Al centesimo catenaccio: il dramma del sovraffollamento delle carceri di Maria Cristina Ornano giustiziainsieme.it, 7 ottobre 2025 Con la maratona oratoria “Al centesimo catenaccio” Area Dg., in occasione del suo 5° Congresso nazionale, ha voluto portare ancora una volta l’attenzione sulla questione del sovraffollamento carcerario, punta dell’iceberg di un sistema, quale quello penitenziario, che versa in una crisi drammatica e ingravescente. Le statistiche ministeriali al 31.1.2025 restituiscono numeri sconvolgenti: 63.167 sono le persone recluse, oltre 11.800 in più oltre la capienza regolamentare, questa stessa stimata in eccesso, perché è noto che, al di là del dato ufficiale, la capienza effettiva è pari 46.706 posti disponibili, di talché in questo momento sono recluse nelle nostre carceri 16.000 persone in più rispetto al limite massimo regolamentare. L’indice medio di sovraffollamento è pari al 134,29%, l’83 % degli istituti sono sovraffollati e il 33% ha un indice di affollamento pari o superiore al 150%, con punte che hanno superato quest’anno in alcuni casi il 200%. Ma i numeri, pur sconvolgenti, non restituiscono appieno la gravità della situazione, che è fatta di vite e corpi ristretti per mesi e anni in spazi detentivi sempre più ridotti e angusti, in ambienti spesso degradati; persone costrette ad un’umiliante promiscuità, a dividere un’offerta trattamentale ed un supporto educativo - istruzione, formazione, lavoro, attività ricreative, affettività etc.- sempre più esigue perché le risorse non aumentano, mentre aumenta esponenzialmente la platea dei fruitori. Sovraffollamento significa anche un accesso sempre più difficile ed aleatorio alle cure e alle terapie, e ciò in carceri che contano oltre il 32% di tossicodipendenti, una percentuale elevatissima di malati psichiatrici e una popolazione che necessita di cure e controlli. Sessantaquattro sono le persone ristrette suicidatesi dall’inizio dell’anno in carcere, in un luogo in cui nessun suicidio è tollerabile perché i detenuti sono sotto la custodia e, prima ancora, sotto la tutela dello Stato e delle Istituzioni penitenziarie. Il sovraffollamento favorisce tanto l’autolesionismo, che presenta anch’esso numeri in costante crescita, quanto il suicidio: secondo il report del Garante nazionale, dei 54 istituti in cui si sono verificati suicidi nel 2024, ben 51 erano sovraffollati. Questa situazione involge anche chi in carcere quotidianamente vi lavora: polizia penitenziaria, direttori, educatori e psicologi, medici, la magistratura di Sorveglianza, i quali, esposti a sempre maggiore frustrazione e sfiducia, faticano a svolgere il loro mandato istituzionale che è, anzitutto, quello di alimentare la speranza per il cambiamento e accompagnare le persone detenute alla rieducazione e al reinserimento sociale e lavorativo. Con la maratona oratoria ci proponiamo di raccontare tutto questo attraverso la testimonianza di coloro che quotidianamente operano nel carcere e per il carcere, per far comprendere, ai decisori politici, anzitutto, ed all’opinione pubblica, che se la pena si riduce, come in effetti rischia di divenire, mera coercizione della libertà personale, afflizione e sofferenza, essa tracima in un trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 27 Cost. e dall’art. 3 CEDU, esponendo così ancora una volta il nostro Paese all’umiliazione di una nuova condanna della Corte Europea. Il sovraffollamento è un fenomeno non recente (i provvedimenti clemenziali amnistia e indulto succedutisi dal 1942 al 2006 sono stati ben 35), ma che è cresciuto in modo esponenziale a far data dal 1991, assumendo così nel tempo genesi multifattoriale e carattere insieme emergenziale e strutturale, tale perciò da richiedere risposte efficaci tanto nell’immediato, quanto sul piano sistemico. Le proposte e soluzioni avanzate finora dal Governo e dalla maggioranza parlamentare appaiono del tutto inadeguate o rischiano financo di aggravare le presenze in carcere. Nel luglio scorso - di fatto così sterilizzando il dibattito parlamentare sulla proposta dell’On.le Giachetti sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata - è stato approvato il D.L 92/2024, contenente, tra l’altro, una riforma dell’istituto della Liberazione anticipata presentata quale misura di mitigazione del sovraffollamento, ma rivelatasi del tutto inefficace, tanto che dal 31 luglio 2024 al 31.08.2025 si sono registrate oltre 2000 presenze in più nelle carceri italiane. E mentre il nuovo Piano carceri varato dal Governo nella promessa di realizzazione di diecimila nuovi posti detentivi in due anni, appare