Il trucco sui 3 metri quadrati: così il Governo ignora la Cassazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2025 C’è un segreto dentro le nostre celle che nessuno ha voglia di raccontare. Un trucco contabile che permette di nascondere la verità sotto il tappeto della burocrazia ministeriale. E quando qualcuno prova a sollevare quel tappeto, come ha fatto Roberto Giachetti di Italia Viva con un’interrogazione parlamentare depositata martedì scorso alla Camera, emergono numeri allarmanti e silenzi che pesano come macigni. La questione è apparentemente tecnica, ma nella sostanza è drammatica: il ministero della Giustizia, attraverso l’Applicativo Spazi/ Detenuti (A. s. d.), quello strumento informatico che dovrebbe monitorare in tempo reale quante persone ci sono in ogni cella e quanto spazio hanno a disposizione, starebbe compiendo una violazione sistematica della giurisprudenza. In pratica, quando conta i metri quadrati disponibili per ogni detenuto, non sottrae lo spazio occupato dai letti a castello e dagli altri arredi fissi. Un dettaglio? Tutt’altro. Facciamo un esempio concreto, quello che Giachetti ha visto con i suoi occhi durante la visita a Regina Coeli del 12 agosto scorso insieme a Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino. Settima sezione: una cella di 9 metri quadrati che ospita stabilmente tre persone, rinchiuse per 23 ore al giorno. Secondo l’A. s. d., quei tre detenuti avrebbero ciascuno 3 metri quadrati a disposizione. Tutto regolare, dunque. Ma proviamo a fare il conto: sottraiamo il letto a castello i sanitari e gli armadi. Quanto spazio resta davvero per muoversi, per respirare, per esistere? La Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite 6551 del 2021, era stata chiarissima: dai 3 metri quadrati vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello. E non è finita lì. Anche la recentissima sentenza 728 del 2025 della Sezione penale ha ribadito lo stesso principio: lo spazio vitale minimo non può includere l’area occupata dai letti, anche se amovibili e singoli. Eppure il Ministero, nella sua prassi quotidiana, continua imperterrito a contare tutto al lordo degli ingombri. Il risultato? Oltre 15.000 detenuti hanno oggi tra i 3 e i 4 metri quadrati al lordo degli arredi. Ma se togliessimo, come impone la legge, i letti e gli altri ingombri fissi, quanti di loro scenderebbero sotto la soglia minima dei 3 metri quadrati netti? Quanti starebbero vivendo, in questo preciso istante, in condizioni che violano l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, quella norma che vieta i trattamenti inumani e degradanti? Sono domande che non possono restare senza risposta. E infatti Giachetti, nella sua interrogazione, le pone nero su bianco al ministro della Giustizia. Prima di tutto chiede conferma: è vero o no che l’A. s. d. non considera lo spazio occupato dai letti e dagli altri arredi fissi? E se è vero, il governo intende finalmente assumere iniziative per riformare il sistema introducendo il necessario correttivo? Ma l’interrogazione va oltre e punta il dito su un’altra anomalia che potrebbe apparire come omissione volontaria. L’articolo 35- ter dell’ordinamento penitenziario, introdotto nel 2014 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani con la sentenza Torreggiani, prevede un rimedio per i detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti: un giorno di riduzione della pena ogni dieci di pregiudizio subito. Per chi ha già finito di scontare la pena o l’ha subito in custodia cautelare, c’è un risarcimento civile di 8 euro al giorno. Nel 2022 sono arrivate agli uffici di sorveglianza 7.643 istanze in base a questo articolo. Ne sono state decise 7.859 e 4.514, il 57,4 per cento, sono state accolte. Un dato significativo. Ma poi? Poi il buio. Dal 2023 ad oggi non ci sono più dati ufficiali. E anche sui risarcimenti civili richiesti ai tribunali ordinari, nessuna statistica disponibile dal 2018 al 2024. Giachetti chiede al ministro di fornire questi numeri, anno per anno. Quante sono state le istanze presentate ex articolo 35- ter negli anni 2023 e 2024? Quante ne sono state accolte? E soprattutto: può dettagliare i dati per tribunale di sorveglianza e per istituto detentivo interessato? La richiesta di questo dettaglio non è capriccio statistico. C’è infatti un’altra stortura che emerge dal XIX rapporto di Antigone: una disomogeneità spaventosa nel tasso di accoglimento tra i diversi tribunali. Si va dall’ 83,6 per cento di accoglimenti a Trento e dall’ 82,3 per cento a Brescia al 27,2 per cento a Bologna o al 26,2 per cento a Roma. Tradotto: due detenuti che vivono la stessa identica condizione di sovraffollamento, la stessa violazione della dignità umana, possono avere esiti completamente opposti a seconda della geografia giudiziaria in cui si trovano. Uno ottiene il risarcimento, l’altro no. Uno vede ridotta la pena, l’altro resta in cella. È una lotteria dei diritti fondamentali che non può essere tollerata in uno Stato di diritto. E infatti Giachetti chiede se il governo intenda assumere iniziative di carattere normativo per eliminare questa disparità di trattamento tra detenuti che, pur subendo condizioni contrarie all’articolo 3 della Cedu, non possono accedere ai rimedi risarcitori perché si trovano in aree a bassissimo tasso di accoglimento. I numeri parlano chiaro: al 30 settembre 2025 negli istituti penitenziari risultano ristrette oltre 63.000 persone, a fronte di una capienza regolamentare effettiva di soli 46.700 posti. Sedici mila persone di troppo. Un sovraffollamento che supera il 135 per cento. Ma se il criterio di calcolo della capienza regolamentare è sbagliato, se viene applicato in violazione della giurisprudenza della Cassazione, allora il quadro reale è ancora più drammatico di quanto appare. Quella di Giachetti non è la prima battaglia parlamentare contro l’emergenza carceraria. Il deputato di Italia Viva ha presentato diverse proposte di legge per affrontare il sovraffollamento, raccogliendo anche aperture inaspettate da parte del presidente del Senato Ignazio La Russa, uomo di punta di Fratelli D’Italia. Purtroppo apertura che non ha trovato sbocco. Ma questa interrogazione ha un sapore diverso. Non propone soluzioni, semplicemente chiede al governo di ammettere la verità. Di dire come stanno davvero le cose dentro le celle nostrane. Di fornire dati che inspiegabilmente vengono tenuti nascosti da anni. La capienza regolamentare viene calcolata in base al decreto del ministero della Sanità del 5 luglio 1975: 9 metri quadrati per il primo detenuto e 5 metri quadrati per ciascuno dei successivi. Ma se da quegli spazi non si sottraggono i letti, i sanitari, gli armadi, come impone la Cassazione, quel calcolo diventa una farsa. Una finzione giuridica che permette di dire che tutto va bene quando invece tutto va malissimo. E mentre il Parlamento discute, mentre il governo non risponde, mentre i dati restano secretati, ogni giorno nelle celle del Belpaese ci sono esseri umani che vivono in condizioni che la stessa magistratura ha definito illegali. Persone che dormono in tre in 9 metri quadrati lordi, che forse sono 6 o 7 metri quadrati netti. Persone che non hanno lo spazio fisico per fare due passi, per stendere le braccia, per avere un minimo di privacy e dignità. La sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013 aveva condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Dodici anni dopo, siamo ancora qui. Con un sistema informatico che non fotografa la realtà per decreto, con dati che scompaiono nei cassetti ministeriali, con una disparità di trattamento tra detenuti che fa a pugni con il principio di uguaglianza. L’interrogazione di Giachetti, depositata martedì scorso, è un atto dovuto. È la richiesta di trasparenza che ogni cittadino, dentro o fuori dal carcere, ha diritto di pretendere. Ora tocca al ministro della Giustizia Nordio rispondere. E soprattutto tocca al governo decidere se vuole continuare a nascondere la testa sotto la sabbia o se è pronto ad affrontare una verità scomoda: le nostre carceri sono luoghi di tortura silenziosa, e lo Stato lo sa benissimo. Sovraffollamento, siamo tornati al punto di partenza: è il gioco dell’oca o quello dello struzzo? di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 9 ottobre 2025 Preannunciata da alcuni articoli di stampa, è arrivata la brutta notizia dal fronte politico: è naufragato nel nulla l’ultimo generoso tentativo messo in campo dal presidente del Senato La Russa per varare un provvedimento contro il sovraffollamento. Come vi ricorderete, La Russa aveva prima tentato di trovare un’intesa tra maggioranza e opposizione su una “legge sulla buona condotta”, cioè il temporaneo aumento dei giorni di liberazione anticipata previsti in caso di buona condotta, in modo da permettere a qualche migliaio di detenuti di uscire un po’ di tempo prima del fine pena. Era la proposta dell’onorevole Roberto Giachetti (Italia Viva) e di Nessuno Tocchi Caino, che poteva diventare lo strumento per diminuire un poco il sovraffollamento, senza concedere indulti o amnistie. Ma il ministro Nordio - o chi per lui - aveva provveduto a stroncare questo tentativo, organizzando il Consiglio dei ministri farsa del 22 luglio scorso, in cui sono stati annunciati una serie di provvedimenti totalmente campati per aria, insieme all’ennesima edizione del “piano carceri” (è dal 2009, ministro Angiolino Alfano, che da Via Arenula lanciano mirabolanti piani carceri, destinati in larga parte a rimanere sulla carta). Sulla scia di questa sceneggiata, il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito in un videomessaggio il rifiuto di qualsiasi provvedimento di “liberazione anticipata”. Nonostante questo, l’indomito Presidente La Russa ha tentato di “infilarsi” nell’unico spiraglio lasciato aperto in quel CdM. Dato che Nordio aveva annunciato un Decreto del Presidente della Repubblica per rendere più agevole la concessione degli arresti domiciliari alle persone detenute che devono ancora scontare meno di un anno e mezzo di pena, La Russa ha cercato di costruire una proposta di legge che rendesse concreta questa prospettiva (che nell’idea lanciata da Nordio rimaneva totalmente velleitaria). Ha quindi affidato alla sua vice in quota Pd, Anna Rossomando, il compito di trovare un testo di legge che potesse essere condiviso da un’ampia maggioranza. Abbiamo trascorso l’estate con questa speranza, ma, arrivati a fine settembre, la Rossomando, e con lei La Russa, hanno dovuto prendere atto che dai partiti del centrodestra non era arrivata nessuna disponibilità. A Via Arenula hanno festeggiato, raccontando che nel 2027 (cioè dopo la fine della legislatura) il sovraffollamento sarà sicuramente superato, grazie alla miracolosa realizzazione del suddetto “Piano Carceri”. Dicendo queste cose il ministro Nordio è riuscito anche a farsi fischiare durante il suo intervento all’assemblea degli avvocati delle Camere penali italiane, ma soprattutto è riuscito a raggiungere un obiettivo che nessun ministro della Giustizia prima di lui aveva ottenuto: farsi contestare sia dai magistrati che dagli avvocati. Bene. Concediamo sicuramente l’onore delle armi al Presidente La Russa, che per 5 mesi si è battuto come un leone per convincere il centrodestra a trovare una soluzione all’emergenza carceri. È caduto con onore, ferito dal “fuoco amico”. Ma adesso che cosa succede? È un po’ come il gioco dell’oca, siamo finiti nella casella sbagliata - quella del ministro Nordio - e quindi torniamo al punto di partenza. In realtà più che il gioco dell’oca, sembra il gioco dello struzzo, che mette la testa sotto la sabbia pensando di nascondersi dai pericoli. Giorgia Meloni e Carlo Nordio pensano che chiudendo gli occhi di fronte allo stato disastroso in cui si trovano le carceri italiane, nessuno si accorga della situazione indegna in cui vivono 63.000 persone detenute. E su questa opera di occultamento possono contare sull’aiuto del Movimento 5 Stelle, che con le sue storiche posizioni giustizialiste, spezza il fronte di un’opposizione di sinistra sempre più malconcia, nonché su drammi internazionali che distraggono l’opinione pubblica. Ma esiste “un giudice a Berlino”, che in questo caso è rappresentato dalla Cedu che ha già condannato l’Italia nel 2013 per il sovraffollamento carcerario. All’epoca c’era un sovraffollamento di poco superiore a quello attuale e quindi, salvo miracoli, ci ritroveremo tra breve nella stessa situazione. Bisogna giungere a tanto? Le persone detenute in Italia devono pagare il prezzo di tutte le disfunzioni della giustizia italiana, che certo non saranno risolte magicamente con la riforma della separazione delle carriere dei magistrati? Non lo sappiamo, ma siccome “combattere è un destino”, noi continueremo a farci sentire finché gli struzzi non alzeranno la testa e apriranno gli occhi che non è solo un problema nostro: piaccia o meno, sulle condizioni delle carceri lo Stato italiano e la nostra Democrazia si giocano la faccia. Carcere, ecco i primi incontri nelle “stanze degli affetti” di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 ottobre 2025 A distanza di quasi due anni dalla sentenza della Corte costituzionale che consente ai detenuti di svolgere colloqui in intimità, dopo la casa circondariale di Terni anche il Due Palazzi, carcere di Padova, ha permesso il primo incontro di un detenuto con la moglie nella “stanza degli affetti”. Ornella Favero, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice di “Ristretti orizzonti”, la cui redazione è in quest’istituto di pena: “Sappiamo che ci sono tante richieste da parte dei detenuti per i colloqui in intimità”. Risale a quasi due anni fa la sentenza della Corte costituzionale, la n.10 del 2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non permette di avere colloqui “con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia”. “Al Due Palazzi di Padova finalmente c’è stato il primo colloquio in intimità di un detenuto”, dice Ornella Favero, presidente Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice di Ristretti orizzonti. Quest’istituto di pena è la sede della redazione della storica rivista legata all’associazione “Granello di Senape” che da anni si occupa di diritti delle persone in carcere e a cui lavorano anche le stesse persone detenute. È in questo carcere che è stata bloccata, l’anno scorso, la sperimentazione degli spazi per l’affettività, sarebbero stati i primi in Italia, perché il governo considerava che non fossero di competenza delle associazioni ma del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap. Tante richieste di colloqui in intimità - “Entro breve ho un incontro con la direttrice del carcere Maria Gabriella Lusi per capire se sarà possibile far fare altri colloqui in intimità a breve ad altri detenuti. Il primo detenuto che ha usufruito della stanza degli affetti aveva fatto reclamo al magistrato di Sorveglianza, era stato seguito da noi”, prosegue Favero. “Questo detenuto ha fatto un percorso di detenzione perfetto, la magistrata gli ha dato ragione e ha concesso 60 giorni di tempo al carcere per adeguarsi. Ora i colloqui dovrebbero partire con regolarità. Lunedì scorso c’è stato solo questo incontro, sappiamo che ci sono tante richieste da parte dei detenuti per i colloqui in intimità: loro però non hanno fatto reclamo, ma una semplice richiesta. Ora che c’è la stanza devono concedere loro questo diritto”. Il carcere di Terni “apripista” - “Nella casa circondariale di Terni è attiva la “stanza degli affetti”, so che ne usufruiscono una ventina di detenuti. Per il resto, altri istituti di pena si stanno muovendo ma ancora devono avviare gli incontri in intimità. C’è