi, che a San Vittore, dove in larga parte ci sono detenuti in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti”. Con che spirito affronta il suo nuovo incarico? “Con la consapevolezza che siamo in un momento difficile. Il carcere è sempre stato brutto ma sta diventando più brutto e pericoloso di quello che era, non solo per i detenuti ma anche per il personale che ci lavora”. E come se ne esce? “Con l’impegno di tutti, della società esterna, delle associazioni, dei cittadini, che devono convergere verso un unico fine, che è quello di un carcere più umano”. Però sull’altro piatto della bilancia c’è una società che vuole sicurezza, e che del carcere non vuole fare a meno... “Ma chi garantisce che lì dentro ci siano i colpevoli? Anche tra i condannati c’è sicuramente qualche innocente. E quelli in attesa di giudizio hanno tutti diritto di essere considerati innocenti. Farli vivere in una situazione di sovraffollamento tale da non garantire neanche i diritti minimi è il modo migliore per rafforzare l’identità criminale. Se l’obiettivo è la sicurezza, oggi spendiamo dei soldi per aggravare un problema anziché risolverlo. Sa che adesso le celle non si chiamano più celle ma camere da pernotto? Dovrebbe significare dire che si usano solo per dormire, e a Bollate è così. Invece a San Vittore nelle camere da pernotto ci si sta anche di giorno”. Il governo si sta impegnando in un piano di edilizia penitenziaria... “Ho letto che si progetta di realizzare nuovi padiglioni prefabbricati in spazi finora dedicati alle attività sportive o di trattamento. Quindi si aumentano i detenuti e si riducono le attività di rieducazione, abbiamo in mente quali saranno le conseguenze sulla vita quotidiana nelle carceri? Il carcere è uno strumento sorpassato. In Italia sono molto più numerosi i detenuti che sono fuori dal carcere, affidati a misure alternative, di quelli che sono rinchiusi. Il problema è che a essere rinchiusi non sono i più pericolosi ma quelli che danno fastidio. A parte sei o settemila mafiosi irriducibili, in carcere c’è soprattutto gente che deve scontare condanne lievi per lievi reati. Il carcere non è più uno strumento di giustizia ma di ordine pubblico”. Cosa bisognerebbe fare? “Per cominciare, una amnistia o un indulto. Ma non fa parte del programma di governo”. Torino. Lo Russo: “Deriva autoritaria, il carcere non è l’unica risposta al disagio sociale” di Andrea Joly e Diego Molino La Stampa, 10 settembre 2025 La Garante delle persone private della libertà personale termina il secondo mandato: l’intervento del Sindaco alla relazione finale. “Colpisce l’età sempre più giovane di queste persone in carcere, quando cammino per i corridoi durante le mie visite il giorno di Natale mi chiedo cosa ho avuto di meglio per non essere anche io qui”. Parole del sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, intervenuto alla relazione decennale della Garante delle persone private della libertà personale, Monica Gallo, che ha concluso i suoi due mandati iniziati nel luglio del 2015. “Questi ragazzi - osserva Lo Russo - non hanno avuto le nostre stesse opportunità. Perciò è importante garantire che abbiano una dimensione di detenzione degna, ma anche e soprattutto una dimensione che gli consenta di costruire prospettive e speranza. Il sistema non è fatto per incentivare queste cose”. Lo Russo parla di “deriva autoritaria che vede la dimensione della detenzione come unica risposta al disagio sociale. È un tema culturale che va oltre i partiti. Bisogna invece uscire dalla dinamica del contenimento del fragile attraverso la detenzione”. Gallo: “Dal Cpr meno del 50% è rimpatriato” - Proprio Monica Gallo ha tracciato una fotografia di questi dieci anni e soprattutto dello stato dell’arte negli istituti di pena torinesi. “Sovraffollamento cronico, criticità strutturali e necessità di progetti di aiuto verso le donne, i bambini e le persone di origine straniera” per quanto riguarda la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. “Carenze igienico-sanitarie, tempo limitato all’aperto e carenza di personale specializzato” nell’Istituto Penale Minorile Ferrante Aporti. E poi ancora il Cpr di corso Brunelleschi “appena riaperto è inefficace: meno del 50% degli stranieri trattenuti sono rimpatriati”. L’allarme di Gallo sulle carceri torinesi arriva anche a toccare il diritto alla salute, soprattutto per “quello che è l’utilizzo massivo del ricorso alle cure di psicofarmaci, cinque volte superiore in carcere rispetto all’esterno”. Emergenza continua - Una situazione di emergenza che viene testimoniata anche dal dato più doloroso di tutti: al Lorusso e Cutugno è stato registrato più di un suicidio l’anno. Per la precisione, sono stati 14 a partire dal 2015 fino a oggi. L’incremento si è registrato soprattutto dal 2022 in poi. Il sovraffollamento nelle carceri - Il problema del sovraffollamento nell’istituto minorile Ferrante Aporti, secondo la relazione di Gallo, è da ricondurre soprattutto all’introduzione del Decreto Caivano nel 2023, che con il suo approccio repressivo ha ostacolato anche i percorsi rieducativi, specialmente per i minori stranieri non accompagnati. Le presenze al Lorusso e Cutugno sono aumentate dalle 1162 persone del 2015 alle 1429 del 2024. Il grande salto è arrivato nel 2022, da 1338 a 1483 (+150). E riguarda soprattutto le persone con la cittadinanza straniera, salite dalle 499 di dieci anni fa alle 672 del 2024 (ma solo nel 2023 sono state più di quelle di cittadinanza italiana: 746 contro 737). Al Ferrante Aporti il numero di persone private della libertà é passato dalle 111 persone del 2015 alle 169 del 2024, con un rapporto sempre più centrato sui minori rispetto ai giovani adulti. L’età dei detenuti torinesi sotto i 18 anni, insomma, è sempre più bassa. Trento. Dal sovraffollamento al disagio psichiatrico, nel carcere 390 detenuti per 240 posti di Giuseppe Fin Il Dolomiti, 10 settembre 2025 L’allarme della Camera Penale: “Situazione preoccupante”. Ci sono 347 uomini e 43 donne, ai detenuti si aggiungono 10 internati per misure di sicurezza nella Rems di Pergine Valsugana. Una percentuale altissima di stranieri che sfiora il 55%. “Resta preoccupante l’alto tasso di disagio psicologico e psichiatrico in carcere. Sul titolale dei detenuti, ben 119 sono collocati nelle sezioni per protetti o promiscue”. Sovraffollamento, disagio psichiatrico e mancanza di prospettive restano nodi irrisolti al carcere di Trento. La conferma è arrivata da una visita fatta da una delegazione della Camera Penale di Trento “Michele Pompermaier” che ha potuto vedere direttamente le condizioni della casa circondariale di Gardalo. L’iniziativa è stata guidata dal presidente, il presidente Roberto Bertuol, con il vicepresidente Stefano Frizzi e dalla componente dell’Osservatorio carcere Ucpi Veronica Manca, ed accompagnata dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento Antonio Angelini, dal sindaco di Trento Franco Ianeselli e dall’assessora alle politiche sociali Giulia Casonato. Oggi è fin troppo noto il persistente e grave problema dell’emergenza carceraria, spiega la Camera Penale di Trento, anche per la sistematica attività di pubblica denuncia e sensibilizzazione che da tempo i penalisti italiani hanno svolto. Nel frattempo - inascoltati gli appelli dell’avvocatura, dell’Accademia, e di larghissima parte della Società civile per un intervento urgente ed immediato per risolvere il drammatico problema del sovraffollamento carcerario e dei sucidi in carcere - la situazione si è ulteriormente aggravata arrivando a segnare il tragico numero di 61 suicidi dall’inizio dell’anno e una presenza nelle carceri italiane di ben 63.167 detenuti, a fronte di una capienza massima di 51.274 posti regolamentari e un esubero di 11.893 persone, con un tasso di sovraffollamento pari al 135%. I numeri raccolti dalla delegazione della Camera Penale di Trento “Michele Pompermaier” descrivono un carcere gravato dal sovraffollamento carcerario con 390 detenuti presenti su una capienza regolamentare da accordo tra Stato e Regione di 240 posti. Ci sono 347 uomini e 43 donne, ai detenuti si aggiungono 10 internati per misure di sicurezza nella Rems di Pergine Valsugana. Una percentuale altissima di stranieri che sfiora il 55% (di cui 187 uomini e 14 donne). Altrettanto alta rimane la percentuale di detenuti imputati in custodia cautelare con 92 persone con un processo in corso (di cui 68 in attesa del primo giudizio; 15 in fase di appello; 9 ricorrenti in cassazione). Resta preoccupante inoltre l’alto tasso di disagio psicologico e psichiatrico in carcere. Sul titolale dei detenuti, ben 119 sono collocati nelle sezioni per protetti o promiscue. A fronte di tutto questo, spiega la Camera Penale “non manca lo sforzo della Direzione del carcere di Trento e di tutti gli operatori interni ed esterni in essa impiegati con un notevole miglioramento nell’implementazione della pianta organica degli educatori, con 7 funzionari giuridici-pedagogici in servizio; maggiori criticità sul fronte della polizia penitenziaria e del personale adibito a mansioni amministrative-contabili”. Anche a Trento, quindi, rimangono le preoccupazioni legate al sovraffollamento carcerario e alla carenza di personale; criticità anche sulle prospettive di reinserimento sociale per assenza di domicilio (specie per i detenuti stranieri) o per l’insufficiente ventaglio di proposte lavorative dall’esterno e dalle imprese private. “Nonostante Trento possa dirsi in qualche modo un’eccezione per assenza di suicidi e per un numero contenuto di sovraffollamento carcerario, sempre alta deve rimanere l’attenzione sul monitoraggio delle condizioni di vita all’interno della struttura per agevolare il lavoro interno e per contribuire al processo di reinserimento nel tessuto del territorio” conclude la Camera Penale. Caserta. Il carcere visto dall’interno con gli occhi del Garante, don Salvatore Saggiomo di Maggie Celine Musone informareonline.com, 10 settembre 2025 In Italia il carcere è un luogo che punisce più di quanto rieduchi, che isola più di quanto risani. Ma la questione non riguarda solo i detenuti: riguarda lo Stato, la giustizia, la comunità. Ne abbiamo parlato con Don Salvatore Saggiomo, Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale della Provincia di Caserta. “Il carcere oggi è considerato una discarica sociale. Le condizioni di vita sono al limite, i diritti fondamentali vengono spesso calpestati. In celle pensate per cinque persone se ne trovano anche quindici. Non c’è spazio, non c’è dignità”. Il sovraffollamento è una delle piaghe principali del sistema penitenziario campano. Nei penitenziari della regione, a fronte di una capienza regolamentare di circa 5.584 posti, risultano presenti