La condanna di essere “ex detenuti” di Patrizia Meringolo Il Manifesto, 8 ottobre 2025 Ognuno di noi è un ex-qualcosa. Ma se lo stigma della colpa è indistruttibile, allora diventa inutile lavorare sul carcere. In occasione del Festival Nuova Città 2025 - Abitare il confine, promosso dalla Fondazione Giovanni Michelucci di Firenze, si è parlato anche di carcere e di possibilità di inclusione per le persone detenute, un tema caro all’architetto Michelucci, progettista del Giardino degli Incontri del carcere di Sollicciano. Accanto ai problemi posti dal permanere in una istituzione totale, non sono secondari quelli legati all’uscirne, liberandosi dal peso dello stigma. È una sorta di corollario del “buttare via la chiave” per i condannati, un ammonimento, cioè, che - pur uscendo a pena conclusa - saranno sempre in qualche modo “dentro”. Quelli di noi che si occupano di psicologia, o di discipline giuridiche, formazione o promozione sociale lavorano per sostenere processi di cambiamento. Gli esiti possono essere diversi, ma, se l’intervento funziona, il cambiamento dovrebbe essere evidente anche alle comunità di riferimento. Sono processi che riguardano anche la detenzione, e dopo qualunque tipo di reati. Quanto passa nella cultura diffusa degli effetti prodotti dal cambiamento? L’intersezionalità tra le categorie che determinano disuguaglianze e i differenti livelli di potere in cui si traducono gioca un ruolo non indifferente sulla comunicazione degli effetti, rappresentati diversamente a seconda del ceto socioeconomico e culturale delle persone a cui si riferiscono. Pensiamo al caso di Cucchi, che soltanto adesso, e non sempre, viene definito ‘ragioniere’ mentre per anni è stato solo un ‘tossico in carcere’. E pensiamo anche all’ala del passato che grava sugli anni Settanta-Ottanta, rappresentati - adesso più che mai - solo come anni di piombo, disconoscendo il decennio dei diritti, i cambiamenti epocali, lo statuto dei lavoratori, la legge 180, la legge sull’aborto e così via. Condannati ad essere ex? “Ognuno di noi è un ex-qualcosa”, raccontava una giovane operatrice di un servizio per le dipendenze, “… io però sono tante cose, anche una ex sportiva, ma di questo a nessuno sembra importare nulla… sembra che siano sempre gli altri a scegliere quale ex dobbiamo essere”. Le sue lontane esperienze con le sostanze sembravano gravare comunque sulla sua professionalità. A volte sparivano ma altre volte tornavano, o come attestazioni di merito o, più frequentemente, come una sorta di peccato originale da redimere. Ognuno di noi è un ex qualcosa. Ex-giovane, ex-lavoratore, ex-partner. Talvolta siamo noi stessi ad usare la definizione di ex, per ricordare qualcosa di importante del passato (sono una ex sportiva), ma è una nostra scelta. Il problema è che l’essere ex diventa un marchio, una gabbia da cui è difficile uscire, anche se il nostro processo di cambiamento ha dato frutti importanti. E soprattutto, come sottolineava l’operatrice, sono gli altri a decidere quale ex siamo, di solito con un intento denigratorio. Se “il tossico/la tossica” sono figure emblematiche e ricorrenti, lo sono anche di più coloro che hanno avuto condanne per reati da anni di piombo, enfatizzati per mandare un messaggio securitario, che faccia da monito anche agli attivisti e perfino ai volontari della Global Sumud Flotilla. Succede con una frequenza perfino ossessiva - adesso ovviamente peggiorata - che circostanze storiche vecchie di decenni, i soliti anni di piombo, vengano puntualmente riesumate quando l’ex, pur a pena pienamente scontata, si trova a svolgere una attività socialmente apprezzabile. Così si ribadisce l’eternità del reato, presupponendola un deterrente alle minacce per l’ordine costituito. Ma se lo stigma della colpa è indistruttibile, allora diventa inutile lavorare sul carcere. E direi anche sulla salute mentale, e anche sulla convivenza civile, per la quale è imprescindibile il diritto di cambiare: nei comportamenti, nelle idee o nelle modalità di realizzarle. “L’affettività in carcere è un diritto”. C’è il sigillo della Cassazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2025 La Corte Suprema respinge il ricorso del ministero della Giustizia e conferma: sì ai colloqui intimi per il detenuto in alta sicurezza. La vittoria dell’avvocata Di Credico dopo una battaglia di oltre un anno. La Cassazione ha messo la parola fine. Con la sentenza numero 32376 del 15 luglio 2025, da poco depositata, la Prima Sezione penale ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia e stabilito in modo definitivo che il detenuto in regime di alta sicurezza nel carcere di Parma, ha diritto ai colloqui intimi con la moglie. Non è una concessione, non è un privilegio: è un diritto costituzionale che lo Stato deve garantire. Punto. Si chiude così, con un sigillo definitivo della Corte Suprema, una battaglia legale condotta dall’avvocata Pina Di Credico di Reggio Emilia che ha attraversato tutti i gradi di giudizio e che rappresenta un caso emblematico di come il diritto all’affettività intramuraria - riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la storica sentenza numero 10 del 2024 - stia faticosamente facendosi strada tra le resistenze dell’amministrazione penitenziaria. La sentenza, firmata dal presidente Filippo Casa e redatta dal consigliere Giorgio Poscia, non lascia spazio a interpretazioni. Il ministero della Giustizia aveva impugnato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna dell’11 marzo 2025, sostenendo tre argomentazioni: l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie, la pericolosità sociale del detenuto legata alla sua condanna per reati di stampo mafioso, e l’impossibilità di adeguare il carcere di Parma in soli sessanta giorni. La Cassazione le ha bocciate tutte. Una dopo l’altra, con motivazioni che ridisegnano il confine tra esigenze di sicurezza e tutela dei diritti fondamentali. Il cuore della decisione sta in un passaggio cristallino: i colloqui intimi “non sono una mera aspettativa”, ma costituiscono “una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari”. Possono essere negati solo per ragioni concrete e specifiche: pericoli per la sicurezza, problemi di ordine e disciplina, comportamenti scorretti del detenuto o necessità giudiziarie per chi è ancora imputato. Tutto il resto - le difficoltà logistiche generiche, la mancanza di linee guida, persino il passato criminale del detenuto - non basta. Perché quello che è in gioco, scrivono i giudici richiamando la Corte Costituzionale, è “la dignità della persona”, che “lo stato di detenzione può comprimere quanto alle modalità di esercizio, ma non può totalmente annullare”. La contraddizione del Ministero sulla pericolosità del detenuto - C’è un passaggio della sentenza che suona come una sonora bocciatura. Il Ministero ha sostenuto che il detenuto - condannato per associazione camorristica, appartenente al clan dei Casalesi - rappresenta una “permanente pericolosità sociale”. Ma poi, contraddittoriamente, suggerisce che “sarebbe stato logico concedere un permesso premio” al detenuto, visto che sta per terminare di scontare la pena (fine pena novembre 2026). La Cassazione non ha bisogno di alzare la voce: “Il ricorrente non contesta in modo specifico le valutazioni del Tribunale di Sorveglianza circa l’assenza di motivi ostativi, anzi giungendo ad auspicare, in modo contraddittorio, la concessione di un permesso premio, che però ha come presupposto l’assenza di pericolosità sociale”. Tradotto: se non è pericoloso per uscire dal carcere con un permesso premio, come può essere troppo pericoloso per un colloquio intimo con la moglie dentro il carcere, sotto controllo dell’amministrazione? I giudici sottolineano un elemento decisivo: il recluso, in tredici anni di detenzione, ha mantenuto una “regolare condotta costantemente serbata”. Lavora in carcere, versa regolarmente somme ad associazioni dedicate alle vittime della mafia, partecipa a un percorso spirituale con i Testimoni di Geova. Il Tribunale di Sorveglianza aveva evidenziato l’”assenza di concreti elementi a conferma della sua attuale pericolosità”, ricordando che svolge colloqui regolari con la moglie da anni, senza mai creare problemi. Eppure, per il Ministero, tutto questo non contava. Contava solo il passato, la condanna, l’appartenenza al clan. La Cassazione riporta le cose al loro posto: il cambiamento, quando è autentico e documentato, va riconosciuto. Sull’inadeguatezza delle strutture, la Cassazione è netta: le difficoltà “risultano generiche, non contenendo alcun concreto richiamo alla situazione esistente presso il carcere di Parma”. E ricorda che l’11 aprile 2024 lo stesso Dap ha emanato linee guida operative per dare attuazione al diritto all’affettività. Un’ammissione implicita: le condizioni per applicare la sentenza ci sono. Una lunga battaglia durata più di un anno - Tutto era iniziato nel marzo 2024, quando il detenuto, attraverso l’avvocata Di Credico, aveva presentato la richiesta di colloqui intimi. La direzione del carcere aveva opposto un diniego: mancanza di linee guida e pericolosità del detenuto. Il 7 febbraio 2025, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, Elena Bianchi, aveva accolto il reclamo ordinando di consentire i colloqui entro sessanta giorni. Ma il Dap non si era arreso. Prima un’istanza di sospensiva, poi un reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, con l’appoggio della Procura di Reggio Emilia. A sostegno, una nota della Dda di Napoli che però non riportava alcuna indagine attuale nei confronti del recluso. Solo il passato. L’11 marzo 2025, il Tribunale di Bologna - presieduto dalla dottoressa Maria Letizia Venturini - aveva respinto il reclamo con un’ordinanza di dodici pagine. Il cuore della motivazione stava nella distinzione tra pericolosità interna ed esterna. La prima riguarda il rischio dentro il carcere, la seconda i legami con la criminalità fuori. Quest’ultima è rilevante per i permessi premio, non per i colloqui intimi all’interno della struttura. L’avvocata Di Credico aveva commentato: “Ho chiesto esplicitamente di distinguere la “pericolosità interna” dalla “pericolosità esterna”. I colloqui intimi avvengono dentro il carcere, dove occorre verificare solo che non costituiscano un pericolo per la sicurezza del penitenziario”. Il Tribunale aveva recepito in toto le sue valutazioni. Nonostante tutto, il Ministero aveva fatto ricorso in Cassazione. Ma la Corte Suprema ha chiuso definitivamente la partita. Il ricorso è infondato, il diritto all’affettività va garantito. Ora, al Dap e alla direzione del carcere di Parma non resta che eseguire. Il detenuto potrà finalmente incontrare la moglie in condizioni di intimità. Un diritto che la Costituzione gli riconosce, che la Corte Costituzionale ha sancito, che i giudici di merito hanno applicato e che la Cassazione ha confermato. Dietro questa vicenda c’è la storia di un detenuto che ha scontato tredici anni mantenendo una condotta irreprensibile. C’è il lavoro ostinato di un’avvocata che non si è arresa. E c’è, soprattutto, un principio fondamentale: il carcere non è una condanna all’oblio degli affetti. La dignità umana non si sospende varcando la soglia di un istituto penitenziario. La Cassazione lo ha ribadito con chiarezza: l’affettività è un diritto, non un’aspettativa. E nessuna scusa burocratica, nessun appello generico alla sicurezza, nessuna etichetta del passato può giustificarne la negazione. Altrimenti, il richiamo ai principi costituzionali diventa solo un inutile esercizio di retorica. Ma questa istituzione carcere non ha le carte in regola per assolvere alla sua funzione di Carmelo Cantone* e Francesca Fasciani vocididentro.it, 8 ottobre 2025 Più di una volta, negli anni e in situazioni diverse mi è stato chiesto: “Perché l’istituzione carcere viola così tanto i diritti della persona prescritti dalla Costituzione?”. Una domanda e un tema che ritorna nei dialoghi con addetti ai lavori, con gli stessi operatori penitenziari, spesso anche con il cittadino comune che non ha una comprensione specifica del mondo penitenziario ma che legge e commenta le notizie sul carcere. Gli anni passano e così questa domanda esprime sempre più malessere, perché è vero che il tempo non è trascorso invano nei percorsi del sistema penitenziario, ma più ci si allontana cronologicamente dagli anni delle riforme e più si avvertono le incompiutezze, le assurdità, gli errori e tanto altro. Il sistema penitenziario così com’era negli anni 70 e 80, cioè gli anni della riforma penitenziaria del 1975 e poi della legge Gozzini del 1986, aveva sicuramente delle defaillance enormi e dei divari culturali e gestionali molto forti, ma a distanza di tanti anni bisogna dare conto del perché l’istituzione carcere non ha, e aggiungo, non può avere le carte in regola rispetto all’assolvimento della funzione che le è richiesta. Ma cerchiamo di andare in ordine. Rispetto all’attuale stato di cose focalizziamo due elementi di cambiamento importanti degli ultimi 15-20 anni. Parliamo della produzione in termini di decisioni fondamentali sia della Corte europea dei diritti che della nostra Corte costituzionale. Il secondo elemento consequenziale è l’emersione nello stesso periodo temporale di quella che è stata definita come la stagione dei diritti in carcere. Ad un lavoro intenso di sensibilizzazione non solo giurisprudenziale ma anche dottrinale degli studiosi e sul campo da parte di componenti importanti degli operatori penitenziari ha corrisposto la centralità dei diritti della persona detenuta; ma i diritti sono tali se sono tutelabili e quindi se vengono affermati e poi garantiti. Credo che questa fase, che si avvia con maggior forza a partire dalla prima decade degli anni 2000, abbia presentato il conto ad un sistema che soprattutto dalla legge Gozzini in poi aveva concentrato la sua attenzione sulla “decarcerizzazione”, quindi potenziamento delle misure alternative, piuttosto che sulla qualità della vita in carcere, sulla necessità di garantire l’esercizio dei diritti di cui rimane titolare la persona detenuta. L’aumento significativo delle presenze in carcere, l’inadeguatezza delle strutture penitenziarie, la maggiore presenza di detenuti appartenenti alla criminalità organizzata per le scelte di politica criminale e per l’applicazione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, non ultimo l’aumento esponenziale di detenuti stranieri, confliggevano con le necessità di una nuova stagione dei diritti. I contenziosi in via giurisprudenziale che man mano si sono sviluppati non potevano non mettere a nudo come fosse molto marcato lo scarto tra ciò che il carcere riusciva a garantire (contenimento) e la necessità di migliorare la qualità della vita dei singoli e della collettività. Abbiamo cominciato a ragionare con maggiore lucidità sulla qualità della vita in carcere quando abbiamo toccato con mano che l’emergenza suicidaria era qui ed ora. Abbiamo affrontato più seriamente la questione degli spazi in carcere quando abbiamo cercato di uscire dalla logica della stanza di pernottamento come punto centrale e primario della vita in carcere (per la verità ancora oggi ed anche più di ieri l’attuale governance ragiona quasi esclusivamente in termini di “alloggiamento” delle persone). Raccontando questo non mi sottraggo rispetto all’individuazione di cause non solo oggettive (è oggettivamente constatabile che quasi tutti gli istituti penitenziari italiani non hanno degli standard edilizi abitativi minimamente in linea con le norme di settore). Infatti, dobbiamo guardare agli uomini e alle donne di tutti i ruoli e di tutti i livelli di responsabilità che hanno operato e stanno operando in questi anni. Su questo si sono sovrapposti più problemi. È vero che nel tempo è stato sempre necessario cercare di ridurre ad unità di intenti il personale dei diversi ruoli e poi lavorare soprattutto per e con la polizia penitenziaria per far sì che i suoi appartenenti si muovessero in sintonia con i principi costituzionali e la vasta normativa di settore. Se guardiamo alle inchieste e alle condanne di questi anni in sede penale per torture e atti di violenza da parte di poliziotti penitenziari dovremmo concludere che chi di noi ha lavorato in ruoli apicali nei territori ha fallito in questa missione. In realtà negli anni ci siamo avvalsi di tanti eccellenti operatori, ne abbiamo avuti altri che invece non sono stati in sintonia con la domanda che mirava al miglioramento di sistema. È difficile oggi fare un quadro realistico di quale sia la condizione della polizia penitenziaria. Mi sembra che facciamo i conti con una sorta di “macedonia” dove sono presenti forti istanze di crescita accanto a sacche di interessi personali e qualunquismo, operatori che faticano ad avere un minimum di dignitose condizioni lavorative e altri che di mestiere evitano di lavorare negli istituti per scomparire dentro gli uffici amministrativi di supporto, siano essi all’interno del DAP, dei provveditorati o dei ministeri. La possibile fuga dal lavoro nel carcere coinvolge tutti i ruoli professionali. Esiste lo scoramento, la disaffezione, il senso di abbandono, la paura. È indicativo in proposito il dato delle centinaia di