una sperimentazione delle modalità e dei tempi di questi colloqui, ma non dei colloqui, che devono potersi svolgere”. Lo scorso aprile sono finalmente arrivate le linee guida, con gli indirizzi operativi per garantire il diritto all’affettività delle persone detenute. La circolare del Dap, che sottolinea come questa sia un diritto fondamentale da esercitare anche durante la detenzione, demanda ai direttori delle carceri di attrezzarsi per mettere a disposizione spazi dedicati ai colloqui privati tra detenuti e persone con cui abbiano relazioni affettive stabili. Circa 17mila potenziali beneficiari - “Si può ipotizzare che, a fine dicembre 2024, fossero almeno 16.912 i potenziali beneficiari del diritto ai colloqui riservati”, si legge nella circolare del Dap con le linee guida. Nella quale si sottolinea come le richieste di colloqui intimi debbano essere valutate caso per caso, considerando non solo la stabilità della relazione, ma anche la condotta del detenuto e le esigenze di sicurezza, prevedendo anche una dichiarazione congiunta delle parti e documentazione a supporto del legame affettivo. Nel rispetto della privacy - “Il detenuto che ha usufruito del colloquio in intimità mi ha detto che due agenti donne hanno accompagnato sua moglie nella stanza. Lui, dopo l’incontro, era molto contento anche del modo in cui si è svolto, mi ha detto che il personale è stato molto gentile e ha rispettato la loro privacy, che lui non ha avuto nessun tipo di imbarazzo”, continua Favero. La stanza in cui si svolgono i colloqui non può essere chiusa dall’interno. “Nella stanza ci sono un letto matrimoniale, un televisore, un bagno. Il detenuto mi ha spiegato che questi incontri, della durata di un paio d’ore, si fanno il lunedì per garantire la riservatezza, poiché la stanza è adiacente a quella dei colloqui. La perquisizione non è stata fatta alla moglie ma a lui, all’ingresso e all’uscita, come avevamo consigliato noi”. Nel carcere di Padova è stata allestita una stanza, “se si vuole lo spazio in un istituto di pena per i colloqui in intimità si trova: che sia un locale o un prefabbricato da predisporre”. Credito di imposta per l’assunzione di detenuti: domande entro il 31 ottobre fiscooggi.it, 9 ottobre 2025 Nel panorama delle politiche di reinserimento sociale, il legislatore ha previsto una serie di agevolazioni fiscali e contributive rivolte alle imprese che scelgono di assumere persone detenute. Le imprese che assumono detenuti, sia internati che ammessi al lavoro esterno, devono presentare richiesta di credito di imposta entro il prossimo 31 ottobre. La richiesta va indirizzata alla direzione dell’istituto penitenziario dal quale hanno attinto personale. Si tratta di quelle aziende e imprese cooperative che hanno stipulato una convenzione con l’Amministrazione penitenziaria per assumere detenuti (sia internati che ammessi al lavoro esterno). Le regole di base - Nel panorama delle politiche di reinserimento sociale, il legislatore nazionale ha previsto una serie di agevolazioni fiscali e contributive rivolte alle imprese che scelgono di assumere persone detenute. Queste misure, previste dalla legge n. 193/2000, nota come “legge Smuraglia”, mirano a favorire il lavoro come strumento di riabilitazione, offrendo al tempo stesso vantaggi concreti alle aziende. Le imprese possono accedere agli incentivi se assumono detenuti o internati all’interno degli istituti penitenziari, oppure se impiegano soggetti ammessi al lavoro esterno secondo quanto previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Anche le persone in semilibertà rientrano nell’agevolazione. In particolare, l’azienda deve stipulare una convenzione con l’istituto penitenziario di riferimento, garantire un contratto di lavoro subordinato per almeno trenta giorni e assicurare una retribuzione conforme ai contratti collettivi nazionali. La convenzione regola diversi aspetti, tra cui l’utilizzo gratuito di locali e attrezzature, le spese sostenute dal carcere, le responsabilità civili, le modalità di accesso e ispezione da parte del personale dell’istituto, oltre alla durata e alla risoluzione dell’accordo. Il vantaggio fiscale - Oltre al vantaggio economico derivante dalla riduzione dei costi fissi, l’impresa può beneficiare di un credito d’imposta mensile per ogni lavoratore assunto. L’importo varia in base alla condizione del detenuto: è più elevato per chi lavora all’interno o all’esterno del carcere (520 euro) e leggermente inferiore per le persone semilibere (300 euro). In caso di contratto part-time, il credito è proporzionale alle ore effettivamente lavorate. Il beneficio fiscale continua anche dopo la fine della detenzione, per un periodo che può arrivare fino a ventiquattro mesi, a seconda del regime detentivo precedente. Le agevolazioni si estendono anche alle attività formative, purché seguite da un’assunzione immediata per un periodo pari almeno al triplo della durata della formazione. Tuttavia, non sono ammesse le imprese che abbiano stipulato convenzioni con enti locali per attività formative. Per ottenere il credito d’imposta, le aziende devono presentare una richiesta entro il 31 ottobre di ogni anno alla direzione dell’istituto penitenziario. La procedura prosegue con l’invio delle istanze ai provveditorati regionali e, successivamente, al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che entro il 15 dicembre comunica l’importo massimo spettante a ciascuna impresa. L’elenco dei beneficiari viene pubblicato sul sito del ministero della Giustizia e trasmesso all’Agenzia delle entrate. Il credito può essere utilizzato in compensazione tramite modello F24, esclusivamente attraverso i canali telematici dell’Agenzia, e non concorre alla formazione della base imponibile. Il vantaggio contributivo - Sul fronte contributivo, sono ridotte del 95% le quote a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori relative alle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute ai detenuti o internati assunti all’interno degli istituti penitenziari (da imprese private e cooperative) e quelle dovute ai detenuti ammessi al lavoro all’esterno (in questo caso l’agevolazione vale solo per le imprese cooperative). Anche questo beneficio si può estendere oltre la fine della detenzione, per un periodo variabile (18 o 24 mesi) in base al tipo di regime al quale i detenuti erano sottoposti. Magistrati onorari, per l’Italia c’è il deferimento alla Corte di giustizia. E una nuova procedura di Ezio Baldari eunews.it, 9 ottobre 2025 Un’infrazione avviata nel 2021 ne genera una seconda che si aggiunge alla prima. Nel mirino leggi nazionali mai cambiate. Magistrati onorari e giungla contrattuale, l’Italia non ha adeguato il proprio ordinamento e adesso scatta il deferimento alla Corte di giustizia. La Commissione europea ha concesso almeno quattro anni per risolvere un problema fin qui mai risolto, e l’Italia ha pure beneficiato del ‘fattore Draghi’: nel 2022 una lettera di messa in mora supplementare ha di fatto ritardato il processo di infrazione avviato nel 2021, ma poi niente è stato fatto, e allora la decisione di procedere per le vie legali. Le contestazioni per l’Italia sono sempre le stesse: mancato allineamento della legislazione nazionale applicabile ai magistrati onorari al diritto del lavoro dell’Ue. La Commissione ritiene che le norme nazionali continuino a non essere conformi alla direttiva sul lavoro a tempo determinato, alla direttiva sul lavoro a tempo parziale e alla direttiva sull’orario di lavoro. La prima esorta i governi a prevenire gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato, la seconda vieta la discriminazione ingiustificata dei lavoratori a tempo parziale, la terza stabilisce norme minime in materia di riposo giornaliero e settimanale, e ferie retribuite. Il problema è che in Italia diverse categorie di magistrati onorari (giudici onorari di pace, vice procuratori onorari e giudici onorari di tribunale) non godono dello status di ‘lavoratore’ in base al diritto nazionale italiano e sono considerati volontari che prestano servizio a titolo ‘onorario’. Ne deriva che queste categorie di magistrati onorari ricevono un trattamento meno favorevole rispetto ai giudici togati in termini di indennità per malattia, infortunio e gravidanza, trattamento fiscale, e ferie annuali retribuite. Il deferimento e la nuova procedura - Per il governo la situazione si complica alla luce della decisione di Commissione di operare la distinzione tra prima 15 agosto 2017 e dopo 15 agosto 2017. Il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia dell’UE riguarda i magistrati onorari assunti dopo quella data. Per i giudici onorari in attività e in carica prima di ferragosto 2017 valgono altre norme ancora, creando di fatto una situazione di discriminazione tra figure professionali uguali. Per questo l’esecutivo comunitario decide di inviare una lettera di messa in mora tutta nuova che fa sì che adesso si portano avanti due procedure di infrazione distinte. Sciopero per Gaza, il Ministero chiede i nomi dei magistrati che hanno aderito di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 9 ottobre 2025 “Nessun intento punitivo, solo routine”. È un caso la richiesta arrivata dal ministero della Giustizia sulle adesioni allo sciopero del 3 ottobre. Il ministero della Giustizia ha chiesto ai dirigenti di tutti gli uffici giudiziari italiani di “comunicare a questo ministero il numero di magistrati eventualmente aderenti, e la percentuale di adesione per distretto, allo sciopero indetto” il 3 ottobre dalla Cgil e da Usb dopo l’abbordaggio israeliano alle barche italiane della Global Sumud Flotilla, “nonché di comunicare alle sole ragionerie territoriali competenti il nominativo dei magistrati che hanno partecipato allo sciopero, allo scopo di effettuare la dovuta ritenuta stipendiale”. Richiesta singolare, a prescindere da come se ne giudichi l’opportunità o meno, perché per definizione nessun magistrato avrebbe potuto scioperare venerdì scorso (cioè astenersi dalle udienze e dal lavoro in ufficio) aderendo all’agitazione indetta da Cgil contro “l’estrema gravità” dell’”attentato all’incolumità dei lavoratori e dei volontari imbarcati” sulle “navi civili” bersaglio di “aggressione armata l’1 ottobre”, e dall’Usb-Unione sindacale di base “per esprimere solidarietà agli attivisti della Flotilla e continuare a denunciare il genocidio palestinese”. Infatti il diritto di proclamare l’astensione totale o parziale dei magistrati dalle proprie funzioni è esercitato nei limiti e alle condizioni del “Codice di autoregolamentazione” dell’Associazione nazionale magistrati, valutato idoneo nel 2001 e 2004 dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali: i magistrati possono cioè astenersi dalle udienze solo se a proclamarla è l’Anm, solo se viene dato un preavviso di dieci giorni, solo se l’astensione non eccede i tre giorni e non ce n’è stata già un’altra nei 30 giorni precedenti, e senza che siano ammesse forme parziali di astensione dalle attività giudiziarie su base distrettuale di singole articolazioni interne ai vari uffici. Se questa circostanza è immaginabile sia ben presente a magistrati quale sempre rivendica di essere il ministro Nordio e quali sono molti dirigenti di uffici di vertice di via Arenula, allora perché il ministero ha deciso fare lo stesso agli uffici giudiziari questo tipo di richiesta, attraverso un dispaccio della neocapo del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, Lisa Di Domenico? Il ministero, interpellato, nega qualunque intento punitivo in una richiesta che ridimensiona a routine, e indica come premessa della richiesta il fatto che per esempio alcuni magistrati, quelli che si riconoscono nella corrente di Magistratura democratica, avessero dichiarato di aderire allo sciopero del 3 ottobre. Se però si consulta il documento dell’esecutivo di Md del 2 ottobre, è agevole cogliere che vi si annunciava non lo sciopero, cioè l’astensione dalle udienze, ma l’adesione alla mobilitazione (traducibile nella partecipazione a manifestazioni, convegni, flash mob): “Magistratura democratica aderisce e partecipa alla mobilitazione indetta dai sindacati dei lavoratori per la giornata del 3 ottobre 2025 a sostegno del rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale anche a Gaza”. E difficile pare anche parlare di richieste di routine: il 27 febbraio il ministero aveva sì chiesto quanti magistrati avessero scioperato, ma era appunto lo sciopero Anm contro la riforma costituzionale della giustizia, mentre non si ha memoria di analoghe richieste ministeriali ai magistrati in occasioni di tutti (e i tanti) scioperi generali proclamati negli anni scorsi dai sindacati dei lavoratori. Test psicoattitudinali alle toghe, lo studio: “Nessuno rischio” di Simona Musco Il Dubbio, 9 ottobre 2025 Il report della nona commissione del Csm: “La novità legislativa non è in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza”. L’adozione dei test psicologici per i magistrati non appare in conflitto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura, purché sia garantita la trasparenza del processo, la protezione dei dati e la possibilità di ricorso in caso di esito negativo. È quanto emerge da un’analisi comparativa condotta dalla Nona Commissione del Consiglio superiore della magistratura, che ha analizzato le prassi di diversi ordinamenti europei nella selezione e nella carriera dei magistrati. Lo studio - che verrà analizzato nel corso del prossimo plenum - è stato realizzato nell’ambito della Rete europea dei Consigli di giustizia (Encj) attraverso un questionario diffuso ai Paesi membri, nel contesto della riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta dal decreto legislativo 44 del 2024. Riforma che prevede, a partire dai concorsi banditi successivamente al 31 dicembre 2025, una nuova fase: il colloquio psico-attitudinale, appunto, volto a verificare l’assenza di condizioni di inidoneità alla funzione giudiziaria, “in un’ottica di garanzia dell’indipendenza, imparzialità ed autonomia della magistratura”. Dalla comparazione emerge un panorama molto eterogeneo. In Finlandia, nel processo di selezione dei magistrati si ricorre a colloqui e valutazioni psicologiche condotti da psicologi specializzati, volti a verificare attitudini, equilibrio mentale e capacità di leadership, soprattutto per le posizioni di vertice. Nel corso della carriera, valutazioni psicologiche sono previste solo per incarichi dirigenziali e la salute mentale dei magistrati è tutelata da un accesso uniforme all’assistenza sanitaria sul lavoro, comprensiva del supporto psicologico. In Germania, le valutazioni psicologiche - condotte da ufficiali pubblici dell’ufficio sanitario competente - possono avvenire solo in casi specifici, ad esempio quando sorgono dubbi sull’idoneità al servizio. Ogni Land dispone inoltre di commissioni per la gestione della salute sul lavoro, incaricate di promuovere strategie di prevenzione e sostegno al benessere mentale. In Spagna, il sistema non prevede test psicologici né per l’ingresso nella magistratura né durante la carriera, sebbene in passato siano state avanzate proposte legislative - mai approvate - per introdurli nella fase di accesso alla Scuola giudiziaria. Tuttavia, il Consiglio generale del potere giudiziario (Cgpj) ha adottato misure di prevenzione e tutela della salute mentale dei magistrati, indicate nel documento “La Protección Social de la Carrera Judicial” del 2021. Nel febbraio 2024, la Commissione nazionale per la salute e la sicurezza ha proposto l’aggiornamento del sistema di monitoraggio dei rischi e la redazione di un Risk prevention plan, volto a valutare i carichi di