tanto velleitario, per l’oggettiva complessità e costi di una tale impresa, quanto inadeguato rispetto al tasso di crescita (+12.600 presenze dal 2020 al 2025), con il nuovo Pacchetto sicurezza D.L. n.48/2025 sono state introdotti nuovi reati, nuove aggravanti e nuove fattispecie ostative specifiche dei detenuti. Il sovraffollamento carcerario non è un fenomeno ontologicamente connesso al carcere, né la sua soluzione si traduce necessariamente in una deflessione sul versante della difesa sociale, ma devono e possono essere trovate soluzioni capaci di coniugare i diritti fondamentali dei detenuti, in primis la tutela della dignità umana, con il bene della sicurezza. Con la maratona oratoria ci proponiamo, perciò di creare un momento di confronto tra magistrati, avvocati, garanti, operatori, intellettuali e giornalisti, sulle soluzioni, sui rimedi e sulle misure di mitigazione adottabili, così da offrire un contributo di proposte utili al dibattito pubblico ed alle scelte che devono impegnare i nostri decisori politici. Come sono pallidi nelle carceri italiane i diritti arcobaleno di Ilaria Dioguardi vita.it, 7 ottobre 2025 Sono circa 70 le persone Lgbtqia+ presenti negli istituti di pena italiani e sei le sezioni riservate a donne trans. Valentina Calderone, garante dei detenuti di Roma: “Queste persone possono trovarsi in situazioni particolarmente vulnerabili, esposte a discriminazioni, violenze e mancanza di adeguate misure di protezione”. E sottolinea che “l’esiguità dei numeri fa sì che vivano una condizione di maggiore separazione, spesso non ci sono molte attività, è difficile organizzarle per un numero di persone così ristretto: si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l’isolamento”. Le persone Lgbtqia+ detenute nelle carceri italiane sono circa 70. “La loro condizione detentiva solleva importanti questioni legate alla tutela dei diritti umani e al rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. L’esiguità dei numeri fa sì che queste persone vivano una condizione di maggiore separazione, spesso non ci sono molte attività per loro, è difficile organizzarle per un numero di persone così piccolo. Quindi si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l’isolamento”. A parlare è Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale, che nella sua Relazione annuale sul 2024 ha dedicato un paragrafo proprio alla condizione detentiva delle persone Lgbtqia+. Calderone, negli istituti di pena quante sono le persone Lgbtqia+? Il ministero della Giustizia non pubblica i dati aggiornati delle persone Lgbtqia+ in carcere. Li possiamo trovare nel XXI Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, nel quale si afferma che ad ottobre 2023 erano 70 le persone detenute Lgbtqia+, quasi tutte in sezioni omogenee. Di queste, 64 erano in carceri maschili, all’interno delle sei sezioni esclusivamente riservate a donne trans (a Rebibbia nuovo complesso, Napoli Secondigliano, Como, Belluno, Reggio Emilia e Ivrea, Le restanti erano detenute in carceri diverse, dove non c’era una sezione ad hoc, ndr). A volte però, come a Roma, abbiamo riscontrato delle situazioni in cui delle donne trans appena arrestate vengono portate a Regina Coeli e poste in isolamento perché si attesta un principio di protezione per cui delle donne non possono stare in sezione comune insieme agli uomini. La detenzione delle ersone Lgbtqia+ è una condizione che riguarda un numero abbastanza esiguo di persone in tutta Italia, con delle difficoltà diverse. Nella sua Relazione annuale 2024 lei scrive: “La condizione detentiva delle persone Lgbtiqa+ solleva importanti questioni legate alla tutela dei diritti umani e al rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Le persone Lgbtqia+ possono trovarsi in situazioni particolarmente vulnerabili all’interno degli istituti penitenziari, esposte a discriminazioni, violenze e mancanza di adeguate misure di protezione”. Quali possono essere le difficoltà per queste persone, durante la detenzione? Per esempio, per quanto riguarda l’accesso alle terapie ormonali per la transizione perché non tutte le regioni hanno gli stessi requisiti dal punto di vista dei Livelli essenziali di assistenza - Lea. Quindi, ci sono problemi dal punto di vista della continuità o anche, a volte, per intraprendere un percorso effettivo di transizione, con i farmaci. C’è un problema che scontano anche le donne che si trovano in sezioni all’interno degli istituti maschili, il fatto che l’esiguità dei numeri fa sì che queste persone vivano una condizione di maggiore separazione, spesso non ci sono molte attività, è