agenti di nuova assegnazione che dopo pochi mesi di servizio presentano le dimissioni e preferiscono essere restituiti alla disoccupazione. Ma questo che stiamo raccontando, per tratti, non è una causa della crisi del sistema penitenziario bensì il suo effetto negativo che investe tanto i detenuti, quando le loro condizioni di vita quotidiane (non parliamo di diritti “alti”) diventano indegne, quanto gli operatori che sul lavoro in carcere hanno investito e stanno cercando di investire. Rimaniamo però ancora per qualche momento sul piano della responsabilità. Siamo sicuri che sia attiva un’analisi costante della qualità del lavoro che viene fatto nelle singole realtà territoriali? Su questo credo che manchi da tempo la corretta radiografia degli istituti per valutare dove, pur davanti alle difficoltà, si sta lavorando al meglio e dove invece non si vuole o non si sa operare in progressione. Se ad una valutazione rigorosa, con criteri chiari e condivisi, seguisse poi anche l’attività di sostegno e di rafforzamento a chi sta lavorando bene e un intervento puntuale rispetto a chi non sta aderendo alle norme e ai programmi dell’amministrazione, probabilmente registreremmo in tempi ragionevoli un forte miglioramento delle condizioni di vita negli istituti. Tutto questo purtroppo negli anni spesso non è accaduto e ciò aiuta a comprendere come mai un diritto acclarato viene garantito in un istituto e in un altro invece no. Con queste riflessioni vengono in mente tanti aspetti su cui l’amministrazione penitenziaria è chiamata a dare conto: i colloqui con i familiari, le telefonate, la garanzia delle cure sanitarie, la garanzia di buone condizioni igieniche, e poi l’ascolto, le relazioni, le opportunità dall’istruzione al lavoro, ma anche il rispetto delle regole che bisogna saper insegnare. Mi rendo conto che parlando di queste cose si rischia di arrivare a fare una lista infinita di problemi senza aiutare a comprendere perché oggi il sistema penitenziario sta implodendo, allora provo a fare una short list di ciò che si dovrebbe invece fare per invertire la rotta. - Aumentare decisamente gli investimenti economici sul mondo penitenziario e contemporaneamente qualificare la spesa su manutenzione straordinaria degli istituti, implementazione degli strumenti tecnologici sia per la sicurezza che per il miglioramento della qualità della vita in carcere. - Miglioramento della formazione professionale e dell’aggiornamento degli operatori. Un percorso chiaro per tutti su cosa ci stiamo a fare nel carcere. - Un’alleanza strategica con le regioni e gli enti locali e il mondo del terzo settore più qualificato ed impegnato, sempre per concordare una strategia comune nel territorio, evitando interventi a macchia di leopardo a carattere episodico e residuale (vedi gli interventi sulla formazione professionale). - Lavorare per ricreare un filo comune, una ragione comune che tenga insieme chi governa l’amministrazione penitenziaria con i territori, cioè provveditorati e istituti penitenziari. Parliamo sostanzialmente di condivisione di un progetto complessivo. - Intercettare tutto ciò che di innovativo e interessante la società esterna è in grado di esprimere e che può costituire fattore di cambiamento dentro il carcere, cominciando dalle tecnologie digitali. Mi fermerei qui, ognuno può aggiungere altri punti importanti, ma ricordo quello che ci insegnava il mio professore di italiano alla scuola media, quando diceva che raccogliendo tanti zero non si arriva a nulla se prima non premetti un uno. Bene, l’uno in questione è una governance politica che metta insieme tutte le azioni, che guardi alla Costituzione, che comprenda che agli operatori di tutte le professionalità bisogna dare un messaggio chiaro, un mandato importante che solo uno stato democratico forte riesce ad esprimere, senza creare steccati e diffidenze di sorta, ascoltando i territori e valorizzando le buone prassi. Senza questo uno tutto il resto rimane un esercizio di stile. Mi rendo conto che la domanda iniziale continuerò a risentirla per chissà quanto tempo. *Carmelo Cantone è stato Vice Capo del Dap e direttore degli istituti di Brescia, Padova e Roma Rebibbia Il progetto del ministro Nordio per la formazione dei detenuti di Giuseppe Ariola L’Identità, 8 ottobre 2025 Il carcere non è solo espiazione della pena, ma anche rieducazione e formazione dei detenuti. Da queste pagine lo abbiamo scritto tante volte. La natura e la finalità del sistema carcerario italiano, nonostante una vocazione chiaramente punitiva, non si esauriscono nell’assicurare la reclusione a quanti sono condannati a una pena detentiva. Finalmente al ministero della Giustizia siede qualcuno che sembra avere presente questo principio. L’universo penitenziario e, più in generale, quello della giustizia prevedono, infatti, anche tutta una lunga serie di garanzie. Troppo spesso, purtroppo, passano in secondo piano. E questo accade sia a scapito degli indagati, che degli imputati, che dei condannati. Per quanto riguarda questi ultimi, la Costituzione prevede, tra le altre cose, che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un cambio di paradigma - La verità è che in un contesto come quello carcerario operare in tal senso è tutt’altro che semplice. Inoltre, questa funzione è stata sempre delegata per lo più all’organizzazione interna dei singoli penitenziari. In alcuni casi, si sono riuscite a introdurre prassi virtuose, in altri, semplicemente si è abdicato a questo compito. Per mancanza di budget, per carenza di personale, per problemi infrastrutturali o perché, in una scala di priorità, si è preferito occuparsi di altro. Adesso però la musica sembra essere cambiata. Il ministero della Giustizia, guidato da Carlo Nordio, ha infatti deciso di intervenire in modo organico e sistemico. L’obiettivo è far sì che la rieducazione dei detenuti si imponga come un obiettivo diffuso, perseguito in maniera generalizzata e non più a macchia di leopardo. Il progetto - Attraverso finanziamenti europei, si è infatti attivato il piano “Una Giustizia più Inclusiva: Inclusione socio-lavorativa delle persone sottoposte a misura penale anche tramite la riqualificazione delle aree trattamentali”. Un progetto al quale, attraverso un apposito avviso, hanno preso parte tutte le regioni italiane. In sintesi, si punta alla formazione professionale dei condannati, così da agevolarne l’inserimento nel mercato del lavoro e l’inclusione sociale una volta tornati in libertà. Conseguentemente, anche il rischio di recidiva, viene ridotto. In cosa consiste il Piano - L’iniziativa, composta di sei azioni in totale, si articola in due direttrici principali. Innanzitutto, attraverso l’avvio di attività produttive presso gli istituti carcerari in collaborazione con le realtà imprenditoriali dei relativi territori, nonché con il potenziamento di laboratori formativi, percorsi di attestazione delle competenze, formazione professionalizzante dei detenuti e tirocini non formali da svolgere all’interno dei penitenziari. In secondo luogo, sono oggetto di finanziamento il potenziamento, la creazione e la ristrutturazione - anche impiantistica e relativa alle infrastrutture tecnologiche - degli ambienti interni ai penitenziari dove organizzare le varie attività. I numeri - Adesso veniamo ai numeri. L’investimento di risorse comunitarie ammonta a poco meno di 75 milioni di euro per ciascuna delle due linee di azione in questione. Il totale complessivo del piano “Una Giustizia più inclusiva” supera, però, i 280 milioni considerando tutte e sei le azioni previste. In esse rientrano anche l’inclusione attiva di minori e giovani adulti e interventi della medesima natura indirizzati ai soggetti in uscita o sottoposti a pene alternative alla detenzione carceraria. Infine, l’assistenza tecnica necessaria alla concreta attuazione dei progetti. I detenuti coinvolti sono 2461, attualmente ristretti in 130 istituti di pena sparsi sull’intero territorio nazionale. Di questi penitenziari 14 sono femminili. Il numero di quelli che si sono avvalsi dei fondi stanziati dal ministero della Giustizia per adeguare le aree trattamenti funzionali allo svolgimento delle attività formative è pari a 96 strutture. Un esempio di sinergia istituzionale - I restanti 34 non sono stati invece interessati dalla riqualificazione degli ambienti in funzione del progetto perché già provvisti di spazi, attrezzature e arredi idonei. Allo stato, dopo il via libera di tutti i progetti presentati dalle singole regioni, è in corso la stipula delle varie convenzioni con la Direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione del ministero della Giustizia. Un esempio virtuoso di sinergia istituzionale - tra il ministero che ha in capo la responsabilità del sistema carcerario e le regioni, a cui spetta definire e impostare le attività di formazione autonomamente, purché d’intesa con i penitenziari - con l’obiettivo di dare una seconda possibilità ai detenuti, in base a quanto previsto dalla Costituzione. Oltre che, più banalmente, dal senso del giusto e di Pietas umana. Studiare in carcere, crescono i detenuti che frequentano l’Università di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 8 ottobre 2025 Durante l’esecuzione della pena, i detenuti terminano cicli di studio e ne iniziano di nuovi. Fino all’università, con un numero di iscrizioni in costante crescita. Nell’ultimo anno accademico gli studenti erano 1.837, 1.769 uomini e 68 donne; oltre il doppio rispetto al 2019, quando erano 796. Dati incoraggianti, che emergono dal report annuale della Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari (Cnupp). Cresce anche il numero di laureate e laureati ristretti. Se erano 27 nel 2020, 4 anni dopo sono più del doppio e arrivano a 55. Dei 1.606 detenuti iscritti a un corso di laurea - gli altri 231 sono in misura alternativa o di comunità o semiliberi -, oltre la metà provengono dalla media sicurezza (870), seguiti dall’alta sicurezza (644). Particolare è poi il dato sui detenuti al 41 bis: degli oltre 700 sottoposti al regime del ‘carcere duro’, in 52 frequentano l’Università. Oggi sono 50 gli istituti di pena in cui i detenuti-studenti sono pari o superiori a 10. Spicca, tra gli altri, San Gimignano con 99 studenti. Ma “in questo momento dovrebbero essere più di 100”, dice a GNews Maria Grazia Giampiccolo, direttrice della casa di reclusione toscana. Non è un dato da poco, in un penitenziario che ospita poco più di 300 detenuti. Alcuni studenti sono iscritti all’ateneo di Siena, altri all’Università per stranieri. “Tanti in questi anni si sono laureati - racconta la dirigente -, anche con ottimi risultati: l’anno scorso, un detenuto ha conseguito la laurea con 110 e lode”. San Gimignano non è l’unico istituto con un numero alto di iscrizioni: in cima alla classifica ci sono anche Milano Bollate (98) e Napoli Secondigliano (95). Numeri resi possibili dall’aumento dei poli universitari penitenziari. Oggi sono 47, più del doppio rispetto a 7 anni fa, quando erano 22. Tramite accordi con i provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria, i poli garantiscono supporto e un’offerta formativa continuativa per chi vuole frequentare l’Università mentre sconta una pena. “Credo fortemente in questo progetto”, dice Giampiccolo, che non nasconde un certo orgoglio per i risultati dell’iniziativa a San Gimignano. “Sicuramente la crescita personale passa per la crescita culturale. Poter offrire questi strumenti alle persone, soprattutto se detenute, rappresenta un valore aggiunto”. All’Università Statale di Milano c’è un ufficio dedicato agli studenti ristretti. Le sue attività si concentrano su Opera e Bollate, e col tempo si sono aggiunti iscritti provenienti da Vigevano, Pavia, Monza, fino al carcere di Voghera. Gli esami vengono effettuati all’interno degli istituti, grazie alla disponibilità di professori e assistenti. L’ateneo meneghino è quello che ha il maggior numero di detenuti iscritti (164); seguono Torino (152), Milano-Bicocca (100), la Federico II di Napoli (94) e l’Università di Siena (92). Alla Statale, chi studia scontando una pena viene esonerato dal pagamento delle tasse. Si tratta di una pratica diffusa nei poli penitenziari: del resto il detenuto, non frequentando i corsi in presenza, non fruisce dei servizi universitari tradizionali. Ma, al contrario, è l’Università ad entrare in carcere. “Affianchiamo a ogni studente ristretto almeno un tutor”, dice a Gnews Chiara Dell’Oca, responsabile dell’ufficio Progetto Carcere dell’ateneo di via Festa del Perdono. Ogni giorno, studenti e studentesse incontrano i propri colleghi di corso in carcere. Il detenuto, da un lato, può accedere ad appunti, riassunti e altro materiale delle lezioni; dall’altro, può vivere la dimensione della relazione. “Il tutor - spiega Dell’Oca - diventa davvero un interlocutore privilegiato, ridando quell’atmosfera di confronto e socialità che si sviluppa in aula e di cui il ristretto non può godere”. Sono 200 i tutor universitari dell’ateneo milanese in affiancamento ai ristretti, quasi 700 quelli in lista d’attesa. L’attività, che è volontaria, registra una partecipazione notevole: “fatichiamo ad assorbire tutte le messe a disposizione che abbiamo”, evidenzia la responsabile dell’ufficio Progetto Carcere. Quest’anno, il personale dell’ateneo ha svolto 250 esami nelle carceri in cui è presente. La relazione è anche una delle motivazioni principali che portano i detenuti a frequentare l’Università. “Spesso non hanno l’ambizione di intraprendere un percorso, ma a spingerli è proprio la dimensione dello scambio con gli studenti, parlare con loro di cose diverse”, dice ancora Dell’Oca. Un segnale che è evidente durante i colloqui di orientamento, prima dell’immatricolazione: “è ormai molto comune che ci dicano che è il loro compagno di cella a spingerli a parlare con noi del polo, per impiegare bene il proprio tempo”. Il carcere è un macrocosmo con le sue peculiarità: per esempio, l’età di chi frequenta l’Università non è quella “classica”. Nell’ultimo anno accademico gli iscritti tra i 18 e i 35 anni sono il 19%; la maggior parte, il 43%, ha tra i 36 e i 50 anni, e il 38% degli iscritti ha dai 51 anni in su. “Bisogna considerare che ci sono persone che sono partite veramente dalla base, quasi da una condizione di analfabetismo, e in carcere hanno potuto iniziare gli studi, arrivando al diploma e poi all’Università”, racconta la direttrice Giampiccolo. Così si spiega un’età media di frequentanti l’Università più alta rispetto alla popolazione libera: paradossalmente, il penitenziario è il luogo in cui i detenuti possono cogliere quelle opportunità formative che non hanno intrapreso da liberi. Per la responsabile della Statale, il gap di età tra i tutor e gli studenti ristretti non è un problema. “Lo scambio resta: i ragazzi dell’università danno supporto con il materiale e in termini di consapevolezza del percorso di studio; il contributo delle persone ristrette è più personale, dal punto di vista dell’esperienza di vita”, spiega Dell’Oca. Ma quali percorsi di studio scelgono i detenuti? Il 27% degli iscritti nell’ultimo anno accademico frequenta corsi dell’area letteraria-artistica; segue un 17% che vuole specializzarsi nell’area politico-sociale e un 12% in quella giuridica. L’offerta formativa per le materie scientifiche è purtroppo limitata, visto che in questi ambiti è spesso necessario svolgere attività in presenza (laboratori, esercitazioni pratiche). Inoltre, in queste materie bisogna avere delle solide conoscenze specialistiche di base. Ma non mancano le eccezioni: l’area STEM attrae il 6% degli iscritti, quella medico-sanitaria il 4%. La presenza fisica dei poli universitari penitenziari sembra uno dei motivi alla base della crescita costante del numero di detenuti iscritti all’Università. “Noi come gli altri poli - continua Dell’Oca - non ci limitiamo al disbrigo delle pratiche amministrative, ma cerchiamo di creare una comunità universitaria dentro il carcere, garantendo una presenza costante”. Date ai carcerati una possibilità di Flavia Zarba huffingtonpost.it, 8 ottobre 2025 Ho avuto il privilegio di entrare in uno degli istituti penitenziari più virtuosi d’Italia dove la pena non è solo detenzione ma soprattutto rieducazione. Ecco cosa ho visto. C’è una luce particolare che ho visto nei loro occhi. Non era solo la speranza, ma qualcosa di più profondo: la voglia concreta di cambiare, di ricominciare, di dimostrare - prima di tutto a sé stessi - che il passato non è e non deve essere una condanna eterna. Ho avuto il privilegio di entrare in uno degli istituti penitenziari più virtuosi d’Italia dove la pena non è solo detenzione ma soprattutto rieducazione. Durante i colloqui conoscitivi con i detenuti, candidati a un percorso lavorativo che consente l’inserimento all’esterno ex art. 21 dell’ordinamento penitenziario, ho percepito un’energia rara, autentica. Non sono mancati i sorrisi mentre, nervosi, rispondevano alle domande in un italiano stentato. Nonostante le mura, nonostante la storia personale che ognuno porta sulle spalle, ogni incontro è stato illuminato da una sorprendente umanità. C’era gratitudine, ma anche determinazione di poter reinserirsi nel sociale, nel mondo