oltre 7.500 detenuti. La carenza di spazi adeguati non solo compromette la qualità della vita, ma alimenta tensioni tra detenuti e conflitti con il personale penitenziario. “Il vero problema, però, resta il riscatto sociale. È raro che una persona reclusa riesca a elaborare davvero ciò che ha fatto e a trasformarsi, anche perché lo stigma che la società le impone rende quasi impossibile la reintegrazione. Esiste una contrapposizione netta tra “noi” e “loro”, alimentata da un governo che concepisce il carcere come strumento di punizione, non di rieducazione”. Giustizia orientata alla punizione - A maggio di quest’anno, infatti, alla Camera è stato approvato un ordine del giorno che impegna il governo a valutare l’introduzione della castrazione chimica per i condannati per reati sessuali. La proposta sembra confermare una linea politica incentrata sulla logica del castigo più che su quella del recupero. “Il carcere - afferma Saggiomo - riflette un problema più ampio: quello della società. Facciamo enorme fatica a riconoscere i detenuti come esseri umani. Ma il diritto al riscatto personale è fondamentale, e deve essere garantito. Pochissimi detenuti riescono davvero a reinserirsi. Non per mancanza di volontà, ma perché una volta fuori vengono respinti dal mondo del lavoro, discriminati, emarginati. Per questo motivo proposi alla Consulta del Senato per i diritti dei detenuti di rimuovere ogni riferimento alla detenzione dai documenti ufficiali, ma la proposta è rimasta inascoltata”. Inoltre, il disagio più drammatico è rappresentato dal numero crescente di suicidi. Nel 2024 il numero di suicidi nelle carceri italiane ha toccato il picco più alto degli ultimi trent’anni: 90 persone si sono tolte la vita su oltre 200 tentativi di suicidio, più di mille episodi di autolesionismo e quasi 630 aggressioni tra detenuti: “Si arriva al suicidio quando viene meno la dignità. Quando una persona smette di sentirsi tale, si sente abbandonata, senza alternative. Se le istituzioni non interverranno concretamente, la situazione non migliorerà”. L’importanza dell’empatia e delle storie individuali - Ma comprendere davvero la realtà carceraria richiede un contatto autentico con le storie e le condizioni quotidiane di chi è recluso. L’empatia non può essere selettiva. Non si tratta di giustificare i crimini, ma di riconoscere in ogni persona un essere umano. Solo così si può esercitare quella comprensione profonda alla base di una società giusta, non vendicativa. Don Saggiomo, prima cappellano e poi garante, lo ha vissuto in prima persona. “Al carcere di Secondigliano ho conosciuto un ragazzo 22enne, condannato a oltre 15 anni per omicidio. Dopo un percorso di fede, si sta laureando in Giurisprudenza e promuove il progetto di giustizia riparativa del carcere di Secondigliano. Ho seguito anche Gennaro Panzuto, un ex killer della camorra a cui sono stati attribuiti più di sessanta omicidi. Ora, dopo tanti anni di detenzione, sensibilizza nelle scuole e aiuta giovani detenuti”. Il carcere può trasformare anche chi è fuori dalle sbarre. Don Saggiomo lo racconta: è stato proprio l’incontro con l’umanità ferita, spezzata, reclusa, ad avergli permesso di mettere in discussione certi automatismi del giudizio, persino su temi come quello dell’omosessualità. “Se sono riuscito a comprendere un assassino, come potrei condannare chi semplicemente ama in modo diverso? Conoscere la diversità è l’unica via per superare il pregiudizio”. Monza. Il carcere è un inferno: vita durissima per detenuti e poliziotti penitenziari agi.it, 10 settembre 2025 Un “manicomio criminale” che scoppia, con camere assediate dalle cimici e dalla scabbia e per questo chiuse, detenuti che si fanno mettere in isolamento, in teoria la situazione peggiore che possa capitargli, pur di ‘conquistare’ un piccolo spazio che non hanno nelle celle zeppe, agenti della polizia penitenziaria più volte aggrediti negli ultimi tempi da reclusi con malattie psichiatriche che dovrebbero stare in luoghi di cura. È la situazione nella casa circondariale di Monza secondo il racconto di avvocati e sindacati dei poliziotti penitenziari. “Il quadro è allarmante e si sta aggravando ulteriormente per il sovraffollamento - spiega all’AGI l’avvocata Roberta Minotti che fa parte del direttivo della Camera Penale della citta’ brianzola -. Molti detenuti con disturbi psichiatrici dovrebbero stare in strutture idonee che pero’ non li possono accogliere nonostante ci sia una sezione dell’ospedale San Gerardo molto valida ma che non può far fronte a tutte le richieste. Così da un momento all’altro possono ‘esplodere’”. Le sezioni di prima accoglienza e quelle a monitoraggio sanitario ospitano persone ‘fuori circuito’, rendendo la gestione di questi reparti ancora piu’ problematica, riferiscono le sigle sindacali degli agenti Sappe, Osapp, Uilpa e Ussp, spiegando che “alcuni detenuti, pur di non condividere celle sovraffollate e inadeguate, preferiscono chiedere volontariamente di essere messi in isolamento. Tutto ciò in violazione del rispetto della dignità della persona, la parità di trattamento e il diritto alla salute”. I numeri allarmanti - Nella relazione dei rappresentanti della Camera Penale seguita alla visita del nove agosto scorso, si dava atto che i detenuti a Monza sono 735 su una capacità di 411, con un tasso di affollamento del 184%. A quella data c’erano tredici camere chiuse per disinfestazione da cimici da letto. “Ma le disinfestazioni si ripetono in continuazione - dice il presidente regionale dell’Uilpa Domenico Benemia che lavora nella struttura -. Non si fa in tempo a sanificare un ambiente che subito bisogna ripartire con la bonifica di un altro. Noi agenti siamo troppo pochi e spesso capita che una persona che ha finito il proprio turno venga richiamata poche ore dopo per tornare a lavorare nel turno di notte. Siamo sfibrati, molti di noi non stanno bene”. Gli stranieri detenuti erano 341 al 9 agosto, si legge nel dossier redatto dopo la visita del presidente della Camera Penale, Marco Negrini, con un tasso di crescita rispetto al 2024 del 46%. “Questo crea problemi soprattutto per quel che concerne i progetti educativi, la mediazione culturale e il dialogo, dal momento che il personale è insufficiente; spesso viene chiesta la collaborazione di agenti reclusi di nazionalità straniera per agevolare il dialogo con i nuovi giunti. Una mansione che non è però riconosciuta e, di fatto, è un aiuto volontario”. Nel 2024 si sono registrati 13 casi di aggressione al personale e 23 di lesioni tra detenuti. Nei giorni scorsi, i sindacati, che definiscono il carcere di Monza “un manicomio criminale”, hanno annunciato di essere pronti a proclamare lo stato di agitazione del personale, “riservandosi di avviare ulteriori iniziative di protesta e mobilitazione qualora non vengano forniti riscontri tempestivi e concreti” da parte dell’amministrazione penitenziaria, del Provveditorato e del ministero. Interpellata dall’AGI, la direttrice Cosima Buccoliero, alla quale avvocati e sindacati riconoscono capacita’ e attenzione rispetto a una situazione che non dipende da lei, dichiara di non avere “nulla da aggiungere rispetto a quanto rappresentato” dai sindacati. Terni. “Allarme suicidi in carcere, sono 25 volte in più rispetto alla società esterna” ternitoday.it, 10 settembre 2025 La camera penale di Terni ha aderito alla iniziativa “Ristretti in agosto”, proposta dall’osservatorio carcere dell’unione delle camere penali italiane e ha organizzato, prima della ripresa dell’attività professionale, per oggi - 10 settembre - una visita all’istituto penitenziario di Terni, e ciò nel periodo in cui si stanno di nuovo manifestando, in termini di assoluto peggioramento, le già drammatiche condizioni di vita dei detenuti nel nostro Paese. “Purtroppo - spiegano in una nota dalla camera penale di Terni - non si arrestano né le agitazioni, né i disordini dovuti alle condizioni di persistente disagio e alla carenza strutturale di personale e di assistenza sanitaria e psichiatrica, così come non rallentano né la drammatica scia dei suicidi, né il costante aumento del sovraffollamento”. Ad oggi, 10 settembre, si contano 61 suicidi nelle carceri italiane: Terni è tra i nove penitenziari nei quali si sono verificati almeno tre suicidi tra il 2024 e il 2025. Il tasso di suicidi in carcere nel 2021 era pari a 10,6 ogni 10mila persone detenute, ossia 18 volte più grande del fenomeno suicidario in libertà. “Confrontando l’ultimo dato disponibile relativo alla popolazione detenuta (tasso di suicidi pari a 14,8 nel 2024) con il più recente relativo alla popolazione libera (tasso di suicidi pari a 0,59 nel 2021) - rilevano gli avvocati - vediamo come oggi in carcere ci si tolga la vita ben 25 volte in più rispetto alla società esterna. Il tasso dei suicidi in libertà e quello dei suicidi in carcere hanno inoltre un andamento opposto. Se il primo negli ultimi anni registra una costante decrescita - passando da 0,82 casi nel 2016 a 0,59 al 2021 - il secondo, al netto delle annuali oscillazioni, è significativamente aumentato rispetto al passato”. La visita ha dunque “l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, le istituzioni politiche, il mondo dell’informazione e la magistratura sull’importanza di garantire il rispetto della legalità costituzionale nelle strutture carcerarie e la tutela della dignità dei detenuti”. Nel corso dell’iniziativa, condotta dai membri del consiglio direttivo della camera penale di Terni insieme a esponenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino e del consiglio dell’ordine degli avvocati di Terni, i partecipanti avranno l’opportunità di visitare la casa circondariale di Terni per una diretta osservazione delle condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere, sollecitando azioni concrete per il miglioramento delle strutture carcerarie e il rispetto dei diritti umani fondamentali. Hanno raccolto l’invito del consiglio direttivo della camera penale, tra gli altri, i consiglieri regionali Matteo Giambartolomei, Eleonora Pace, Laura Pernazza, Maria Grazia Proietti, Andrea Romizi, Stefano Lisci, i consiglieri comunali Marco Celestino Cecconi, Marco Iapadre, Agnese Passoni e Mirko Presciuttini. La presidente dell’assemblea legislativa dell’Umbria, Sarah Bistocchi, il vicepresidente della Regione Umbria Tommaso Bori e l’assessore al welfare del Comune di Terni Viviana Altamura hanno mandato un attestato di solidarietà per l’iniziativa dichiarando di non poter presenziare. La visita rappresenta “un’importante occasione di dibattito sulla condizione carceraria in Italia e sull’urgenza di interventi riformatori, che pongano fine alle situazioni di sovraffollamento, violazione dei diritti e mancanza di prospettive per i detenuti, perché, prendendo a prestito le parole di Piero Calamandrei pronunciate nel 1948 alla camera dei deputati, “in Italia il pubblico non sa abbastanza di che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto…Vedere! Questo è il punto essenziale!”