difficile organizzarle per un numero di persone così piccolo. Quindi si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l’isolamento. Nella maggior parte dei casi, quando parliamo di persone trans dentro le carceri, parliamo di donne trans, quindi di transizione “M to F” (da uomo a donna, ndr). Abbiamo pochissimi casi di transizione dal genere femminile al genere maschile. Come avviene la collocazione in carcere? La collocazione di queste donne passa non attraverso un criterio di autoidentificazione, cioè chiedendo loro in che genere si riconoscono e dove vogliono essere collocate, ma passa attraverso una disamina dei loro genitali: quindi un criterio esclusivamente biologico. Così ci sono donne trans che hanno effettuato un’operazione di riattribuzione delle caratteristiche sessuali che sono allocate all’interno di carceri maschili e donne trans che l’intervento di riattribuzione non lo hanno fatto e sono collocate all’interno di sezioni separate dentro le carceri maschili. Le circa 70 donne che sono allocate in reparti nelle carceri maschili sono principalmente straniere, provenienti soprattutto da Paesi dell’America Latina, con tutta una serie di problemi aggiuntivi che riguardano i permessi di soggiorno, la possibilità dei percorsi di fuoriuscita. Tutte le questioni complicate che riguardano la popolazione detenuta, nei casi in cui noi ci troviamo ad affrontare situazioni di persone che vivono anche una discriminazione multipla, hanno poi, soprattutto nei percorsi di uscita, molte più difficoltà ad avere accesso a servizi, a poter avere una continuità nei percorsi che magari hanno intrapreso all’interno. Nella sua Relazione lei afferma: “È essenziale che le istituzioni penitenziarie adottino politiche e protocolli specifici per garantire il rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale delle persone detenute, assicurando loro un ambiente sicuro e rispettoso dei loro diritti fondamentali”... Ci sono stati dei tavoli all’interno degli Stati generali dell’esecuzione penale, nel 2017, con un gruppo di lavoro che ha affrontato la questione delle persone trans. È chiaro che, da una parte, si ha una questione sanitaria che dovrebbe coinvolgere le regioni, dall’altra, si potrebbe lavorare sui percorsi di accoglienza, su una serie di questioni che riguardano i vissuti violenti che spesso queste donne hanno subito nel corso della vita. Infatti, le persone Lgbtqia+ detenute, nella maggior parte dei casi, provengono da percorsi di violenza nel corso della vita. Per le donne omosessuali, non viene prevista dall’Amministrazione penitenziaria una necessità di isolamento dalle altre, una protezione, mentre per gli uomini omosessuali sì. Per essere allocato, nelle carceri, in sezioni per omosessuali devi autodichiararti, quindi devi decidere di manifestare il tuo orientamento. A fine luglio 2025 erano 88 gli uomini omosessuali all’interno delle sezioni protette, numero che ovviamente non è rispondente alla realtà di tutti gli uomini omosessuali che sono dentro gli istituti. Si nasconde il proprio orientamento per paura di essere isolati e per timore di discriminazioni e violenza. Cosa si può dire per quanto riguarda le difficoltà pratiche, inerenti il percorso di transizione? Le persone che devono andare all’esterno a fare visite hanno gli stessi problemi che hanno tutte le persone detenute, cioè la mancanza della scorta. Spesso saltano visite e controlli per mancanza di agenti della Polizia penitenziaria. Poi a seconda di come sono le previsioni delle varie regioni rispetto alla sanità e a che cosa è prescritto nei Lea, ci possono avere vari tipi di accesso alle terapie ormonali, quindi rispetto a quella parte di percorso, che può essere di attivazione perché era un percorso appena iniziato o perché era stato iniziato in un’altra nazione, quindi da rifare per la nostra legge. Oppure perché era un percorso informale, in cui i farmaci erano assunti, anche da molto tempo ma senza essere seguite effettivamente dal Servizio sanitario nazionale. Ci sono tante situazioni diverse che riguardano la salute di queste persone e la volontà di intraprendere o di continuare un percorso di transizione. Nel corso del 2024, nel reparto G8 di Rebibbia nuovo complesso sono entrate 32 detenute transgender, alla data del 31 dicembre 2024 c’erano 21 donne presenti. È stato segnalato un solo ingresso nel carcere di Regina Coeli, e lei a questa storia dedica un approfondimento, nella sua Relazione. Ce ne vuole parlare? Sì, Veronica (nome di fantasia) è entrata in carcere nell’agosto 2024, a me non è stata segnalata. Noi abbiamo scoperto dopo