delle aziende, del lavoro, della vita. C’era la consapevolezza che il lavoro non è solo un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma uno strumento di dignità, di rinascita e chi ne ha uno, forse, non lo valorizza abbastanza da capirlo. L’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario prevede infatti la possibilità, per i detenuti che ne hanno i requisiti, di lavorare all’esterno del carcere. È una misura che richiede fiducia, responsabilità, ma anche visione. Lo ha detto anche Zagrebelsky “ Il carcere non sia un buco nero, la vita deve continuare”. Ecco, assumere una persona detenuta non è un atto di beneficenza. È una scelta di valore. Chi esce ogni mattina dal carcere per lavorare porta con sé una determinazione rara, un rispetto per l’opportunità ricevuta che difficilmente si trova altrove. Per questo ho deciso di raccontarlo. Perché dietro ogni nome, dietro ogni curriculum, dietro ogni storia c’è un essere umano che chiede - spesso in silenzio - la possibilità di ricominciare. Oltre al valore umano e sociale, è importante sottolineare che l’inserimento lavorativo dei detenuti ex art. 21 dell’ordinamento penitenziario rappresenta anche un’opportunità concreta per le aziende. Infatti, chi assume persone in esecuzione penale esterna può accedere a incentivi fiscali e contributivi previsti dalla normativa vigente. In particolare, la Legge 193/2000, nota anche come Legge Smuraglia, prevede sgravi contributivi per le imprese che assumono detenuti, internati o soggetti ammessi al lavoro esterno, sia durante la detenzione che successivamente, se continuano il rapporto lavorativo una volta terminata la pena. Oltre a questi benefici, le aziende possono stipulare convenzioni dirette con gli istituti penitenziari, con percorsi personalizzati, supporto amministrativo e la possibilità di contribuire attivamente a un modello di giustizia che guarda alla riabilitazione come valore fondante. In un’epoca in cui si parla tanto di responsabilità sociale d’impresa, questa è un’occasione concreta per trasformare le parole in azioni, offrendo un lavoro a chi sta cercando una nuova strada - e ricevendo in cambio non solo manodopera motivata, ma anche la consapevolezza di fare parte di un cambiamento reale. Perché credere nel riscatto è importante e renderlo possibile, lo è ancora di più. Il Decreto Giustizia arriva in “Gazzetta” senza sorprese di Alberto Cisterna Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2025 Cronaca di una sfida senza coraggio. È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 233 del 7 ottobre 2025 la legge 3 ottobre 2025, n. 148, recante la conversione del decreto legge 8 agosto 2025 n. 117, che reca “Misure urgenti in materia di giustizia”. La legge 148/2025 costituisce una sorta di alambicco destinato a distillare soluzioni di lungo periodo per l’apparato giudiziario italiano che vanno, quindi, ben oltre l’intento del Governo di porre rimedio al ritardo nel raggiungimento degli obiettivi del PNRR entro il 30.6.2026. L’applicazione a distanza dei magistrati e la scarsa adesione - Innanzitutto, perché si tratta di misure che solo in parte sono andate a segno (si pensi alla scarsa adesione dei magistrati alle applicazioni “a distanza” lo smaltimento del più risalente arretrato di molte sedi) e che, è logico prevedere, saranno rinegoziate con Bruxelles al momento dell’inevitabile slittamento del termine del 30.6.2026. Secondariamente perché il legislatore ha rimesso al Csm, che invero vi ha tempestivamente provveduto, di predisporre una sorta di impietoso frame dello stato di parecchie sedi giudiziarie di primo e secondo grado che, coerenza vorrebbe, dovrebbe avere un certo rilievo nella designazione dei prossimi dirigenti di quegli uffici. Sul primo punto: sia per quanto riguarda la Corte di cassazione (articolo 1, comma 1), sia per gli uffici di merito di primo (con la supplenza rimessa ai giudici onorari di pace, articolo 1, comma 2) e secondo grado (articolo 2) si prevede una sorta di è downgrading dei requisiti di professionalità e di anzianità richiesta nella perfetta consapevolezza che solo in questo modo sia possibile recuperare risorse aggiuntive da destinare alla mission europea. È una scelta non inedita, ma che questa volta rischia di assumere connotati strutturali e irrevocabili particolarmente incisivi. È evidente che il sistema viene in questo modo polarizzato sul raggiungimento meramente quantitativo degli obiettivi di cui si discute; un percorso insidioso che determina inevitabilmente una sorta di ulteriore torsione dell’intero ordinamento verso il conseguimento di puri standard e quozienti numerici, indipendentemente dalla qualità del prodotto giudiziario - termine quanto meno inappropriato - ma che rende l’idea della completa conversione degli uffici in affannati opifici giudiziari. L’esplosione delle impugnazioni - Il tutto senza considerare un dato del tutto allarmante: l’esplosione negli ultimi tre decenni del numero delle impugnazioni che hanno stremato Corti d’appello e Corte di cassazione proprio per l’effetto del complessivo scadimento della produzione giudiziaria sempre più orientata (almeno dalla legge Pinto in poi e a seguire dalle meticolose rilevazioni statistiche) verso la celere e massiccia definizione delle pendenze. Il piano inclinato dello standard qualitativo della giurisdizione ha conseguenze, ovviamente, dirompenti sull’espansione del contenzioso in una corsa affannosa delle corti del gravame nel tener dietro un numero di impugnazioni elevatissime (senza precedenti in Europa) con la conseguente evaporazione di quella predittività delle decisioni assunte e di quella prevedibilità delle soluzioni approntate dai giudici che pur costituisce l’unico, sostanziale rimedio all’espansione delle liti. Se il diritto giurisprudenziale avrebbe dovuto rappresentare l’approdo ultimo di una nomofilachia efficiente e “modernizzata” al passo dei tempi e soprattutto capace di abbattere il numero delle controversie e di generare virtuose prassi conciliative, la legge 148 del 2025 costituisce espressione di una visione che si muove - per ragioni contingenti comprensibili - in una direzione del tutto opposta, frantumando quel minimo di coerenza nelle decisioni che sarebbe lecito attendersi quanto meno nell’orizzonte ristretto dei tribunali e delle corti d’appello; ove, invece, le applicazioni “a distanza” di giudici provenienti da altri sedi (avrebbe dovuto essere 500 e sono quasi un terzo all’esito delle prime procedure del Csm) rischia di generare un prodotto giudiziario distonico rispetto alla traiettoria delle prassi e degli orientamenti “locali”. Insomma, dopo il 30 giugno 2026 (o dopo l’ulteriore data concessa dall’Unione europea) il rischio è che molte di quelle sentenze siano impugnate scaricando sugli uffici di secondo e terzo grado l’onere di ricondurre a un simulacro di coerenza la giurisprudenza pretoria. L’importante è uscire, dopo il PNRR e comunque vada, dalla logica emergenziale di questi atti. La legge 148 del 2025 è, come si vede, l’ulteriore frutto avvelenato consegnatoci dalla pandemia da Covid-19; se la trattazione scritta si è impadronita delle aule di giustizia di ogni grado, vulnerando il principio di oralità (cardine del contraddittorio), questa volta l’asticella è stata posta più in alto, incidendo sul gradiente qualitativo delle decisioni e tanto a prescindere dal valore professionale del singolo giudice applicato; non è questo il nocciolo della questione. Lite FdI-FI per il ddl sulle chat sequestrate dai pm di Valentina Stella Il Dubbio, 8 ottobre 2025 I berlusconiani: prima il sì definitivo alla legge così com’è, le variazioni possono trovare spazio in altri provvedimenti. Clima tesissimo ieri durante una riunione dei deputati di maggioranza della commissione Giustizia di Montecitorio, allargata alla presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo, al viceministro Francesco Paolo Sisto e al sottosegretario Andrea Delmastro. Secondo diverse fonti parlamentari, sarebbero risuonate urla, e più di qualcuno avrebbe abbandonato il tavolo prima del termine della discussione. Pomo della discordia: la proposta di legge sui limiti ai pubblici ministeri nel sequestro degli smartphone. Da un lato Forza Italia chiede che il provvedimento venga approvato dalla Camera senza modifiche rispetto a quello passato già in Senato. Dall’altra parte il partito di Giorgia Meloni che, al contrario, vorrebbe emendarlo, dopo gli allarmi lanciati nelle audizioni da alcuni magistrati. Ciò significherebbe che il testo dovrebbe tornare nuovamente all’attenzione di Palazzo Madama, allungando così i tempi di approvazione. Com’è noto la norma intende introdurre nel codice di procedura penale l’articolo 254- ter (“Sequestro di dispositivi e sistemi informatici o telematici, memorie digitali, dati, informazioni, programmi, comunicazioni e corrispondenza informatica inviate e ricevute”) anticipando il controllo giurisdizionale di un giudice terzo sia nel momento della apprensione materiale dei dispositivi, sia all’atto dell’accesso fisico ai dati in essi contenuti. Estendendo dunque a questa procedura l’identica disciplina delle intercettazioni, si vogliono evitare accessi indiscriminati e senza controlli ai nostri dispositivi elettronici, in linea con quanto stabilito anche da una sentenza della Corte di Giustizia Ue. Il tutto era nato su iniziativa del senatore azzurro Pierantonio Zanettin e della senatrice della Lega, e presidente della commissione Giustizia al Senato, Giulia Bongiorno. Poi era intervenuto il loro collega di Fratelli d’Italia Sergio Rastrelli, con un emendamento concertato con il governo. E il via libera era arrivato il 10 aprile 2024. Ma adesso alla Camera, Fratelli d’Italia vuole rimettere tutto in discussione. A spingere di più per apportare modifiche è appunto Colosimo, sensibile alle critiche mosse alla norma in particolare dal procuratore nazionale Antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo. Infatti dal partito maggior azionista del governo sarebbe arrivata la proposta di creare una eccezione per i reati di mafia: accedere senza autorizzazione ai dispositivi e acquisire il materiale da parte degli investigatori e dei magistrati inquirenti e poi, solo dopo, attendere l’autorizzazione del gip. Questo cambiamento, che accoglierebbe dunque il grido di dolore delle Procure, non va giù però a Forza Italia che, in primis con il deputato Enrico Costa, chiede da giorni che non si arretri di un millimetro e si giunga nell’Aula di Montecitorio il 27 ottobre, senza alcun passo indietro. Da parte di Fratelli d’Italia, grazie anche a una mediazione di Delmastro, si sarebbe proposto invece di far passare questi emendamenti con la promessa di un iter veloce nel terzo passaggio al Senato. Tuttavia dall’altra parte sarebbe arrivata una controproposta: via libera alle modifiche ma da inserire in un altro provvedimento. Anche perché - è stato ricordato dai parlamentari azzurri a quelli di Fratelli d’Italia - si è al cospetto di una norma che ha già avuto il placet della maggioranza al Senato e “non ci si può svegliare adesso rimettendo mano a tutto, come se non si sapesse cosa è avvenuto nell’altra Camera e quali accordi erano già stati presi”, come ci spiega una fonte che ha seguito da vicino il dossier. Nella diatriba - presente all’incontro la capogruppo Ingrid Bisa - la Lega resta a guardare, pure perché, come già ricordato, la norma è nata appunto su impulso, tra gli altri, della responsabile Giustizia del Carroccio. Per adesso dunque non c’è intesa, si vedrà nelle prossime settimane. A proposito di riforme, è proseguita ieri, in commissione Affari costituzionali al Senato, la discussione sul ddl separazione carriere, giunto alla quarta e ultima lettura parlamentare. “Entro domani (oggi, ndr) alle 10 i gruppi mi comunicheranno l’elenco di tutti coloro che vogliono ancora intervenire. Quando avremo il numero, faremo un cronoprogramma d’accordo con i capigruppo”, ha spiegato a Public Policy il presidente dell’organismo di Palazzo Madama Alberto Balboni (FdI), relatore del testo atteso in Aula per il 23 ottobre, prima della Manovra. Il caso Almasri domani in Aula. Ecco cosa dirà la relazione della maggioranza di Ermes Antonucci Il Foglio, 8 ottobre 2025 Il documento del centrodestra: Nordio, Piantedosi e Mantovano hanno agito per difendere “interessi dello stato costituzionalmente rilevanti”, tutelando la vita e l’incolumità degli italiani presenti in Libia. Critiche al Tribunale dei ministri. Sul caso Almasri i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano hanno agito per difendere “interessi dello stato costituzionalmente rilevanti”, tutelando la vita e l’incolumità degli italiani presenti in Libia sui quali, secondo quanto segnalato dai servizi segreti, pendevano minacce di atti ostili da parte della Rada Force, cioè la milizia guidata proprio da Almasri. Sarà questo il punto centrale della relazione, predisposta da Pietro Pittalis (FI), che la maggioranza presenterà in Aula giovedì mattina in occasione del voto sull’autorizzazione a procedere chiesta dal Tribunale dei ministri nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano. Nella relazione non mancheranno critiche molto dure proprio nei confronti della magistratura. Secondo quanto appreso dal Foglio da fonti qualificate, la relazione di Pittalis prenderà avvio da una serie di premesse non di poco conto. Nel provvedimento, infatti, si sottolineerà che l’arresto del generale Almasri il 19 gennaio da parte della polizia avvenne in modo irrituale, perché le norme che regolano l’esecuzione di un mandato d’arresto della Corte penale internazionale impongono la necessaria previa interlocuzione col ministro della Giustizia. Inoltre si evidenzierà che questo errore venne poi confermato dalla successiva decisione della Corte d’appello di Roma, che annullò l’arresto di Almasri su conforme parere del procuratore generale. La parte centrale della relazione sarà ovviamente dedicata alle valutazioni sull’esistenza del requisito che la legge costituzionale n. 1 del 1989 prevede affinché il Parlamento possa riconoscere lo “scudo” penale ai ministri, vale a dire la connessione tra il loro operato e la “tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante” o “il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. A differenza delle conclusioni del Tribunale dei ministri, per la maggioranza risulta evidente che gli esponenti del governo agirono per tutelare interessi costituzionalmente rilevanti. L’Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna (Aise) aveva infatti appurato che il trattenimento di Almasri avrebbe potuto generare gravi conseguenze per l’Italia sia sul piano diplomatico e commerciale sia in termini di sicurezza per i cittadini e le istituzioni italiane presenti in Libia, in virtù del ruolo di vertice ricoperto da Almasri nella Rada Force. Le minacce di ritorsioni, anche qui a dispetto di quanto sostenuto dai giudici, non apparivano affatto ipotetiche o vaghe, ma concrete, sulla base delle informazioni acquisite dalle autorità da fonti libiche. Gli interessi costituzionalmente rilevanti sono quindi rappresentati dalla vita e dall’incolumità dei numerosi italiani residenti in Libia, nonché dalla difesa delle aziende italiane, in primis l’Eni, che con il suo impianto a Tripoli (presente in un’area sottoposta al controllo dei miliziani della Rada) soddisfa circa il 9 per cento del fabbisogno nazionale di gas naturale. La relazione di Pittalis conterrà anche una serie di dure critiche al Tribunale dei ministri. Viene ritenuta grave la decisione dei giudici di considerare come “versione difensiva degli indagati” il contenuto delle informative rese dai ministri Piantedosi e Nordio al Parlamento, dichiarazioni che peraltro sarebbero insindacabili. Altro grave errore del Tribunale, che per la maggioranza denota una scarsa conoscenza del diritto internazionale, è l’applicazione del concetto di “stato di necessità” così come previsto dall’articolo 54 del nostro codice penale, anziché come configurato dalle fonti internazionali. Grave viene ritenuta la decisione del Tribunale dei ministri di definire come “palesemente irrazionale, e quindi illegittimo” il provvedimento di espulsione di Almasri solo perché, in questo modo, il generale libico sarebbe stato rispedito nel paese dove è accusato di aver commesso i crimini: i giudici non considerano che Almasri, una volta rimesso in libertà dai magistrati, avrebbe potuto delinquere in Italia proprio in considerazione della sua spiccata indole criminale evidenziata dalla Corte penale internazionale. La relazione dovrebbe contenere anche un attacco al Tribunale, che ha deciso di accusare Mantovano di peculato per l’uso del volo di stato per il rimpatrio di Almasri, nonostante la richiesta di archiviazione avanzata dalla procura di Roma: non si comprende, infatti, quale sarebbe l’”interesse privato” goduto dal sottosegretario. Insomma, per la maggioranza su molti aspetti il Tribunale dei ministri ha svolto argomentazioni più politiche che giuridiche. Anche per queste ragioni la richiesta di mandare a processo gli esponenti del governo sarà rispedita al mittente. La relazione della maggioranza sarà illustrata da Pittalis giovedì