lavoro e migliorare le condizioni di benessere dei giudici, introducendo linee guida per la salute mentale negli uffici giudiziari. In linea generale, in Spagna tali strumenti sono considerati utili per migliorare la salute e la qualità della carriera giudiziaria e per rafforzare l’autonomia e il prestigio della magistratura, purché fondati su regole fisse e predeterminate che evitino discrezionalità. In Svezia e Slovenia non esistono procedure di valutazione psicologica obbligatorie per la magistratura. In Svezia, però, sono previsti test logici e orali per gli incarichi dirigenziali e l’accesso a medici e psicologi del tribunale in caso di stress o turbamento legato alla funzione. In Norvegia, test psicologici e di gestione sono richiesti solo per i presidenti dei tribunali, con l’intenzione di estenderli anche ai giudici ordinari. In caso di problematiche di salute mentale, la Corte, con il supporto dell’amministrazione giudiziaria, può attivare procedure di confronto e intervento interno. In Danimarca, test o corsi di prova condotti da psicologi autorizzati vengono utilizzati solo per i candidati a posizioni di vertice, su decisione del Consiglio per le nomine giudiziarie. Non sono invece previsti ulteriori test durante la carriera. In Ungheria e Lituania, i test psicologici sono un requisito per l’ingresso nella magistratura e valutano idoneità, personalità, intelligenza e caratteristiche psicologiche rilevanti. In Lituania sono previsti anche controlli periodici ogni cinque anni. In Ungheria, ulteriori valutazioni psicologiche possono essere effettuate solo in caso di inidoneità medica o comportamentale, e in caso di esito negativo è prevista la possibilità di revisione. La Croazia richiede un test iniziale per tutti i candidati alla magistratura, seguito da colloqui e valutazioni del lavoro pregresso. La Bulgaria, invece, non prevede alcuna valutazione psicologica. La Romania rappresenta un caso particolarmente articolato: i test psicologici sono obbligatori sia per l’ingresso nella magistratura che per le nomine dirigenziali e vengono ripetuti ogni cinque anni. Il sistema, sviluppato attraverso il progetto Cpci, utilizza questionari e piattaforme informatiche dedicate per garantire la riservatezza e la tracciabilità dei dati. Le prove valutano competenze cognitive, tratti di personalità, gestione dello stress e capacità relazionali; in caso di esito negativo, è previsto un programma di consulenza o la possibilità di nuova perizia e riesame. Nei Paesi Bassi, i test sono utilizzati nella fase di selezione dei magistrati per valutare attitudini, equilibrio mentale e potenziale di crescita, ma non per identificare psicopatologie. Durante la carriera, la valutazione psicologica è prevista solo per avanzamenti a posizioni di responsabilità, anche a fini di formazione personalizzata. Infine, altri Paesi europei come Belgio, Lussemburgo, Repubblica Ceca e Portogallo prevedono test psicologici e colloqui nei processi di selezione, generalmente finalizzati a valutare competenze cognitive, attitudini personali e capacità relazionali dei candidati, con modalità e livelli di approfondimento variabili. Insomma, in Europa i test non rappresenterebbero modelli di profilazione psicologica dei magistrati, ma solo strumenti di verifica dell’idoneità e di tutela del benessere psichico. E se regolati da criteri chiari e garanzie di riservatezza e ricorso sono perciò compatibili con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e possono anzi rafforzarne il prestigio e la qualità professionale. Ora tocca al plenum stabilire se, alla luce di queste esperienze, anche l’Italia può davvero sentirsi al sicuro nell’introdurre i test psico-attitudinali per i futuri magistrati. E una proposta potrebbe essere quella di spostare il test psico-attitudinale al termine del tirocinio di 18 mesi, su segnalazione dei magistrati affidatari che hanno osservato il candidato sul campo, per evitare un controllo generalizzato iniziale e verificare l’idoneità psichica alle funzioni dopo un effettivo “stress test” operativo. Giovanni Zaccaro: “Maggioranza garantista con i potenti e spietata con i deboli” di Angela Stella L’Unità, 9 ottobre 2025 Intervista al segretario di Area democratica per la giustizia, la corrente di sinistra delle toghe, alla vigilia del V congresso: “Non facciamo opposizione, abbiamo il dovere di spiegare i rischi della riforma”. Le carceri? “Oggi la pena è fuori dalla Costituzione, servono provvedimenti clemenziali”. I diritti e la giurisdizione: se ne parla a Genova dove Area democratica per la giustizia ha programmato il suo V congresso da venerdì 10 a domenica 12. Ne parliamo con il Segretario, Giovanni Zaccaro. Il titolo della tre giorni è “La forza e il diritto”. Ma allora che ne pensa di quello che ha detto il Ministro Tajani in merito alla Sumud Flotilla e cioè che “quello che dice il diritto è importante ma fino a un certo punto”? Mi auguro che sia una gaffe del ministro. Altrimenti sarebbe la sconfessione della Costituzione del nostro Paese, sulla quale tutti giuriamo. Mi dica se sbaglio ad interpretare: non sarebbe stato meglio titolare diritto versus forza? Che messaggio volete lanciare? I diritti e la giurisdizione, praticata da avvocati e magistrati, autonomi ed indipendenti, sono l’argine all’uso della forza. Sin dall’antichità, il diritto è la garanzia dei più deboli nei confronti dei più forti. Oggi sembra vincere la forza delle armi nei confronti del diritto dei popoli, la forza delle maggioranze nei confronti dei diritti delle minoranze. Però chi prende i diritti sul serio, magistrati, avvocati, accademia, devono fare argine. Landini (Cgil), Filomena Gallo (Ass. Coscioni), Rita Bernardini (NTC), don Mattia Ferrari (cappellano Mediterranea ‘Human Rights’). Attraverso queste testimonianze volete far emergere una vostra precisa idea politica sui diritti? Ciascuno dei nostri ospiti rappresenta un mondo in cui i diritti sono negati o sacrificati: il lavoro, i temi del fine vita, il carcere, i migranti ed i richiedenti asilo. Noi siamo magistrati ma non siamo autoreferenziali, ci interessa ragionare soprattutto su chi non ha diritti oppure li ha solo sulla carta. Nelle ultime settimane da diversi Ministri - Musumeci, Zangrillo, Nordio, Piantedosi - sono risuonate pesanti critiche verso voi magistrati. Sareste dei “killer” e che se sbagliate dovete “cambiare mestiere”. Vi sentite sotto attacco o lei ritiene che sia quasi ‘fisiologico’ questo linguaggio in vista del referendum costituzionale? Faccio il giudice da tanti anni, quando in aula una parte usa un linguaggio così aggressivo vuol dire che non ha argomenti più seri. Mi pare che un linguaggio così volgare sia frutto del nervosismo dei sostenitori della riforma Nordio, che sanno di avere torto. I sondaggi dicono che i cittadini sono consapevoli che la riforma serve a condizionare l’operato dei magistrati e non a migliorare il servizio di giustizia e soprattutto che non ci sarà un plebiscito a favore della riforma ma anzi che la partita è in bilico (Sondaggio BiDiMedia commissionato da AreaDg: 33% del campione a favore della riforma, 30% contrario, ndr). Tra gli interventi di sabato quello della Segretaria del Pd Elly Schlein, del leader del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, del segretario di +Europa Riccardo Magi. Nonostante i risultati elettorali alle regionali lei ritiene che questo fronte possa davvero essere forte e compatto per sostenere insieme a voi la campagna in vista del referendum costituzionale? Non ci interessa quel che fanno le forze politiche. A noi interessa spiegare ai cittadini che il referendum contro la riforma Nordio non è questione di destra o di sinistra, di governo o di opposizione. Riguarda invece il modello giudiziario che si vuole realizzare. Se si vuole correre il rischio che chi vince le elezioni decida quali processi fare, allora bisogna votare sì. Se si vuole sottrarre alla politica ogni forma di condizionamento della giurisdizione penale, bisogna votare no. In un recente intervento il vice presidente del Csm Fabio Pinelli ha detto: “la magistratura non deve perdere la propria radice costituzionale mescolandosi, sino a confondersi, con l’opposizione politica che legittimamente gioca il proprio ruolo, come fisiologico nelle democrazie”. Non esiste secondo lei questo rischio considerato che l’Anm ha costituito un comitato per il No e usa gli stessi argomenti dei partiti di opposizione? Questa volta concordo con l’avvocato Pinelli. A noi non interessa fare opposizione all’attuale maggioranza, abbiamo però il dovere di spiegare i gravi rischi della riforma Nordio. L’avremmo fatto anche se fosse stata proposta da altre forze politiche. È previsto (per ora in collegamento da quanto appreso dal suo staff) l’intervento del ministro Nordio: cosa gli chiederà? Il ministro Nordio è un vecchio liberale. Ascolterà le nostre ragioni e magari cambierà di nuovo idea. Prima era contrario alla separazione poi è diventato favorevole, speriamo che torni a essere contrario. Magari, oltre a perdere tempo appresso alla riforma, potrà cercare soluzioni concrete al dramma della durata dei processi. Lo incalzerà anche sul tema carceri, considerato che quando dialogava con Marco Pannella si diceva pure a favore di provvedimenti di clemenza che ora giudica come una resa dello Stato? Le condizioni carcerarie italiane sono uno scandalo. La pena deve essere giusta ma deve essere anche legale. Non è conforme a legge ed a Costituzione una pena scontata nelle carceri così come sono ora. Servono misure immediate, provvedimenti clemenziali per categorie di reati o di imputati. Temo però che la maggioranza parlamentare sia garantista solo con i potenti e spietata con i deboli. Sul caso Almasri il colpo di mano della maggioranza di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 ottobre 2025 Oggi alla Camera la relazione che salva i ministri dall’indagine: “Agito per interesse pubblico, c’era il rischio di rappresaglie”. La strada incerta per scudare Bartolozzi: si va verso il conflitto d’attribuzione. Sono due le partite che si giocano stamattina alla Camera sul caso Almasri. Una si sa già come va a finire: la maggioranza voterà la relazione del forzista Pietro Pittalis e alzerà lo scudo parlamentare contro la richiesta d’autorizzazione a procedere per il sottosegretario Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. L’altra, invece, è più incerta: per Pittalis la volontà di procedere per via ordinaria contro la capa di gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi - indagata per false informazioni rese ai pm - “determina un pregiudizio concreto alle prerogative costituzionali della Camera” ai sensi della legge sui reati ministeriali. In altre parole, lo scudo andrebbe esteso anche a lei. Su questo punto, per la verità, ci si interroga da diverse settimane e i pareri dei costituzionalisti divergono tra loro. C’è chi ritiene che l’ombrello dei reati ministeriali vada allargato anche ai funzionari; chi sostiene che se Mantovano, Nordio e Piantedosi hanno agito nell’interesse dello Stato, lo stesso si vale pure per Bartolozzi; e c’è chi, come il tribunale dei ministri che aveva già valutato le varie opzioni e deciso di rimandare gli atti alla procura di Roma per competenza, pensa che le posizioni vadano distinte: Bartolozzi, del resto, non è indagata per qualcosa che ha fatto durante il soggiorno italiano del ricercato internazionale Osama Almasri, tra il 19 e il 21 gennaio, ma per fatti avvenuti successivamente, cioè per aver fornito una versione dei fatti “inattendibile e mendace” il 31 marzo, quando è stata assunta a sommarie informazioni. Si vedrà. La maggioranza appare intenzionata ad aprire un conflitto d’attribuzione attraverso la presidenza della Camera (è la prassi), ed è altamente probabile che alla fine sarà la Corte costituzionale a decidere il da farsi. La speranza, per la destra, è che i tempi si dilunghino, anche se il rischio è che la bomba finisca con l’esplodere durante la campagna per il referendum sulla giustizia della prossima primavera. I lavori della Consulta sono però imperscrutabili ed è impossibile fare ipotesi di calendario. Ad ogni modo, per Pittalis, la Camera oggi deve votare contro la richiesta di autorizzazione a procedere perché non ci sarebbero dubbi sul fatto che “l’operato dei ministri sia stato ispirato esclusivamente dall’intento di perseguire l’interesse pubblico alla massima salvaguardia della sicurezza degli italiani (in patria e all’estero) e non certo, come sostiene il tribunale dei ministri, dal fine illecito di aiutare Almasri ad eludere le indagini della Cpi”. Sarebbe bastato un atto - peraltro sollecitato dall’allora capo del Dipartimento affari di giustizia Luigi Biritteri - per convalidare il fermo del libico ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Non è stato fatto per motivi di sicurezza nazionale. Infatti, prosegue il deputato nella sua relazione, “gli esponenti di governo indagati, insieme ai loro più stretti collaboratori e ai vertici della sicurezza interna e internazionale, furono costretti ad assumere decisioni di particolare gravità e rilevanza in un arco temporale di poco inferiore alle quarantotto ore”. Del resto, “il rischio di rappresaglie nei confronti degli interessi italiani in Libia era non soltanto concreto, ma anche immediato e altamente plausibile”. Per la verità, però, il direttore dell’Aise Gianni Caravelli, quando venne ascoltato dalle tre giudici del tribunale dei ministri, parlò di valutazioni fatte “in chiave prognostica” e negò di “aver ricevuto notizia di specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani in Libia”. Frasi che Pittalis non cita, come se non fossero mai state pronunciate. Anche se sono agli atti. E l’ormai celebre informativa di Nordio e Piantedosi del 5 febbraio? In quella sede i ministri diedero alle camere delle versioni piuttosto fantasiose sulla liberazione e il rimpatrio di Almasri. Spiega Pittalis: “Non è sostenibile che il governo abbia mentito al parlamento: esso ha selezionato in seduta pubblica il profilo motivazionale divulgabile e ha preservato, come l’ordinamento consente e talora impone, il circuito informativo sui possibili rischi”. Mentire, dunque, era consentito. Forse era addirittura necessario. Chi ne abbia tratto beneficio è sotto gli occhi di tutti. Noury (Amnesty): “La morte di Squeo è sospetta, non può essere archiviata” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 9 ottobre 2025 “Spostare l’attenzione sulla vita delle vittime è utile a chi vuole proteggere presunti comportamenti illegali della polizia”. Ilaria Cucchi ha presentato sul caso un’interrogazione. Franca Pisano, la madre di Igor: “Rendere pubbliche le foto del corpo è stata una decisione dolorosa. Ma dopo oltre tre anni di inerzia da parte delle istituzioni non abbiamo avuto scelta. Spero questo possa aiutarci a ottenere la verità sulla morte di mio figlio. Il silenzio di questi anni e stato assordante”. La vicenda del decesso di Igor Squeo durante un intervento di polizia a Milano, raccontata su Domani, finisce in Parlamento. Ilaria Cucchi, senatrice di Avs, ha annunciato un’interrogazione urgente ai ministri dell’Interno, della Salute e della Difesa perché facciano chiarezza sui tanti punti oscuri che ancora circondano la morte del 33enne. Anche Amnesty International sta seguendo da vicino la questione, come spiega il portavoce italiano Riccardo Noury. Noury, che idea si è fatto sulla morte di Igor Squeo durante un intervento di polizia a Milano? Molte cose non tornano. Ci sono ricostruzioni e testimonianze che si contraddicono, la scheda elettronica de taser che si è rotta e “di conseguenza” è stata distrutta, azioni discutibili sul trattamento sanitario, come la somministrazione di un potente sedativo nonostante il livello di ossigenazione di Squeo fosse sopra il livello di guardia. E ora anche immagini che raccontano una verità diversa da quella delle ferite auto-inflitte. Il tutto pare funzionale a un obiettivo: archiviare. Dunque evitare un dibattimento processuale sull’accertamento di eventuali responsabilità lasciando le famiglie senza una risposta alla domanda: “Perché?”