mesi, per caso, che c’era questa ragazza molto giovane all’interno della settima sezione di Regina Coeli. Abbiamo fatto un colloquio con lei, dal quale è emerso che fossero manifesti degli indicatori di tratta. Non siamo attrezzati a fare un lavoro specifico in questo tipo di situazioni, abbiamo coinvolto un ente nel Terzo settore, la cooperativa Be Free, due operatrici hanno iniziato un percorso con lei in carcere. Veronica era in custodia cautelare, era in una sezione chiusa, una cella con una persona omosessuale, anch’essa protetta. Quindi, non era completamente da sola, però era in una sezione chiusa. È stata avviata la proposta di detenzione domiciliare che ha avuto esito positivo, con l’individuazione di un posto che è stata una delle case di accoglienza per persone detenute del Comune di Roma. C’è stata la concessione dei domiciliari in attesa di giudizio ed è stato importante il contatto con un ente del Terzo settore, in questo caso, perché si deve procedere a una richiesta di protezione internazionale in un caso del genere. Si tratta di una persona che, se è rimpatriata, rischia rispetto alla propria condizione e a quello che ha subito nel suo Paese. L’individuazione di questa ragazza è arrivata abbastanza in ritardo, non era stata segnalata e si erano persi un po’ di passaggi. Però quando la rete si è messa a lavorare su questo, i risultati ci sono stati. Fondazione Con il Sud, reinserimento per cinquecento detenuti: “Evado a lavorare” di Stefano Consiglio* Corriere del Mezzogiorno, 7 ottobre 2025 Otto nuovi progetti sostenuti da Fondazione Con il Sud con 3 milioni di euro per dare una seconda possibilità alle persone detenute con formazione, qualifiche e lavoro. Sempre più spesso ci troviamo davanti a notizie di persone che nelle carceri compiono gesti con cui esprimono un profondo malessere: da inizio 2025 sono già più di 60 i suicidi negli istituti penitenziari italiani. Alcune cause, come il sovraffollamento e le condizioni di vita interne, richiedono certamente interventi istituzionali rispetto ai quali i cittadini da fuori possono fare poco. Ma il lavoro, unito a una rete di servizi di accompagnamento professionale, oltre che di supporto emotivo e personale, è invece un ambito di intervento possibile anche per la società civile: con strumenti imprescindibili e capaci non solo di restituire dignità al tempo trascorso in carcere ma di ridurre drasticamente la recidiva - cioè la ricaduta in nuovi reati - che si verifica nel 70% dei casi tra chi non lavora e solo nel 2% tra chi ha vissuto un’esperienza lavorativa durante la detenzione. Con ricadute positive, nello stesso tempo, sull’autostima e sul benessere. Partono da qui gli otto nuovi progetti che Fondazione con il Sud sosterrà con quasi 3 milioni di euro e che saranno avviati in Campania (nelle province di Napoli, Caserta, Benevento), Basilicata (in provincia di Potenza), Puglia (in provincia di Barletta-Andria-Trani) e Sicilia (in provincia di Catania). Le iniziative sono state selezionate con la terza edizione del bando “Evado a lavorare”. L’obiettivo è offrire una reale e concreta “seconda possibilità” alle persone detenute, con percorsi formativi e rilascio di qualifiche professionali in vari ambiti (agricolo, spettacolo, alimentare, servizi alla persona, cantieristica navale, restauro imbarcazioni), strumenti di ricerca-lavoro anche attraverso servizi di matching con le imprese, tirocini, supporto abitativo e psicologico. In parallelo una attività di sensibilizzazione rivolta soprattutto alle aziende sulle opportunità dell’inclusione lavorativa di persone che hanno scontato o stanno scontando la pena in carcere, promuovendo l’abbattimento del pregiudizio nei loro confronti. La previsione è di coinvolgere 500 persone detenute, con quasi 200 tirocini e oltre 120 contratti all’interno di realtà consolidate, suddivise al 50% tra cooperative sociali partner e realtà profit del territorio. Le otto iniziative finanziate coinvolgeranno nelle partnership progettuali più di cento organizzazioni (con una media di 13 partner a progetto) tra cooperative e imprese sociali, enti pubblici, associazioni, fondazioni, diocesi, organizzazioni di volontariato e 24 strutture penitenziarie. Un impatto importante a fronte di una realtà in cui, come spiega il Cnel, i detenuti e le detenute che oggi lavorano sono solo il 34,3% della popolazione carceraria, nell’85% dei casi alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Con un totale di 393 corsi di formazione tenuti al 31 dicembre 2024 (dati del XXI Rapporto Antigone) a cui ha partecipato poco più del 7% delle persone