mattina, prima del voto (a scrutinio segreto) dell’Aula della Camera. La settimana scorsa la Giunta per le autorizzazioni ha bocciato la relazione predisposta dal deputato del Pd Gianassi a favore dell’autorizzazione a procedere. Cinque morti in quattro mesi dopo l’uso del taser: l’Italia senza regole di fronte a un’arma letale di Giulio Cavalli Il Domani, 8 ottobre 2025 Il ministro Matteo Piantedosi ha definito l’arma “uno strumento di dissuasione più sicuro dell’arma da fuoco”. Ma il vademecum operativo redatto dal Viminale nel 2018 non contiene limiti vincolanti su durata, frequenza o zone di mira. In più le linee guida non sono state mai aggiornate. Lunedì 6 ottobre, alle otto e mezza del mattino, i carabinieri sono intervenuti in via Nicola Fornelli, nel quartiere Chiaia di Napoli, per una lite domestica. L’uomo coinvolto, Antony Ehogonoh Ihaza, 35 anni, nato a Napoli da genitori nigeriani, era in stato di forte agitazione, secondo i primi verbali “nudo e in preda a crisi psicomotoria”. I militari avrebbero tentato il dialogo, poi avrebbero usato lo spray al peperoncino. Non riuscendo a immobilizzarlo, uno degli agenti ha impugnato il taser. Pochi istanti dopo la scarica, l’uomo è stato caricato su un’ambulanza del 118, ma è morto durante il trasporto al Policlinico. La procura di Napoli ha aperto un fascicolo per accertare le cause del decesso, ha disposto l’autopsia e sequestrato la salma. L’indagine è affidata a un reparto diverso da quello intervenuto, per evitare conflitti d’interesse. È il quinto decesso in quattro mesi seguito all’uso dell’arma a impulsi elettrici in Italia. Prima di lui: Riccardo Zappone a Pescara, Gianpaolo Demartis a Olbia, Elton Bani a Genova e Claudio Citro a Reggio Emilia. Tutti uomini, tutti morti dopo essere stati colpiti dal dispositivo durante interventi per “stati di agitazione” o “comportamenti violenti”. In alcuni casi le autopsie non sono ancora concluse, in altri i referti parlano di arresto cardiaco “compatibile con stress acuto”. Il ministero dell’Interno insiste sul fatto che “in nessun caso è stato provato un nesso diretto” tra taser e decessi. Il ministro Matteo Piantedosi ha definito l’arma “uno strumento di dissuasione più sicuro dell’arma da fuoco”, giudicando “ideologiche” le polemiche. Ma le parole del Viminale si scontrano con i dati: cinque morti in meno di sei mesi in un Paese dove il taser è ancora in fase di adozione limitata. A Genova, dopo la morte di Bani, l’amministrazione comunale ha sospeso la sperimentazione, riconoscendo che “il quadro normativo è lacunoso”. In altre città, invece, il dispositivo resta in dotazione quotidiana. Nessuna inchiesta indipendente nazionale è stata aperta per verificare modalità d’uso, formazione degli agenti e parametri di sicurezza. Il vademecum operativo redatto dal Viminale nel 2018 prevede cautele - distanza di tre metri, uso come deterrente prima della scarica, assistenza sanitaria obbligatoria dopo ogni impiego - ma non contiene limiti vincolanti su durata, frequenza o zone di mira. Le linee guida non sono state mai aggiornate, né trasformate in norma cogente. Nel confronto internazionale, la statistica italiana appare anomala. Negli Stati Uniti, dove il taser è in dotazione da oltre vent’anni, oltre 1.000 persone sono morte dal 2000 in episodi collegati al suo uso; in 153 casi la scarica elettrica è stata riconosciuta come causa o concausa del decesso, secondo i dati del Police Executive Research Forum. Nel Regno Unito, con protocolli d’impiego e tracciamento rigidamente regolati, si contano 18 morti in vent’anni su un numero d’interventi immensamente più alto. L’Italia, con cinque vittime in pochi mesi e un impiego ancora sperimentale, registra un tasso di incidenza superiore alla media internazionale. La mancanza di un registro nazionale che documenti l’uso del taser e i relativi esiti sanitari impedisce ogni analisi statistica indipendente. Non esistono dati pubblici su quante volte sia stato attivato il dispositivo, per quanto tempo, o contro chi. Le evidenze scientifiche non lasciano spazio all’ottimismo. Lo studio di Douglas P. Zipes, pubblicato sulla rivista Circulation dell’American Heart Association, ha dimostrato che le scariche ad alta tensione possono indurre fibrillazioni ventricolari letali, soprattutto in persone con vulnerabilità cardiaca, sotto stress o sotto l’effetto di sostanze stimolanti. Lo stesso produttore, la statunitense Axon Enterprise, avverte nei manuali tecnici che l’arma deve essere usata “solo quando strettamente necessario” e che bisogna evitare colpi ripetuti o prolungati, soprattutto sul torace, mantenendo “una distanza di sicurezza”. Raccomandazioni spesso ignorate. Nel 2025, il Banco nazionale di prova di Gardone Val Trompia ha bocciato una fornitura di taser Axon per “mancanza dei requisiti tecnico-funzionali minimi” previsti dalla gara ministeriale. Nonostante ciò, l’arma continua a essere utilizzata dalle forze dell’ordine in decine di città italiane. L’Italia non dispone di norme pubbliche e vincolanti che definiscano limiti temporali alla scarica elettrica o che ne vietino l’uso su minori, donne incinte o persone in evidente alterazione psicofisica. Non esiste un registro obbligatorio degli impieghi né un protocollo nazionale di de-escalation preventiva. Le linee guida del 2018 prescrivono genericamente la “valutazione del contesto” ma non impongono procedure di contenimento non violento. Né è previsto un monitoraggio medico sistematico sugli effetti cardiaci o neurologici nei soggetti colpiti. A livello locale, solo alcune amministrazioni - come Genova o Torino - hanno chiesto di sospendere la sperimentazione in attesa dei risultati delle autopsie. Ma senza un coordinamento nazionale, ogni comando decide in autonomia. Le principali associazioni per i diritti civili (tra cui Antigone e Amnesty International Italia) chiedono una moratoria sull’uso del taser finché non verranno stabiliti protocolli trasparenti e verificabili. Amnesty ricorda che, a livello globale, il dispositivo è “responsabile di centinaia di morti e di abusi sistematici, spesso contro persone con disturbi mentali o in condizioni di vulnerabilità”. Il governo, finora, si limita a difendere il dispositivo come “strumento indispensabile”. Ma di fronte a cinque morti in quattro mesi, la giustificazione della “sicurezza relativa” non regge più. Il taser, introdotto in Italia come misura di modernizzazione e deterrenza, sta producendo un effetto opposto: un aumento dei rischi senza un quadro di controllo adeguato. La morte di Antony Ihaza non è un caso isolato: è il sintomo di una sperimentazione trasformata in routine, senza norme, senza verifiche, senza responsabilità. E finché non esisteranno regole certe, ogni nuova scarica rischia di essere un’altra autopsia annunciata. Il taser e il soffocamento: “Mio figlio morto dopo l’intervento della polizia” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 8 ottobre 2025 La procura ha chiesto una seconda archiviazione per la morte di Igor Squeo. I consulenti della famiglia: “Schiacciato a terra, scomparsa la pistola elettrica”. Igor Squeo non è morto per overdose da cocaina. Ne sono convinti i familiari e ne sono convinti i medici che hanno redatto l’ultima relazione tecnica sulle cause del suo decesso. La storia risale al 12 giugno 2022 e riguarda un 33enne che morì per arresto cardiocircolatorio nel corso di un intervento di polizia nel suo appartamento di Milano. Sin dall’inizio il pm ha sposato la tesi dell’intossicazione da sostanza stupefacente e per questo ha chiesto l’archiviazione, a cui la legale della famiglia, Ilaria Urzini, ha fatto opposizione. Ora è arrivata una nuova richiesta di archiviazione, nonostante i molti punti che non tornano in questa storia. Dalle testimonianze dei sanitari che differiscono da quelle degli agenti di polizia agli errori temporali contenuti nella ricostruzione dei consulenti del pm, fino all’uso del taser e alle numerose lesioni e fratture rinvenute sul corpo del ragazzo. “Igor Squeo è morto per insufficienza respiratoria causata dalla contenzione messa in atto dagli agenti di polizia”, denunciano i medici nella relazione. Squeo aveva 33 anni e un trascorso tra l’Australia e Londra. Era tornato a Milano da poco tempo, faceva il fattorino e di sera dava una mano in pizzeria. Il 12 giugno 2022 è morto nel corso di un intervento di polizia nel suo appartamento. Squeo era rincasato in tarda serata insieme a un ragazzo conosciuto per strada. Secondo la testimonianza di quest’ultimo, avevano iniziato a consumare cocaina. Dopo la mezzanotte tra i due è scoppiata una lite che ha indotto il coinquilino di Squeo, in un’altra stanza con un’amica, a chiamare la polizia. Alle 2.45 la volante del commissariato di via Mecenate è intervenuta. Gli agenti hanno detto di aver trovato Squeo in stato di agitazione mentre l’altro ragazzo presentava una piccola ferita in volto. Hanno chiamato i rinforzi e il personale sanitario. Sono così arrivate diverse volanti, per un totale di almeno una dozzina di agenti di polizia. Questi dicono che Squeo brandiva un coltello e perseverava in uno stato di alterazione psicofisica. È stato estratto un taser per avvertimento, poi il ragazzo è stato bloccato e ammanettato in posizione laterale di sicurezza, le caviglie legate dai laccetti in velcro. I sanitari gli hanno somministrato un calmante, il Propofol. Pochi minuti dopo, alle 4.15, è arrivato il primo arresto cardiaco, poi un secondo e un terzo tra il trasporto e il ricovero all’ospedale Policlinico, con il decesso constatato alle 6.45. Secondo il referto del personale ospedaliero del Policlinico, Squeo è morto per “arresto cardiaco in sospetto abuso di sostanze”. Anche i consulenti nominati dal pm, che hanno eseguito l’autopsia giudiziaria sulla salma, hanno ricondotto il decesso a un’assunzione letale della sostanza stupefacente. Da qui è arrivata la doppia richiesta di archiviazione, che però poggia su basi molto fragili. Intanto non tornano i tempi. I consulenti del pm dicono che Squeo ha assunto la dose letale di cocaina in un periodo non superiore a 60-90 minuti dal decesso, dunque tra le 5.15 e le 5.45. Un’ipotesi irreale: in quel lasso di tempo era già al secondo arresto cardiaco, e la polizia era arrivata in casa da diverse ore. Poi ci sono incongruenze tra le testimonianze della polizia e quelle dei soccorritori. Questi smentiscono che il ragazzo fosse tenuto in posizione laterale di sicurezza e parlano invece di posizione prona. “I poliziotti erano in tanti, quindi alcuni lo bloccavano a terra, alcuni con le mani, alcuni con il corpo e altri con il ginocchio”, dice una soccorritrice, che parla di una scena andata avanti per “10-15 minuti”. Un altro punto oscuro riguarda la somministrazione del Propofol, che da linee guida deve essere preceduta dal monitoraggio dei parametri vitali e che può causare depressione cardiorespiratoria. Il monitor in dotazione ai sanitari risulta attivato successivamente alla somministrazione e non prima. “Quando ho visto il corpo di mio figlio in ospedale era conciato da buttar via, naso rotto, testa rotta, mani rotte, buchi strani, lividi ovunque”, denuncia Franca Pisano, madre di Igor Squeo. Gli agenti nel loro verbale, e in seconda battuta i consulenti del pm, parlano di atti di autolesionismo, con il ragazzo che si lanciava contro i muri e le finestre in uno stato di alterazione che avrebbe poi condotto al decesso. Il cosiddetto “excited delirium”, una condizione medica non riconosciuta e molto criticata secondo cui da agitazione, delirio e aggressività può derivare il decesso. E che puntualmente viene tirata fuori quando si verifica una morte durante un intervento di polizia. È stato così anche per Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Riccardo Magherini e numerose altre vittime di abusi delle forze dell’ordine. La relazione tecnica dei medici nominati dalla famiglia di Squeo smentisce la versione delle lesioni autoindotte. Le ferite sul capo, così come la frattura del naso, sono riconducibili alla faccia compressa a lungo sul pavimento. Altre lesioni sul corpo rimandano alla pressione effettuata con avambracci e ginocchia per tenere l’uomo schiacciato per terra. Il corpo in generale è viola, ricoperto di lividi e lesioni diffuse impossibili da procurarsi da solo. A questo si somma la presenza di strani buchi, che, secondo la famiglia, sono riconducibili all’uso del taser. Gli agenti dicono che è stato puntato due volte contro Squeo con i led rossi di avvertimento, l’avvocata Urzini ha chiesto di visionare la scheda di memoria per capire se è stato usato, la relazione della questura di parecchi mesi dopo dice che non è stato possibile verificare perché quel taser era ormai rotto. La conclusione dei medici, nella loro relazione tecnica, è chiara: “Squeo fu mantenuto con forza in posizione prona, con la faccia schiacciata contro il pavimento; detta condizione di immobilizzazione ha interferito con la normale dinamica ventilatoria per impossibilità della gabbia toracica di espandersi adeguatamente; ha creato uno stato di ulteriore stress e paura del soggetto; ha aggravato un disagio respiratorio laddove presente anche la frattura delle ossa nasali”. Il rinvenimento delle cosiddette petecchie nel sacco pericardico è un’ulteriore prova di uno stato di ipossia, lo stesso che portò alla morte di Aldrovandi. La somministrazione finale del Propofol potrebbe aver dato il colpo di grazia in una situazione già compromessa. Per i medici, insomma, il decesso di Squeo deve essere ascritto a un arresto cardiocircolatorio per insufficienza respiratoria causata dalla contenzione degli agenti di polizia e dalla successiva somministrazione del Propofol. Per il magistrato, Squeo, schiacciato sul pavimento da numerosi agenti per lungo tempo e ricoperto di lesioni e fratture, è invece morto per overdose di cocaina. La famiglia ora farà opposizione alla seconda richiesta di archiviazione. Anche l’associazione A buon diritto presieduta da Luigi Manconi sta seguendo la questione. Manconi: “I corpi martoriati? Servono a scoprire le verità nascoste” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 8 ottobre 2025 “Il caso di Igor Squeo ne richiama altri del passato, casi che sembravano chiusi e che invece hanno portato alla luce violenze delle forze dell’ordine”, dice il sociologo di A buon diritto. Al fianco della famiglia Squeo, a sostenere la battaglia per la verità, c’è l’associazione A buon diritto. Il presidente è Luigi Manconi, che a Domani spiega le anomalie della morte di Squeo, che sono sovrapponibili a quelle emerse in tanti altri casi simili. Le lesioni sul corpo di Igor Squeo aprono diversi interrogativi sul suo decesso. Lei che idea si è fatto al riguardo? Questa storia richiama vicende del passato, casi che inizialmente sembravano oscuri e suscitavano giusto qualche perplessità fino a che sono venute allo scoperto violenze da parte delle forze dell’ordine. Non ho certezze, ma ritengo che come accadde in casi come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi le pieghe non visibili di questa vicenda, le contraddizioni, le circostanze non approfondite sono tali da richiedere un ulteriore e più profondo accertamento dei fatti. Sembra invece che si stia andando nella direzione opposta, quella dell’archiviazione. Mi auguro che questo non accada e credo che si possa ancora lavorare per evitarlo. La famiglia ha deciso di pubblicare le foto del corpo di Igor dopo che per oltre tre anni si è sentita abbandonata dalle istituzioni. Perché è così difficile portare avanti queste battaglie? La pubblicazione dei volti sfigurati e dei corpi martoriati - nonostante tutto il dolore che provoca nei famigliari e negli amici - è stato un passaggio determinante in passato per far sì che le indagini andassero nella giusta direzione. Ricordo bene quanta fatica e sofferenza costò ai familiari di Cucchi e a quanti li sostenevano la decisione di pubblicare le foto del giovane nell’obitorio. Tutto questo dimostra come sia vischiosa la situazione ambientale, quanto siano diffusi la diffidenza e il sospetto, quanto sia forte la reticenza ogni volta che si è davanti a vittime costituite da persone comuni e a possibili carnefici appartenenti alle forze dell’ordine. Domina tuttora un equivoco letale, ovvero che raggiungere la verità su vicende che vedono coinvolti apparati dello Stato non sia un contributo fondamentale alla trasparenza di questi stessi apparati e alla loro democratizzazione, ma un attentato alla loro compattezza e alla loro reputazione. Accertare la verità sui presunti responsabili di crimini all’interno delle forze dell’ordine è fondamentale per salvare l’onore dei tanti che i crimini non li commettono. In Italia le morti durante un intervento delle forze dell’ordine sono frequenti. Com’è possibile? Nel marzo 2014 a Firenze, durante un’operazione dei carabinieri in strada, morì Riccardo Magherini. Questo avvenne a seguito di un fermo effettuato secondo quella modalità che io di recente ho chiamato la “tecnica Floyd”, quella che portò alla morte di George Floyd a Minnesota e di cui oggi stiamo parlando per il caso di Igor Squeo. Due mesi prima della morte di Magherini il comando generale dei Carabinieri aveva inviato