. “Il principio di umanità delle pene - riprendono ancora gli avvocati - è un valore primordiale per la civiltà del diritto, prioritario e pregiudiziale rispetto a tutti gli altri principi: lo Stato non può mai rispondere al crimine replicando alla violenza con la violenza e non deve mai ‘abbassarsi’ al livello del reo, anche dell’autore del crimine più spregevole e efferato. In questo consiste la differenza qualitativa tra pena e vendetta: una differenza fondamentale nel percorso di civilizzazione della giustizia penale, di cui lo Stato deve essere appunto il primo custode. Proprio nell’ottica della finalità rieducativa della pena, appare evidente come nessun progetto di risocializzazione possa essere credibilmente perseguito se non si rispetta il canone di umanità: un canone dal quale sono profondamente distanti le condizioni attuali delle carceri italiane, con un tasso di sovraffollamento medio ufficiale che supera il 120%, ma che in realtà ha ormai raggiunto e superato il 130%, come a Terni. E la conferma più drammatica di queste condizioni inumane viene proprio dalla emergenza dei suicidi, il 90 % dei quali, non a caso, è occorsa in penitenziari sovraffollati”. “Se è vero, come sosteneva Voltaire nel diciottesimo secolo, che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri è riduttivo - e persino illusorio - pensare che questo problema possa risolversi solo costruendo nuove carceri. Bisogna adottare misure strutturali di intervento a monte, quali la riduzione sulla possibilità di applicare la misura custodiale anche e soprattutto per garantire il rispetto del principio del ‘minimo sacrificio necessario’ della libertà personale, tanto più decisivo al cospetto della presunzione di innocenza. E ancora improntare serie riforme muovendo dal principio definito di ‘umanesimo penale’, in modo da rivedere tutto il sistema, provvedendo a una drastica riduzione dei reati, riformando il sistema delle pene in astratto, rivedendo i meccanismi di deflazione e commisurazione della pena in concreto - concludono dal direttivo della camera penale di Terni - sino a riformare i diversi istituti penitenziari che attraversano la fase dell’esecuzione della pena”. Livorno. Un protocollo d’intesa tra la Casa circondariale ed il Garante comunale dei detenuti di Simona Poggianti urbanlivorno.it, 10 settembre 2025 Presentato a Palazzo Comunale il protocollo d’intesa tra la Direzione della Casa Circondariale di Livorno-Gorgona ed il Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Livorno. Le finalità del protocollo, della durata di due anni, sono di realizzare la più ampia collaborazione rivolta alla tutela dei diritti dei detenuti e al miglioramento degli standard di qualità della vita e il rispetto della legalità nell’istituto penitenziario con l’obiettivo del reinserimento sociale dei detenuti condannati. Gli articoli che compongono il protocollo sono otto e riguardano: l’accesso del Garante e dei suoi collaboratori all’istituto, l’attività all’interno dell’istituto penitenziario, le azioni del Garante, le azioni della Direzione dell’Istituto, le azioni congiunte, le verifiche, il trattamento dei dati e la validità. “In questi anni - ha affermato il Sindaco - il Comune ha svolto un duplice ruolo: quello di attenzione costante sulle questioni che riguardano la casa circondariale e contemporaneamente un richiamo a chi è impegnato a livello regionale e nazionale nel migliorare le condizioni dei detenuti e delle persone private della libertà. Il nostro è stato un richiamo ad un impegno più stringente e incisivo verso la casa circondariale di Livorno-Gorgona. La recente visita del sottosegretario ha evidenziato alcuni aspetti del mondo carcerario ed ha offerto garanzie. Ed il protocollo specifica ed elenca una dopo l’altra la necessità che abbiamo di poter monitorare, di poter essere presenti, di poter continuare a fare grande attenzione alle tematiche che riguardano il carcere. È una sorta di apripista questo protocollo di intesa ed è proprio per questo che ci teniamo e lo firmiamo con grande orgoglio”. “Questo protocollo d’intesa e di indirizzo con la direzione del carcere di Livorno - ha aggiunto il Garante - trova una sua ispirazione in un precedente protocollo firmato qualche anno addietro da tutti i garanti delle città toscane che ospitano sul proprio territorio un carcere, dal Procuratore Generale e dal Garante Regionale. Negli ultimi tempi soprattutto confrontandoci insieme, con le enormi criticità che vivono le carceri italiane, in maniera particolare il carcere di Livorno, abbiamo sostanziato questo protocollo con un’intesa diretta tra il Garante del Comune di Livorno e la direzione del carcere. Ovviamente non nasce a caso, nasce sull’onda di una collaborazione, di una sinergia, di un rapporto fiduciario che è stato stabilito fra la direzione e la città e fortifica questo rapporto. Il protocollo dà ampie e ulteriori possibilità di verifica e di controllo al Garante Comunale e sostanzialmente va a definire un patto di azioni, un patto d’intenti con la direzione finalizzato a rendere più umane e rispettose dei diritti le carceri livornesi. Siamo di fronte a un momento delicatissimo che coincide con la prossima riapertura di uno dei padiglioni del carcere per cui cambierà lo scenario della Casa Circondariale di Livorno. Vogliamo che la pena abbia un senso, ovvero di far ritrovare la cittadinanza e possibilità diverse alle persone recluse, puntando su progetti di inclusione sociale e di reinserimento socio-lavorativo”. “Mi complimento per il protocollo - ha dichiarato il Direttore del carcere - risultato di una grande attenzione che ho riscontrato sia da parte dell’Amministrazione, che della città stessa nei confronti della realtà carceraria. Con la consegna/apertura dei nuovi padiglioni quella di Livorno tornerà ad essere una importante realtà carceraria. Conto che si possa inaugurare i primi mesi dell’anno prossimo il primo padiglione. Se non avessi avuto il supporto costante del Comune e del Garante certi risultati non sarebbero stati raggiunti. Non ho mai sentito da parte loro proteste, ma soprattutto proposte costruttive. L’apertura dei due padiglioni è l’unico strumento per superare le difficoltà strutturali del carcere di Livorno”. Cuneo. Mercatini solidali per la dignità dei detenuti: l’iniziativa di Emmaus cuneocronaca.it, 10 settembre 2025 Uno dei fondatori delle comunità Emmaus (attualmente alcune centinaia in varie parti del mondo) era un ex ergastolano che anche tramite il suo lavoro e il suo impegno, insieme ad altri, ha dato vita ad un movimento in cui molte persone hanno ritrovato speranza e ragioni di vita, recuperando dignità e restituendo agli altri e alla collettività solidarietà e impegno civile, sociale ed ambientale. Emmaus Cuneo collabora da moltissimi anni con l’Associazione Ariaperta di Cuneo, una realtà importante a livello locale che offre sostegno umano e materiale a chi è incarcerato, cercando di alleviarne sofferenze e fragilità. Accoglienza in comunità, ma anche fornitura di mobilio per gli alloggi esterni: queste sono state le azioni e le collaborazioni che Emmaus ha messo in campo negli anni a sostegno dell’impegno di Ariaperta. A consolidamento di questa collaborazione, sabato 13 settembre Emmaus Cuneo organizza una vendita straordinaria nei propri mercatini solidali di Boves, Cuneo e Mondovì, il cui ricavato andrà interamente all’Associazione Ariaperta che lo utilizzerà a sostegno delle persone in carcere più sole e più in difficoltà. Per l’occasione, nel mercatino solidale Emmaus di Boves ci saranno alcuni sconti e offerte varie. Venerdì 12 settembre, alle 15, nel cortile del municipio in via Roma a Cuneo, Ariaperta e Emmaus parteciperanno all’incontro “Il carcere visto dai volontari” organizzato nell’ambito della manifestazione “articolo 27 Expo - Festival Nazionale delle produzioni carcerarie”. L’ingresso agli eventi è libero. Ancona. Musicultura a Barcaglione, i detenuti fanno la giuria per la canzone più bella di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 10 settembre 2025 Live nel carcere grazie al progetto voluto dal garante Giancarlo Giulianelli. I reclusi hanno ballato e saltato per due ore, noncuranti anche della pioggia. “Lo scopo è far capire che chi sta dentro può avere un futuro davanti a sé”. Un concerto dal vivo a Barcaglione per i detenuti. La musica live è tornata di nuovo nel carcere anconetano grazie a Musicultura e al progetto, voluto dal garante Giancarlo Giulianelli, “La casa in riva al mare” che rappresenta anche un premio speciale dato ai cantanti da una giuria composta da 20 detenuti. Ieri pomeriggio, a partire dalle 17, si sono esibiti nel piazzale interno alla casa di reclusione, sette degli otto finalisti del festival della canzone popolare e d’autore che si tiene d’estate a Macerata e che è arrivato alla 36esima edizione. Tra il pubblico una 50ina di detenuti (su 121 totali) che hanno ballato e saltato per due ore. Nemmeno la pioggia caduta insistentemente ha fermato il concerto. E’ il secondo anno di seguito che Barcaglione fa entrare artisti e strumenti musicali al suo interno. “Noi lo abbiamo proposto - ha detto Giulianelli - Musicultura lo ha portato avanti. Lo scopo è far capire a chi sta fuori dal carcere che spesso, chi sta dentro, non ha stimoli ma può avere ancora un futuro. Per parlare di rieducazione occorre impegno soprattutto di chi sta fuori. Rispetto a quando sono diventato garante, 5 anni fa, la sensibilità oggi è maggiore ma c’è sempre chi si aspetta altro perché fa più rumore un albero che cade che la foresta che cresce. Voi detenuti siete la foresta”. La giuria dei detenuti, che hanno aderito su base volontaria, tutte persone con pene da scontare inferiori agli 8 anni, è stata inserita in un programma di laboratori musicali e di scrittura coordinati dal direttore artistico di Musicultura Ezio Nannipieri e con l’assistenza del professore Edoardo Bartolini. “Non siamo noi che abbiamo dato a loro ma sono loro che hanno dato molto a noi - ha osservato Nannipieri -. Ci hanno arricchito e fatto capire come sia importante che chi sta fuori veda di riflesso cosa vuol dire finire in carcere. Noi speriamo di aver dato loro umanità di cui in carcere c’è penuria”. Attraverso degli incontri i detenuti hanno potuto apprendere le doti di una giuria musicale e dare un loro giudizio ascoltando i brani da remoto. Gli stessi hanno assegnato il premio della giuria del carcere (del valore di 2mila euro) all’artista