detenute. *Presidente Fondazione Con il Sud Andare a scuola in carcere, com’è stato il back to school di Elisabetta Moro cosmopolitan.com, 7 ottobre 2025 A settembre la scuola è ricominciata anche in carcere per gli oltre 500 ragazzi detenuti negli IPM e non solo. Il mese dove tutto lentamente ricomincia è appena finito. Settembre è passato, la scuola è iniziata, si è di nuovo faccia a faccia con i doveri e gli impegni. Ad ottobre si ha già ripreso il ritmo, l’abbronzatura è sbiadita e ci sono le prime interrogazioni. Il rientro a scuola è un ricordo come le giornate al mare di agosto. C’è, però, un gruppo di alunni che ogni anno vive il back to school in modo diverso, inverso, rallentato e a singhiozzo. Non come un ritorno né come la fine di un periodo di svago. Si tratta dei 597 minori, di cui 26 ragazze, (i dati sono della fine di marzo 2025) detenuti negli Istituti Penali per i Minorenni (IPM). “A settembre la scuola ricomincia anche in carcere”, spiega Sofia Antonelli che fa parte del gruppo di osservatori di Associazione Antigone, “anche se non c’è un giorno fisso a livello nazionale come succede fuori perché tutto ciò che accade negli IPM è un più lento e faticoso a livello organizzativo”. La scuola in carcere, però, a un certo punto riprende, con tempi e modalità diverse a seconda dell’istituto. Ad agosto il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha stanziato 25 milioni di euro per ampliare l’offerta formativa e realizzare laboratori per la scuola in carcere, poi molto dipende dalla gestione dei fondi stessi. L’istruzione, negli IPM, è affidata ai CPIA fino ai 16 anni e poi possono esserci delle convenzioni con gli istituti scolastici come licei, istituti tecnici o professionali. “Ci sono i cosiddetti corsi di alfabetizzazione, soprattutto per i ragazzi stranieri e poi le scuole medie e un primo biennio superiore”, dice Antonelli, “Ci sono anche corsi ibridi che servono a colmare determinate lacune o ad accompagnare il ragazzo alla preparazione di un esame specifico come l’esame di terza media o di maturità”. Spiega che, quando devono sostenere degli esami, i ragazzi detenuti possono, a seconda dei casi, ottenere un permesso per uscire dal carcere, oppure svolgerlo all’interno, con i professori che vengono chiamati nell’istituto. Dalle ispezioni di Associazione Antigone è emerso che nel 94,7% delle strutture sono presenti spazi dedicati esclusivamente alla scuola e alla formazione, mentre nel 4,2% tali spazi risultano del tutto assenti. Tutti gli IPM hanno delle aule scolastiche, tendenzialmente anche dotate di arredi come banchi, lavagna elettronica, libri di testo e cancelleria. “Dipende poi da cosa mette a disposizione l’istituto, l’ente che eroga il percorso scolastico o anche le associazioni di volontariato”, continua la portavoce di Antigone, “A volte possono esserci delle donazioni particolari. Magari un ente decide di regalare dei banchi o dei computer”. Le classi, poi, sono solitamente miste. Non c’è la prima media, la seconda media, ma un’unica classe con attività ritagliate sul singolo. La scuola solitamente si fa la mattina e il pomeriggio ci sono le altre attività sportive o professionalizzanti o ricreative”. Quello dei corsi professionalizzanti è un tema importante. “Ce ne sono pochissimi purtroppo”, osserva Antonelli, “Sono corsi organizzati dalla regione che rilasciano un certificato spendibile ad esempio da pizzaiolo qualificato, da elettricista, eccetera. E una volta che esci lo puoi utilizzare. Sono molto utili perché nell’IPM ci sono anche ragazzi un po’ più grandi, che hanno già finito il percorso scolastico o non sono interessati a proseguirlo. È invece una formazione lavorativa magari la farebbero volentieri”. Il problema è spesso la lunga durata di questi corsi, la necessità di un numero minimo di partecipanti o le lungaggini burocratiche, specie quando sono coinvolti ragazzi stranieri che non hanno i documenti. Secondo l’ultimo report di Antigone, i detenuti negli Ipm sono minorenni nel 62,1% dei casi e per il resto si tratta di giovani adulti sotto i 25 anni che hanno compiuto il reato da minorenni. I ragazzi stranieri costituiscono il 49,9% del totale e sono soprattutto (80%) provenienti dal Nord Africa e quasi sempre minori non accompagnati. Ma, a settembre, non tornano in classe solo i detenuti in età scolare, anche molti adulti vanno a scuola in carcere, con corsi pensati a seconda del livello di alfabetizzazione e istruzione di ciascuno. C’è anche la possibilità, a seconda dell’istituto, di frequentare l’università tramite il Polo Universitario Penitenziario che gestisce le