. C’è poi una pericolosa narrazione che accompagna storie come questa e che chiama in causa anche parte dell’informazione. La distinzione tra “vittime buone” e “vittime cattive”, alle quali viene attribuita una responsabilità per la propria morte. Questa distinzione, che nasce nel 2001 con l’uccisione di Carlo Giuliani, sposta l’attenzione sull’operato della vittima e non sul presunto comportamento illegale da parte delle forze di polizia. Nella ricostruzione dei medici si parla di soffocamento sotto il peso degli agenti. È una storia già vista? Sì, è la storia di Riccardo Magherini, deceduto a Firenze il 3 marzo 2014 a seguito di una tecnica d’immobilizzazione poi nota al mondo a seguito della morte negli Usa di George Floyd: la famosa manovra di fermo che comprime il torace e produce soffocamento. Quella che, per ricordare un altro caso, ha determinato la morte di Andrea Soldi a Torino, il 5 agosto 2015, per inciso anche destinatario di un Tso del tutto illegale. Dopo la morte di Magherini si era detto che quella manovra sarebbe stata vietata: un anno e mezzo dopo è stata usata contro Soldi, otto anni dopo contro Squeo. In Italia non ci sono dati ufficiali sulle morti durante fermi di polizia. Perché così poca trasparenza? Perché c’è un’abitudine a non rendere conto. Al parlamento, all’informazione, all’opinione pubblica. C’è la narrazione delle “vittime cattive”, per cui “qualcosa avranno pur fatto”. C’è, soprattutto da parte di alcuni sindacati di polizia, la stigmatizzazione come “partito dell’antipolizia” di coloro che chiedono unicamente che si accertino le responsabilità di singoli funzionari dello stato, tutelando la reputazione dei corpi di appartenenza. Tutto ciò fa sì, per esempio, che l’Italia sia uno dei pochissimi stati dell’Unione europea a non avere ancora una norma che preveda i codici identificativi per le forze di polizia. Amnesty International ha lanciato questa campagna nel 2011. Da allora, si sono dati il cambio parlamenti e governi di segno diverso ma siamo ancora al punto di partenza. Come si possono evitare decessi come quelli di Igor Squeo? Attraverso la formazione delle forze di polizia sugli standard internazionali sull’uso della forza, tecniche di immobilizzazione e taser comprese. A quest’ultimo proposito, dopo i cinque morti del 2025, quattro dei quali nell’ultimo mese e mezzo, viene da chiedersi da cosa dipenda l’aumento del numero delle vittime: dalla maggiore diffusione di queste armi? Dalla errata definizione di “armi non letali” o “meno letali”, che ne favorisce la normalizzazione e un uso più disinvolto? La famiglia ha deciso di affidare a Domani la pubblicazione delle foto del corpo del ragazzo. Qual è il potere delle immagini in casi come questo? In un paese dove le istituzioni avessero davvero a cuore la ricerca della verità e della giustizia e dunque fossero accanto ai familiari di vittime di violazioni dei diritti umani, i parenti di queste ultime non dovrebbero mai essere costretti ad arrivare al punto di rendere pubbliche immagini del genere per dare stimolo alle indagini o, come in questo caso, evitare il secondo tentativo di archiviazione. Eppure è successo, più volte, così come è successo che - anche senza diffondere le immagini - le famiglie abbiano dovuto rinunciare al lutto per diventare attiviste per i diritti umani. Si tratta in larghissima parte di sorelle, madri, mogli, ex mogli, figlie e nipoti, che hanno sfidato lo stereotipo della “donna silente e piangente” e sono diventate promotrici di campagne per la verità e la giustizia. Anan Yaeesh in sciopero della fame nel carcere: l’accusa di terrorismo è un’enorme ingiustizia di Dalia Ismail Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2025 Il suo, come denuncia l’avvocato Giuseppe Romano dei Giuristi Democratici, “è un vero e proprio processo alla resistenza palestinese in Cisgiordania”. Da sabato 4 ottobre Anan Yaeesh, cittadino palestinese detenuto nel carcere di Melfi, ha iniziato uno sciopero della fame. Lo ha fatto - spiega il Comitato Free Anan - “in solidarietà con le mobilitazioni italiane per la Palestina, in particolare con quella di Roma dello stesso giorno, quando oltre un milione di persone è sceso in piazza contro il genocidio del popolo palestinese, e per riaffermare i propri diritti violati”. Un processo che, come denuncia l’avvocato Giuseppe Romano dei Giuristi Democratici, “è un vero e proprio processo alla resistenza palestinese in Cisgiordania”. Yaeesh è una figura conosciuta in Palestina: da adolescente, dopo aver perso la fidanzata uccisa da un soldato israeliano, decise di unirsi alla lotta politica e militare della Resistenza. “È accusato di essere un membro attivo della resistenza palestinese in Cisgiordania, in particolare nella città di Tulkarem da cui proviene”, ha spiegato l’avvocato Flavio Rossi Albertini del Foro di Roma, che fa parte del Collegio di difesa. Dopo anni di detenzioni, torture e tentativi di assassinio da parte di Israele, Yaeesh lasciò la Palestina nel 2013, trovando rifugio in Europa e infine in Italia, dove gestiva un piccolo ristorante a Mestre. “Signor Giudice, in passato sono stato sottoposto decine di volte alla tortura. Sono stato vittima di tentati assassinii da parte di Israele, in Palestina e all’estero. Nel mio corpo vi sono 11 proiettili e oltre 40 schegge, non ho un osso che non sia stato rotto”, ha raccontato Yaeesh in una dichiarazione spontanea in aula. Quando Israele ha chiesto la sua estradizione, il governo italiano ha immediatamente accolto la richiesta. È stata poi la Corte d’Appello a fermare tutto, riconoscendo che in caso di consegna a Israele avrebbe subito torture e trattamenti disumani, come documentato ampiamente dall’Ong Addameer e dalle testimonianze dei prigionieri politici palestinesi. Ma pochi giorni dopo, la Procura dell’Aquila ha avviato un nuovo procedimento, accusandolo di aver promosso nella Cisgiordania occupata un gruppo armato chiamato “Rapid Response Brigades of Tulkarem”, usando l’articolo 270 bis del codice penale, che punisce chi promuove o partecipa ad associazioni con finalità di “terrorismo internazionale”. Una manovra chiaramente politica, basata solo sull’alleanza tra Italia e Israele, considerando che, geopoliticamente e secondo il diritto internazionale, non esiste alcuna definizione precisa di “terrorismo”. Un’enorme ingiustizia, che viola i principi umani e del diritto internazionale, basata sul razzismo antipalestinese, molto diffuso in Italia e che noi palestinesi proviamo sulla nostra pelle ogni giorno. Secondo l’avvocato Giuseppe Romano, questa scelta “riproduce in Italia l’ingiustizia che da decenni colpisce i palestinesi nei territori occupati”. La militanza di Anan Yaeesh nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, ala armata di Fatah impegnata nella resistenza contro l’occupazione israeliana, gli aveva impedito di ottenere lo status di rifugiato, pur consentendogli di accedere alla protezione speciale. Romano richiama un precedente emblematico: quello di Abdullah Öcalan, leader del movimento curdo Pkk, che nel 1999 l’Italia non estradò in Turchia proprio per il rischio di tortura e di condanna a morte, riconoscendogli tuttavia il diritto alla protezione internazionale. Allo stesso modo, nel caso di Yaeesh, lo Stato italiano ha bloccato la richiesta di estradizione avanzata da Israele ma negandogli lo status di rifugiato politico a causa della sua appartenenza a un’organizzazione che, pur operando per la liberazione della propria terra contro uno stato occupante, viene classificata come “terroristica” in Europa, per via dei suoi interessi geopolitici con Israele. “Se un profugo ucraino - osserva ancora Romano - avesse sostenuto i connazionali in guerra contro l’invasione russa, lo avremmo processato?”. Yaeesh ha enfatizzato proprio questo punto, quello del doppio standard politico italiano, in aula davanti al giudice, nel marzo 2025. “Sfortunatamente, signor Giudice, ho preso visione delle vostre osservazioni sul caso e, con rammarico, ne ho dedotto che considerate il palestinese terrorista non per la - legittima - resistenza che porta avanti contro uno stato occupante, ma perché riconoscete Israele come uno Stato amico. Se in ballo vi fosse stato un altro paese occupante, la Russia ad esempio, avreste riconosciuto la legittimità della resistenza palestinese. Non mi state processando in base al diritto internazionale, ma in base ai vostri rapporti diplomatici, solo perché Israele è considerato un alleato del governo italiano, un partner commerciale, e ritenete legittime tutte le azioni che esso porta avanti. Tanto vale allora cambiare il nome delle corti internazionali e umanitarie in Corti degli amici”, ha detto. San Nicola Baronia (Av). Detenuto muore nella Rems dopo un pestaggio, aperta un’inchiesta di Lucia Sforza ecaserta.com, 9 ottobre 2025 Si indaga sulle responsabilità e sulla gestione della struttura: la vittima è un 60enne del Casertano deceduto per un trauma cranico. Un grave episodio di violenza avvenuto all’interno della Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria) di San Nicola Baronia ha avuto un tragico epilogo. Un uomo di sessant’anni, detenuto psichiatrico originario della provincia di Caserta, è deceduto presso l’ospedale Moscati di Avellino a seguito di un’aggressione brutale. L’episodio risale al 29 settembre, quando l’uomo è stato colpito ripetutamente da un altro paziente, di 40 anni, con violenti calci e pugni alla testa, riportando un gravissimo trauma cranico. Il personale sanitario in servizio presso la struttura è intervenuto immediatamente. Nonostante il tempestivo tentativo di rianimazione, riuscendo per brevi istanti a riattivare il cuore della vittima, le sue condizioni sono apparse subito disperate. Trasferito d’urgenza all’ospedale Moscati, si era registrato un lieve, fugace, miglioramento che purtroppo non è bastato: l’uomo è deceduto nelle ore successive. La Procura di Benevento ha immediatamente aperto un fascicolo di indagine per fare piena luce sull’accaduto. L’inchiesta non si limiterà ad accertare le responsabilità individuali del 40enne aggressore, ma valuterà anche la gestione della struttura. Da fonti sanitarie, infatti, è emerso che l’ospite ritenuto responsabile dell’aggressione avrebbe manifestato episodi di violenza anche in precedenza, coinvolgendo altri pazienti della Rems. Secondo quanto raccolto e ipotizzato dagli inquirenti, in tali circostanze pregresse non sarebbero stati adottati provvedimenti specifici o misure adeguate a prevenire ulteriori episodi di violenza. L’indagine è volta a chiarire se vi siano state negligenze nella gestione del paziente aggressore che possano aver contribuito al tragico epilogo. Piacenza. Suicidio in carcere, il Gip respinge la richiesta dei domiciliari per tre agenti indagati di Paolo Marino Libertà, 9 ottobre 2025 La procura chiede gli arresti domiciliari per un agente e due assistenti di polizia penitenziaria. Ma il gip rigetta la richiesta. La vicenda è quella della morte di Wajdi Hella, detenuto tunisino di 27 anni, impiccatosi in una cella del carcere di via delle Novate nella notte tra il 29 e il 30 dicembre 2024. Secondo il pubblico ministero Antonio Colonna il decesso poteva essere evitato e per questo ha indagato i tre poliziotti per omicidio colposo (ipotizzando che l’esito fatale potesse essere prevedibile e che siano stati violati i doveri nell’adempimento di una funzione pubblica) e di falso commesso da pubblico ufficiale, aggravato dall’intenzione di occultare il reato di omicidio colposo. Secondo il giudice per le indagini preliminari Erisa Pirgu, mancano tuttavia le condizioni per applicare una misura cautelare nei confronti degli operatori intervenuti quella notte. In primo luogo, non ci sarebbe il rischio di inquinamento delle prove evidenziato dal pm. Inoltre, afferma il giudice, i protocolli d’intervento non sarebbero stati violati. In conclusione, i tre poliziotti rimangono indagati a piede libero. Vercelli. Rivolta in carcere, 23 detenuti davanti al giudice di Andrea Zanello La Stampa, 9 ottobre 2025 Si è aperta l’udienza preliminare: sono accusati delle devastazioni del novembre 2024. Sono 23 i detenuti imputati per la rivolta partita in carcere a Vercelli il 19 novembre del 2024. A vario titolo sono tutti accusati di devastazioni e lesioni. Ieri in tribunale a Vercelli si è aperta l’udienza preliminare: in un caso è già stata avanzata una proposta di patteggiamento. Ma pare che sia la volontà di tutti gli imputati quella di affrontare il giudizio passando da riti alternativi. Si deciderà durante la prossima udienza, in calendario a fine mese. A sostenere l’accusa è il sostituto procuratore Francesco Condomitti. La maggior parte dei detenuti imputati è stata trasferita in altre carceri: alcuni subito dopo gli episodi di violenza partiti poco più di un anno fa a Billiemme. Quattro agenti della polizia penitenziaria erano dovuti ricorrere a cure mediche. Nessuno di loro però si è costituito parte civile, così come l’avvocatura di Stato in rappresentanza dell’istituto penitenziario. Il 19 novembre 2024 i 23 detenuti imputati misero a ferro e fuoco il terzo, il quarto ed il quinto piano del carcere di Vercelli. Diedero fuoco a diverse suppellettili, accatastarono materiale sui cancelli di entrata nei reparti per impedire l’ingresso agli agenti di polizia. Furono momenti di tensione: mancò la corrente, i sistemi di videosorveglianza furono distrutti. Per sedare la protesta intervennero una quarantina di agenti, furono richiamati anche quelli fuori servizio e quelli impiegati in altre carceri. A scatenare la protesta, secondo le ragioni dei detenuti, erano stati il malfunzionamento del riscaldamento del carcere, la gestione delle telefonate e dei permessi di congedo. La rivolta ebbe subito conseguenze, con i sindacati di polizia penitenziaria che si misero sul piede di guerra per la situazione del carcere vercellese. I nuovi agenti - I cronici problemi di organico sembrano però essere in via di risoluzione. Ieri mattina infatti sono entrati in servizio 3 nuovi agenti usciti dagli ultimi corsi di formazione. Entro lunedì ne arriveranno 32 in totale: 15 uomini e 17 donne. Ma non si arriverà comunque a coprire tutti i posti assegnati al carcere vercellese. Sono 28 infatti gli agenti che lasceranno il carcere di Vercelli, quindi l’incremento totale tra addii e partenze sarà di 7 unità. Però a dicembre si terrà un nuovo corso di formazione e in primavera un secondo: per l’estate 2026 l’organico del carcere potrebbe arrivare a pieno regime. Catania. Il Convegno “Riparare e ricostruire: esperienze ed idee dentro e fuori dal carcere” chiesedisicilia.org, 9 ottobre 2025 Si terrà sabato 11 ottobre, a partire dalle ore 10:00, presso l’Aula delle Adunanze del Tribunale di Catania, il convegno dal titolo “Riparare e ricostruire - Esperienze ed idee dentro e fuori dal carcere” promosso dall’Arcidiocesi di Catania, per tramite di numerosi suoi Uffici ed Enti, in collaborazione con il Tribunale di sorveglianza e l’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna della città etnea. Nel programma, dopo gli indirizzi di saluto portati dall’arcivescovo mons. Luigi Renna, dal Presidente della Corte d’Appello, Giovanni