Alessandra Nazzaro, 29 anni, di Napoli, per il brano Ouverture. “Credo mi abbiamo scelta perché sono stati colpiti da una frase del mio brano - ha detto l’artista - che dice da bambini potevamo essere tutto. La mia canzone parla di crescita”. La consegna c’è stata a giugno direttamente sul palco dello Sferisterio di Macerata con due detenuti, Petrit Krypa e Valerio Santoni in rappresentanza di tutta la giuria della casa di reclusione. Nazzaro si doveva esibire da sola in carcere ma hanno voluto aderire anche gli altri vincitori del concorso: Elena Mil (nome d’arte di Elena Caglioti, vincitrice assoluta), 24 anni, di Milano, accompagnata solo da uno strumento musicale, il suo ukulele, Frammenti, di Treviso, Ibisco, di Bologna, Moonari, di Roma, Abat-jour, di Rieti e Silvia Lovicario, di Nuoro. Leggi razziste e ingiuste, gli spazi del dissenso di Giulia Melani Il Manifesto, 10 settembre 2025 Rileggendo gli scritti di Alessandro Margara contenuti nell’antologia “La giustizia e il senso di umanità”, curata da Franco Corleone e edita dalla Fondazione Michelucci Press, ci possiamo imbattere in un saggio intitolato “A proposito delle leggi razziste e ingiuste”. Il testo è del 2009, di poco successivo all’approvazione del pacchetto sicurezza Maroni: un’acuta analisi della normativa di quel tempo e un invito appassionato a praticare una “resistenza giudiziaria alle leggi ingiuste e razziste”. Dal 2009 ad oggi, la produzione di leggi ingiuste e razziste si è moltiplicata: dal decreto Minniti del 2017 ai decreti Cutro, Caivano, Albania, si registra una serie lunghissima di provvedimenti di legislazione d’urgenza all’insegna del securitarismo, del panpenalismo, dell’esclusione sociale, dell’erosione dei diritti e del razzismo. Da ultimo, il recente decreto sicurezza (D.L. 48/2025 convertito in L. 80/2025) ha rappresentato una accelerazione verso un’impronta sempre più autoritaria, tanto nei contenuti quanto nei metodi, con un vero e proprio salto di qualità, che Grazia Zuffa avrebbe detto frutto di una: “disinvoltura istituzionale” della destra al Governo. Nei metodi, si è passati dall’abuso della decretazione d’urgenza, alla sottrazione al Parlamento di un disegno di legge in discussione. Nei contenuti, come ha sottolineato nei giorni scorsi Stefano Anastasia, durante la Summer School di Forum Droghe, il decreto si caratterizza rispetto alla storia delle politiche di sicurezza in quanto provvedimento orientato esplicitamente non alla tutela dei cittadini o di alcuni gruppi sociali ma a quella delle forze di polizia. Addirittura si prevede la criminalizzazione delle azioni di resistenza passiva dei detenuti e il peggioramento del Codice Rocco per le detenute incinte o madri di un figlio/a sotto un anno di età. Cosa possiamo fare di fronte al restringimento della dialettica democratica, alla proliferazione di leggi criminogene e all’attacco all’eguaglianza dei diritti? La Società della Ragione ha scelto di dedicare alla riflessione attorno a questo interrogativo il proprio seminario annuale. Dal 12 al 14 settembre, a Paluzza (UD), giuristi, sociologi, psicologi, politologi, politici, esponenti di movimenti e forze sociali cercheranno di mettere insieme “una cassetta degli attrezzi”, interrogandosi sugli strumenti e i modi per costruire spazi e forme di resistenza. Il seminario sarà strutturato in tre sessioni. La prima “il restringimento della dialettica democratica” sarà dedicata all’analisi della condizione presente: lo svuotamento del ruolo del parlamento, l’egemonia dell’esecutivo, l’uso distorto del diritto come arma contro il dissenso, il ricorso a misure amministrative di controllo. La seconda “strumenti e spazi per il dissenso” approfondirà alcuni degli strumenti giuridici e democratici che possono sostenere le istanze di cambiamento: la litigation strategy, il referendum, l’informazione e le azioni nonviolente. La terza sessione “Le forme delle resistenze” sarà dedicata al confronto tra realtà associative, movimenti sociali e forze sindacali per tessere alleanze tra soggetti diversi. In questo primo seminario senza Grazia Zuffa, la discussione sarà orientata dalle parole da lei pronunciate in apertura del seminario del 2022, quell’invito alla elaborazione di “un pensiero, come quello delle nostre associazioni, che è radicato nell’esperienza, che è radicato nel fare politica, proprio a risottolineare un’idea di costruzione di un pensiero e di un’elaborazione che ha collegamento col fare e che parte dal fare, con un percorso in doppia direzione”. Sempre con Grazia! Tra Vangelo e Costituzione, don Luigi Ciotti non smette di essere sulla strada di Marco Damilano Il Domani, 10 settembre 2025 È nato il 10 settembre 1945 a Pieve di Cadore, ha la stessa età della nostra democrazia. Appartiene alla generazione del Concilio e della Repubblica. La migliore gioventù cattolica, sulla frontiera tra la disubbidienza e la fedeltà. “Studiavo per diventare prete nel seminario per vocazioni adulte di Rivoli, ma avevo già il mio gruppo da seguire, non potevo lasciarli soli. Tutte le notti uscivo di nascosto da una finestra, un amico mi aspettava giù con la motoretta per portarmi a Torino. Alle sei del mattino tornavo ed ero pronto per la messa. Una mattina, al ritorno, si accendono le luci nel corridoio e mi ritrovo davanti il rettore. Avevo ritagliato una sagoma di cartone illuminata dall’abat-jour per far vedere dalla porta a vetri che ero in camera a studiare. Pensavo a una punizione, invece lui mi disse: “Va bene, continua a raggiungere il tuo gruppo, ma non in moto, è pericoloso”. Ci sono state risate e lacrime, qualche giorno fa, quando don Luigi Ciotti ha raccontato come divenne prete, nella piazza di Castelguidone, comune di trecento abitanti al confine tra Abruzzo e Molise. Alla fine è spuntata la torta, un regalo di don Alberto Conti, parroco e infaticabile animatore del territorio con la scuola di legalità Paolo Borsellino, a festeggiare c’era l’amica Rosy Bindi. Sopra c’era un disegno con le scritte Vangelo e Costituzione: le stelle polari della sua vita. Don Pio Luigi Ciotti è nato il 10 settembre 1945 a Pieve di Cadore, compie oggi 80 anni, la stessa età della nostra democrazia. Non ha mai perso il ciuffo ribelle, il viso del ragazzo stupito dalla vita, la passione per gli altri che ti rivolta le viscere e che ha guidato le sue scelte. Papà muratore, mamma casalinga, la famiglia trasferita nella città della Fiat per lavorare, doveva diventare tecnico radiofonico ma incontrò un senzatetto, un medico in disgrazia. “Mi ha cambiato la vita”. Il cardinale Michele Pellegrino, l’arcivescovo di Torino della lettera “Camminare insieme” negli anni Settanta, al momento dell’ordinazione sacerdotale gli affidò una missione: “La tua parrocchia sarà la strada”. Quella che per i benpensanti era la cattiva strada, dove però “c’è amore un po’ per tutti”, come cantava in quegli anni De André. Sessant’anni fa, nel 1965, ha fondato il gruppo Abele, quando di droghe e tossicodipendenze non parlava nessuno, i dannati morivano senza dare scandalo ai borghesi, fino a quando l’eroina non entrò nelle loro case. Trent’anni fa l’associazione “Libera”, il 26 marzo 1995, un anno dopo con un milione di firme portò all’approvazione della legge 106/96 sul riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati alla mafia, legislazione oggi studiata, imitata (e invidiata) in tutto il mondo. Con Giovanni Falcone, si erano visti a un convegno e il giudice lo aveva invitato a vedersi a Palermo: “Nel fine settimana sono lì”. La mafia arrivò prima. Il “New Yorker” un anno fa gli ha dedicato un lunghissimo articolo, ha scritto di lui che potrebbe essere scambiato per l’attore inglese Liam Neeson, “ma a differenza di Neeson non dorme mai nello stesso posto per due notti di fila”, lo ha definito “il prete che aiuta le donne della mafia a fuggire”, riferendosi all’assistenza per le donne che abbandonano le famiglie mafiose e cambiano identità. Da più di tre decenni vive sotto scorta, ha sempre insegnato, lui che si definisce “laureato in scienze confuse”, che la lotta alle mafie non è questione di ordine pubblico, ma culturale, educativa, sociale, ancor di più oggi che le mafie sembrano sparite dall’agenda politica e mediatica. Don Ciotti appartiene alla generazione del Concilio e della Repubblica. La migliore gioventù cattolica, sulla frontiera tra la disubbidienza e la fedeltà, come hanno insegnato don Lorenzo Milani e don Tonino Bello, di cui don Luigi è stato amico. Nel 2014 entrò in una parrocchia romana tenendo per mano papa Francesco, durante il momento pubblico più importante di Libera, la lettura dei nomi delle vittime innocenti delle mafie, la giornata dell’impegno e della memoria ogni anno il 21 marzo, il giorno di primavera. Una liturgia sacrale, una litania, con i suoi martiri religiosi, don Pino Puglisi, don Peppe Diana, e insieme un rito civile, con i suoi testimoni laici. Una riserva etica, per una Repubblica povera di appartenenze comuni. Una biografia che tiene insieme profezia e riformismo, inteso come cambiamento radicale della realtà, Vangelo e Costituzione. Ho letto a volte la sua stanchezza, quando gli attacchi diventavano intollerabili, e poi subito dopo la sua voce alzarsi ancora, all’improvviso, con gli appunti scritti a mano, per amore del suo popolo. Con l’intransigenza, e con la dolcezza, di un ragazzo che a ottant’anni non smette di essere sulla strada. Salute mentale: nel Piano poco spazio a integrazione e infanzia di Stefano Milano* Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2025 Dimenticata la sofferenza psichica correlata a gravi malattie organiche, oncologiche, o alle disabilità sopravvenute a causa di traumi o gravi patologie. Il Coordinamento nazionale psicologi direttori di struttura complessa del Sistema sanitario pubblico entra nel dibattito sul Piano di azioni nazionale per la salute mentale elaborato dal Tavolo dedicato, istituito presso il ministero della Salute ed in attesa di approvazione da parte della Conferenza Stato Regioni. La nota prodotta, contenente puntuali osservazioni, è stata inviata ai diversi attori istituzionali: Tavolo Tecnico per la Salute Mentale, ministro della Salute, presidente della Conferenza Stato Regioni. Apprezziamo le premesse teoriche del modello biopsicosociale e dell’approccio “One Health”, che superano il riduzionismo biomedico, includendo il ruolo della comunità e dei contesti di vita in cui il disagio nasce e si sviluppa, richiedendo interventi non solo multiprofessionali ma anche multisettoriali. Pur tuttavia, sottolineiamo il rischio che il passaggio al concetto di “One Mental Health” possa attribuire ai Dipartimenti di Salute Mentale e alla psichiatria una centralità che non valorizza tutti gli