collaborazioni tra atenei e istituti penitenziari con professori e tutor che possono entrare in carcere per fornire materiale, supporto e tenere gli esami. In base agli ultimi dati del Ministero della Giustizia, nell’anno scolastico 2023-2024 sono stati erogati in totale 1.711 corsi scolastici, coinvolgendo 19.250 persone iscritte, un numero in aumento (anche se le performance sono in calo) così come gli iscritti all’università, cresciuti complessivamente del 7,5% rispetto all’anno accademico 2023-2024. “Tra i 14 e i 16 anni siamo all’interno della scuola dell’obbligo e quindi un percorso è in qualche modo sempre previsto”, spiega Sofia Antonelli, “Dopo diventa più difficile perché dipende dalla volontà dei ragazzi e spesso hanno vissuti difficili e percorsi scolastici carenti e non è sempre facile coinvolgerli”. “Qualcuno”, aggiunge, “può anche mal sopportare la scuola perché si trova obbligato ad andare in classe tutte le mattine mentre, magari, fuori era abituato ad essere più libero e a non andarci proprio”. Molto, quindi, dipende dal lavoro degli operatori e dalla loro capacità di coinvolgere i ragazzi: in certi casi la scuola, e magari l’incontro con un bravo professore, può diventare un gancio nel percorso di formazione e reinserimento. “In generale”, spiega Antonelli, “la scuola in carcere ha sicuramente uno scopo educativo e di formazione per il futuro, ma anche banalmente quella di passare la giornata”. Le condizioni di vita in carcere, infatti, sono particolarmente difficili, anche negli istituti per minori. Spesso si tratta di ambienti sovraffollati, con materassi messi a terra per dormire, poche attività durante il giorno e tantissime ore passate in cella. Attualmente 9 dei 17 Istituti Penali per Minorenni italiani soffrono di sovraffollamento, mai registrato nelle carceri minorili prima del Decreto Caivano che ha ampliato la possibilità di applicazione della custodia cautelare per i minorenni e ridotto l’uso delle alternative al carcere. A queste condizioni l’estate, in particolar modo, diventa un periodo estremamente complesso per chi vive in carcere, specie con le temperature elevate degli ultimi anni. “Bisogna pensare che in estate noi andiamo in vacanza e magari lasciamo la città. In carcere, invece, si resta lì”, dice Antonelli di Antigone, “È tutto il resto che lascia te: là, fermo”. Durante l’estate non ci sono le attività scolastiche e in generale gli IPM e tutti gli istituti penitenziari sono più vuoti di personale e di volontari. “Il tempo passa ancora più lento. Quindi quando poi riparte la scuola, tra settembre e ottobre, le giornate tornano ad essere più più piene. Ripartono anche le attività ricreative e si rimette un po’ in moto tutto”. La scuola, dunque, rappresenta un’occasione per tante persone detenute, ma non sempre viene gestita nel migliore dei modi. In molti istituti, soprattutto per adulti, c’è carenza di personale, di percorsi, di opportunità di studio e di lavoro. “Negli istituti per minori è un po’ più facile perché sono più piccoli”, spiega ancora Antonelli, “ma mi è capitato di andare al Beccaria di Milano e trovare a mezzogiorno i ragazzi tutti chiusi in cella a dormire mentre nell’aula scolastica c’erano solo due ragazzini su 60. Non dovrebbe succedere e invece a volte le attività vengono limitate, magari perché ci sono scontri tra i ragazzi o difficoltà di gestione. Gli ostacoli sono tanti, le risorse sono poche ma bisognerebbe sempre sforzarsi di trovare delle soluzioni”. Carriere separate, i Sì in vantaggio: ora lo ammettono anche le toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 7 ottobre 2025 Il sondaggio commissionato dai magistrati di “AreaDg” dà in testa i voti favorevoli alla riforma voluta da Nordio. Che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sia in una “relazione complicata” con la magistratura è ormai noto a tutti. I lettori sicuramente ricorderanno le polemiche scaturite dopo che alcuni giudici, in diversi tribunali d’Italia, avevano smontato di fatto il protocollo Italia Albania, ricevendo poi il placet anche dalla Corte di Giustizia Ue. Ma, intervenendo lo scorso fine settimana alla 13esima edizione della Leopolda promossa da Italia Viva a Firenze, il Capo del Viminale ha ampliato il perimetro della critica alle toghe, auspicando che il magistrato che sbaglia “cambi lavoro”. Lo aveva già detto il ninistro della Giustizia Carlo Nordio al termine della presentazione della serie tv “Portobello”, la nuova produzione diretta da Marco Bellocchio sulla vicenda di Enzo Tortora. Lo ha meglio precisato Piantedosi venerdì scorso: “Io ho sempre creduto che il tema