una circolare da pubblicare in tutte le caserme italiane dove si sosteneva la necessità di rinunciare a quel tipo di tecnica di fermo perché ritenuta potenzialmente mortale. Il comando generale dei Carabinieri era insomma consapevole di quanto la “tecnica Floyd” fosse pericolosa, anche perché ai tempi erano già morte altre persone in questo modo. Penso a Riccardo Rasman nel 2006, durante un intervento di polizia in casa sua a Trieste. Una volta che avvenne la morte di Magherini, proprio con la medesima modalità che quella circolare dei Carabinieri chiedeva di evitare, la circolare venne cancellata. Questo segnala bene a quale tipo di contraddizione siano sottoposti gli appartenenti delle forze dell’ordine, scarsamente e malamente preparati anche sotto il profilo tecnico e con una conoscenza parziale degli effetti della loro attività durante le operazioni di fermo. Avellino. Detenuto psichiatrico muore dopo il pestaggio nella Rems di Katiuscia Guarino Il Mattino, 8 ottobre 2025 La vittima di 59 anni del Casertano, è morto ieri nel reparto di rianimazione dell’ospedale Moscati di Avellino, dove era stato ricoverato in seguito a un violento pestaggio avvenuto all’interno della Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di San Nicola Baronia. L’aggressione risale a lunedì 29 settembre. Secondo una prima ricostruzione, l’uomo sarebbe stato brutalmente colpito da un altro ospite della struttura, un 32enne con problemi psichiatrici. La violenza si sarebbe consumata in pochi minuti: la vittima sarebbe stata colpita ripetutamente con pugni e calci al volto e alla testa, fino a perdere conoscenza. I due infermieri di turno sono intervenuti immediatamente, cercando di salvargli la vita. Hanno praticato il massaggio cardiaco e utilizzato il defibrillatore, riuscendo momentaneamente a far ripartire il battito cardiaco. Il 59enne è stato poi trasportato d’urgenza con un’ambulanza del 118 al Moscati di Avellino, dove è stato ricoverato in condizioni critiche. Nonostante i tentativi dei medici di stabilizzarlo, il suo quadro clinico è peggiorato fino al decesso, avvenuto nella giornata di ieri. Sul luogo dell’aggressione sono immediatamente intervenuti i carabinieri insieme al magistrato di turno e ai vertici dell’Asl di Avellino. I militari dell’Arma hanno raccolto le prime testimonianze per ricostruire con precisione la dinamica dell’accaduto. La Procura della Repubblica di Benevento ha aperto un’inchiesta per fare piena luce sulla vicenda e accertare eventuali responsabilità. L’aggressore è stato subito identificato e posto sotto stretta sorveglianza all’interno della struttura. Anche il garante regionale per i diritti delle persone detenute, Samuele Ciambriello, è intervenuto sulla vicenda, contattando i vertici dell’Asl di Avellino per chiedere chiarimenti e verifiche sulla sicurezza interna della Rems. Torino. “Solo l’1% dei detenuti lavora in carcere, anche per questo la recidiva è altissima” di Luca Marino La Stampa, 8 ottobre 2025 La garante dei detenuti Diletta Berardinelli: “Il lavoro in carcere è un fattore determinante per il reinserimento nel tessuto sociale dei detenuti”. Uscire dal carcere dovrebbe significare ricominciare, ma come si può ricominciare se nessuno ti dà una possibilità? Il sistema è pensato per punire, non per rieducare. Daniele è un ex detenuto. Il nome è di fantasia. Così denunciava 10 anni fa in uno studio del 2017 del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. E oggi la situazione non è cambiata. Lavorare è essenziale per rientrare in società dopo il carcere, ma è una possibilità remota per molti ex detenuti. “Se sto per morire di fame io sono disposto a qualunque cosa per portare da mangiare a casa. E non guardo in faccia nessuno. Sono obbligato, cosa faccio? A me non fa piacere rischiare di tornare in galera per trovare da mangiare, preferisco lavorare, anche essere sottopagato, ma è diventato impossibile”, è la testimonianza di Franco, prima in carcere, ora in cerca di una nuova strada per ricominciare. L’aumento dei crimini - Il tasso di criminalità nelle grandi città è in aumento e Torino non è da meno. Secondo un rapporto di Univ-Censis di maggio 2025 il capoluogo piemontese si classifica quarto tra le città meno sicure d’Italia con un totale di 128.919 denunce sporte in un anno. E spesso a compiere i reati sono ex detenuti che, usciti dal carcere, non sono riusciti a trovare nuove opportunità e sono tornati nel circuito criminale. Il tasso di recidiva (ripetizione di un reato da parte di una persona che era già stata condannata) in Italia si aggira tra il 60 e il 69%, uno dei più alti in Europa (in Norvegia è circa la metà). Quindi circa due terzi di chi è stato condannato per reato torna a delinquere dopo la scarcerazione secondo le stime dell’Associazione Antigone, che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale italiano. Le persone che hanno finito di scontare la loro pena in carcere non trovano lavoro, non trovano casa e rischiano di tornare subito dentro. L’obiettivo del carcere come istituzione è, secondo la Costituzione, “la rieducazione del condannato”, garantendo che le persone che vi escono non ci tornino più. Ma questo - lo dicono i dati - non accade quasi mai. Lavorare per cambiare vita - Tra i temi di cui è urgente occuparsi in questo senso è il reinserimento nel mondo del lavoro. L’Associazione Antigone afferma che il tasso di recidiva si abbatte se gli ex detenuti trovano un impiego, eventualità che non è tuttavia così semplice, anche con le migliori intenzioni. Uno dei requisiti fondamentali per venire assunti dopo la scarcerazione è aver avuto prima la possibilità di lavorare in carcere, ma anche in questi casi non è detto sia sufficiente. “Lavorare nel periodo di detenzione aiuta molto - spiega Marco Pigozzi, volontario dell’associazione Senza confini, che supporta percorsi di recupero e reinserimento sociale delle persone detenute -. Dipende soprattutto se il lavoro è qualificante, ma in ogni caso poter provare di aver fatto qualcosa negli anni di detenzione è importante. Se durante il colloquio il datore di lavoro vede che hai avuto diversi anni di inattività, potrebbe capire che sei stato in carcere e decidere di non assumerti. Al di là di questo un lungo periodo di inattività può far perdere competenze, precisione, puntualità e serietà nel lavoro. Chi non lavora, passa il tempo facendo sempre le stesse cose e parlando con le stesse persone degli stessi argomenti. Se uno mette in carcere una persona sperando che gli passi la voglia, è un illuso: impara ancora di più a delinquere”. Qualche dato - I posti di lavoro disponibili però sono troppi pochi. In Piemonte sono detenute 4479 persone e di queste 1247 lavorano per il penitenziario e solo 287 per aziende esterne (dati del Ministero della Giustizia del 31 dicembre 2024). Quanto al carcere di Torino, nel 2023 si contavano più di 500 detenuti lavoranti, ma di questi solo 50 sono assunti da aziende esterne: l’1% di tutti i detenuti. Il lavoro in carcere è un fattore determinante per il reinserimento nel tessuto sociale dei detenuti. Lo dice Diletta Berardinelli, garante dei detenuti di Torino. Bisogna però distinguere il lavoro svolto per l’autorità penitenziaria e quello svolto per conto di un ente privato esterno. Entrambi garantiscono uno stipendio, ma solo lavorare per un’azienda permette di acquisire competenze e, talvolta, di uscire dall’ambiente carcerario, mentre l’altra possibilità non insegna nulla dal punto di vista professionale, trattandosi spesso di fare pulizie all’interno della struttura. Uno dei problemi principali quindi, come confermato dai dati, è la scarsità di offerte di impiego delle aziende per i detenuti. La legge Smuraglia del 2000 promuove il reinserimento sociale e professionale delle persone detenute tramite sgravi fiscali e contributivi per le imprese che li assumono. “Servirebbe maggiore informazione su questa legge - afferma Angelica Musy, creatrice del Fondo Musy, organizzazione che promuove iniziative per il reinserimento dei detenuti -, ma ci sono anche molti pregiudizi. Manca un ponte tra società esterna e carcere, una vera comunicazione tra dentro e fuori. C’è scarsa apertura verso l’esterno e in questo il penitenziario di Torino è uno di quelli messi peggio”. Il lavoro dopo il carcere - Pur non essendo disponibili dati precisi, diverse associazioni indipendenti e Ong stimano che il numero di persone rientrate nel mondo del lavoro dopo la fine della pena sia molto basso, ancora più di quello dei lavoratori in detenzione. Il più delle volte i contratti di lavoro scadono non appena si conclude la pena in carcere e le aziende, non giovando più di benefici fiscali, tendono a rompere i rapporti professionali. Ha un peso anche il tema abitativo: non avere una casa è un grande handicap nella ricerca di un lavoro. I detenuti, soprattutto quando devono scontare una lunga pena, per comodità segnano come propria residenza l’indirizzo del carcere per farsi arrivare pacchi e raccomandate. I datori di lavoro e le agenzie immobiliari, però, conoscono bene quell’indirizzo (via Aglietta 35) e spesso evitano di firmare contratti con le persone che riportano quella residenza nei documenti o nel curriculum. “Come si può pretendere che una volta che sei uscito dopo un lungo periodo in cui non hai fatto niente, non hai lavorato, sei stato in contatto con persone simili a te, torni in società? - si domanda Pigozzi -. Non è solo una questione di volontà, bisogna anche avere gli strumenti, le opportunità per riuscirci”. Il problema alla base - “Il mondo del carcere è troppo separato dalla nostra società”. Lo si sente dire in continuazione e lo ribadiscono anche Musy e Pigozzi. Questa lontananza fisica e morale tra le due realtà alimenta pregiudizi nei confronti degli istituti penitenziari e di chi ci vive (sia i detenuti che gli agenti). È una tendenza che si può notare osservando il progressivo spostamento delle carceri dal centro delle città verso le periferie. A Torino la Casa circondariale Lorusso e Cutugno, situata nel quartiere Vallette in periferia di Torino, ha sostituito il carcere “Le Nuove” nel 1986, spostando i detenuti ai margini della città. Un altro problema collegato al primo è la chiusura dei detenuti all’interno degli spazi del penitenziario. La maggior parte di questi ha poche possibilità di uscire all’esterno durante la detenzione e immaginarsi una vita diversa da quella criminale. “Si usa dire “una volta che diventi un detenuto lo sarai per sempre”, dice Pigozzi. “Perché non concedere maggiori permessi premio o ricorrere più spesso alle alternative alla detenzione? I dati dicono che facendo così la recidiva cala drasticamente. Guardandola anche in modo cinico, tenere sempre dentro un detenuto ha un grande costo in riscaldamento, cibo eccetera e spesso quando questo viene liberato c’è il rischio che torni a delinquere. Non conviene nemmeno dal punto di vista economico”. Carceri virtuose - “Esistono alcuni casi positivi di reintegrazione dopo il carcere, ma sono stati possibili solo facendo qualche sforzo in più - commenta Musy -. Il carcere di Fossano per esempio funziona molto bene con la detenzione attenuata. Ha tantissimi spazi interni, laboratori, c’è molto movimento tra dentro e fuori e si trova all’interno della città”. Uno degli esempi migliori in questo senso in tutta Europa è la Norvegia che ha adottato un modello di vita carceraria il più possibile vicino alla vita normale: le celle sono senza sbarre e dotate di bagno privato, doccia, tv e frigorifero. Inoltre sono attivi progetti di formazione, educazione e lavoro che coinvolgono la stragrande maggioranza della popolazione carceraria. Il risultato? Uno dei tassi di recidiva più bassi d’Europa. Anche a Torino esistono iniziative virtuose. Lo stesso Fondo Musy promuove diversi eventi organizzati da persone detenute. Domenica 19 ottobre al Sermig si terrà uno spettacolo teatrale interpretato dai detenuti del carcere di Saluzzo: “Ma l’amore no”, promosso dal Fondo Musy. L’ingresso è gratuito e si potrà assistere solo previa prenotazione. Cagliari. Carenza psichiatri al carcere di Uta: “Una sola dottoressa per 725 detenuti” youtg.net, 8 ottobre 2025 A renderlo noto è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo diritti e riforme, che tramite un comunicato denuncia la forte carenza di personale del settore all’interno della struttura penitenziaria. “È a rischio la continuità assistenziale dei detenuti con patologie psichiatriche e tossicodipendenze nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. È urgente un’integrazione del personale anche per evitare che la situazione possa degenerare”, spiega Caligaris. Nonostante gli sforzi da parte dei sanitari nel carcere, come spiegano dall’associazione, per migliorare la qualità dei servizi, la carenza di personale rischia di creare apprensione tra i familiari dei detenuti. “È opportuno ricordare inoltre che nella casa circondariale di Cagliari-Uta sono previsti quattro psichiatri, figure professionali che dovrebbero essere affiancate anche da almeno un tossicologo, da tempo del tutto assente. La situazione è ancora più grave perché anche i servizi territoriali sono fortemente carenti”, si legge nel comunicato. Ma gli psichiatri non sarebbero le uniche figure sanitarie in carenza all’interno del carcere di Uta. “All’appello nell’istituto penitenziario mancano altresì l’oculista, il neurologo, l’otorino e l’assistente sociale per le misure alternative e le pratiche pensionistiche. A breve prenderà servizio l’endocrinologo che si aggiunge al cardiologo e al chirurgo da poco inseriti nell’organico. Tuttavia, senza il completamento delle figure professionali la salute in carcere resta problematica anche perché il lavoro dei sanitari è gravato dalla burocrazia con richieste costanti di relazioni da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, soprattutto nei confronti di detenuti sottoposti a sorveglianza particolare per ragioni di sicurezza”, conclude Caligaris. Gorgona (Li). “Qui ogni detenuto lavora, tutta l’isola va avanti grazie a loro” di Nicolò Delvecchio Corriere del Mezzogiorno, 8 ottobre 2025 “Il meccanismo è semplice: ogni detenuto che arriva a Gorgona, lavora. E tutta l’isola va avanti grazie ai detenuti, che fanno funzionare la comunità in cui si trovano”. Giuseppe Renna, leccese di 62 anni, è dall’aprile 2023 il direttore del carcere di Gorgona, struttura che occupa l’intera superficie della più piccola isola dell’arcipelago toscano. Ex vicedirettore del carcere di Lecce, da sette anni è in Toscana e in questo tempo ha girato diversi istituti della regione, trovando a Gorgona il migliore esempio pratico del concetto di “rieducazione del condannato”. E lì, sull’unica isola-carcere d’Europa, i detenuti contribuiscono a produrre un vino che costa anche 180 euro a bottiglia. Dottor Renna, perché il contesto di Gorgona è speciale? “Innanzitutto perché può sfruttare un contesto unico: qui, a parte un piccolo villaggio, il carcere occupa tutta l’isola. E dunque gli 88 detenuti contribuiscono attivamente alla vita della comunità, lavorando. Fanno gli elettricisti, gli idraulici, i falegnami, i muratori, gli agricoltori. Svolgono gli stessi lavori che svolgerebbero in un ambiente libero, si muovono in un contesto sociale normale, ma sorvegliato. Noi insegniamo loro un mestiere in modo che, una volta scontata la pena, possano trovare un lavoro. Cosa che è successa in tantissimi casi”. E qui si produce anche un vino pregiato... “Sì, 13 anni fa è partito un progetto con Frescobaldi (storica cantina toscana, ndr) che prevede l’impiego di tre detenuti nella coltivazione, nella vendemmia e nella trasformazione dell’uva. Da lì nasce il vino “Gorgona”, sia bianco che rosso. I detenuti sono affiancati da un enologo e due agronomi e sono seguiti in ogni passo del processo. Chi si è contraddistinto per le proprie qualità è stato anche assunto in azienda”. Che tipologia di detenuti arriva a Gorgona? “Arriva qui chi ha fatto un percorso di risocializzazione in istituti. A noi non interessa la gravità del reato o la durata della pena da scontare, interessa il comportamento tenuto. I detenuti che arrivano qui, poi, non devono avere problemi psichiatrici o di tossicodipendenza”. Qual è l’incidenza della recidiva nei detenuti di Gorgona? “Molto bassa e nettamente inferiore alla media nazionale, è un dato che stiamo studiando con l’Istituto sant’Anna di Pisa. Una volta trovai un detenuto in un punto remoto dell’isola, inizialmente pensavo volesse evadere. Mi ha risposto: “Direttore, deve controllare se qui ci sono detenuti in più, non in meno”. Lei ha una lunga esperienza nelle carceri pugliesi, c’è qualcosa di paragonabile a ciò che fate a Gorgona? “Ci sono alcune importanti eccezioni che mi hanno colpito. A Livorno, nell’altro carcere di cui sono direttore, abbiamo presentato una rassegna nazionale di teatro, e da Brindisi verranno dei detenuti che si esibiranno in un balletto. Sono tutti uomini, è una cosa insolita che mi ha piacevolmente sorpreso. Dappertutto c’è la volontà di fare cose nuove e differenti, ma non sempre è possibile. Ci vuole l’impegno di chi dirige gli istituti e anche la collaborazione degli stessi detenuti”. Pisa. “Giustizia in carcere”: dibattito al Settembre Sangiulianese di Enrico Mattia Del Punta La Nazione, 8 ottobre 2025 Mercoledì 8 ottobre alle 17.30 in piazzale dei Pini un incontro promosso da Periphèria e Camera Penale di Pisa con la direttrice del Don Bosco, Alice Lazzarotto. Cosa significa davvero parlare di giustizia quando si entra in un carcere? È la domanda al centro dell’incontro “Giustizia in carcere”, in programma domani, mercoledì 8 ottobre alle 17.30 in piazzale dei Pini, nell’ambito del Settembre Sangiulianese. L’appuntamento, organizzato dall’associazione Periphèria insieme alla Camera Penale di Pisa, porterà nel cuore della manifestazione una riflessione pubblica sul sistema penitenziario, sulle condizioni di vita nelle carceri e sulla dignità delle persone detenute. L’associazione Periphèria torna sul tema del carcere dopo le iniziative dello scorso anno, “Oltre le sbarre” e “Canzoni alla sbarra”, con l’intento di dare continuità a un percorso di riflessione su un argomento “cocente e troppo poco discusso”. “Lo scorso anno il focus dell’iniziativa fu sul mondo del volontariato che lavora all’interno del carcere e sulle pene alternative - spiegano da Periphèria - quest’anno vogliamo entrare proprio nel carcere: parlare dei luoghi, delle condizioni, dei suicidi e lo faremo con la direttrice della Casa Circondariale Don Bosco, Alice Lazzarotto”. “Vorrei ringraziare fin da adesso la dottoressa Alice Lazzarotto per avere accettato l’invito della Camera Penale - dice Mary Ferri, presidente di Periphèria - Non è facile e per niente scontato che una figura istituzionale con compiti così delicati prenda parte a pubblici eventi”. La Camera Penale di Pisa, attraverso i referenti locali dell’osservatorio carcere, partecipa per sensibilizzare l’opinione pubblica “sulla gravissima situazione in cui versano oggi le carceri italiane” e per “rendere comprensibili tematiche spesso fraintese, frutto di preconcetti e pregiudizi errati”. “Giustizia in carcere non vuol dire vendetta - afferma Serena Caputo, presidente della Camera Penale di Pisa - non è accettabile che le persone recluse perdano la loro dignità: oggi sono “vittime di questo mondo” (per usare le parole di De André come ricorderà lo scrittore Fabrizio Bartelloni) e di un sistema penitenziario che deve essere radicalmente riformato”. L’incontro prenderà spunto dalle riflessioni di Fabrizio De André e dal libro “Al vostro posto non ci so stare” di Fabrizio Bartelloni, giurista e scrittore, che sarà tra i partecipanti al dibattito. Per la Camera Penale interverrà anche l’avvocata Chiara Benedetti, referente dell’osservatorio carcere. A moderare sarà la giornalista Francesca Franceschi. Genova. Teatro Necessario da 20 anni dà forma alla riabilitazione dei detenuti attraverso il teatro liguriaday.it, 8 ottobre 2025 Nella stagione 2025-26, l’Associazione Culturale Teatro Necessario compirà 20 anni di attività, un traguardo importante che testimonia la sua dedizione e il suo impegno per la cultura e l’inclusione sociale. La celebrazione di questo evento sarà un’occasione per riflettere sui risultati raggiunti e per guardare al futuro con nuove sfide e progetti. Oggi è stata presentata la stagione di queta istituzione culturale, che si nutre della passione e dell’amore che gli artisti manifestano ogni qualvolta hanno l’opportunita? di esprimersi su questo palco. L’associazione Teatro Necessario, costituita su iniziativa di artisti, operatori culturali e insegnanti con lo scopo di utilizzare il teatro come strumento di integrazione e di riabilitazione socio-lavorativa rivolta ai detenuti, e? attiva dal 2005 all’interno della Casa Circondariale di Genova-Marassi dove promuove, ogni anno, corsi di formazione nei mestieri dello spettacolo per persone detenute mediante la collaborazione con professionisti esterni. C’e? un’atmosfera particolare che si respira al suo interno, sara? perche? e? stato costruito interamente in legno grazie alla manodopera degli stessi detenuti. Unico esempio in Europa, sara? perche? si trova all’interno delle mura di un carcere, sara? perche? il pubblico, entrando, non si reca presso una normale biglietteria, ma viene accolto dal personale della polizia penitenziaria che, con discrezione e gentilezza, svolge le necessarie procedure d’ingresso. Sara? perche? si puo? incontrare un tecnico detenuto che si muove all’interno del teatro come una persona finalmente libera, in un luogo che fa dimenticare il grigiore delle celle di detenzione. Per tutte queste ragioni, il pubblico, sempre piu? fidelizzato, partecipa al rituale di questo teatro quasi come se entrasse in un luogo sacro, avvolto dalla magia, nel quale tutti, spettatori e artisti, concorrono al compimento di un evento magico. Il 5 maggio 2006, sul palcoscenico del Teatro Gustavo Modena di Genova, debuttava il primo spettacolo intitolato Scatenati, spettacolo che diede poi il nome alla compagnia teatrale. Innumerevoli sono stati, nel corso di questi venti anni, i percorsi artistici e formativi che hanno portato alla realizzazione di ventuno spettacoli teatrali rappresentati presso il Teatro Ivo Chiesa, il Teatro Eleonora Duse, il Teatro Gustavo Modena e il Teatro della Tosse di Genova, il Teatro Nuovo di Torino e il Festival di Borgio Verezzi. Oltre cinquecento sono stati i detenuti coinvolti in qualita? di attori e di tecnici, circa novantamila gli spettatori che hanno assistito alle rappresentazioni, decine gli studenti universitari che hanno effettuato tirocini e incentrato le loro tesi di laurea sul nostro lavoro e decine le scuole, di ogni ordine e grado, coinvolte anche in percorsi di alternanza scuola-lavoro. Oggi il Teatro è intitolato a Sandro Baldacci, a colui che con la bellezza e la profondita? dei suoi spettacoli, con il rigore e l’impegno profuso con il suo lavoro, ha contribuito a trasformare un istituto di pena in un luogo di bellezza e cultura. Premio teatro carcere “Sandro Baldacci” - In occasione della celebrazione di vent’anni di attività dell’associazione “Teatro Necessario” e dei primi dieci anni di apertura del teatro dell’Arca, abbiamo deciso di istituire il premio teatrale “Sandro Baldacci”, cofondatore, regista e direttore artistico dell’associazione, prematuramente scomparso, che in oltre vent’anni del suo lavoro, attraverso la forza emotiva trasmessa dai suoi spettacoli, ha dato voce al mondo sommerso e periferico del carcere. Il premio teatrale “Sandro Baldacci” intende valorizzare il teatro in carcere, a livello nazionale, offrendo la possibilità al vincitore di inaugurare la stagione 2026/2027 al Teatro dell’Arca La stagione voci dall’Arca - La prima parte della stagione 2025-26, che si svolgerà da ottobre a dicembre prevede 6 spettacoli per un totale di 22 repliche comprese quelle per la popolazione detenuta e le matinée per le scuole. Anche quest’anno abbiamo scelto la linea del teatro civile e della sperimentazione di nuovi linguaggi con spettacoli che spaziano dalla prosa ai concerti rock, al circo contemporaneo. La stagione si apre sabato 18 ottobre, con Paganini The Rock, l’omaggio di GnuQuartet alla musica e alla figura umana ed artistica di Niccolò Paganini. Inarrivabile atleta delle quattro corde, meraviglia della natura, tenebroso personaggio pubblico ha segnato la storia dell’800 musicale come nessun altro. La suggestione di avvicinare Niccolò al Rock si traduce in un programma musicale nel quale le note esplodono nel linguaggio ritmato e incalzante della musica popolare. Ed è ancora la musica Rock live ad accompagnare sul palco, Oscar de Summa, in Stasera sono in vena il 25 ottobre, per raccontare lo smarrimento che porta il protagonista nell’abisso della droga negli anni 80, in un racconto dall’inizio scanzonato fino ai momenti più intimi e tragici della narrazione. Teatro necessario un autunno da sogno - Dal 7 al 15 novembre, andrà in scena la nuova produzione di Teatro Necessario, Il processo, adattamento teatrale del celebre film di Orson Welles tratto dall’omonimo romanzo di Kafka, che porta in scena il dramma esistenziale di Josef K., un uomo che si ritrova improvvisamente accusato di un crimine che non comprende, intrappolato in un sistema giuridico oscuro e surreale, dove la giustizia sembra essere distante e incomprensibile. Interpretato dagli attori detenuti della sezione di Alta Sicurezza, le cui personali storie si incrociano inevitabilmente con lo scorrere della giustizia, lo spettacolo diventa un’esperienza intensa e coinvolgente, un’indagine talvolta angosciosa, talvolta bizzarra dove ogni tentativo di difesa risulta vano e ogni passo avanti diventa un passo più profondo nella confusione. Il 22 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Karaoke Femminista, analizzerà quanto qualcosa di innocuo come una canzone può aver forgiato il modo di sentirsi donne, partendo dagli anni 70 fino al rap e al trap dei giorni nostri. Attraverso la musica e la riflessione, questo spettacolo sfiderà, con graffiante ironia, gli stereotipi e le convenzioni, offrendo una nuova prospettiva sulla parità di genere e sulla libertà di espressione. Dicembre con Circumnavigando - In collaborazione con il Festival Circumnavigando, il 6 dicembre, lo spettacolo Carré de Je sarà l’occasione per immergersi in un’impresa acrobatica affascinante e maliziosa dove due individui vivono insieme e si confrontano in un gioco acrobatico, che li porta a ritrovarsi da soli o in grande armonia. Un balletto in miniatura, non senza umorismo, virtuoso e infantile. Infine, il 13 dicembre, sarà lo storico appuntamento con A Christmas Welcome, il concerto di Natale che accoglie il pubblico con la magia dei BSMT Singers, le migliori voci della Bernestein School of Musical Theatre, a chiudere la prima parte della stagione 2025-2026, con un repertorio tratto dalla tradizione natalizia dei principali paesi del mondo Ivrea (To). “Vorrei portare fuori le canzoni composte con i detenuti” di Andrea Scutellà La Stampa, 8 ottobre 2025 Il cantautore Fabrizio Zanotti quest’anno ha portato la musica d’autore nei quartieri: Bellavista, San Giovanni e il carcere d’Ivrea, dove ha svolto un laboratorio di song writing di 120 ore. “L’atmosfera era molto forte, alcuni detenuti si sono emozionati e commossi. Probabilmente erano occhi lucidi in cerca di una vita normale”. Fabrizio Zanotti, 56enne cantautore eporediese, ha concluso la rassegna della musica d’autore Pixel con un concerto in carcere. Come Johnny Cash, verrebbe da dire. Corso Vercelli non è Folsom, però, “è un quartiere di Ivrea”. E questo Zanotti ci tiene a sottolinearlo. Perché Pixel quest’anno ha avuto il pregio di mettere in pratica quello che molti predicano da tempo: portare davvero la buona musica e più in generale gli eventi nei quartieri. A San Giovanni, prima, venerdì 26, con il concerto di Miriam Ricordi. A Bellavista, il giorno dopo, con Gloria Tricamo. Coinvolti il rugby e le associazioni. “Quello che fa piacere - spiega Zanotti - è ricevere i commenti delle persone che mi hanno detto: “Finalmente posso scendere di casa e vedere un concerto, senza andare ad Aosta, Torino o Milano”. L’ultimo quartiere, è appunto, quello di corso Vercelli, quello con le mura più alte. Qui Zanotti non si è improvvisato, ma ha concluso un percorso iniziato, per lo più, nel silenzio e andato avanti con il lavoro. “Sto per finire - racconta - un laboratorio di songwriting in carcere da 120 ore. La prima parte si è conclusa con una restituzione, tanti detenuti del primo e del secondo piano hanno composto canzoni, poi le hanno cantate davanti agli altri durante la festa della musica. Così nel tempo si è creato un bel rapporto con tutti: con gli educatori, con la direttrice che ha parlato prima del concerto e ha sottolineato proprio l’importanza del percorso che abbiamo fatto all’interno e questo mi ha fatto molto piacere. Certo, non nascondo che mi piacerebbe che ora i detenuti potessero portare all’esterno queste canzoni. Sarebbe bello farlo dal vivo, come è stato per il teatro. Ma anche un album potrebbe essere un’idea”. In carcere Zanotti è stato accompagnato dal chitarrista Pierre Dalle, che ha suonato insieme a lui. Hanno partecipato una cinquantina di detenuti, tutti del terzo piano, più alcune guardie carcerarie. “Ora per il prossimo anno - spiega ancora Zanotti - speriamo di portare un nuovo concerto in carcere e che, magari, sia aperto a un po’ più di pubblico”. La profezia di Moravia e l’età dell’ansia di Vincenzo Trione Corriere della Sera, 8 ottobre 2025 L’Occidente è stato scosso di nuovo da tragedia. È come se avvertissimo il bisogno di difenderci dentro le parentesi protettive del divertimento effimero, portati a coltivare luoghi comuni, pigrizie mentali, partiti presi. La profezia di Moravia. Intervistato da Carlo Mazzarella, nel 1958, con intelligenza critica, il grande romanziere coglie un paradosso. Viviamo in un’epoca profondamente tragica, ma abitata da uomini che non hanno alcun senso del tragico. “Preferiscono le occupazioni frivole: le canzonette e le commedie”. Potremmo richiamarci a queste parole severe per fermare il destino dell’età dell’ansia che stiamo attraversando. Si tratta di una stagione nella quale l’Occidente è stato scosso di nuovo dall’esperienza “totale” della guerra, che si dà come dominio della violenza; come apocalisse insediatasi nel presente; come accadimento fatale che disarticola le forme della convivenza e quelle della società. Dinanzi a questi scenari oscilliamo tra atteggiamenti antitetici. Quasi per espiare un’originaria colpa, alcuni si affidano al potere della testimonianza, indulgendo, talvolta, nei rischi dell’impegno prêt-à-porter, del facile moralismo, dell’indignazione posticcia. Altri preferiscono guardare altrove, rifugiandosi nei rassicuranti territori dell’intrattenimento che, come hanno scritto Adorno e Horkheimer, dice il bisogno di “dimenticare la sofferenza”, desiderio di fuga dalla “cattiva realtà”, progressivo istupidimento, inclinazione a confondere cultura e svago: “depravazione (…) della cultura” e, insieme, “intellettualizzazione coatta dello svago”. Indifferenti di fronte a talk show politici sempre più simili a commedie con attori che recitano sempre la stessa parte, non di rado preferiamo mostre, film e programmi televisivi segnati dall’adesione a una sorta di filosofia dell’evasione a oltranza. È come se avvertissimo il bisogno di difenderci dentro le parentesi protettive del divertimento effimero, portati a coltivare luoghi comuni, pigrizie mentali, partiti presi. Forse, è un modo per misurare la nostra incapacità di stare nel Male. E per provare a sopravvivere in un contesto drammatico. Eccoci: inconsapevoli eroi minori di un transito storico tragico, privi però di un’autentica tensione tragica. Sprint sul fine vita per “anticipare” il rebus Consulta di Francesca Spasiano Il Dubbio, 8 ottobre 2025 La maggioranza cerca l’intesa sul ddl in vista della decisione sulla legge regionale della Toscana. Anche questa volta i tempi li detta la Consulta, che a inizio novembre tornerà sul tema del fine vita per dipanare lo scontro tra la Toscana e il governo. Che aveva impugnato la norma approvata la scorsa primavera dalla Regione a trazione dem per rivendicare la competenza sul dossier. Nel frattempo anche la Sardegna ha fatto da sé. E altre regioni potrebbero seguirla a ruota, se non arriverà lo stop della Corte Costituzionale. La maggioranza questo lo sa, e pur coltivando un cauto ottimismo sul verdetto dei giudici, vuole farsi trovare preparata anticipando la sentenza con il lavoro del Parlamento. Per poterci riuscire, ovvero per arrivare in aula al Senato con il testo del centrodestra entro fine mese, serve una decisa spinta sull’acceleratore. Anche perché il disegno di legge prevede impegni di spesa, e solo in presenza di unanimità nella conferenza dei capigruppo il provvedimento potrà essere discusso quando si aprirà la sessione di bilancio. Una ragione in più per sbrigarsi, anche se a impensierire il centrodestra è l’ipotesi che la Consulta possa far saltare il banco. I membri delle commissioni Affari Sociali e Giustizia di Palazzo Madama ne hanno discusso ieri, nel corso di una riunione che ufficialmente aveva l’obiettivo di “fare il punto” sul ddl firmato da Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. Oltre ai capigruppo di maggioranza, all’incontro c’era anche il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che segue il dossier per il governo. E che a margine del vertice si è speso per riaprire il dialogo con le opposizioni e raggiungere l’obiettivo di un testo condiviso: “Questo è un tema etico, su cui se si riuscisse a trovare un’intesa sarebbe un bel merito per il Parlamento e per ciascun gruppo - spiega Sisto -. Ci vuole un po’ di buona volontà da parte di tutti, noi ce ne abbiamo messa già tanta, abbiamo già accolto numerose richieste dell’opposizione, ma io credo che qualche spazio ancora ci sia per poter raggiungere l’obiettivo: seguire quello che la Corte ha detto nelle quattro sentenze, ma soprattutto dare al Paese una legge condivisa. E su questo punto, sul dolore, sulla difficoltà di un rapporto fra soggetto e vita, credo che sarebbe un bel segnale”. Ottimista si mostra anche il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, per il quale si è vicini al