altri ambiti di intervento e relativi attori, che concorrono fortemente alla promozione, tutela e salvaguardia del bene “salute”. Rilanciare il sistema dei servizi di salute mentale - Forti della convinzione che ogni cittadino, a prescindere dalla Regione cui appartiene, debba trovare le migliori risposte, in termini di prevenzione e assistenza nel campo della salute mentale e psicologica, la ridefinizione del Piano rappresenta l’occasione per un significativo rilancio del sistema dei servizi di salute mentale dell’intero ciclo di vita, supportato da coerenti modelli organizzativi che realizzino l’integrazione sostanziale con tutti i settori e i percorsi assistenziali diversi e complementari a quelli tradizionalmente deputati alla salute mentale. La realizzazione di un Sistema Integrato di servizi per la salute mentale risponde alla necessità crescente di gestire il disagio psicologico e mentale con logiche di sistema che richiedono la costruzione di reti, interne ai servizi sanitari e integrate con le risorse comunitarie, per mettere in campo adeguate strategie, non solo di diagnosi e cura, ma soprattutto di individuazione precoce, prevenzione e contrasto dei fenomeni di esclusione e di stigma. Una programmazione condivisa per la prevenzione - Come Coordinamento, concentriamo l’attenzione sui primi 3 capitoli del Piano. Relativamente al primo capitolo “Salute Mentale e Percorsi di promozione, prevenzione e cura”, si sottolinea la necessità che i percorsi di prevenzione escano dai confini dei soli Dipartimenti di Salute Mentale e delle Dipendenze, realizzando le politiche di prevenzione e promozione della salute, attraverso un approccio intersettoriale ed una programmazione condivisa fra servizi, stakeholder ed attori sociali (scuola, luoghi di lavoro, luoghi di aggregazione). Riteniamo che lo psicologo delle cure primarie debba essere collocato al di fuori dei Dipartimenti di Salute Mentale e prevedere forme di stretta collaborazione con i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta, nel contesto dei Servizi Distrettuali, con il compito di contrastare la patologizzazione del disagio. I Servizi Consultoriali vengono citati solo nell’ambito dell’individuazione precoce del disagio delle madri in ambito perinatale e per il ruolo di “consulenti” dei tribunali. Si ritiene, invece, come previsto dalla norma che li ha istituiti, siano lo spazio elettivo del Ssn dove si promuove la salute con interventi precoci sui fattori protettivi. Si aggiunge che il Piano dimentica l’ambito legato alla sofferenza psichica correlata a gravi malattie organiche, oncologiche, o alle disabilità sopravvenute a causa di traumi o gravi patologie, per cui si ritiene del tutto improprio ricondurre gli interventi di supporto psicologico ai Dipartimenti di Salute Mentale. Presa in carico inadeguata per l’infanzia e l’adolescenza - Relativamente al secondo capitolo “Salute mentale in infanzia e in adolescenza, transizione dai servizi per l’infanzia e l’adolescenza ai servizi per l’età adulta, accesso e continuità di cura”, si sottolinea il grave errore di linguaggio nel riferirsi all’ambito della Salute Mentale dell’Età Evolutiva con il termine, assai riduttivo di “Neuropsichiatria dell’Infanzia e Adolescenza”. Riscontriamo in atto una pericolosa tendenza a rinominare in tal modo i servizi che si occupano della fascia d’età 0-18 anni, a dispetto del lavoro complesso, multiprofessionale e quasi per nulla riconducibile alla professione medica che si realizza in tali servizi. con il conseguente rischio di una presa in carico inadeguata di tutte le problematiche dell’età evolutiva, in primis quelle legate all’esplosione del disagio adolescenziale che tutto è tranne un fatto medico. Si propone, pertanto, il ricorso al termine “Salute Mentale dell’Età evolutiva”. Si segnala la forte carenza di posti letto per acuzie rivolti ai giovani con la conseguenza che, spesso, adolescenti in stato di sofferenza psichica acuta, che avrebbero bisogno di essere accolti in ambiente protetto ed adeguato all’età, si ritrovano ricoverati in reparti di diagnosi e cura per adulti, con aumento della valenza traumatica della crisi. Ne deriva la necessità di una riorganizzazione in grado di assicurare una gestione delle acuzie che sia rispettosa della specificità dell’età adolescenziale e sappia accogliere la sofferenza in modo non esclusivamente farmacologico, prevedendo interventi integrati sin dal momento del ricovero ed in stretta integrazione con i Servizi Territoriali competenti. Tenendo presente le dimensioni crescenti della sofferenza dei giovani, nelle loro diverse declinazioni (dipendenze, disturbi alimentari, tendenze autolesive ed anticonservative, ansia e depressione etc.), si chiede che il Piano preveda la realizzazione, in ogni ASL, di un servizio a bassa soglia al quale si acceda non per il tipo di patologia, ma per l’età (fascia 14-25 anni), in stretto raccordo con tutti i servizi specialistici presenti (Servizi per l’Età Evolutiva, CSM, SerD, etc). In tali strutture potrà essere garantito un primo qualificato ascolto ed approfondimento valutativo. Separare le funzioni di cura dal controllo dei detenuti - Per quanto riguarda il terzo capitolo “Salute Mentale per le persone detenute/imputabili e per le persone affette da disturbi mentali autrici di reato in misura di sicurezza” concordiamo con l’esigenza di potenziare la presenza di Articolazioni per la Salute Mentale in carcere, per supportare i detenuti con sofferenza psichica. Le criticità della presa in carico di persone affette da disturbi mentali autori di reato, dopo la giusta chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, comporta la necessità di separare in modo netto le funzioni di cura da quelle di controllo e custodia, intervenendo sulla normativa in materia, per lasciare ai Servizi di Salute Mentale e agli operatori l’esclusiva responsabilità della cura. Ciò significa anche superare il principio che sottende la cosiddetta “posizione di garanzia”, depenalizzando la responsabilità professionale degli operatori sanitari che hanno in trattamento utenti autori di reato. Relativamente alla gestione dei casi di gravi disturbi antisociali di personalità, spesso non immediatamente disponibili alla cura, si propone di realizzare moduli terapeutici all’interno di contesti contenitivi, realizzabili anche all’interno delle carceri. Si propone, inoltre, la previsione di strutture residenziali per pazienti autori di reato con gravi psicopatologie, che risultino collaborativi alla cura e che potrebbero essere presi in carico all’interno di moduli di cura con un numero di 8-10 posti. Potenziare le risorse umane e le strutture - A conclusione delle nostre osservazioni, il Coordinamento sottolinea l’esigenza di potenziare in modo massiccio le risorse umane impegnate e strutture deputate a dare risposte ai bisogni di salute psicologica dei Cittadini e delle Comunità, in modo strutturale. Rilanciamo, con voce forte, la proposta della destinazione annuale di almeno il 5% del fondo sanitario nazionale alla Salute Mentale, così come già stabilito - ma mai realizzato - nel 2001 dalla Conferenza Unificata. Allo stesso modo, va trovata adeguata copertura alle risorse necessarie per quei bisogni di salute psichica che non rientrano all’interno dei Dipartimenti di Salute Mentale, quali i Consultori, la psicologia ospedaliera, la psicologia di primo livello, etc. Infine, come Psicologi Direttori di Strutture Complesse chiediamo che venga applicato in tutte le Regioni quanto previsto dalla legge n. 176 del 2020, che istituisce la “Funzione Aziendale di Psicologia” la quale potrebbe svolgere quell’importante funzione di raccordo tra l’approccio “One Health” ed i servizi specialistici di secondo livello, in virtù della sua dimensione trasversale ai diversi servizi del SSN”. *Portavoce del Coordinamento Nazionale Psicologi Direttori di Struttura Complessa del Ssn Gli adolescenti di oggi: dipendenti dai social, pessimisti sul futuro, scettici sull’IA di Redazione Salute Corriere della Sera, 10 settembre 2025 L’indagine di Laboratorio Adolescenza. I risultati della ricerca annuale sugli stili di vita dei ragazzi (12-19 anni) che vivono in Italia Sempre più dipendenti dai social network, che sono il termometro della loro “popolarità” ma anche la fonte primaria di informazioni, pessimisti rispetto al futuro, a causa delle guerre e dei cambiamenti climatici, scettici rispetto all’intelligenza artificiale, vista con molto più timore che fiducia. A tracciare un profilo degli adolescenti di oggi è l’indagine annuale sugli stili di vita degli adolescenti che vivono in Italia realizzata da Laboratorio Adolescenza e Istituto di ricerca IARD su un campione nazionale rappresentativo di 3160 studenti (fascia di età 12-19 anni), con il patrocinio della Società Italiana di Pediatria e della Società Italiana di Ginecologia dell’infanzia e dell’adolescenza. “Sono ormai troppi anni - commenta Maurizio Tucci, Presidente di Laboratorio Adolescenza - che i risultati della nostra indagine annuale, che portiamo avanti da 27 anni, appaiono, anche loro, una sorta di bollettino di guerra. Il nostro lavoro purtroppo non indica soluzioni, ma è un termometro impietoso di una china pericolosa su cui, anno dopo anno, gli adolescenti, più o meno lentamente, stanno scivolando. Un’adolescenza fragile, ma sempre più “in vetrina” sui social, con il solo risultato di aumentare insicurezza e fragilità. Un’adolescenza sempre più impaurita dal futuro tanto da temere anche l’intelligenza artificiale che, ci piaccia o no, sarà il futuro, e tanto vale, allora, imparare a governarla invece di demonizzarla lasciandocela sfuggire di mano. Un’adolescenza culturalmente sempre più povera, dove la barriera ai consumi culturali spesso è di natura economica. Una adolescenza che non si fida degli adulti (e come darle torto) e cresce con modelli di riferimento fasulli come sono fasulli gli influencer della rete. Ma a questo punto serve, per il bene della società futura, una inversione di tendenza che può esserci solo se noi adulti, che a vario titolo siamo oggi responsabili di ciò che accade intorno a noi, saremo in grado di modificare gli scenari in cui i nostri figli e nipoti si trovano a vivere. Le generazioni precedenti ci hanno lasciato un mondo imperfetto, altrettanto pieno di orrori e di errori. Noi, se non riusciamo a cambiare velocemente passo, alle generazioni future lasceremo solo briciole e polvere”. I risultati: cercasi follower disperatamenteL’86,5% degli adolescenti (91% delle ragazze) posta foto e reel sui propri profili social e il 17,5% (21,3% delle ragazze) lo fa spesso. L’obiettivo di questa overdose di condivisione del proprio privato è la ricerca di follower che sono il