della responsabilità dei magistrati sia stato dibattuto male, in Italia”, perché “si è sempre pensato che si dovesse articolare sulla responsabilità civile, cioè far pagare i danni”. Il che, secondo il ministro, “non funziona perché i magistrati, poi come tutte le categorie professionali, tendono a farsi una polizza assicurativa”. Invece “bisogna affermare il principio che se un magistrato somma un errore grave a una serie di errori, magari meno gravi, può anche cambiare lavoro e quindi dedicarsi a funzioni molto meno impattanti sulla vita dei cittadini”. In pratica per Piantedosi, un magistrato “se ha più volte inanellato degli errori evidenti, può anche occuparsi di altro. La giustizia è fatta di tante cose: esiste la giustizia civile, la giustizia penale, la funzione requirente, la funzione giudicante. Quindi bisogna trovare il modo di responsabilizzare senza rompere dei capisaldi di civiltà del nostro ordinamento giudiziario che sono l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”. Certo, immaginare un cambio di funzione da pm a giudice o viceversa, come “punizione”, appare difficile, nel momento in cui, la prossima primavera, entrasse in vigore la riforma della separazione delle carriere. Ma al di là della fattibilità di una tale proposta normativa, resta il fatto che il tema della responsabilità dei magistrati è uno di quelli maggiormente adoperati in queste ultime settimane da esponenti del governo, compreso il ministro della Pa Paolo Zangrillo, non tanto per alzare lo scontro con la magistratura quanto per cominciare a consolidare agli occhi dei cittadini un concetto che potrebbe sicuramente rivelarsi utile per la campagna in vista del referendum costituzionale, benché collaterale all’impianto normativo in senso stretto. A proposito di quest’ultimo, riprenderà oggi in commissione Affari costituzionali al Senato il dibattito sul ddl Nordio. Trovandoci ormai nell’anticamera della quarta e ultima lettura che dovrebbe avvenire a Palazzo Madama entro la prima settimana di novembre, non ci saremmo aspettati un battibecco tra i commissari senatori sull’ordine dei lavori. Ma ci siamo sbagliati: la scorsa settimana il dem Andrea Giorgis, ricordando come “il termine dilatorio dei tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione, di cui all’articolo 138 della Costituzione, rappresenti un unicum nel procedimento legislativo e sia previsto per i soli disegni di legge costituzionali e di revisione costituzionale, con la ratio di consentire al legislatore un’attenta ponderazione e un eventuale ripensamento rispetto alla prima deliberazione”, ha chiesto alla Presidenza della Commissione, “in conformità allo spirito della previsione costituzionale sul termine dilatorio dei tre mesi, di svolgere un ciclo di audizioni sul disegno di legge in esame”. A questa richiesta si sono associati anche M5S e Avs. Tuttavia il presidente Alberto Balboni ha respinto la domanda: lo scopo delle audizioni è quello di proporre emendamenti ma, essendo vietata in questa fase la presentazione di modifiche, un’ulteriore consultazione degli “esperti” sarebbe inutile. E poi molteplici sono stati gli auditi nei mesi precedenti. Intanto, è stato diffuso un sondaggio BidiMedia, commissionato dalle toghe di AreaDg, a pochi giorni dal congresso dell’associazione che riunisce le toghe progressiste e che si svolgerà a Genova dal 10 al 12 ottobre, durante il quale interverranno, tra gli altri, Landini, Schlein, Nordio, Pinelli, Conte e il presidente del Cnf Greco. Secondo la società, “il 70% degli italiani si dice preoccupato dal controllo della politica sulle toghe” e “oltre la metà (51%) si dice addirittura spaventato da tale evenienza”. Inoltre “appare combattuto l’esito del referendum confermativo della riforma Nordio: solo il 33% del campione si dice favorevole alla riforma, il 30% è nettamente contrario”. Tutto si giocherà sulla fetta di indecisi. “I risultati dei sondaggi - ha spiegato Giovanni Zaccaro, segretario di AreaDg - giustificano il nervosismo dei sostenitori della riforma Nordio. Non c’è il plebiscito che si aspettavano, e allora aumentano la conflittualità e la politicizzazione del referendum”. Un dato, quello diffuso dalle cosiddette ‘toghe rosse’, che farebbe il paio con altri sondaggi di cui aveva dato conto proprio il nostro giornale e proveniente da ambienti governativi. Da qui la consapevolezza da parte di tutti che la partita potrebbe essere ancora aperta. Nordio prepara la legge attuativa “post riforma”: focus sul sorteggio di Errico Novi Il Dubbio, 7 ottobre 2025 Li si potrebbe definire dettagli. Ma non lo sono. La legge