Dipietro, dal Procuratore Generale della Repubblica, Carmelo Zuccaro, e dal presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Antonino Distefano, interverranno il gesuita Francesco Occhetta della Pontificia Università Gregoriana, segretario della Fondazione “Fratelli Tutti”, e Maria Rosaria Parruti, presidente del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila. La mattinata di lavori, moderati da Alfio Pennisi, responsabile ufficio Pastorale carceraria dell’arcidiocesi di Catania, vuole - si legge in una nota stampa della diocesi - “discutere di carcere, carcerati, lavoro, dignità, coinvolgendo non solo gli ‘addetti ai lavori’ (magistrati, avvocati, operatori della giustizia) ma la società civile nel suo complesso per rispondere a questioni centrali del nostro tempo che riguardano la natura educativa della pena, la giustizia riparativa, le misure alternative alla detenzione, la funzione del privato sociale e l’interazione con le Istituzioni”. Ad aprire i lavori sarà un video racconto, realizzato per l’occasione, che presenterà cinque esperienze: della Casa di Accoglienza Rosario Livatino, gestita dalla Fondazione Francesco Ventorino, che accoglie tenuti senza dimora per permettergli di usufruire della detenzione domiciliare; della cooperativa sociale “Rigenerazioni Onlus” di Palermo che ha lanciato il progetto “Cotti in fragranza”, il laboratorio di prodotti da forno sorto all’interno del carcere minorile Malaspina del capoluogo isolano; della falegnameria della cooperativa “Ro’ - La formichina” della Comunità Papa Giovanni XXIII, dove lavorano assieme persone con disabilità e ragazzi con procedimenti penali in corso, di “Insieme Onlus”, un’associazione che, dal 2005, attraverso la realizzazione di “Case - famiglia”, accoglie e promuove l’integrazione di persone fragili. L’ultima esperienza sarà vissuta attraverso la testimonianza di Giorgio Bazzega, figlio di Sergio Bazzega, maresciallo ucciso da un brigatista, oggi mediatore penale nei percorsi di giustizia riparativa. Palermo. Dalla condanna per omicidio alla laurea con lode a 70 anni di Silvia Andretti La Sicilia, 9 ottobre 2025 Il percorso di un uomo detenuto all’Ucciardone con una tesi sulle nuove guerre. Si è laureato con il massimo dei voti e la lode mentre un mezzo della polizia penitenziaria lo aspettava fuori dal dipartimento Culture e Società di viale delle Scienze per riportarlo all’Ucciardone. F.G. è il secondo detenuto a conseguire il diploma di laurea triennale grazie al progetto del Polo universitario penitenziario dell’Università degli Studi di Palermo, con una tesi dal titolo “La guerra, le nuove guerre...e la Pace?”. “Voglio continuare a studiare perché in passato non ne ho avuto l’occasione né il tempo - dice il neolaureato - Oggi che sto vivendo in questo limbo, ho chiesto di avere un’opportunità che mi è stata concessa”. A seguire la discussione della tesi nell’aula magna dell’edificio 15 c’erano parenti, amici, colleghi e accademici. “Manca solo mio figlio - si rammarica l’uomo - perché lavora al nord Italia e non è riuscito a prendere giorni di ferie”. Nonostante non sia più un ragazzino, F.G. ha deciso di intraprendere il corso di studi in carcere spinto dalla curiosità: “Mi è sempre piaciuto conoscere e sapere - dice - la curiosità è di tutti quelli che vogliono migliorare”. Il traguardo della laurea triennale in “Studi Globali, Storia, Politiche, Culture” è arrivato alla fine di un percorso di studi impegnativo e tuttavia portato avanti con grande determinazione, con una tesi redatta sotto la supervisione del professor Tommaso Baris sul ritorno dei conflitti armati, sull’evoluzione della guerra nel mondo contemporaneo e sull’urgenza della pace attraverso il diritto internazionale. “Ho analizzato le guerre perché voglio parlare di pace - spiega F.G. . È un argomento più grande di me perché man mano che sviluppavo l’elaborato mi rendevo conto di quanto sia attuale. Parlare di guerra non fa bene, dobbiamo insistere a parlare di pace”. Anche il rettore dell’Università degli Studi di Palermo Massimo Midiri ha assistito alla proclamazione. “Questo nuovo risultato - ha dichiarato - non è solo un traguardo personale per lo studente, ma un segnale concreto della forza trasformativa della cultura. Il percorso universitario di F.G. testimonia l’impegno dell’Ateneo nel dare piena attuazione all’articolo 27 della nostra Costituzione, secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Attraverso l’accesso allo studio, possiamo restituire dignità, creare opportunità e aprire strade nuove anche a chi sta scontando una condanna”. I Poli universitari penitenziari in Sicilia sono stati avviati nel 2021 grazie all’accordo quadro con la Regione Siciliana, in collaborazione con gli atenei di Catania e Messina, il Garante regionale, il Provveditorato e l’Assessorato regionale all’Istruzione e alla Formazione professionale. Oggi a Palermo sono circa quaranta gli iscritti al polo penitenziario, distribuiti fra i due istituti di pena cittadini. Proprio un anno fa si era laureato in Architettura il primo studente, N.C., detenuto al Pagliarelli. “Tutte le attività che possono contribuire al reinserimento sono benvenute - dice Antonino De Lisi, garante regionale dei detenuti - La funzione è duplice: non è solo un traguardo personale per chi beneficia di questo prezioso risultato ma anche uno stimolo per gli altri detenuti. Tutti possono contribuire alla società attraverso un percorso di reinserimento, non necessariamente con una laurea ma anche con obiettivi minori come corsi di formazione professionale e avviamento al lavoro, secondo le capacità e gli interessi di ciascuno”. Adesso F.G., che ha passato gli ultimi anni a prendersi cura della biblioteca dell’Ucciardone, mira alla laurea specialistica in Studi storici, filosofici e antropologici. “In carcere ci sono molte persone che hanno commesso degli errori e che nonostante tutto sono persone degnissime”, conclude. Avellino. Fare ginnastica per ritrovare umanità e dignità: la novità per le detenute di Anita Musto avellinotoday.it, 9 ottobre 2025 Nel reparto femminile della Casa Circondariale di Avellino è stata inaugurata una piccola palestra con l’essenziale per allenarsi. Un gesto che parla di umanità e di attenzione verso i detenuti e le detenute. Nella nostra società, che spesso definiamo “civile”, a pensarci bene di civiltà ce n’è ben poca. Riteniamo - non senza una bella dose di presunzione - di essere evoluti, di guardare al futuro, di marciare uniti verso il progresso. Ma spesso questo non accade. E ce ne rendiamo conto, ad esempio, quando solo poco fa alle detenute del carcere di Bellizzi è stato offerto uno spazio per la salute fisica (oltre che per quella mentale) che avrebbe dovuto essere loro garantito da tempo. Meglio tardi che mai. Una piccola stanza con qualche attrezzo per fare ginnastica - una cyclette, un tapis roulant, un paio di step - è l’ultima novità nel reparto femminile della Casa Circondariale di Avellino. Un luogo in cui le detenute possono sentirsi di nuovo esseri umani, recuperare un briciolo di “normalità” e di benessere. Perché il carcere dovrebbe essere questo: uno spazio di rieducazione, non di punizione. Concretizzare il progetto è stato possibile grazie a Soroptimist International, un club di servizio che - tra le altre cose - si impegna ogni giorno al fianco delle donne con iniziative concrete, che coinvolgono anche chi è dietro le sbarre. Questo vuol dire inclusione: comprendere tutti. Il modo in cui consideriamo i detenuti e le detenute fa del carcere il luogo che è. Ed essi sono esseri umani, non bestie, né numeri, né alieni. Sono fatti allo stesso modo di chi scrive e di chi legge questo articolo, con gli stessi diritti e con gli stessi bisogni. La stanza dalle pareti chiare, le tende gialle e il pavimento blu parla di un mondo che può evolversi verso la direzione giusta. Terenzio, commediografo latino del II secolo a. C., ha scritto “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. La frase si può tradurre in questo modo: “Sono un uomo e tutto ciò che è umano mi riguarda”. Forse gli antichi non erano poi così incivili. Premio “Carlo Castelli”, il dibattito sul distacco del reo dal proprio delitto Il Dubbio, 9 ottobre 2025 Rieducare e risocializzare i condannati. Lo chiede la Costituzione. Che lega l’imperativo alle condizioni di umanità in cui dev’essere scontata la pena. Ma senza il secondo dei due pilastri, rischia di franare il primo. È una delle contraddizioni intorno alle quali probabilmente ruoterà, sabato prossimo a Brescia, il dibattito organizzato per l’edizione 2025, la diciottesima, del “Premio Carlo Castelli”. L’evento promosso dalla “Società di San Vincenzo de Paoli Odv Settore Carcere e devianza” è in programma a partire dalle 10 presso il Teatro Sant’Afra di Brescia (vicolo dell’Ortaglia 6) e si aprirà con l’intervento di Gherardo Colombo, una figura centrale nel dibattito sul sistema penitenziario e sul concetto di “pena” nel nostro Paese. Dopo l’introduzione del giurista, scrittore ed ex pm di Mani pulite, si aprirà il confronto a cui prenderanno parte don Gino Rigoldi, già cappellano dell’istituto Penale “Cesare Beccaria” di Milano; il professor Carlo Alberto Romano, prorettore per l’Impegno sociale per il territorio presso l’Università degli Studi di Brescia; Luisa Ravagnani, docente di Criminologia penitenziaria e Giustizia riparativa presso l’ateneo bresciano; e Mauro Ricca, Garante dei Diritti dell’infanzia e adolescenza per il Comune di Brescia. L’ingresso per assistere all’evento sarà libero, in ogni caso la Società di San Vincenzo de Paoli suggerisce di prenotare al numero 06 6796989. La scelta di svolgere un dibattito sul “distacco dal reato” che il sistema deve consentire alle persone riconosciute colpevoli è, per la città di Brescia, di particolare significato, considerate le condizioni della casa circondariale di Canton Mombello, afflitta da uno dei più alti tassi di sovraffollamento d’Italia. “Le Porte della Speranza”. Riparte con l’arte l’impegno del Vaticano per i detenuti di Francesca Grego arte.it, 9 ottobre 2025 Dieci porte d’artista all’ingresso di altrettante carceri, come simbolo di rinascita e dialogo con il mondo esterno: è solo l’inizio del progetto Porte della Speranza, presentato oggi dal Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede per proseguire il cammino indicato da Papa Francesco con l’apertura della Porta Santa nel penitenziario di Rebibbia, primo atto del Giubileo 2025. Oltre le porte vere e proprie, la cui realizzazione è stata affidata a dieci artisti italiani, un programma di integrazione e riscatto dedicato ai detenuti e un film che ne documenterà lo sviluppo passo dopo passo. “La Chiesa avverte come propria missione la responsabilità di andare incontro delle persone in situazioni di detenzione per annunciare loro il Vangelo della speranza”, ha spiegato il Cardinale José Tolentino de Mendonça, Presidente della Fondazione Pontificia Gravissimum Educationis e Prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede: “Non possiamo dimenticare né la popolazione carceraria né la realtà istituzionale che il carcere rappresenta. Anzi, vogliamo contribuire per svegliare la coscienza della nostra comune responsabilità di custodi della speranza. Quando ci guardiamo come fratelli, avviene la comune tessitura della speranza”. Le Porte approfondiscono il dialogo tra arte, educazione e attenzione agli ultimi, inaugurato nel segno della speranza da Papa Francesco e rilanciato da Papa Leone XIV sin dall’inizio del suo pontificato e nell’Esortazione Apostolica Dilexi Te, che sarà presentata domani. La prima fase del progetto, sotto la direzione artistica di Davide Rampello, coinvolgerà dieci carceri tra Italia e Portogallo, con importanti commissioni. Michele De Lucchi progetterà la porta del carcere di San Vittore, a Milano, mentre Gianni Dessì realizzarà quella di Regina Coeli a Roma e Mimmo Rotella sarà impegnato al penitenziario di Secondigliano a Napoli. La sezione femminile di Borgo San Nicola, a Lecce, avrà una porta disegnata da Fabio Novembre, e poi Stefano Boeri al Canton Mombello di Brescia, Mario Martone a Santa Maria Maggiore (Venezia), Massimo Bottura a Palermo ed Ersilia Vaudo Scarpetta a Reggio Calabria. Ogni artista dialogherà con i detenuti e la comunità del carcere di riferimento per lasciarsi ispirare e tradurre in opera la propria visione. “Alla sensibilità di artisti e interpreti - ha spiegato Rampello - è affidato il compito di rendere visibile la forza della speranza, trasformandola in materia viva, in gesto condiviso, in bellezza concreta”. Ben visibile da tutti all’esterno della prigione, la Porta è intesa come un varco dal duplice valore: un passaggio per i detenuti verso la società, grazie al percorso compiuto, e dalla città al carcere, superando i pregiudizi diffusi. “Auspichiamo un autentico incontro tra le città che ospiteranno le Porte e le comunità carcerarie; tra i pregiudizi gettati addosso ai detenuti e la realtà delle donne e uomini che vivono la pena”, ha detto Monsignor Davide Milani, Segretario Generale della Fondazione Pontificia Gravissimum Educationis: “Le Porte della Speranza vogliono essere una possibilità per l’opinione pubblica per ‘entrare’ nella realtà del carcere comprendendone la necessaria funzione riabilitativa e umana, così che sia sempre più centrale nelle preoccupazioni della politica e della società civile”. Iniziative concrete daranno seguito potente valore simbolico delle Porte della Speranza. In collaborazione con istituzioni come l’Accademia di Belle Arti di Brera e ALMA - La Scuola Internazionale di Cucina Italiana, saranno avviati percorsi educativi che, attraverso attività di formazione e laboratori, offriranno ai detenuti la possibilità di acquisire competenze tecniche e creative da spendere una volta usciti dal carcere. Ogni fase del progetto - dagli incontri nei penitenziari, alla progettazione e costruzione delle opere - verrà documentata con un film dal regista Giuseppe Carrieri e attraverso una pubblicazione collettiva, un libro-catalogo che raccoglierà le testimonianze del progetto, il lavoro degli autori delle Porte e gli interventi dei detenuti. “Le Porte della Speranza è molto più di una iniziativa artistica. È un cammino. Un cammino che attraversa simbolicamente le mura del carcere, aprendole alla luce del dialogo, dell’ascolto, della bellezza e soprattutto della dignità umana”, ha commentato Stefano Carmine De Michele, presidente del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia della Repubblica Italiana: “Questo progetto nasce in piena coerenza con le finalità del trattamento penitenziario che nella nostra Costituzione non si esaurisce nell’esecuzione della pena, ma mira al reinserimento sociale della persona detenuta attraverso un percorso di rieducazione e crescita”. Fine vita, il ddl in corsia preferenziale. Il Governo teme la Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 ottobre 2025 Via libera al suicidio assistito per due donne campane. Atteso il verdetto sulla legge toscana. La maggioranza chiede l’iter anche durante il Bilancio. L’Italia la attende almeno dal 2019, malgrado i giudici costituzionali abbiano incalzato più volte il legislatore dopo che nel novembre di quell’anno avevano depenalizzato l’aiuto al suicidio in determinate condizioni. Anni di attesa e adesso, improvvisamente, proprio mentre arriva la notizia di altre due pazienti terminali che hanno ottenuto dalla propria Asl il via libera al suicidio medicalmente assistito (due donne campane), la maggioranza ha fretta. Preoccupati di perdere anche il ricorso contro la legge regionale toscana su cui si attende il pronunciamento