termometro della propria “popolarità”, con la speranza, anche nel proprio piccolo, di poter diventare un influencer; e tanto basta. “E intanto - commenta Loredana Petrone, psicologa e psicoterapeuta dell’Università di Chieti e componente del direttivo di Laboratorio Adolescenza - si imitano gli influencer già “riconosciuti” che, per intenderci, non sono quasi mai i nomi celebri alle cronache (considerati comunque irraggiungibili), ma altri adolescenti come loro che fanno bravate o riescono ad avere gratis da alcune aziende, in cambio di reel pubblicitari, qualche manciata di prodotti per la “skin care” o di capi di abbigliamento per un “outfit” alla moda”. “Meno del 20% dei giovani utenti dei social afferma di non aver mai imitato i propri influencer di riferimento nel modo di vestire, di pettinarsi, di atteggiarsi. L’80% (un po’ più le femmine che i maschi) lo fa in modo più o meno abitudinario e in percentuale crescente fino ai 17 anni, per poi avere una flessione dopo i 18 anni. Ma quali sono i “segreti” per avere molti follower? Se al primo posto c’è “riuscire a trovare un’idea vincente che renda i reel virali”, subito dopo la caratteristica fondamentale è “essere belle/belli” . Da qui il via all’utilizzo di tutti gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione per migliorare, fino qualche volta quasi a trasformare la propria immagine. Creando una dissociazione tra il sé reale e il sé esibito che contribuisce ad accrescere insicurezze e fragilità emotiva”. Le ”challenge” Preoccupano inoltre, sempre legati all’utilizzo dei social, i comportamenti a rischio come le challenge che si sviluppano in rete (di pochi giorni fa il caso dell’adolescente trovato morto davanti al computer con una maschera antigas). Se il 78% afferma di non essere (almeno per il momento) intenzionato a provare l’esperienza, il 13% l’ha già provata ed il 9,5% dice di volerla certamente riprovare. Preoccupa anche che troppi genitori e molti insegnanti non sanno nemmeno cosa sia una challenge. La visione del futuro Incerti o addirittura preoccupati, gli adolescenti che hanno una visione “grigia” del futuro sono ormai un’ampia maggioranza (62,4%), mentre solo poco più di un terzo (37%) si dichiara ottimista o fiducioso. Ed il fenomeno è in costante e forte crescita: solo due anni fa (dati indagine 2023) gli ottimisti e i fiduciosi sfioravano il 50%. Ciò che cambia, invece, sono i principali motivi di preoccupazione. Il Covid, e con esso il rischio di epidemie, ormai è archiviato e preoccupa meno del 25% del campione (era l’84% nel 2022). Superato, il rischio epidemie, anche dal rischio “catastrofi naturali” che preoccupa molto il 38% degli adolescenti. In cima alla classifica oggi c’è la paura della guerra, indicata dal 53,6%. Unica costante tra le preoccupazioni adolescenziali, e quindi probabilmente la più profonda e meno legata alla contingenza, è quella riguardante il degrado ambientale, oggi indicato dal 48,7% del campione. Riguardo al genere, complessivamente le ragazze sono più preoccupate e pessimiste, su tutti i fronti, rispetto ai maschi. Via da casa Solo un terzo del campione (32,9%) pensa di rimanere nella stessa città/regione in cui vive attualmente, mentre un altro terzo (33,1%) si vede in Italia, ma in un’altra città/regione, mentre la maggioranza (33,5%) si vede in un’altra nazione europea o extraeuropea. Significativa la differenza di genere, con le ragazze più orientate a “lasciare casa”: poco più di una su 4 afferma di voler rimanere nella propria città/regione, mentre il 37% si vede fuori dai confini nazionali. Realizzazione personale Dal punto di vista della vita personale una larga maggioranza (75%) si vede in “un rapporto di coppia stabile e di convivenza/matrimonio, con figli” (ma questa percentuale nel 2015 superava il 90%). E proprio riguardo ai figli ad immaginare il proprio futuro senza figli è il 10% dei maschi e il 15% delle femmine. L’8,2% immagina, invece, un futuro da single, mentre solo il 3% si prefigura in un rapporto stabile ma senza convivenza. “Se non possiamo certo dire che la visione che gli adolescenti hanno della nostra società sia improntata all’ottimismo, non stupisce la spinta a trovare per sé stessi tranquillità in un equilibrio affettivo e sicurezza in un equilibrio esistenziale - spiega Carlo Buzzi, sociologo dell’Università di Trento e Direttore scientifico dell’indagine -. La prima dimensione sembrerebbe garantita dal desiderio largamente maggioritario del rapporto di coppia stabile e con figli, la seconda dimensione sembrerebbe invece realizzabile attraverso una diffusa mobilità territoriale (solo un terzo si pensa ancorato anche da adulto nella località o nella regione d’origine, gli altri si vedono proiettati in altre realtà italiane o straniere). Ne emerge un quadro nel quale la sfiducia dal punto di vista dei destini collettivi (riconducibile alle attuali situazioni dettate dalle recenti crisi economiche, ambientali ed internazionali) è intimamente compensata dalla prevalenza di un atteggiamento positivo e fiducioso verso il proprio futuro personale”. Cambiamento climatico Rispetto alla preoccupazione degli adolescenti riguardo il degrado ambientale Gianni Bona, pediatra endocrinologo, Presidente Onorario di Laboratorio Adolescenza e coordinatore di AMBO (Associazione che coinvolge 43 Società Scientifiche e Gruppi dell’Area Pediatrica, a cui aderisce anche Laboratorio Adolescenza, dedicata a studiare la relazione tra ambiente e salute nel bambino e nell’adolescente) commenta: “La costante presenza ai primi posti del tema dell’ambiente tra le preoccupazioni degli adolescenti ci dà fiducia per il futuro. Infatti, se il cambiamento climatico e Il degrado dell’ambiente possono essere arginati attraverso iniziative di tipo globale disegnate dalla politica, un ruolo non secondario è affidato ai singoli individui, prima di tutto mediante la presa di coscienza del problema in tutte le sue declinazioni, per poi agire in maniera responsabile e proattiva, attuando da subito comportamenti virtuosi. E gli adolescenti sono un terreno fertile su cui lavorare. Il gruppo AMBO rivolge grande attenzione agli adolescenti, sia per la creazione di materiale informativo/educativo a loro direttamente rivolto, che per proporre interventi educativi nelle scuole, al fine di sensibilizzare insegnanti e studenti sull’importanza di promuovere stili di vita rispettosi dell’ambiente, in linea col concetto di “One Health”. L’IA che fa paura Inaspettato il giudizio che gli adolescenti danno dell’intelligenza artificiale. Complessivamente vedono nel suo sviluppo più pericoli che benefici, con le ragazze che risultano molto più pessimiste dei ragazzi. Indubbiamente una risposta arriva dalla maggiore maturità, a quell’età, delle ragazze, che esprimono già un pensiero di tipo più adulto che le porta ad una analisi meno superficiale su qualcosa che davvero potrà cambiare il modo di vivere e sulla quale è oggi estremamente difficile fare pronostici. Consumi culturali Pochi i consumi culturali. Se si eccettua l’andare al cinema (73,9%) o l’aver visitato una mostra o un museo (72,4%), magari in occasione di uscite didattiche. Se certamente tra le cause non si può escludere il disinteresse e il maggiore appeal che ha il trascorrere il tempo libero sui social, dai focus group qualitativi che Laboratorio Adolescenza realizza a corredo dell’indagine quantitativa emerge anche, tra le cause, una barriera economica considerevole, specie per quanto riguarda concerti, manifestazioni e viaggi all’estero. Salute e prevenzione Il 38% del campione si mostra fatalista affermando “Indipendentemente dai miei comportamenti e dalla prevenzione, se sono destinato ad ammalarmi, mi ammalerò”, mentre il 70% ritiene i social utili ed affidabili anche per le informazioni riguardo a temi di salute. Ed Internet è la principale fonte alla quale attingono per avere informazioni riguardo la sessualità e la contraccezione. Il 55% gradirebbe poter avere uno spazio di colloquio riservato con il proprio pediatra o medico senza la presenza dei genitori, ma il 32,5% afferma che questa possibilità non ce l’ha. “Che una percentuale così alta di adolescenti desideri avere un momento di contatto diretto con il proprio pediatra o medico di riferimento non alla presenza dei genitori è un segnale molto importante al quale dobbiamo dare risposta - commenta Rino Agostiniani, Presidente della Società Italiana di Pediatria -. Naturalmente l’esigenza degli adolescenti nasce prevalentemente dal voler parlare con il medico di argomenti che non è sempre facile affrontare con i genitori e non certo di un mal di gola. Questo impone a noi pediatri di farci carico di un impegno molto delicato, sia perché sappiamo bene quanto sia complesso gestire una comunicazione efficace con gli adolescenti, sia perché dobbiamo far comprendere ai genitori l’utilità della cosa, anche per favorire quel processo di progressiva autonomizzazione che è l’essenza stessa dell’adolescenza”. Dall’indagine emerge infatti che solo una minoranza (tra il 20 e il 30%) si sentirebbe a suo agio a parlare con il proprio medico di argomenti come il fumo, in consumo di alcol, di cannabis, ma anche dei propri comportamenti in rete per la paura che il medico vada immediatamente a riferire tutto ai genitori vanificando il senso stesso di un incontro riservato. “Il medico - spiega Marina Picca, Vice Presidente di Laboratorio Adolescenza e Presidente della sezione Lombardia della Società Italiana di Cure Primarie Pediatriche - e non ha l’obbligo di informare i genitori sempre e comunque. Se il medico ritiene che il suo silenzio non sia pregiudizievole per la salute dell’adolescente, ha la facoltà e, aggiungerei, il dovere deontologico di garantirgli assoluta riservatezza su quanto ha saputo e su quanto eventualmente indicato o prescritto. E se su qualche aspetto non può non informare i genitori va detto con estrema chiarezza e lealtà al giovane paziente e la cosa non va mai fatta” alle sue spalle”, evitando atteggiamenti ambigui di “complicità”. Questo perché è di assoluta importanza che fra medico e paziente, di qualunque età, si costruisca innanzi tutto un rapporto di fiducia. Come indica giustamente il Presidente della Società Italiana di Pediatria la comunicazione con un adolescente e cosa complessa per cui anche noi medici e pediatri abbiamo il dovere di formarci in modo adeguato per svolgere questo difficile compito in modo efficace, come affrontare, ad esempio, argomenti a volte spinosi ma anche come rassicurare l’adolescente sul rispetto della sua privacy”. I valori e i divieti secondo Valditara: caro Ministro, in classe servono più relazioni vere di Fulvio Ervas Il Domani, 10 settembre 2025 Sono due gli obiettivi: avvicinare i