traguardo. Anche se “ci sono emendamenti su cui bisogna decidere come votare”. L’ostacolo maggiore resta il nodo relativo al Servizio sanitario nazionale, che nella formulazione attuale del testo resta escluso dai percorsi di fine vita per ciò che riguarda la strumentazione, il personale e la fornitura del farmaco letale. Su questo i meloniani non sembrano avere intenzione di cedere, come confermano anche le dichiarazioni di Francesco Zaffini, presidente delle commissioni riunite in quota FdI. “Abbiamo fatto chilometri verso il tentativo di trovare unanimità. C’è chi alza la bandierina del Servizio sanitario nazionale, che è una bandierina pretestuosa, perché non tiene conto che questi soggetti sono già in carico e restano in carico al Servizio sanitario nazionale per ogni evenienza, tranne l’erogazione del farmaco del fine vita, che il Ssn non può fare perché contravviene alla legge istitutiva, al giuramento di Ippocrate, alla più banale logica che un medico cura per la vita”, spiega Zaffini. Il quale ammette pure che sul centrodestra aleggia il timore di arrivare al voto segreto in Aula con i numeri risicati. “Sono materie che interrogano la coscienza - dice - ed è evidente che rispetto a questo tema coltivare certezze significa essere inopportuni e forse imprudenti”. Anche perché sul tema le divisioni non mancano dentro il centrodestra e all’interno dei gruppi, con Forza Italia che fino ad ora non ha escluso di “affinare” il ruolo del Servizio sanitario. E la Lega che per il momento non ha messo bocca sul dossier. Se ci saranno sorprese salteranno fuori alla prossima riunione in programma domani nelle Commissioni riunite, che dovranno esaminare e votare gli emendamenti, tra cui quelli dei relatori, e i subemendamenti. “La nostra posizione l’abbiamo espressa chiaramente”, sottolinea il dem Alfredo Bazoli, che è l’altro principale negoziatore in campo. “Abbiamo segnalato i punti sui quali a nostro parere occorre che la maggioranza faccia ancora uno sforzo - spiega - perché sono punti che confliggono con la giurisprudenza consolidata della Corte Costituzionale”. Che nelle ultime sentenze ha ribadito il ruolo di garanzia del Servizio sanitario nazionale nei percorsi di fine vita. Dovere di solidarietà o atto di generosità? La donazione del corpo dopo la morte tra etica e diritto di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 8 ottobre 2025 I dati che emergono dal rapporto periodico del Centro Nazionale Trapianti (CNT), diffuso in vista della Giornata nazionale della donazione e il trapianto di organi e di tessuti che si celebra l’11 Aprile di ogni anno, confermano che i “no” alla donazione degli organi nella Carta di identità sono saliti del 3,4% rispetto al 2024. Questi dati dovrebbero di necessità incrementate le campagne di sensibilizzazione a favore della donazione del corpo post mortem, con l’obiettivo di far comprendere ai cittadini la rilevanza etica e solidarista di tale genere di atti dispositivi. Forse non tutti noi ci rendiamo conto che disporre del proprio corpo dopo la morte è un atto donativo, ricollegabile a valori di libertà e di solidarietà riconosciuti dall’etica e dal diritto. Chi decide di donare il proprio corpo muove innanzitutto dal principio della gratuità e dal rifiuto della commercializzazione e di ciò deve ricevere certezza. Deve essere informato della destinazione degli organi: ceduti alla scienza e all’insegnamento o donati a fini di trapianto. La possibilità di disporre di corpi umani a fini di studio e ricerca scientifica è un’opportunità preziosa per medici, esperti o studenti di conseguenza per l’intera società che può beneficiare dei risultati ottenuti dalle ricerche. È pur vero che con l’avvento della chirurgia mini- invasiva, prima, e della chirurgia robotica, poi, vi sia oggi la possibilità per specializzandi e medici di esercitarsi sul video trainer e su simulatori a realtà virtuali. Nonostante, tuttavia, queste nuove tecniche di apprendimento, la letteratura internazionale è prevalentemente concorde nel ritenere più efficaci le modalità dirette di esercitazione sui cadaveri, con le quali sono possibili, realisticamente, tutti i passaggi tecnici sperimentali richiesti dalla moderna chirurgia. A sua volta la chirurgia dei trapianti è certamente una insostituibile opportunità terapeutica capace di risolvere positivamente oggettive situazioni di pericolo e di danno per la vita, non altrettanto efficacemente trattabili. È comprensibile che questi atti dispositivi, a seconda delle diverse destinazioni e finalità, possano tuttavia risultare una scelta problematica sia per il de cuius che per i suoi familiari. È facile immaginare che vi siano delle resistenze psicologiche e affettive all’idea che il proprio corpo o il corpo di un nostro caro possa essere reificato, tagliato, sezionato. Al centro di questa decisione si pongono, allora, le domande di cosa possa significare per noi il corpo che siamo quando non ci siamo più dopo la nostra morte, quale sia il potere che noi esercitiamo sul nostro corpo e quale sia lo statuto del corpo. Risposte incentrate sulla distinzione persona/ cosa sia sotto l’aspetto etico che giuridico. Nei confronti del cadavere il diritto reagisce principalmente come se si trattasse di una “cosa”. Un bene speciale che conserva una sua dignità e per diverse religioni una sua sacralità, che impone rispetto in considerazione di ciò che ha rappresentato nel passato: ciò spiega il culto dei morti e la configurazione di illeciti penali in caso di vilipendio del cadavere. Va anche ricordato quale importanza esercita il “principio di solidarietà” negli atti dispositivi. Per diverse correnti di pensiero una rilevante influenza, tanto che questi atti non dovrebbe essere facoltativi, ma rientrare tra i doveri che vincolano i membri di una società. Ne consegue da questo punto di vista che una cessione di organi post mortem non può più essere considerata come una forma di “generosità”, ma considerata come un “dovere” caratterizzato da una forza cogente morale o giuridica. Soprattutto si sottolinea che nella donazione di organi da cadavere a vivente non vi sono due vite da porre a raffronto, ma da una parte una vita, e pertanto un soggetto titolare di diritti fondamentali tra cui il bene vita, dall’altro un cadavere, rispetto al quale non sono riferibili diritti di esistenza. Ne consegue che non è un diritto proprietario o altri interessi del de cuius che recedono, bensì è l’esigenza di tutela della salute di chi necessita un trapianto a prevalere. Sebbene, tuttavia, in base a questa tesi il cadavere possa rientrare sic et simpliciter nella categoria delle res societatis o communis, appare pur sempre giustificato conservare la fattispecie del consenso espresso dalla persona in vita in merito alle disposizioni del suo corpo, perché esplicita e protegge l’autonomia della persona, anche dopo la morte e si può tradurre in una difesa all’espropriazione. Il ddl che riscrive il diritto alla salute dei minori transgender di Simone Alliva Il Domani, 8 ottobre 2025 La relatrice accusò Sanremo di “propaganda trans”. Affidato alla deputata FdI Maddalena Morgante, senza formazione medica o psicologica ma “cultrice di diritto del turismo”, il disegno di legge arriva in commissione mercoledì 8 ottobre: diagnosi vincolanti, registro nazionale e supervisione ministeriale sotto il controllo politico di Schillaci e Roccella. Un tavolo tecnico durato un anno e cinque mesi, dibattiti accesi, proteste da parte dei genitori di figli con varianza di genere e qualche slogan. Adesso arriva in commissione Affari Sociali della Camera il testo “Disposizioni per l’appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere” che riscriverà il diritto alla salute sull’utilizzo degli ormoni e dei farmaci bloccanti della pubertà per i minori con varianza di genere. C’è un testo, voluto dai ministri della Salute e della Famiglia Orazio Schillaci ed Eugenia Roccella, ma soprattutto c’è una relatrice: Maddalena Morgante, responsabile nazionale per FdI del dipartimento Famiglia e diritti non negoziabili. Nipote di Valentino Perdonà che ha collezionato vent’anni di Parlamento nella Dc, a partire dal 1975, eppure con una carriera politica non brillante, un’adolescenza passata dentro Azione Giovani, il gruppo giovanile di Alleanza Nazionale. Nel 2020 si candida alle regionali in Veneto a sostegno del presidente uscente Luca Zaia, tremila voti (non viene eletta). Fa ancora peggio alle elezioni comunali di Verona nel 2022 (solo 393 preferenze). Subentra in consiglio nel maggio 2023 ma molla a settembre. Il partito riesce a portarla alla Camera. L’Italia si accorge di lei a febbraio del 2023, quando lancia la crociata contro Sanremo e il cantante Rosa Chemical: “Proteggiamo i nostri bambini da Sanremo e dalla propaganda transgender”. Un’uscita che le regala in effetti ribalta nazionale contro “l’appuntamento più gender fluid di sempre”. Veronese, due figli, una propensione alla difesa dei bambini, purché siano italiani “la nostra stripe va scomparendo”, paladina delle famiglie, purché siano composte da coppie eterosessuali, sostenuta dalla lobby anti-scelta Pro-Vita & Famiglia alla quale promette l’abolizione della legge 194. Si ritiene una custode del corpus domini (suo il disegno di legge per rendere la celebrazione cattolica per la presenza reale di Gesù nell’eucaristia, festa nazionale). Tra i suoi percorsi di studi non c’è nulla che l’avvicini a un tema complesso come quello dei percorsi per le persone con varianza di genere: avvocata civilista con una laurea sulla “Riforma della parte aeronautica del Codice della navigazione”. Cultrice di diritto romano e diritto del turismo. Nessuna traccia formazione in endocrinologia, psicologia infantile o diritti dei minori in ambito sanitario. Il ddl che inizierà il suo percorso da mercoledì in commissione, si snoda su quattro articoli, disposizioni precise e criticità evidenti. Il primo è sulla somministrazione dei farmaci e degli ormoni. Prevede che i minori con incongruenza di genere possano ricevere farmaci bloccanti la pubertà o ormoni mascolinizzanti/femminilizzanti solo dopo diagnosi di un’équipe multidisciplinare, rispetto dei protocolli ministeriali e acquisizione del consenso informato. Un passaggio che rischia di comprimere il diritto alla salute dei minori (art. 32 Cost.) e l’autonomia dei medici, trasformando terapie consolidate in pratiche subordinabili a controlli burocratici. Una scelta che mette il medico in condizione di dover mediare tra indicazioni cliniche e vincoli amministrativi. Come già denunciato dagli esperti, anche durante il tavolo tecnico, il testo non si allinea alle prescrizioni delle linee guida internazionali (The World Professional Association for Transgender Health, Endocrine Society), rischiando ritardi nell’accesso a cure reversibili e sicure. E inoltre manca un meccanismo chiaro di partecipazione delle persone minorenni e delle famiglie, così come tutele per situazioni di emergenza. Si pone inoltre l’accento sul registro Aifa. Cioè l’istituzione di un registro nazionale per monitorare prescrizioni, dispensazioni e follow-up dei trattamenti farmacologici. Il rischio è quello di una schedatura dei minori: la raccolta dei loro dati sensibili può violare il Regolamento generale sulla protezione dei dati (la normativa europea entrata in vigore nel 2018) e diritti alla riservatezza. Non sono previsti meccanismi di anonimizzazione né regole precise su accesso e utilizzo dei dati. La registrazione obbligatoria inoltre potrebbe scoraggiare medici e famiglie, creando ritardi nell’inizio dei percorsi terapeutici. Il rischio è anche quello di trasformare la cura in controllo amministrativo, potenzialmente stigmatizzante per i ragazzi. L’articolo due istituisce un tavolo ministeriale con cinque esperti per valutare i dati raccolti e redigere relazioni triennali al Parlamento. Una scelta già criticata dalle associazioni Lgbt e dai professionisti: quella di una nomina politica degli esperti rischia di sostituire valutazioni scientifiche con considerazioni ideologiche. Il tavolo, infatti, non richiede competenze specifiche in endocrinologia pediatrica, psicologia adolescenziale o diritti dei minori, aumentando il rischio di decisioni parziali. Inoltre la cadenza triennale rende le valutazioni poco tempestive, con possibili ritardi nell’adattamento dei protocolli. Infine l’articolo tre è una clausola di invarianza finanziaria e prevede che tutti gli adempimenti avvengano con risorse già disponibili, senza nuovi fondi, una difficoltà ulteriore per ospedali e centri specializzati già sovraccarichi. Migranti. Viminale bocciato: nei Cpr gli standard sanitari sono inadeguati di Michele Gambirasi Il Manifesto, 8 ottobre 2025 La sentenza del Consiglio di Stato dopo il ricorso di Asgi e Cittadinanzattiva. Nei Cpr non è garantito un adeguato livello di assistenza sanitaria. Lo ha stabilito una sentenza del Consiglio di Stato, pubblicata ieri, che ha parzialmente annullato un decreto del Viminale del marzo 2024 contenente lo schema di capitolato d’appalto per la gestione e il funzionamento dei Centri per il rimpatrio. La decisione, nata da un ricorso presentato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e da Cittadinanzattiva, contesta in modo specifico le parti riguardanti l’assistenza sanitaria, le spese mediche e il personale, “con particolare attenzione alle previsioni a tutela delle persone trattenute con vulnerabilità psichiatrica o sottoposte a trattamento farmacologico”, soprattutto rispetto alla necessità di evitare atti di autolesionismo o di suicidio. Un ricorso che era stato, in prima battuta, respinto dal Tar e invece accolto dai giudici di Palazzo Spada che hanno in più parti dato ragione alle associazioni. Le carenze rilevate da Asgi e Cittaddinanzattiva vanno dalla mancata formazione specifica richiesta al personale all’insufficienza della presenza oraria di quello medico alle carenze nella tenuta della documentazione clinica. Preoccupazioni che secondo il giudice amministrativo trovano più riscontri: innanzitutto la relazione del Garante nazionale dei diritti dei detenuti del 2023, che già rilevava che nei Cpr la situazione delle persone vulnerabili e sottoposte a trattamenti farmacologici è “problematica e presenta diverse criticità”. Contenuti rispetto ai quali il Viminale, viene indicato, “non ha preso specificatamente posizione”. Situazioni problematiche che sono state confermate anche da un altro rapporto, quello redatto nel 2024 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (Cpt), un organismo del Consiglio d’Europa. Dunque i giudici amministrativi hanno ritenuto che il capitolato d’appalto non ha rispettato in pieno le linee guida già indicate in una precedente direttiva ministeriale del 2022, che stabiliva criteri per il funzionamento dei Cpr. In particolare, al Viminale viene contestato che “in un contesto delicato come quello della gestione dei Cpr, è essenziale non solo una conoscenza profonda della realtà nella quale va a incidere l’azione amministrativa, ma anche che la stessa si avvalga del supporto di tutte le amministrazioni che dispongono di competenze relative alla materia affrontata”. A mancare è stata soprattutto la considerazione delle valutazioni del Tavolo di coordinamento e sicuramente non c’è stato il coinvolgimento del ministero della Salute né del Garante dei detenuti. La norma quindi andrà rivista in più parti dal ministero dell’Interno per adeguarla a tutti i rilievi contestati. Il Viminale, che aveva presentato un proprio ricorso che è stato però respinto, è stato condannato a pagare le spese processuali ad Asgi e Cittadinanzattiva: dodicimila euro in totale, seimila ad associazione. Fino a quando la pistola nucleare resterà lì, appesa al muro? di Maurizio Assalto Avvenire, 8 ottobre 2025 La crisi del principio di deterrenza atomica in un contesto di disordine geopolitico genera molti timori. Pensando alla massima di Cechov sul teatro. Un celebre principio drammaturgico noto come “la pistola (o il fucile) di Cechov” afferma che se all’inizio di una pièce compare un’arma da fuoco, prima del sipario quell’arma avrà necessariamente fatto fuoco. Nella sua forma originaria, espressa dall’autore russo in una lettera del 1° novembre 1889 al regista Aleksandr Lenskij, il pensiero suonava così: “Se nel primo atto c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo atto deve assolutamente sparare. Se non deve sparare, non deve stare lì”. Se dal campo della finzione teatrale ci spostiamo a quello della realtà, il principio si ribalta. Nel nostro mondo ci sono le armi, sempre più armi e sempre più potenti: progettate non per attaccare un potenziale nemico, ma per dissuaderlo dall’attaccare. Come ha lapidariamente sintetizzato Norberto Bobbio (nella voce “Pace” per il I Supplemento dell’Enciclopedia del Novecento Treccani, 1989), l’efficacia finale di questi strumenti “dipende non dal loro uso effettivo, ma semplicemente dalla minaccia del loro uso”. E però, cechovianamente, questi strumenti “stanno lì”: fino a che punto possiamo sperare che il principio enunciato dal drammaturgo non valga anche nella realtà? Fino a quando la dottrina della deterrenza non si rivelerà per quello che è, uno sconsiderato azzardo? Che