della Consulta a inizio novembre, infatti, i partiti di governo stanno lavorando per approvare il ddl sul Fine vita il più presto possibile. E per farlo premono addirittura affinché in Senato l’iter del testo messo a punto dai relatori Zanettin (FI) e Zullo (Fd’I) proceda anche durante la sessione dedicata al Bilancio. Occorre però l’unanimità dei gruppi (in quanto il ddl prevede impegni di spesa) perché questa ipotesi si concretizzi, imprimendo quindi un’accelerazione anche sui lavori di questa mattina nelle commissioni Giustizia e Sanità riunite per l’esame degli emendamenti. “Noi non siamo contrari”, riferisce il senatore dem Alfredo Bazoli aprendo così uno spiraglio. Permangono comunque le forti criticità del testo: malgrado le proteste dell’opposizione, l’ultima bozza della maggioranza prevede infatti ancora il divieto di usare farmaci, mezzi e personale del Ssn nella fase di attuazione del suicidio assistito. Rimane anche l’obbligo di adesione ad un percorso di cure palliative prima che il paziente possa godere del proprio diritto (acquisito con la sentenza Cappato/Dj Fabo del 2019, tanto che da allora 18 persone hanno ottenuto finora il via libera dalle proprie Asl, e 11 di queste, di cui 7 seguite dal team legale dell’associazione Coscioni, hanno già avuto accesso al servizio). Nell’ultima stesura del testo voluto dalla maggioranza è invece sparito il “Comitato nazionale di valutazione etica” nominato da Palazzo Chigi a cui il governo avrebbe voluto dare tutto il potere di decidere sul fine vita dei pazienti. “Paradossalmente però si prevede ora un doppio filtro - spiega Bazoli - Ad ogni richiesta, la prima valutazione spetta al Comitato etico territoriale nominato dalla Asl e la seconda al Comitato etico nazionale. Sono strutture già esistenti che verranno integrate con figure di competenza specifica”. Se poi il paziente riceve un diniego dovrà aspettare non più 4 anni, come nella prima stesura del testo, ma solo sei mesi. Ha atteso molto meno invece, Ada Covino, cittadina campana di 44 anni affetta da Sla che a gennaio 2025 aveva richiesto l’accesso al suicidio assistito e a maggio aveva ottenuto un rifiuto perché l’Asl Napoli 3 Sud non le aveva riconosciuto due dei requisiti richiesti dalla Consulta: la volontà consapevole (forse perché Ada non può più parlare) e la dipendenza da sostegno vitale. Con l’aiuto dell’avv. Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni, ha ottenuto la nuova verifica delle sue condizioni di salute. Martedì è arrivato il via libera. A darne notizia è stata l’Asl Napoli 3 Sud che ha annunciato anche il consenso rilasciato ad una seconda paziente campana. La signora, a differenza di Ada, vuole mantenere l’anonimato e all’associazione Coscioni si è rivolta solo per informazioni, proseguendo poi l’iter in autonomia. “La Sla ha perso e io ho vinto - è stato il commento di Ada - Non trascorrerò nemmeno un minuto in più ad avere paura di ciò che può farmi, da oggi sono legalmente padrona della mia vita e del mio corpo”. Suicidio assistito, ora Ada è libera di scegliere di Chiara Lalli Il Dubbio, 9 ottobre 2025 Via libera dell’Asl dopo l’appello della 44enne campana affetta da sclerosi laterale: “La SLA ha perso, io ho vinto. Non trascorrerò nemmeno un minuto in più ad avere paura di ciò che può farmi. Da oggi esiste solo il presente, e ogni giorno è prezioso”. Così Ada ha commentato la conferma di avere tutti i requisiti previsti per poter accedere al suicidio assistito da parte dell’azienda sanitaria Napoli 3. La sua storia comincia da una diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica a giugno 2024. I primi sintomi compaiono qualche mese prima: le parole si inceppano, il respiro fatica, i muscoli cedono. La malattia è veloce, velocissima. Oggi Ada non parla, non cammina, non può fare niente da sola. Da sola non può mangiare, non può bere, non può spostarsi dal letto alla sedia a rotelle. “In meno di 8 mesi la malattia mi ha consumata. Con una violenza fulminea mi ha tolto le mani, le gambe, la parola”, aveva detto qualche giorno fa in un messaggio letto dalla sorella Celeste. Lo scorso gennaio chiede alla sua azienda sanitaria di verificare i requisiti previsti dalla sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale, quella che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. L’azienda dovrebbe quindi verificare che la volontà di Ada è autonoma e libera, che soffre di una malattia irreversibile che le causa sofferenze intollerabili e che ha un trattamento di sostegno vitale (i confini interpretativi di questo trattamento sono stati poi chiariti da due altre sentenze, la 135 del 2024 e la 66 del 2025). Però l’azienda sanitaria rimanda, si distrae, non risponde. Il tempo, per le persone malate, è un tempo diverso. A marzo 2025 il suo collegio legale, coordinato da Filomena Gallo che è anche la segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, diffida l’azienda sanitaria: deve immediatamente fare le verifiche e rispondere ad Ada. Viene nominata una commissione medica e vengono fatte alcune visite domiciliari, ma la relazione e il parere del comitato etico non arrivano. Il 28 aprile il collegio legale fa un ennesimo sollecito. Due giorni dopo arriva la relazione ma non c’è il parere del comitato etico (che è obbligatorio seppure non vincolante) e la risposta è negativa: Ada non avrebbe i requisiti. Mancherebbe addirittura la volontà consapevole e libera perché Ada avrebbe manifestato volontà contraddittorie. E, sempre secondo la relazione, Ada non patirebbe sofferenze intollerabili. Infine, Ada non avrebbe un trattamento di sostegno vitale, anche se le sentenze 135 e 66 hanno chiarito che l’interpretazione corretta di questo requisito deve comprendere anche l’assistenza (di cui Ada ha bisogno come tutte le persone immobili, non è difficile da immaginare). A giugno il collegio legale si oppone e chiede di rivalutare le condizioni di Ada. Non succede niente. A questo punto viene presentato un ricorso d’urgenza. Finalmente, il 7 ottobre, l’azienda sanitaria manda ad Ada la conferma della nuova verifica: Ada ha tutti i requisiti. “Non ci sono parole adatte a descrivere il mio stato d’animo, ma proverò a rendere l’idea. Quando ho letto le parole “parere favorevole”, ho sentito letteralmente un peso scivolare dalle mie spalle”. Ora Ada può scegliere. Può scegliere di morire e può cambiare idea. Può rimandare, può aspettare. Ma lo farà con la tranquillità di non essere intrappolata in un incubo burocratico. È un suo diritto. Un diritto che è stato sospeso per mesi, in una attesa ingiusta e ingiustificabile. Ora l’azienda sanitaria dovrà indicare il farmaco e le modalità di autosomministrazione. “Grazie a chi mi ha ascoltata, sostenuta e accompagnata in questo percorso”. Come dice Filomena Gallo, questo non è solo un parere favorevole, ma il riconoscimento di un diritto fondamentale. “Quando le istituzioni rispettano la legge, è possibile garantire alle persone malate un diritto che non è un privilegio, ma una scelta libera e consapevole, riconosciuta dal nostro ordinamento”. E, aggiungo io, quando c’è una intenzione politica e la volontà (non proprio spontanea) di non trattarci come persone incapaci di decidere della nostra vita. Danno al rapporto parentale: così i giudici riconoscono la sofferenza morale di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 9 ottobre 2025 La recente ordinanza della Cassazione 6/10/2025 n. 26826 conferma che la morte del feto a breve dalla nascita a causa di medici che non sono tempestivamente intervenuti per un taglio cesareo, può configurare un danno parentale per la perdita di un rapporto affettivo potenziale, che può essere risarcito ai genitori. Una decisione conforme a quanto già stabilito da una precedente sentenza della Cass. civ. n. 26301/ 2021. Questo indirizzo giurisprudenziale stabilisce che in tema di responsabilità sanitaria, il danno da perdita del feto o del nato, imputabile ad omissioni e ritardi dei medici, è morfologicamente assimilabile al danno da perdita del rapporto parentale, che rileva tanto nella sua dimensione di sofferenza interiore patita sul piano morale soggettivo, quanto nella sua attitudine a riflettere sugli aspetti dinamico- relazionali della vita quotidiana dei genitori e degli altri eventuali soggetti aventi diritto al risarcimento del danno. Tale danno rientra, dunque, a pieno titolo nella categoria del danno da “perdita del rapporto parentale”. Si rammenta in motivazione che “anche la tutela del concepito abbia un sicuro fondamento costituzionale, rilevando in tale prospettiva non solo la previsione della tutela della maternità, sancita dall’art 3, secondo comma, Cost., ma anche quanto stabilito dall’art. 2 Cost., norma “che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo fra i quali non può non collocarsi, seppure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito” (Corte cost. n. 27/ 1975 e Cass. civ., sentenza n. 26301/ 2021). La risarcibilità di questo peculiare tipo di danno è dunque da riferirsi alla lesione del diritto alla genitorialità in ragione della sofferenza morale patita dai futuri genitori per la perduta possibilità di programmare ed attuare lo sviluppo della famiglia. Per questo titolari del diritto a richiedere tale tipo di danno sono sia la madre, sia il padre, anche se negli anni la giurisprudenza ha esteso la risarcibilità di tale perdita anche ad altri soggetti del consorzio familiare. Questo trova fondamento negli artt. 2043 e 2059 cod. civ. in relazione agli art. 2, 29 e 30 Cost. nonché ai sensi della norma costituzionale interposta costituita dall’art. 8 Cedu che dà rilievo al diritto alla protezione della vita privata e familiare. Circa la fenomenologia del danno, l’ordinanza, richiamandosi a molteplici sentenze, ha chiarito che tale tipo di pregiudizio “rileva nella sua duplice, non sovrapponibile dimensione morfologica della sofferenza interiore eventualmente patita, sul piano morale soggettivo, nel momento in cui la perdita del congiunto è percepita nel proprio vissuto interiore, e quella, ulteriore e diversa, che eventualmente si sia riflessa, in termini dinamico-relazionali, sui percorsi della vita quotidiana attiva del soggetto che l’ha subita”. In tal modo il vero danno, nella perdita del rapporto parentale, è la sofferenza, non la relazione, e la morte di una neonata, ovvero del frutto del concepimento appena estratto dal corpo della madre, non possono pertanto considerarsi “danno potenziale”, come tale avulso dalla costante, insanabile, implacabile dimensione del dolore genitoriale, risultando tale espressione, se così erroneamente interpretata, del tutto non conforme alla realtà, prima ancora che al diritto. In conclusione questa pronuncia non apporta una novità dato che anch’essa contiene una equa equiparazione definitiva del danno da “perdita del frutto del concepimento” al danno da “perdita del rapporto parentale”. Attraverso il riconoscimento del fondamento costituzionale della tutela del concepito all’art. 2 Cost. si può reperire un atteggiamento di apertura della Corte nei confronti di una concezione del danno non patrimoniale ampia, che ricomprende al suo interno le molteplici sfaccettature della “sofferenza” e non della “relazione”. Infine, per quanto riguarda il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, l’ordinanza sostiene che il giudice di merito sia tenuto ad applicare le tabelle milanesi, utilizzandone i singoli parametri alla luce dei principi in tema di morfologia del danno da perdita del frutto del concepimento, tenuto conto di tutte le circostanze di fatto portate al suo esame. Su social e minori è il momento delle scelte forti di Stefania Garassini Avvenire, 9 ottobre 2025 Anche la Danimarca, come molti Paesi, vuole vietare l’accesso ai minori di 15 anni per proteggerli da ansia, isolamento e abuso digitale. Il ruolo educativo degli adulti. L’annuncio della premier danese Mette Frederiksen di proporre il divieto di alcuni social media per i minori di 15 anni è l’ultimo in ordine di tempo di una serie di provvedimenti che in varie parti del mondo cercano d’introdurre regole in un mercato più che mai florido, e quindi restio ad accettarle. Obiettivo comune di simili provvedimenti è il recupero di una gradualità di accesso ad alcuni servizi che non sono in alcun modo pensati per bambini e preadolescenti e che, come ha efficacemente sintetizzato Frederiksen, “stanno rubando l’infanzia ai nostri figli”. Tra i motivi che hanno indotto la Danimarca ad annunciare la decisione c’è poi l’influsso negativo - ormai documentato da una mole crescente di autorevoli ricerche - sulle capacità di concentrazione, oltre alla correlazione con l’aumento di ansia e depressione tra gli adolescenti. Nella stessa direzione va un provvedimento approvato lo scorso anno in Francia, che stabilisce il divieto di accesso ai social sotto i 15 anni, ma che non ha ancora avuto attuazione per la difficoltà di stabilire un metodo adeguato di verifica dell’età in grado di salvaguardare la privacy. Anche in Italia c’è sul tavolo un disegno di legge bipartisan, che ha come prime firmatarie Marianna Madia (Pd) e Lavinia Mennuni (FdI) e propone di alzare a 15 anni il divieto di accesso ai social media (che attualmente nel nostro Paese è 14 anni, anche se molto spesso ignorato o non rispettato dagli stessi genitori che regalano ai propri figli uno smartphone al più tardi in prima media). Ed è di ieri la notizia di un disegno di legge analogo proposto dalla senatrice leghista Erika Stefani. Qualunque sarà l’iter di queste proposte, il segnale è ormai chiaro. E arriva dalla società civile, dalle migliaia di genitori che ogni giorno, nelle trincee della vita quotidiana, si sentono impotenti di fronte a strumenti che colonizzano la mente e il cuore dei propri figli e faticano a imporre regole, spesso perché sono i soli a farlo in un ambiente che invece sembra andare in una direzione totalmente opposta. E mentre si moltiplicano le iniziative spontanee di tante famiglie che si alleano per accordarsi sul rispetto di alcuni principi di base dell’educazione digitale - primo fra tutti l’età di arrivo del primo smartphone, che dovrebbe essere dai 13 anni in su -, con esse si diffonde una maggiore consapevolezza della reale posta in gioco oggi nel nostro rapporto con la tecnologia. I social media sono nati una ventina d’anni fa con una straordinaria promessa: farci connettere meglio gli uni con gli altri, aiutarci a condividere i nostri interessi e le nostre passioni, in una parola vivere meglio, insieme, online. Ma le promesse non sono state mantenute: i social oggi sono soprattutto un mercato e sempre meno il luogo di una presenza attiva dove mettersi in gioco e condividere realmente qualcosa di profondo con gli altri. Non mancano per fortuna eccezioni e luoghi dove questo è ancora possibile, e vanno senz’altro preservati. L’evoluzione di Internet sta però seguendo una direzione radicalmente diversa e ne è una conferma il recente annuncio di Meta (proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp) e di Open Ai di servizi - Sora2 e Meta Vibes - che ospiteranno video interamente prodotti dall’IA. Andiamo verso una rete popolata di contenuti pensati per intrattenerci e tenerci agganciati, riguardo ai quali non avrà più alcuna importanza se a produrli saranno persone in carne e ossa o software di IA. Di “social” in altre parole sui social media ce ne sarà sempre di meno. Questo annunciano le big tech, mentre dilaga la pratica d’interpellare i software di intelligenza artificiale come amici e confidenti, soprattutto da parte degli adolescenti. Di fronte a queste derive è sempre più urgente che il mondo adulto riprenda in mano le redini dell’educazione al digitale. È vero che molto spesso non siamo esempi edificanti in questo campo, ma non può essere questo l’alibi per abdicare al nostro insostituibile ruolo educativo. Le regole sull’età d’accesso sono un primo, doveroso passo, e hanno il merito di obbligare le grandi aziende dei social ad assumersi maggiori responsabilità sul controllo dei contenuti e sulla verifica dell’età dei propri utenti. Ma da sole non risolvono il problema di come vivere bene online. Per quello servono adulti autorevoli e credibili, impegnati in un dialogo a tutto campo con i ragazzi, le istituzioni e anche le stesse piattaforme. È una sfida appassionante, che possiamo vincere soltanto insieme. C’è l’accordo tra Hamas e Israele. Festa nella Striscia di Gaza di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 9 ottobre 2025 Netanyahu convoca il gabinetto di guerra. Hamas: “L’accordo prevede la fine della guerra a Gaza, il ritiro delle forze di occupazione, l’ingresso di aiuti umanitari e uno scambio di prigionieri”. I civili festeggiano per le strade. Le firme ufficiali dei documenti alle 11 ore italiane. L’Idf rimarrà a Rafah. Alla fine del quarto giorno di trattative indirette in Egitto, Hamas e Israele hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Ad annunciarlo è stato il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, attraverso i suoi canali social. La firma ufficiale è prevista per le ore 11 italiane. “Sono molto orgoglioso di annunciare che Israele e Hamas hanno entrambi sottoscritto la prima fase del nostro piano di pace. Ciò significa che tutti gli ostaggi saranno rilasciati molto presto e Israele ritirerà le sue truppe secondo una linea concordata, come primo passo verso una pace forte, duratura e perenne”, ha detto Trump. “Tutte le parti saranno trattate equamente! Questo è un grande giorno per il mondo arabo e musulmano, Israele, tutte le nazioni circostanti e gli Stati Uniti d’America, e ringraziamo i mediatori di Qatar, Egitto e Turchia, che hanno collaborato con noi per rendere possibile questo evento storico e senza precedenti. Benedetti i costruttori di pace!”