giovani al mondo del lavoro e togliere i cellulari in aula. Pare arduo riuscire a convincere un adolescente, mentre sta seduto, a non sbirciare mai uno schermo. Scrivendo di istruzione, c’eravamo lasciati con le polemiche suscitate dai rifiuti di svolgere la prova orale dell’esame di Stato. Riparte, fra poco, il nuovo anno scolastico e si annunciano tante novità. Inevitabilmente si parla di una ristrutturazione dell’esame finale, a riprova che questa presunta macchina per sfornare cittadini formati e responsabili contenga tante e tali vibrazioni d’assetto che deve essere revisionata regolarmente. La storia delle riforme dell’esame di Stato meriterebbe un noir a tinte forti. Al recente convegno di Rimini, il ministro Valditara ha annunciato strepitosi numeri in materia di assunzione di docenti, compresi quelli di sostegno, puntualmente smentiti dalle forze sindacali. Nessuna novità da questo punto di vista: la scuola è sempre un luogo in cui i numeri sono diversi se calcolati ad alta quota oppure a livello dei collegi docenti. Nelle affermazioni del ministro luccicano, però, alcuni obiettivi futuri. Due sono degni di qualche modesta osservazione. Il primo obiettivo, per il ministro, è quello di convincere gli studenti a riscoprire la bellezza del lavoro. Si sente motivato a perseguire questo obiettivo perché i sondaggi svolti sulle giovani generazioni mostrano che il valore del lavoro è stato relegato alle ultime posizioni. Tra i primi ci sarebbero i diritti, la libertà e il vivere bene. Che strani ragazzi, ha pensato Valditara. Che mondo potrebbe scaturire se si affermasse questa visione? Sicuramente la rovina dell’Italia, se non dell’intero Occidente. Quindi, la scuola dovrà convincere i giovani a far avanzare il valore del lavoro e a far retrocedere tutti gli altri, anche se non è chiaro perché dare priorità ai diritti, alle libertà e al vivere bene siano incompatibili con il lavoro come valore. Come potrà riuscirci la scuola? Nei corridoi si vocifera che il ministro pensa di far affiggere, in tutti gli istituti, l’obiettivo di livelli salariali vicini a quelli dei lavoratori danesi, statistiche sulla riduzione degli incidenti sul lavoro, proposte per l’abolizione del lavoro frantumato e incerto. Insomma, pare evidente lo sforzo per convincere gli studenti che il lavoro non è solo sfruttamento, ma porta libertà, diritti e può concedere una vita dignitosa. Che è quello che i giovani ritengono prioritario. Se il primo obiettivo intende combattere l’indipendenza valoriale dei giovani dal lavoro, il secondo obiettivo intende combattere una dipendenza e ha una natura potentemente concreta: via i cellulari dalle classi. È un obiettivo sacrosanto. Molti istituti stanno già pensando a come approntare file di cassetti (saranno di legno, di metallo, colorati o solo grigi?) dove ogni studente potrà riporre lo strumento del demonio. Se poi potrà venir acceso, tumultuosamente, a ogni intervallo o cambio d’ora, si vedrà. Anche perché potrebbe essere impegnativo rimandare gli studenti in classe, a fine intervallo, mentre stanno leggendo o rispondendo a mille messaggi, da amici, mamma, innamorati, siti e contrositi. Ci vorranno degli esorcisti o qualche strategia si troverà per combattere la dipendenza? Sinceramente pare arduo riuscire a convincere un adolescente, mentre sta seduto in un’aula, a non sbirciare mai uno schermo, a non immergersi nel mondo delle immagini o delle frasi brevi, che è l’oceano comunicativo in cui la società lo abitua quotidianamente. Perché per dimenticarti del telefonino dovresti avere delle lezioni che ti coinvolgano, magari con un bel tono di voce, un portamento interessante, con temi che esplorino il mondo, proiettandosi anche sui problemi e le dinamiche della vita che vivi o, magari, te lo dimenticheresti il telefonino se la lezione fosse non solo frontale, ma collegiale, collaborativa, discorsiva, dove ognuno può e deve dare qualcosa, non solo il prof: insomma, un’ora imperdibile, più intensa dello schermo. E non saresti sempre al telefonino se anche nella quotidianità avessi più relazioni vere, più chiacchiere, più discussioni (soprattutto familiari), più scambi con gli adulti, più luoghi dove fondersi, costruire, sentirsi non passivi, non vuoti da riempire. Non giovani tenuti ai margini. A meno che non accettino il passato, sia esso di verdura o valoriale. Naturalmente sono coccolati, è vero. Ma più da animali domestici che da cittadini del futuro. Ma come avrà, sicuramente, intuito il ministro Valditara, sarebbe troppo complicato. È più facile trovare un cassetto. Anche se ne vedremmo delle belle. Nel frattempo, come fu per i banchi a rotelle, le fabbriche di cassettini stanno tirando un sospiro di sollievo. Altro che crisi. Migranti. Morte di un operaio fantasma di Alessandro Perissinotto La Stampa, 10 settembre 2025 La storia di Yosif, precipitato in un cantiere a Torino, è quella di tanti emigranti italiani del passato, sospesi tra due terre senza appartenere a nessuna. Morti lontano da casa. Dopo esserci riempiti la bocca per decenni con espressioni come “Villaggio globale” o “Mondo interconnesso”, comprendiamo che certe parole, certi concetti valgono solo per chi se li può permettere; per tutti gli altri il mondo è rimasto quello di 150 anni fa. A ricordarci che il mondo è a due velocità (altro vieto luogo comune, ma difficile da contestare) è, in questi giorni, la morte, a Torino, di Yosif Abdel Malak Gamal, l’operaio egiziano precipitato da un cestello elevatore. Sono molti i motivi per i quali questo incidente ci riporta indietro: possiamo esclamare “ma non si può morire così nel 2025!”, oppure possiamo chiederci “perché, con tutta la competenza antiinfortunistica che abbiamo oggi, quell’uomo non aveva imbracatura?”. A qualcuno verranno forse in mente lontani ricordi scolastici, lontane letture di romanzi veristi o neorealisti, dove morire di lavoro era quasi normale, dove cadere da un ponteggio, e mi riferisco a Metello di Vasco Pratolini, era una delle tante opzioni. Ma quella di Yosif Abdel Malak Gamal non è solo una morte sul lavoro, è anche e soprattutto una morte lontano da casa. Ed è proprio l’idea di lontananza ad entrare in conflitto con quella di “globalizzato” o “interconnesso”. Siamo globalizzati e interconnessi noi turisti occidentali, quando partiamo per un viaggio e ci muniamo di ogni assicurazione possibile compresa quello del “rimpatrio salma”. Sono globalizzati e interconnessi gli expat che operano a Wall Street o che lanciano una start up a Dublino e che dialogano in videoconferenza con la famiglia rimasta in Italia. Ma Yosif Abdel Malak Gamal non era un expat, era un emigrante. Come ci suona ormai strano questo termine! Eppure, per oltre un secolo, gli italiani sono stati un popolo di emigranti che ha vissuto sulle rimesse degli emigranti. Ora, che prendiamo in considerazione solo il concetto di immigrato, cioè di chi viene “a casa nostra” (per rubarci il lavoro, le mogli, i soldi, i posti negli asili e via con il lungo elenco di chi dice “io non sono razzista, ma…”) , fatichiamo a comprendere quanto l’atto del partire possa ancora essere, come in passato, un gesto definitivo e drammatico. Quando, agli inizi del Novecento, una madre italiana salutava il figlio che si imbarcava per l’Argentina, gli raccomandava di scrivere a casa o di trovare qualcuno che scrivesse per lui, ma quella madre, in cuor suo, metteva in conto che quel saluto, sul marciapiede di una stazione o sul molo di un porto, poteva essere l’ultimo capitolo della storia tra lei e la persona che aveva messo al mondo. Quante madri non hanno mai saputo se il figlio aveva mai messo piede in quella nuova terra promessa? E quanti dei detenuti italiani nel durissimo carcere di Ushuaia avevano mai potuto informare le famiglie e ricevere lettere di conforto? La situazione dell’operaio egiziano morto lunedì sembra essere molto simile a quella dei nostri compatrioti all’inizio del secolo scorso. Nessuno ha reclamato la sua salma e forse nessuno, in Egitto, sa della sua morte. Neppure la comunità egiziana a Torino era per lui un punto di riferimento: non lo conoscono, non hanno mai avuto contatti. Sicuramente, in patria, Yosif ha lasciato una famiglia, degli amici, qualcuno che lo ha amato, qualcuno che ha ricevuto da lui le famose “rimesse”, ma cosa ne è di tutta quella gente ora che lui è “emigrante” da così tanto tempo? “Emigrante” non “italiano”, sospeso tra due terre senza riuscire ad appartenere a nessuna delle due. In questo senso, Yosif è davvero morto lontano da casa, perché la casa è il posto dove si ricordano di te, dove si preoccupano per te. Per fortuna, non tutti gli emigranti sono stati inghiottiti dal silenzio: li vediamo mettersi davanti alle videocamere dei telefonini per salutare i familiari, li sentiamo parlare, gridare in lingue sconosciute. Ma quanti sono quelli come Yosif? Quante persone muoiono oggi lontano da casa? Perché ci sono dei lontano che nulla hanno a che vedere con lo spazio. Magari, mentre starete leggendo queste righe, qualcuno, da qualche provincia dell’Egitto si ricorderà di un uomo, partito molti anni prima, di un uomo ormai anziano e si metterà in contatto con le autorità italiane; o forse no, e Yosif rimarrà per sempre lontano. E forse chi legge si chiederà perché parlare ora di questa lontananza che, tra un paio di giorni, potrebbe essere smentita da fatti nuovi. Il motivo è semplice: perché tra un paio di giorni, di Yosif Abdel Malak Gamal nessuno parlerà più. Migranti. Il verde Borrelli segnalato ai Garanti detenuti e privacy di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 settembre 2025 Ha pubblicato la “fotografia del richiedente asilo apparentemente ammanettato, manifestamente inconsapevole dello scatto e con il volto non oscurato, con il seguente commento “preso uno dei due evasi da Poggioreale”. Con questa accusa undici associazioni che si occupano di immigrazione e carcere hanno segnalato alcuni post che il deputato di Europa Verde Francesco Emilio Borrelli ha diffuso sulle sue pagine Facebook e Instagram lo scorso 19 agosto. Canali costantemente aggiornati con immagini di piccoli o grande prepotenze, scostumatezze o reati. Canali seguiti da centinaia di migliaia di persone dove l’apparizione delle foto ha fatto scattare “una gogna mediatica di tenore xenofobo e fortemente violento”. La segnalazione è stata inviata al garante dei detenuti, a quello della privacy e all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (unhcr). L’uomo, che in un altro post compare insieme al compagno di evasione, si chiama E. M. K. ed è un richiedente asilo siriano di 23 anni. “Etichettato dalla cronaca come un rapinatore, è sembrato essenzialmente un ragazzo di estrema fragilità. Quando gli è stato