il timore reciproco, basato sulla parità di potenza, sia un modo per mantenere la pace non è un’idea nuova. Duemilacinquecento anni fa l’aveva già teorizzata anni Tucidide: “l’unica garanzia”, puntualizzava lo storico ateniese, “giacché chi vuole violare i patti ne è distolto dal fatto che non assale da una posizione vantaggiosa” (III, 11, 1). Di conseguenza, possiamo immaginare che quando all’accresciuta potenza di una parte fa riscontro l’accresciuta potenza della controparte, l’equilibrio non ne venga intaccato e semmai ci si possa attendere un aumento del timore reciproco e quindi della sicurezza, con la conseguenza paradossale che al massimo di potenziale pericolosità corrisponde il minimo di pericolo effettivo. Possiamo ancora confidare in un simile automatismo nel momento in cui la tensione internazionale dilaga in ogni direzione? La capacità dissuasiva del timore, che con alterne vicende ha ispirato per secoli i rapporti geostrategici tra gli stati, è entrata in crisi quando, intorno alla metà del ‘900, la crescita esponenziale della potenza ha prodotto l’inevitabile cortocircuito che si è risolto nel paradosso estremo: il massimo della sicurezza coincide con il massimo del pericolo. Con l’avvento degli ordigni atomici, l’arma assoluta, all’equilibrio della paura si è sostituito l’equilibrio del terrore, una dimensione nuova e totalizzante che non fa distinzione tra potenziale sconfitto e potenziale vincitore, perché entrambi accomuna nell’ineluttabilità della catastrofe. Se per ottant’anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale, il buonsenso ha consentito di evitarla, nell’era del disordine globale la situazione è cambiata. Non è più il tempo della Guerra fredda, una prolungata partita a scacchi dove a ogni possibile mossa corrispondeva una possibile contromossa, e alla contromossa una contro-contromossa e così via, in una ramificazione totalmente logica, quindi in teoria prevedibile. Negli anni della “Madman theory” (teorizzata oltre mezzo secolo fa dal presidente Nixon e rilanciata su scala planetaria da Trump) nessuna previsione è più possibile. La nuova situazione assomiglia a un gioco d’azzardo, un Texas hold ‘em con due carte coperte in mano ai contendenti. Le carte coperte sono le loro reali intenzioni, che cosa sono pronti a fare “nel caso che”. Al tavolo da poker, quando un giocatore pensa che l’altro stia bluffando, va a vedere il gioco: al peggio ci rimette la posta. In questo caso il rischio è un altro. E qui sta l’azzardo, la scommessa decisiva per le sorti della nostra salvezza terrena quanto quella di Pascal per la salvezza delle anime nell’aldilà. Di bombe nucleari “tattiche”, bombette “gentili” utilizzate per ammazzare e distruggere ma non troppo, si parla ormai disinvoltamente come di una eventualità praticabile: forse è un bluff, forse no. E se non lo fosse? E se qualcuno decidesse di andare a vedere? “Dietro la fiducia nell’equilibrio del terrore” (ancora Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, 1979) c’è “una concezione ottimistica della storia, che deriva quasi sempre da una incapacità o da un inconsapevole rifiuto di pensare al destino dell’uomo e della sua storia sino alle radici”. Va da sé che questo ottimismo trova scarso conforto nei fatti, e pure nella teoria. Nel nono libro della Metafisica Aristotele spiega che la potenza (dýnamis) esiste in funzione dell’atto (enérgheia), e che è sbagliato sostenere che una cosa è in potenza ma non si realizzerà mai. Ora, l’arma nucleare è qualcosa che è in potenza, e che cosa è in atto lo abbiamo sperimentato il 16 luglio 1945 nel Trinity Test di Alamogordo, New Mexico, e più tragicamente poche settimane dopo a Hiroshima e a Nagasaki. Secondo i dati più recenti (aggiornati al gennaio 2025) della Arms Control Association, sono presenti nel mondo circa 12.200 testate nucleari, in gran parte nelle mani di Russia e Stati Uniti ma in percentuali minori distribuite tra altri sette o otto paesi, ognuna con una potenza distruttiva da alcune decine a migliaia di volte quella di Hiroshima. Il passaggio dalla potenza all’atto è dunque (aristotelicamente) inevitabile? In realtà il filosofo distingueva tra dynámeis irrazionali, proprie della natura e della materia, che possono attualizzarsi in un solo modo e lo fanno necessariamente se nessun fattore esterno lo impedisce (per esempio il seme che diventa pianta), e dynámeis razionali, proprie delle tecniche e del comportamento umano, nelle quali la necessità non ha luogo e che di conseguenza possono passare come pure non passare alla fase di enérgheia (il pezzo di legno è in potenza una scultura ma non lo diventa se non interviene l’azione dello scultore). L’arma nucleare, di per sé, ha soltanto il potere di deflagrare e distruggere, ma il potere di farla deflagrare dipende (ipse direbbe) da “un desiderio o scelta razionale”: è questo il fattore esterno (umano o divinamente ispirato) che può impedire alla sua potenza di divenire atto. Ma quanta presa ha ancora la ragione? E se, anche nella commedia umana, valesse la regola di Cechov? La giustizia condizione necessaria alla pace di Widad Tamimi Il Manifesto, 8 ottobre 2025 Due anni dopo, il 7 ottobre non è più soltanto una data impressa nel calendario del dolore: è una linea di frattura nella coscienza del mondo. Quel giorno ha scosso le fondamenta del diritto internazionale, della politica e persino della percezione morale che l’umanità ha di se stessa. Rileggere oggi quella tragedia significa guardare non solo alle 1.194 vite spezzate in Israele, ma anche alle decine di migliaia di palestinesi uccisi, feriti o sfollati nella risposta che ne è seguita. Significa riconoscere che la catena di violenze non è iniziata né finita allora, ma che da quel giorno la giustizia ha cominciato a reclamare con più forza il proprio spazio. Per due anni, la memoria del 7 ottobre è stata contesa e manipolata. Da un lato, il ricordo del trauma israeliano, profondo e legittimo, dall’altro, la catastrofe palestinese che ne è derivata, ridotta spesso a “effetto collaterale”. Ma la memoria non è un tribunale e la giustizia non può essere selettiva. Il diritto internazionale umanitario - quello che regola i conflitti e tutela la vita dei civili - non ammette eccezioni: vieta gli attacchi contro i non combattenti, la distruzione di infrastrutture civili, l’uso della fame come arma di guerra. Tutto questo, in questi due anni, è accaduto ripetutamente e sotto gli occhi di tutti. Il lavoro delle corti internazionali prosegue con pazienza e perseveranza: i mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant (i tre leader di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif e Ismail Haniyeh sono stati uccisi in omicidi extragiudiziali da Israele) ci ricordano che il principio dell’universalità del diritto è concreto. La legge è uguale per tutti. Non si tratta di equiparare le colpe, ma di riaffermare un principio: la responsabilità penale non conosce bandiere né ideologie. In questo, la Cpi ha restituito dignità non solo alle vittime, ma anche al diritto stesso, troppo spesso subordinato alla ragion di Stato. Negli ultimi due anni, la distanza tra i governi e le opinioni pubbliche è cresciuta. Mentre le cancellerie restavano impantanate nei calcoli geopolitici, le piazze si sono riempite di studenti, giuristi, accademici, religiosi, e comuni cittadini che hanno chiesto la stessa cosa: verità, giustizia e rispetto del diritto internazionale. È questo forse il cambiamento più profondo: la consapevolezza collettiva che la giustizia non è più un affare di élite, ma una pretesa universale. La politica internazionale ha fallito là dove avrebbe dovuto prevenire. Per decenni, ha ignorato la radice del conflitto, affidandosi a negoziati che scambiavano diritti con tregue temporanee, promesse con occupazioni, silenzi con armi. Il diritto, invece, pur tra lentezze e imperfezioni, sta tornando a essere l’unico linguaggio credibile. Le decisioni della Corte internazionale di Giustizia, le indagini delle Nazioni unite, le sentenze sui crimini di guerra segnano un ritorno di civiltà. Non basta ancora, ma è un inizio. Oggi, ricordare il 7 ottobre non può significare scegliere una parte. Significa riconoscere che nessun popolo può costruire la propria sicurezza sull’annientamento di un altro. Significa anche accettare che la giustizia non è un ostacolo alla pace, ma la sua condizione necessaria. Israele dovrà affrontare la propria malattia interna - quella di uno Stato che si è difeso fino a perdere la misura della difesa. La Palestina dovrà superare la frammentazione e il peso di rappresentanze che l’hanno spesso tradita. Ma entrambi i popoli potranno rinascere solo in un contesto dove la legge protegge i vivi e onora i morti, senza distinzione. Forse il più grande insegnamento di questi due anni è che il concetto stesso di Stato sovrano, se usato come scudo per violare i diritti umani, non ha più legittimità. Il futuro appartiene a un ordine giuridico capace di anteporre la persona all’interesse nazionale, la giustizia alla forza. Due anni dopo, il 7 ottobre ci obbliga a ricordare una verità semplice ma rivoluzionaria: non esiste pace senza giustizia, e non esiste giustizia che non sia universale. Medio Oriente. “Io, palestinese torturato in carcere senza pietà” di Francesca Mannocchi La Stampa, 8 ottobre 2025 L’inferno nella prigione di Ramon: “Mi hanno bastonato e fracassato la testa”. Nella prigione di Ofer c’è un’ala chiamata sezione 23, la sezione per i prigionieri di Gaza. Ammar Jawabra era nella sezione accanto, la 24. Di notte Ammar poteva sentire le urla dei detenuti; poi quando le urla cessavano, le guardie carcerarie cominciavano a bussare a ogni porta. Avevano dato un nome a tutte le stanze. Gridavano: la stanza dei cani deve abbaiare, e i detenuti abbaiavano; poi era la volta della stanza degli asini, e i detenuti ragliavano. Di quelle notti Ammar ricorda il rumore del ferro che sbatte sulle porte, indice che stavano per iniziare gli abusi, ricorda l’umiliazione, ricorda l’impotenza. E, di quella prigione, ricorda la nudità. Le notti in cui le guardie carcerarie entravano, chiedevano ai detenuti di togliersi maglietta e pantaloni, e iniziavano le perquisizioni fisiche e le percosse ripetute sulla schiena, di fronte a tutti, nudi. Ofer è una delle cinque prigioni in cui Ammar ha trascorso 8 dei suoi 42 anni. Molti dei quali in detenzione amministrativa, per ragioni di sicurezza non argomentate e non provate, altri perché ritenuto colpevole di incitamento all’odio. Organizzava incontri per parlare dell’occupazione e dei diritti dei palestinesi. Delle condizioni nelle carceri e dei diritti dei detenuti. Il 7 ottobre di due anni fa Ammar era già in prigione da sei mesi. Era nel Sud di Israele, nella prigione di Raman. I detenuti si sono resi conto di cosa fosse accaduto fuori da come sono cambiate le cose, rapidamente, all’interno delle celle. Nei giorni immediatamente successivi al massacro del 7 ottobre, ai detenuti palestinesi è stata tagliata l’acqua, l’elettricità, ridotte le razioni di cibo “entravano di notte a perquisirci, spesso con i cani per farci sentire addosso i morsi dei cani e poi spruzzavano gas nelle celle all’improvviso. Quando è arrivato l’inverno, ci hanno tolto l’acqua calda e le coperte”. Una notte i soldati sono entrati nella sua cella e lo hanno trascinato in un’altra stanza, quella degli interrogatori. “Cane, come ti chiami?”, hanno iniziato così, poi lo hanno bastonato sulle gambe così forte che si vedeva la carne viva. Nelle settimane e nei mesi successivi, non ha ricevuto medicine, ha chiesto antibiotici, antidolorifici, ma niente. Quando alza i pantaloni, le cicatrici ancora visibili. Sul tavolo davanti a lui ci sono due buste di medicine. Per i danni alla schiena, alle gambe, e agli occhi. “Mi hanno fracassato la testa, non ci vedo quasi più dall’occhio sinistro”. Lacrima spesso Ammar Jawabra, difficile distinguere se per le conseguenze degli abusi che ha subito in prigione o per il trauma che ha portato con sé dopo che è uscito, una settimana fa. In prigione ha perso trenta chili, lo dice mentre mostra le fotografie che lo ritraggono prima dell’arresto e poi si alza la maglietta e mostra le costole.Un corpo che porta i segni della fame e della paura. Una notte, lo scorso giugno, le unità speciali sono entrate nella sua cella e hanno iniziato a picchiare selvaggiamente tutti i detenuti. Schiacciavano loro gambe e braccia tra le sbarre di ferro delle grate, poi li hanno buttati a terra e presi a calci, hanno ordinato loro di sdraiarsi a pancia in giù, li hanno legati e li hanno lasciati lì, stesi, seminudi, i corpi lividi. Quando uno dei detenuti più giovani ha chiesto aiuto, un soldato ha risposto: “Puoi anche morire, fai come ti pare”. Ad agosto del 2024, meno di un anno dopo il 7 ottobre, B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani che da decenni documenta la realtà dell’occupazione, ha pubblicato un rapporto dal titolo “Welcome to Hell”, Benvenuto all’inferno, la frase con cui una guardia carceraria ha accolto Fouad Hassan, un detenuto palestinese di 45 anni nel carcere di Megiddo. La storia che apre la lunga analisi di Btselem. Il rapporto traccia il ritratto di un sistema carcerario trasformato in un meccanismo di tortura diffusa. Secondo B’Tselem, dopo il 7 ottobre 2023, le prigioni israeliane si sono riempite fino all’orlo. Migliaia di palestinesi - dalla Cisgiordania, da Gaza e da Gerusalemme Est - sono stati arrestati, spesso senza accuse formali né processo, il numero dei detenuti palestinesi è quasi raddoppiato, passando da poco più di 5.000 a quasi 10.000. Le strutture penitenziarie, già note per le condizioni dure, si sono trasformate in luoghi di sopruso sistematico, dove la violenza fisica e psicologica è diventata routine quotidiana. Non eccessi individuali di violenza, non episodi da condannare, ma una politica consapevole sostenuta dall’attuale ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir - lo stesso che ha detto “Penso che i partecicipanti alla Flotilla debbano essere tenuti per alcuni mesi in una prigione israeliana, in modo che si abituino all’odore dell’ala terroristica”; lo stesso che ha detto che la riduzione delle razioni di cibo da lui decisa fosse una “misura deterrente”; lo stesso che ha suggerito di dare ai prigionieri palestinesi “una pallottola in testa” invece del cibo: “Dovremmo ucciderli con una pallottola in testa e condannare a morte i terroristi”. Secondo le organizzazioni in difesa dei diritti umani lo Stato israeliano viola apertamente il diritto internazionale, in particolare la Convenzione Onu contro la tortura e la Quarta Convenzione di Ginevra, che impongono la protezione dei civili sotto occupazione. Ancora più grave, secondo l’organizzazione, è l’atteggiamento della Corte Suprema israeliana, che avrebbe scelto di “non vedere”, permettendo che le prigioni si trasformassero in zone d’ombra, zone senza legge. Per B’Tselem, non un effetto collaterale della guerra, ma un’estensione logica del sistema di dominio sui palestinesi: arresti arbitrari, condizioni disumane e punizioni collettive che servono a mantenere un intero popolo in uno stato di sottomissione e paura. A oggi nelle carceri israeliane ci sono 10 mila detenuti palestinesi, quasi 4 mila in detenzione amministrativa, ossia imprigionati senza accusa né processo, sulla base di prove segrete che né i detenuti né i loro avvocati possono visionare. Tra loro 400 sono minorenni arrestati in operazioni di massa nei territori occupati, bambini che vengono sistematicamente processati davanti a tribunali militari. Ammar dice che non c’è una famiglia in Palestina che non abbia esperienza della prigione. E a guardare i numeri si capisce perché: le organizzazioni umanitarie stimano che dal 1967 oltre un milione di palestinesi, circa un quinto della popolazione totale, siano stati imprigionati almeno una volta, intere generazioni sono cresciute conoscendo la prigione come un’esperienza collettiva, un simbolo di oppressione permanente. Nella prigione di Ramon, con Ammar c’era suo nipote di vent’anni. È il ricordo peggiore che ha degli ultimi 30 mesi. Non quelli legati a lui, quelli legati all’impotenza di non poter aiutare qualcuno che sta soffrendo. “Ero sconvolto, non sapevo cosa fare, sentivo mio nipote gridare mentre gli rompevano le ossa e non potevo fare niente”. Appena è tornato a casa, la settimana scorsa, Ammar Jawabra è stato convocato dall’intelligence israeliana. Gli hanno consigliato di non parlare troppo degli ultimi due anni e mezzo. E invece Ammar parla, perché dice che “se vuoi giudicare le democrazie devi vedere come appare una loro prigione”. Così ha parlato nel lungo incontro concesso a La Stampa, nella stanza dove tiene i libri a lui più cari, davanti al figlio più piccolo di appena dieci anni. Che ha ascoltato il racconto del padre, i dettagli sugli abusi e anche le sue parole finali: “Come è possibile che i governi alleati di Israele, le organizzazioni come l’Onu, le agenzie che difendono i diritti dei bambini, i diritti umani, che sostengono il diritto internazionale, come è possibile che società che si definiscono democratiche abbiamo permesso questi abusi sui palestinesi per decenni?”.