. Anche il Qatar, uno dei principali mediatori delle trattative, ha confermato la notizia. “I mediatori annunciano che stasera è stato raggiunto un accordo su tutte le disposizioni e i meccanismi di attuazione della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco di Gaza, che porterà alla fine della guerra, al rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi e all’invio di aiuti. I dettagli saranno annunciati in seguito”, ha scritto su X il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar Majed al-Ansari. La notizia è stata accolta in un ambiente di festa a Gaza. Gli abitanti si sono riversati per strada - soprattutto a Khan Younis - per celebrare la firma dell’accordo. “È un grande giorno per Israele”, ha scritto il premier israeliano Benjamin Netanyahu su X, annunciando la convocazione di un gabinetto di guerra per giovedì 9 ottobre con l’obiettivo di dare il via libera al documento. “Ringrazio i coraggiosi soldati dell’Idf e tutte le forze di sicurezza: è grazie al loro coraggio e al loro sacrificio che siamo arrivati a questo giorno”, ha detto Netanyahu. “Con l’aiuto di Dio, insieme continueremo a raggiungere tutti i nostri obiettivi e ad espandere la pace con i nostri vicini”, ha aggiunto dopo aver ringraziato Trump. Hamas, invece, ha rilasciato una dichiarazione in cui annuncia che l’accordo “prevede la fine della guerra a Gaza, il ritiro delle forze di occupazione, l’ingresso di aiuti umanitari e uno scambio di prigionieri”. Il gruppo ha esortato i mediatori e il presidente Donald Trump “a costringere il governo di occupazione a rispettare pienamente gli obblighi dell’accordo e a impedirgli di eludere o ritardare l’attuazione di quanto concordato”. “Rendiamo omaggio al nostro grande popolo nella Striscia di Gaza, a Gerusalemme e in Cisgiordania, nella nostra patria e all’estero, che ha dimostrato onore, coraggio e fermezza senza pari - continua la dichiarazione - affrontando i piani fascisti dell’occupazione che hanno preso di mira loro e i loro diritti nazionali”. Infine il messaggio ai gazawi: “Affermiamo che i sacrifici del nostro popolo non saranno vani e ci impegniamo a rimanere fedeli alla nostra causa e a non abbandonare mai i nostri diritti nazionali finché non saranno conseguite la libertà, l’indipendenza e l’autodeterminazione”. I nodi sciolti - Tra le questioni al centro delle trattative che si sono tenute a Sharm el Sheikh sulla base del piano di pace di venti punti delineato dalla Casa Bianca di concerto con i piani arabi e Israele ci sono le mappe che riguardano il ritiro dell’Idf dalla Striscia di Gaza. Un funzionario israeliano ha detto ad Haaretz che le “mappe sono state aggiornate”. Le truppe dell’Idf lasceranno “la gran parte della città di Gaza a parte Rafah”. Secondo quanto riporta Afp, Hamas dovrebbe rilasciare i venti ostaggi ancora vivi già in questa prima fase. Lo scambio avverrà lunedì secondo quanto dichiarato dal presidente Trump. Non sono ancora noti, invece, i nomi dei prigionieri che Israele libererà dalle sue carceri. Ma lo stato ebraico rilascerà 250 ergastolani e 1700 palestinesi arrestati dopo il 7 ottobre 2023. Reazioni - Dal Sud America all’Europa, diversi leader politici hanno espresso soddisfazione per la firma dell’accordo e hanno lodato gli sforzi di Trump annunciando che dovrebbe vincere il premio Nobel per la pace. “Accolgo con favore l’annuncio di un accordo per garantire un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi a Gaza, sulla base della proposta avanzata dal Presidente degli Stati Uniti. Elogio gli sforzi diplomatici di Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia nel mediare questa svolta disperatamente necessaria. Esorto tutti gli interessati a rispettare pienamente i termini dell’accordo”, ha scritto il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. “Tutti gli ostaggi - prosegue - devono essere rilasciati in modo dignitoso. Deve essere garantito un cessate il fuoco permanente. I combattimenti devono cessare una volta per tutte. Deve essere garantito l’ingresso immediato e senza ostacoli di aiuti umanitari e materiali commerciali essenziali a Gaza. Le sofferenze devono finire”. Ehud Barak: “Intesa buona per Israele, non per Bibi. Hamas incassa una vittoria politica” di Francesca Paci La Stampa, 9 ottobre 2025 L’ex premier: “Se lui non avesse privilegiato i suoi obiettivi, la guerra sarebbe finita a febbraio”. Dietro la scrivania dell’ex premier israeliano Ehud Barak, all’undicesimo piano di un appartamento torreggiante su Tel Aviv, ci sono, tra pile di libri, memoria e speranze del Paese. La dichiarazione d’Indipendenza che qui corrisponde alla Costituzione, la foto con Clinton ai tempi di Camp David e quelle in battaglia, un busto di Ben Gurion, uno di Rabin e un altro più piccino dello stesso Barak. L’umore a Sharm el-Sheikh sembra positivo. Ci siamo? “Vedo ottime possibilità che i primi quattro punti vadano in porto, il rilascio degli ostaggi israeliani, la liberazione dei prigionieri palestinesi, il ritiro dell’esercito fino a una linea condivisa e un annuncio formale della fine della guerra. Entrambe le parti non possono rifiutare. Netanyahu ha respinto analoghe road map offerte da Obama e Biden perché contava sui repubblicani, ma ora c’è Trump e Israele, dipendente com’è dall’America, non può lasciare che perda la pazienza. Sull’altro lato, egiziani, emiratini e sauditi condividono da tempo quell’impostazione ma non hanno influenza su Hamas, Trump invece ha coinvolto Ankara e Doha a cui Hamas non può dire di no. Sono ottimista”. E gli altri sedici punti? “È l’inizio di un processo e ci vorrà tempo. Ci sono punti imbarazzanti per Netanyahu, come la menzione di un percorso verso uno Stato palestinese e quella di un coinvolgimento dell’Autorità Nazionale, l’unica entità riconosciuta a livello internazionale. Inoltre tra i “tecnocrati” palestinesi ci saranno esperti affiliati a Fatah e magari anche alcuni islamisti, a patto di non valicare la linea rossa d’Israele, ossia che nessun elemento del braccio militare di Hamas, neppure un portavoce, partecipi ad alcunché. Hamas sapeva dai tempi di Biden che sarebbe finita così. È un piano molto buono per Israele e per Gaza: non so se lo sarà per Netanyahu, i cui interessi non coincidono con quelli d’Israele”. Tony Blair, detestato dai palestinesi, è l’uomo adatto a guidare la transizione a Gaza? “È la scelta migliore e la più pragmatica. Tony Blair frequenta la regione dai tempi del Quartetto e conosce la via ai compromessi che non umiliano, è rispettato al Cairo, Riad e Amman ma anche a Doha e Ankara. E non è previsto che la sua assegnazione passi da Abu Mazen: altri, come Salam Fayad e Mohammad Dahlan, non hanno obiezioni. E comunque i palestinesi non sono in pieno controllo del processo guidato da Trump”. Non è un problema, questo? “Fatah non è a Gaza dal 2006. E Hamas ha chiaro il fatto che dopo il 7 ottobre non potrà mai più guidare la Striscia, ma a conti fatti può accontentarsi: la cecità del governo israeliano, ossessionato dall’idea irrealizzabile di distruggere fino all’ultimo guerrigliero, è riuscita per ironia della storia a trasformare la disfatta militare di Hamas in una vittoria politica e diplomatica. La guerra a Gaza, del tutto giustificata due anni fa, avrebbe dovuto finire a febbraio, quando l’intero asse della “resistenza” era crollato e Hamas, ridotto a zero, poteva essere sostituito nell’unico modo possibile e legittimo, ossia con l’Anp. Invece si è continuato a combattere per mera sopravvivenza del governo, cercando follemente di persuadere il mondo che non ci sono innocenti a Gaza col risultato di esporci all’isolamento, al boicottaggio e alla fuga in avanti dei nostri amici occidentali verso un riconoscimento dello Stato Palestinese prima del negoziato”. Non condivide la mossa della Francia e di altri Paesi Ue... “Non tocca a me dire cosa debbano fare. Credo però che sarebbe stato meglio formulare la cosa imponendo a entrambi negoziati diretti e senza precondizioni per creare uno Stato palestinese demilitarizzato ma sostenibile. Nominare l’argomento in Israele oggi, dopo il 7 ottobre, è lunare: il Paese è in stato di trauma, c’è rabbia, umiliazione, desiderio di vendetta. Ma passerà, e i leader devono capirlo, devono sentire dove sta la gente ma anche sapere da che parte stiamo andando. Netanyahu ha evocato per Israele il modello Sparta, la forza al prezzo di isolamento e autarchia: è ridicolo. Dobbiamo essere forti perché la regione non consente seconde possibilità ma non possiamo neppure vivere in guerra”. Neanche la sinistra pare ambire più allo Stato palestinese. C’è ancora sinistra in Israele? “È vero che oggi anche chi lo sostiene non parla più dello Stato palestinese. Ma, di nuovo, la cecità che Netanyahu si è autoimposto ha riportato sul tavolo la soluzione due popoli per due Stati, l’unica possibile. E sì, i laburisti si sono indeboliti ma la sinistra c’è ancora. Il punto è che da 50 anni la sinistra vince se presenta leader, come all’epoca io e Rabin, percepiti stabili in tema di sicurezza, incontestabili”. L’ultima volta che la soluzione due popoli e due Stati è parsa reale era il 1999, Camp David. Quanto siamo lontani? “Molto. Oggi serve una pressione da parte del mondo e leader, sia israeliani che palestinesi, capaci di decisioni dolorose. La finestra è stata aperta dal 1993 al 2008, allora ci credeva perfino Netanyahu, che oggi vaneggia di Hamas come una minaccia esistenziale per Israele. Non ha funzionato. Si racconta che io e Clinton inchiodammo Arafat all’aut aut. Non è vero. Dissi più volte al presidente palestinese di mantenere le sue riserve ma prendere quel piano come base negoziale nella consapevolezza che avremmo entrambi dovuto scontentare i nostri popoli. Ma credo che fosse ostaggio del suo personaggio”. Se Israele avesse bloccato le colonie in Cisgiordania non sarebbe oggi tutto più facile? “La questione palestinese è stata per anni l’elefante nella stanza per Israele. Gaza e Cisgiordania sono collegate, se Trump vince sulla prima la seconda seguirà. E, se necessario, parte delle colonie dovrà essere rimossa. In fondo dopo la guerra del 1967 tre quarti degli israeliani erano contrari a restituire il Sinai, eppure è andata diversamente e la pace con l’Egitto ha retto perfino nella stagione della Fratellanza musulmana di Morsi”. Come mai un governo contestato oggi dalle famiglie degli ostaggi mantiene consenso? “È un trend diffuso, le liberaldemocrazie faticano, la gente è delusa dalla globalizzazione che ha liberato dalla povertà tante zone del mondo ma ha aumentato le diseguaglianze in Occidente. Netanyahu è un populista, crea consenso facendo leva sull’identità contro presunti demoni esterni e traditori interni e alimenta intenzionalmente l’odio”. Cosa c’è dietro la dura reazione israeliana contro Parolin? “Gli ultimi mesi hanno enormemente danneggiato Israele. Ben Gurion diceva che in guerra bisogna mantenere la superiorità morale non solo nella propria testa ma in quella dei nostri partner occidentali. Netanyahu ha abbandonato quella strada. Posto che rigetto l’equiparazione tra Israele e Hamas così come quella tra Israele e il nazismo e che da militare escludo tanto il genocidio quanto i crimini deliberati dell’esercito, le immagini di Gaza hanno minato la nostra reputazione e i governi alleati non sanno più come sostenerci contro l’indignazione delle piazze. Dovremo far luce su ogni angolo di questa guerra. Temo però che il danno arrecato da Netanyahu peserà a lungo e ci vorrà più di una generazione per parlare di Olocausto come prima, perché alcuni potrebbero percepire che quanto subito in passato autorizzi Israele a tutto” La battaglia legale della Flotilla: “Gli atti della Sumud sono forme di nuovo diritto costituente” di Marika Ikonomu Il Domani, 9 ottobre 2025 Il team è internazionale di avvocati è al lavoro per tutelare gli assistiti in mare, poi sequestrati dallo stato di Israele, e di denunciare la violazione dei diritti umani in Palestina. Montella, nel gruppo di legali spiega: “Percorreremo strade nazionali e sovranazionali e accertare le responsabilità di Israele e dei paesi Ue”. Tutti i cittadini e le cittadine italiane a bordo della Flotilla intercettata la sera del primo ottobre in acque internazionali da Israele sono rientrati in Italia, ma sono ancora sei gli attivisti delle delegazioni internazionali reclusi nel centro di detenzione di Kenziot. A loro ora si aggiunge l’equipaggio di 145 persone della seconda Flotilla, abbordata martedì notte dalle forze navali israeliane a circa 120 miglia dalla Striscia. La flotta della società civile si è posta l’obiettivo di rompere l’assedio di Gaza e portare aiuti umanitari. A tutelare gli attivisti delle missioni c’è un gruppo internazionale di difensori che sta lavorando in coordinamento costante non solo sul piano nazionale: “Il team legale si sta occupando di tutelare alcuni assistiti in mare, poi sequestrati dallo stato di Israele, e di denunciare la violazione dei diritti umani in Palestina, questo orrendo genocidio e le pratiche di detenzione amministrativa delle autorità israeliane”, spiega l’avvocata Tatiana Montella, che fa parte delle avvocate che in Italia difendono alcuni attivisti. La procura di Roma sta muovendo i primi passi per accertare “le responsabilità degli attacchi alle imbarcazioni della Sumud e del sequestro illegale degli attivisti”, dopo l’esposto depositato lo scorso 3 ottobre. Fa parte di una serie di azioni formali iniziate il 24 settembre con una diffida al governo per l’attivazione immediata delle comunicazioni diplomatiche, della