chiesto della sua famiglia gli sono scesi due lacrimoni: erano tutti morti”, ha raccontato al Mattino Antonio Mattone, volontario di Sant’Egidio. Secondo le associazioni la diffusione del suo volto viola il diritto alla vita privata e il protocollo deontologico della Carta di Roma. Le persone che si trovano in uno stato di vulnerabilità hanno garanzie particolari, per difendere la loro dignità anche nei momenti difficili (come in carcere o in ospedale). “La foto stava su tutti i giornali - si difende Borrelli, che specifica di essere anche giornalista - Lungi da me voler violare qualsiasi diritto. Quelle persone erano evase e le loro immagini sono state diffuse dai media”. La segnalazione alle istituzioni di garanzia ha anche un secondo versante, emerso in relazione alla storia carceraria dello stesso richiedente asilo. “A Poggioreale, per un accordo non scritto tra carcere e questura di Napoli, non viene permesso di formalizzare le richieste di asilo delle persone detenute - afferma l’avvocata Martina Stefanile, che difende il ragazzo siriano - Lo sappiamo per esperienza perché patrociniamo tantissimi migranti. L’unico modo per avanzare la domanda di protezione è attraverso il proprio legale, ma a quel punto non viene fatta nessuna convocazione. Questo è contrario alle linee guida del ministero”. L’impatto, nonostante le persone siano dietro le sbarre, è notevole. “Se si è irregolari - continua Stefanile - non si può accedere alle misure alternative e si può essere espulsi al termine della pena o finire dal carcere direttamente in un Cpr”. Migranti. Lampedusa, duemila sbarchi in tre giorni. Morti e intossicati di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 settembre 2025 Mediterraneo Due vittime, cinque ricoverati: hanno inalato idrocarburi. Detenuta l’Aurora Sar. La Sea-Eye 5 a Brindisi, costretta a un viaggio di 40 ore: “Disumano”. Aumentano gli arrivi via mare (+5%), ma diminuiscono le richieste d’asilo (-25%). Dalla scorsa domenica a ieri in Italia sono arrivate via mare circa 2.400 persone. La gran parte ha toccato terra sull’isola di Lampedusa. Il viaggio più drammatico è stato quello di un barcone di otto metri che trasportava 44 persone di nazionalità egiziana, eritrea, etiope, gambiana e algerina: a bordo, nella notte tra lunedì e martedì, i militari della guardia di finanza hanno trovato due morti, probabilmente a causa dell’inalazione di idrocarburi, e tre intossicati. “Arrivavano dalla Libia. Esprimiamo il nostro cordoglio per le vittime”, ha scritto sui suoi canali social Mediterranean Hope, il progetto umanitario che offre assistenza sul molo Favaloro. I cadaveri sono stati portati alla camera mortuaria del cimitero di Cala Pisana, le persone affette da problemi sanitari al poliambulatorio della più grande delle Pelagie. Dove nel pomeriggio di ieri sono arrivati altre due migranti intossicati per motivi analoghi: inalazione e ingestione di carburante. Erano su un barchino di appena cinque metri con altri 15 eritrei, sudanesi e ivoriani. Partito dalle coste tunisine di El Olga, a differenza di quasi tutte le altre imbarcazioni che provenivano dalla Libia. I naufraghi sono stati individuati dal pattugliatore Avallone delle fiamme gialle. Gli sbarchi sono continuati senza sosta: quindici lunedì, dieci ieri. Un’imbarcazione è arrivata autonomamente sulle coste di Lampedusa, nella località di Cala Uccello, con una settantina di migranti. Complessivamente nell’hotspot ci sono 1.646 persone. Altissimo il numero di minori: 221. Il meccanismo di svuotamento della struttura di Contrada Imbriacola messo su dal Viminale è più rapido ed efficiente rispetto a quelli predisposti dai governi precedenti. Domani mattina, però, non potrà essere realizzato alcun trasferimento verso la Sicilia. Il traghetto di linea Sansovino, che fa scalo a Porto Empedocle, non ha potuto mollare gli ormeggi a causa delle condizioni avverse del mare, destinate a peggiorare nei prossimi giorni. Sempre ieri altri arrivi ci sono stati sulle coste sarde: una serie di piccoli barchini partiti dall’Algeria con otto/nove persone a bordo. Fino al tardo pomeriggio erano sbarcate in tutto 86 persone. Altre 52, tra cui tre neonati e due donne incinte, sono invece giunte nel porto di Brindisi con la Sea-Eye 5. Non proprio una nave, ma un mezzo veloce di soli 22 metri che il ministero dell’Interno ha comunque costretto a navigare per 40 ore in condizioni che la ong ha definito “estreme”. “La Sea-Eye 5 è progettata per i salvataggi di emergenza, ma non per lunghe tratte di transito. È disumano”, ha affermato l’organizzazione umanitaria che aveva chiesto ripetutamente l’assegnazione di un porto più vicino. Per il presidente Gorden Isler si tratta di “disgustosi giochi di potere politici” e “comportamenti assolutamente inaccettabili”. Intanto la scure dei fermi amministrativi si è abbattuta ieri sulla Aurora, di Sea-Watch. Anche questa non una nave vera e propria, ma un mezzo di soccorso rapido. “Ancora una volta usano la burocrazia per fermare il soccorso civile nel Mediterraneo, ricorrendo ad argomenti pretestuosi”, attacca l’ong a cui è stato contestato, come giorni prima a Mediterranea, di non aver rispettato l’indicazione del porto assegnato dal Viminale: Reggio Calabria. Le 75 persone soccorse sono invece state portate a Pozzallo dove “sono sbarcate con l’autorizzazone delle stesse autorità”, continua Sea-Watch. La durata della detenzione, e l’importo della multa, saranno stabiliti nei prossimi giorni. Complessivamente dal primo gennaio di quest’anno sono arrivati via mare circa 47mila cittadini stranieri. L’aumento rispetto allo stesso periodo del 2024 inizia a diventare considerevole: +5,5%. I numeri sono pienamente gestibili, ma cozzano con la retorica del governo che continua a vantare grandi successi sul contrasto delle traversate, anche grazie alle “soluzioni innovative” proposte all’Europa. Ovvero i centri in Albania rimasti al palo. Intanto tra i primi sei mesi del 2024 e quelli del 2025, nonostante la crescita degli sbarchi, sono diminuite le domande di protezione: -25% (media Ue -23%). Il dato è dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (Euaa), ma da solo non spiega se un maggior numero di persone rispetto al passato ha lasciato l’Italia subito dopo l’arrivo oppure se il governo Meloni è riuscito a scoraggiare le richieste di protezione, verosimilmente facendo aumentare chi si trova costretto a vivere in condizione di irregolarità. “Non avete mai chiamato”: il Venezuela smonta la versione del Governo su Alberto Trentini di Giulio Cavalli La Notizia, 10 settembre 2025 Caracas: “Roma non ci ha mai chiamati” per il caso Trentini. 300 giorni senza negoziato tra silenzi e missione a vuoto. L’accusa è nitida, e oggi ha un nome e una data: un funzionario diplomatico venezuelano sostiene che “il governo Meloni non ha mai chiamato Caracas” per discutere del dossier di Alberto Trentini, cooperante italiano detenuto in Venezuela da novembre 2024. La scrive nero su bianco Il Fatto Quotidiano, spiegando come l’anonimo funzionario venezuelano ritenga questo atteggiamento “infantile”, nonché segno di “distacco e mancata volontà politica”. Cronologia di un’inerzia - Trentini viene fermato sulla tratta Caracas-Guasdualito il 15 novembre 2024 e scompare per mesi tra Dgcim e carceri speciali. A gennaio 2025 la Iachr (Osa) adotta misure cautelari a sua tutela; nello stesso periodo Palazzo Chigi convoca una riunione interministeriale e protesta formalmente con Caracas, annunciando “massima discrezione”. Ma nessun contatto politico di vertice viene documentato. Il primo, flebile segnale arriva solo a fine luglio: Trentini riesce a telefonare a casa. Il viceministro Edmondo Cirielli parla di “passo in avanti” e di “lavoro diplomatico in corso”. Sono parole che non spiegano la sostanza: chi ha parlato con chi, quando, con quali impegni reciproci? Il comunicato resta generico. Nel frattempo il governo nomina l’ambasciatore Luigi Vignali inviato speciale. La missione, annunciata, atterra a Caracas ad agosto ma non sarebbe stata ricevuta da alcun esponente dell’esecutivo Maduro: rinvio, ricalendarizzazione, nessun risultato. È il punto che più incrina la narrativa dell’”interlocuzione continua”. Dichiarazioni, smentite e responsabilità - La frase chiave di oggi (“mai chiamato Caracas”) stride con mesi di rassicurazioni pubbliche. Tajani, il 4 settembre, rivendica che “il governo non è immobile” e indica due rilasci avvenuti il 24 agosto (Americo De Grazia e Margarita Assenza). Ma la fonte venezuelana smentisce qualsiasi ruolo italiano nella scelta dei nomi: “l’Italia non ha toccato palla”, si sarebbe trattato di una “scelta sovrana” e di un “affare interno”, senza alcun coinvolgimento delle autorità di Roma riporta ancora Il Fatto. Sul fronte umano, la madre di Alberto riceve una telefonata di cortesia da Giorgia Meloni ad aprile 2025; da allora, nessuna ricezione ufficiale a Palazzo Chigi e aggiornamenti frammentari. La comunicazione resta oscillante: silenzio quando servivano garanzie minime (visite, assistenza legale, terapie), poi enfasi mediatica su “segnali positivi” che non cambiano le condizioni materiali della detenzione. Il confronto con altri casi coevi pesa. Gli Stati Uniti hanno ottenuto rilasci negoziando su un binario politico-umanitario; la Svizzera ha visto uscire un compagno di cella di Trentini. L’Italia, invece, ha scelto una postura rigida (non riconoscimento di Maduro) senza attrezzarsi con un “doppio binario” che separi il giudizio politico dalla tutela del cittadino. Il risultato è lo stallo. Resta, inoltre, l’incidente della missione diplomatica: in diplomazia non si vola “al buio”. Se l’interlocutore non ti riceve, significa che il canale politico non esiste o non è stato coltivato. È qui che la frase del funzionario venezuelano assume il peso specifico di una prova indiretta. Che cosa manca oggi. Tre dati verificabili, che il governo potrebbe fornire in un minuto: date e interlocutori delle telefonate ai massimi livelli; esito delle richieste di visita consolare dalla prima nota verbale in poi; il mandato negoziale (con eventuale cornice Ue/Osa o Santa Sede) consegnato all’inviato speciale. In assenza di queste risposte, le responsabilità politiche restano scolpite: ritardi iniziali, missione preparata male, comunicazione opaca con la famiglia, sovrapposizione di propaganda e informazione. In attesa di una smentita puntuale, resta un fatto: a oggi, 10 settembre 2025, Alberto Trentini è detenuto da quasi 300 giorni e non c’è una sola evidenza pubblica di un vero negoziato politico Italia-Venezuela sul suo nome. Tutto il resto è propaganda sulla pelle di un italiano detenuto senza la formalizzazione delle accuse, della sua famiglia, dei suoi amici.