protezione consolare e di ogni misura volta a tutelare i diritti dei partecipanti alla missione. Il 5 ottobre, un’altra diffida è stata inviata alle autorità diplomatiche e consolari italiane ed europee perché si accertassero le condizioni di detenzione delle persone trattenute illegalmente, si adottassero misure a tutela dei loro diritti e si interrompesse immediatamente ogni relazione bilaterale con Tel Aviv fino alla cessazione delle violazioni del diritto internazionale. Tentato omicidio, tentato naufragio, danneggiamento seguito da pericolo di naufragio, pirateria, sequestro di persona, distruzione, sono alcuni dei reati per cui si chiede alla procura di indagare. Non è però escluso che gli inquirenti non ne individuino altri o che vengano integrati dai legali per tutto ciò che è accaduto dopo l’abbordaggio: “È innegabile dai racconti che in detenzione ci siano stati trattamenti inumani e degradanti”, dice Montella. L’esposto - “Percorreremo strade nazionali e sovranazionali per affermare il terreno dei diritti fondamentali, più volte violati da Israele e dagli stati europei, e accertare le responsabilità”, continua la legale, secondo cui “gli strumenti e gli organi esistono per ottenere decisioni rilevanti, ma la loro reale applicazione dipenderà anche dalla volontà dei governi, come dimostra il mandato di arresto del premier israeliano Netanyahu”. La Flotilla, sottolinea il team, pur avendo sempre dichiarato il suo scopo umanitario ha subito “molteplici attacchi” con l’uso di “mezzi aerei armati”, che hanno messo in pericolo “la sicurezza della navigazione” e “l’incolumità degli equipaggi”. Per i legali si tratta di gravissime violazioni del diritto internazionale per cui l’Italia “non ha solo il diritto ma il dovere di esercitare la propria giurisdizione per garantire giustizia e riaffermare il primato del diritto contro la legge del più forte”. Tra gli oltre 400 attivisti a bordo della missione pacifica, c’erano infatti 49 cittadini italiani, tra cui medici, personale infermieristico, giornalisti, parlamentari italiani ed europei e rappresentanti della società civile. A bordo di barche battenti bandiere diverse, tra cui quella italiana. Da qui la competenza, in questa fase, della procura di Roma, e quindi della legge penale italiana. Sia per la presenza di cittadini italiani, sia perché una nave battente bandiera italiana è considerata territorio dello stato. I reati - Per gli avvocati potrebbero esserci gli estremi di un tentativo di omicidio plurimo negli attacchi della notte tra il 23 e il 24 settembre nei confronti dell’equipaggio. Le barche si trovavano in acque internazionali, a sud di Creta, quando un’azione coordinata ha provocato danni gravi e irreparabili, con l’uso di droni, bombe sonore, spray urticanti e ordigni incendiari. Non ci sono state lesioni personali, anche grazie allo stato di allerta in cui erano gli attivisti, ma - si legge nell’esposto - non si può dubitare l’idoneità di queste azioni a causare la morte. Sono le dichiarazioni rilasciate dal ministro degli Esteri Tajani che “sembrano confermare il coinvolgimento di Israele”. Così come può configurarsi il delitto di naufragio, per aver messo in pericolo, colpendo componenti fondamentali per la navigazione, un numero indeterminato di persone. Quello che è invece accaduto nella notte del primo ottobre, l’abbordaggio e la cattura degli equipaggi in mare, per il team configura il sequestro di persona aggravato: “Perché non c’è dubbio che la privazione della libertà sia illegittima”. Tutto ciò è accaduto in acque internazionali, dove vige il principio della libertà di navigazione. Un principio che prevede eccezioni, come il blocco navale. Ma quello al largo della Striscia, scrivono i legali, “non può considerarsi legittimo”. E anche se lo fosse, continuano, Israele deve consentire il passaggio degli aiuti umanitari. Quella degli avvocati italiani è una delle molte azioni che - anche a livello internazionale - seguiranno sul piano legale. “Siamo dentro a una battaglia più grande”, dice Montella, “cioè ridefinire i contorni del diritto esistente e renderlo un terreno di lotta nuova. Gli atti della Sumud sono forme di nuovo diritto costituente”. Meloni, Tajani e Crosetto denunciati alla Cpi per “complicità in genocidio” di Nicolò Zambelli Il Foglio, 9 ottobre 2025 Cosa succede ora? “Niente”. “Un’iniziativa politica estemporanea che non avrà effetti concreti”, dice Giorgio Sacerdoti, professore emerito di diritto internazionale alla Bocconi. “La denuncia è destinata a finire nel nulla”. “La denuncia presentata nei confronti di alcuni esponenti del nostro governo mi pare solo un’iniziativa politica estemporanea che non avrà effetti concreti”. Al Foglio il professore emerito di diritto internazionale dell’Università Bocconi Giorgio Sacerdoti fa il punto sulla denuncia nei confronti della premier Giorgia Meloni e altri ministri per “complicità in genocidio”. La notizia è stata confermata ieri sera dalla stessa presidente del Consiglio a Porta a Porta: lei, insieme ai ministri Tajani e Crosetto e all’Ad di Leonardo Roberto Cingolani è stata denunciata alla Corte penale internazionale per complicità nel “genocidio in corso a Gaza”. L’avviso presentato al procuratore della Cpi è stato firmato da una cinquantina di persone tra cui politici, attori, avvocati e giornalisti. Ma cosa può succedere ora? “Al momento bisogna aspettare che il procuratore generale della Corte penale internazionale prenda una decisione in merito al documento presentato”, ci spiega Sacerdoti. Proprio in queste ore dalla Cpi fanno sapere che non è ancora stata presa una decisione sulle accuse portate avanti dal collettivo “Giuristi e avvocati per la Palestina”, intestatari dell’iniziativa. Ma qualora dovesse essere accolta cosa rischiano i diretti interessati? “Il procuratore, dopo opportune indagini, dovrebbe chiedere alla camera competente della Corte di emettere un mandato di arresto internazionale”, spiega Sacerdoti. Un’ipotesi però ritenuta irrealistica. La denuncia è stata presentata ai sensi dell’articolo numero 15 del Trattato di Roma, quello che fondamentalmente istituisce la Corte penale internazionale. Nel testo c’è un lungo ed esaustivo elenco di motivi che coinvolgerebbero il governo italiano nei crimini commessi a Gaza fino a renderlo complice del “genocidio” in atto. Secondo i firmatari la complicità del governo deriverebbe da aiuti militari, cooperazioni industriali e finanziarie che avrebbero agevolato i crimini contestati al governo di Israele nella striscia. Ma tra la presentazione della denuncia e il suo accoglimento c’è una sostanziale differenza. “È improbabile che questo tipo di denuncia venga accolta dalla Cpi, serve tempo e dimostrare un tale livello di complicità è difficile. Occorre far emergere reati specifici e che le indagini dimostrino la veridicità di questi reati”, ci spiega Sacerdoti. Secondo lui ci sono diversi ostacoli perché l’esposto venga accolto: “C’è difficoltà nell’attribuire responsabilità individuali: mi pare complicato riuscire a dimostrare un’accusa di questo tipo, di questa portata. Soprattutto perché sia Meloni che Crosetto più volte hanno spiegato che l’Italia non consegna armi a Israele se non da accordi precedenti al 7 ottobre 2023”, dice il professore. Ma non solo questo: il professore ricorda che Israele non aderisce allo Statuto di Roma, a differenza dell’Italia e dei territori palestinesi. Un dato da non sottovalutare, perché occorrerebbe dimostrare che i fatti di cui si accusa la complicità sono stati commessi dove la Cpi ha potere di agire, quindi nei territori della Palestina. Un altro aspetto molto difficile da dimostrare, secondo Sacerdoti. Ma il punto cardine per il professore è la natura essenzialmente politica della questione: “Chiunque può fare una denuncia alla Corte penale internazionale. Chiunque. Di carte di questo tipo gli uffici sono pieni. Considerando chi presenta l’esposto e chi sono i firmatari il tutto è più un dato politico. Per cui la Corte tende a evitare di accogliere gli esposti di questa natura. Motivo per cui mi sento di dire che ora il procuratore lascerà quest’esposto lì, fermo. E quindi al momento non accadrà nulla. Ci vorrebbe un ben più diretto volontario coinvolgimento in fatti di reato specifici perché si possa parlare di complicità”. Tra i firmatari di questa denuncia ci sono anche alcuni politici. Luigi De Magistris, l’ex sindaco di Napoli, Alessandro Di Battista, ex parlamentare del Movimento 5 stelle e ora presidente dell’associazione “Schierarsi”. Ma anche Donatella Albini, segretaria nazionale di Sinistra Italiana, Stefania Ascari, deputata del Movimento 5 stelle e molti altri tra attori, cantanti e giornalisti. Il tutto resta dunque una questione di attesa. Siria. Lo spettro della libertà di Maysoon Majidi Il Manifesto, 9 ottobre 2025 Ogni passo curdo verso l’autonomia è percepito come minaccia esistenziale dalla Turchia: milizie islamiste, aziende e ora la Damasco di al-Sharaa sono le armi in mano a Erdogan. Centinaia di persone sono scese in piazza a Qamishlo per esprimere solidarietà agli abitanti di Aleppo. I loro slogan non erano solo contro l’assedio, ma contro il silenzio della comunità internazionale. “Aleppo non è sola”, si leggeva sui cartelli che sventolavano tra le bandiere gialle e rosse. Una protesta quasi ignorata dai media globali, ma rivelatrice del malcontento crescente nelle aree curde. Sono passati pochi giorni da quando l’ex leader del Fronte al-Nusra, la branca siriana di al-Qaeda, ha parlato al Palazzo di Vetro delle Nazioni unite a New York, sancendo di fatto il ritorno della Siria sulla scena internazionale. Ma la realtà nel Paese resta ben diversa. Ad Aleppo, città simbolo della guerra civile siriana, è entrato in vigore un nuovo cessate il fuoco tra le Forze democratiche siriane (Sdf) e l’esercito di Damasco. Martedì, l’agenzia ufficiale Sana ha annunciato l’accordo dopo ore di combattimenti nei quartieri curdi di Sheikh Maqsoud e Ashrafiyeh. Dietro questa calma apparente, però, si nasconde una frattura profonda. Secondo Reuters, gli scontri potrebbero incidere sull’accordo storico del 10 marzo tra Mazloum Abdi, comandante delle Sdf, e Ahmed al-Sharaa, presidente ad interim della Siria. Firmato con la mediazione degli Stati uniti dopo la caduta di Bashar al-Assad e l’ascesa del nuovo governo islamista di Damasco, l’accordo avrebbe dovuto aprire la strada a un’integrazione delle Sdf nello Stato siriano e a una progressiva unificazione delle strutture civili e militari. Entro la fine del 2025, il controllo dei valichi di frontiera, dei giacimenti petroliferi e dell’aeroporto di Qamishlo sarebbe dovuto tornare sotto l’autorità centrale. Ma a distanza di sei mesi dalla firma, nulla è stato realmente implementato. Le Sdf si erano ritirate formalmente dai quartieri, ma le forze di sicurezza locali, le Asayish, sono rimaste. Una tregua politica più che un patto di fiducia. In pratica, tutto è rimasto sospeso: il governo ha rallentato i passaggi amministrativi, le Sdf hanno continuato a gestire le proprie aree con un’autonomia di fatto e la popolazione si è ritrovata intrappolata tra due poteri che non si fidano l’uno dell’altro. Secondo i dati del Syrian Observatory for Human Rights, le Sdf controllano ancora il 35% del territorio siriano, inclusi il 90% delle riserve petrolifere e il 65% dei campi di grano. Damasco considera questi territori una leva di pressione politica e rifiuta qualsiasi concessione. Intanto, la Turchia ha consolidato la propria presenza militare lungo i confini settentrionali, da Tel Abyad ad Afrin, impedendo di fatto la nascita di un modello statale decentrato. Il presidente turco Erdogan ha ribadito che “non permetterà la frammentazione della Siria”, ma dietro la formula diplomatica si nasconde la solita minaccia: ogni passo curdo verso un’autonomia stabile è percepito come rischio esistenziale. La Turchia usa i propri proxy per mantenere alta la tensione e riaffermare la propria influenza economica. Secondo Crisis Group, le aziende turche controllano oggi il 70% del commercio di cemento e grano nel nord della Siria, consolidando una presenza che va oltre l’aspetto militare. “Ankara non vuole una Siria democratica - ha detto un funzionario curdo - Preferisce uno Stato centralizzato e fragile, facile da controllare”. A inizio ottobre Abdi ha incontrato Tom Barrack, inviato speciale Usa per la Siria, e l’ammiraglio Brad Cooper, comandante del Centcom. Tema principale: accelerare l’attuazione dell’accordo di marzo. Ma Washington pare più interessata a evitare il collasso dell’alleanza anti-Isis che a promuovere una reale riforma politica. Fonti turche confermano che decine di migliaia di miliziani siriani affiliati ad Ankara operano oggi nell’ambito del cosiddetto “Nuovo Esercito Siriano”. Solo negli ultimi tre mesi, questi gruppi hanno condotto 42 operazioni nel nord, causando, secondo il Syrian Human Rights Monitor, almeno 27 vittime civili, di cui sei bambini. Testimoni locali riferiscono che, dalla fine di settembre, l’esercito siriano ha chiuso tutti gli ingressi ai quartieri curdi. Le Nazioni unite stimano che oltre 4.500 famiglie siano state sfollate da Sheikh Maqsoud e Ashrafiyeh nelle ultime settimane. Medicinali e carburante sono quasi introvabili. “Non sappiamo più a chi apparteniamo - racconta un insegnante - Ogni giorno arriva un ordine diverso: un giorno da Qamishlo, l’altro da Damasco”. Il portavoce delle Sdf, Farhad Shami, accusa le forze governative di aver tentato di entrare nei quartieri con i carri armati, definendo l’operazione “un’escalation pericolosa”. Damasco replica che l’attacco era una risposta ai “tentativi curdi di prendere il controllo della strada strategica Manbij-al Bab”. Dal 27 settembre gli scontri a Deir Hafer hanno provocato almeno 18 morti e 65 feriti, metà dei quali civili. Le agenzie umanitarie avvertono: la situazione sanitaria rischia di precipitare. L’intesa del 10 marzo prevedeva il riconoscimento costituzionale dei diritti linguistici e culturali dei curdi. Ma il governo ad interim ha rallentato ogni passaggio amministrativo, pubblicando una nuova “Dichiarazione costituzionale” che riproduce un sistema fortemente centralizzato e arabo-centrico. Un rappresentante del Consiglio democratico siriano ha detto a Rudaw: “La nuova Costituzione ignora la lingua madre, l’autonomia locale e l’uguaglianza di genere. Lo Stato non ha cambiato mentalità, ha solo cambiato nome”. Secondo JinNews, le donne rappresentano il 49,8% delle istituzioni del Rojava, ma la nuova legge elettorale riduce la loro partecipazione al 20%. Undici ong siriane hanno denunciato il carattere “discriminatorio e accentrato” della riforma. Per i curdi le elezioni appena concluse, non tenutesi in tre province (Hesekê, Raqqa e Suwayda), non sono altro che la riproduzione di un ordine autoritario. Il Consiglio democratico siriano le ha definite “nomine dall’alto”, non un voto popolare. Secondo i dati ufficiali, l’affluenza sarebbe stata del 47%, ma in vaste aree del Nord non è stato aperto alcun seggio. Damasco parla di “ritorno della sovranità nazionale”, ma nel nord i carri armati hanno sostituito le urne. Senza monitoraggio internazionale e con un assedio che continua, il rischio di una nuova escalation è reale. Da Aleppo a Deir Hafer, il nord della Siria è oggi lo specchio di un paese frammentato, dove la pace resta una parola non tradotta. La posta in gioco non è solo territoriale. È una battaglia di memoria e di rappresentanza: il riconoscimento dei curdi come parte integrante di una Siria pluralista. A pagarne il prezzo sono i civili, soprattutto i curdi, che continuano a trovarsi in prima linea tra speranza e sopravvivenza.