attuativa sulla separazione delle carriere è in fase di elaborazione. Non c’è ancora un testo che possa definirsi almeno prossimo alla firma del guardasigilli Carlo Nordio. Ma l’Ufficio legislativo di via Arenula è già impegnato a realizzare una prima bozza. Soprattutto per mettere a fuoco tutte le variabili di alcuni aspetti delicati e inediti, a cominciare dalle modalità del sorteggio. Com’è noto, la riforma costituzionale della magistratura ormai vicina all’ultimo sì del Parlamento prevede l’estrazione casuale per i laici e soprattutto per i togati sia nei due eventuali futuri Csm (uno per i giudicanti, l’altro per i pm) sia nell’altra assemblea che la riforma istituirebbe, vale a dire l’Alta Corte disciplinare. Si tratta di precisare dettagli, si diceva. Ma li si può definire tali solo al cospetto dell’imponente modifica costituzionale che sottrae al pm il controllo sulla carriera di colui, il giudice, di fronte al quale la Procura dovrebbe solo essere una parte al pari dell’avvocato. La rivoluzione copernicana nella magistratura non può, evidentemente, trascurare i meccanismi precisi con cui il nuovo disegno dovrebbe attuarsi. Non esisterebbe l’attuale Consiglio superiore unico, d’altronde, se nel 1958 il Parlamento non avesse approvato la legge 195, la cosiddetta disciplina istitutiva dell’organo che governa le toghe. Nordio, com’è noto, si è “portato avanti col lavoro” anche per motivi di natura strettamente politica: sarebbe impensabile arrivare all’eventuale sigillo referendario, è cioè alla vittoria del Sì nella consultazione confermativa della riforma, senza avere già pronto almeno un canovaccio su come i due Csm dovrebbero funzionare. Altrimenti, al momento di eleggere i consiglieri superiori del prossimo quadriennio, cioè vero la fine del 2026, ci si troverebbe costretti a scegliere laici e togati con le regole attuali, cioè come se la separazione delle carriere non fosse mai stata approvata. Vorrebbe dire, tanto per intendersi, perpetrare, per altri quattro anni, il controllo delle correnti sull’elezione dei consiglieri magistrati. Pur a fronte di una vittoria del Sì, uno smacco del genere vanificherebbe quasi del tutto il dividendo, in termini di consenso, a cui Giorgia Meloni ambisce. La premier punta sul ddl Nordio per poter rivendicare il merito di aver realizzato, da prima presidente di destra nella storia repubblicana, una riforma costituzionale così importante. Se Meloni si presentasse viceversa alle Politiche 2027 con il Csm unico e ancora correntizzato, l’effetto, in termini di marketing elettorale, sarebbe persino peggiore di una vittoria del No al referendum confermativo. Ecco perché Nordio si è portato avanti. I margini per definire il testo da varare in Consiglio dei ministri e poi da approvare in Parlamento si riducono a una manciata di mesi: la consultazione popolare sulla riforma dovrebbe celebrarsi all’inizio della prossima primavera, e considerate la pausa estiva e la sessione di Bilancio, per arrivare a una legge sul funzionamento dei due nuovi Csm che sia già in vigore a fine 2026 servirà una performance da 3.000 siepi. Ora, il punto è che non solo Nordio ma la stessa Meloni e il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano si sono impegnati con l’attuale presidente Anm Cesare Parodi, nell’incontro del marzo scorso, a seguire il metodo del dialogo quanto meno sulla parte attuativa della riforma, cioè proprio sulla legge ordinaria che vede impegnati gli Uffici di Nordio. È vero che prima di andare in Consiglio dei ministri, il guardasigilli si confronterà con l’Associazione magistrati, ma è vero pure che se si arrivasse a quel confronto senza alcuna base su cui discutere, non la si finirebbe più. Nel merito, per ora trapela davvero pochissimo. Si sa per certo che la legge attuativa del nuovo ordinamento imporrà un rigoroso equilibrio di genere sia nei due Csm sia nell’Alta Corte. Il resto lo si ricostruisce da alcuni segnali. Uno in particolare potrebbe ricavarsi dalle riflessioni svolte alla presentazione del libro di Renato Balduzzi e Gianluca Grasso “L’Alta Corte disciplinare. Pro e contro di una proposta che fa discutere”, organizzata dall’Associazione Bachelet lo scorso 24 settembre. In quella occasione sono emersi spunti evidentemente già all’attenzione della magistratura: Nordio non ha una bozza di articolato compiuta e conclusa, come detto, ma l’interlocuzione con l’Anm è già iniziata. Tra gli altri, è stato il consigliere del Capo dello Stato per gli Affari giuridici Daniele Cabras ad appuntare, nel proprio intervento, due aspetti: l’ipotesi che il sorteggio avvenga “previa dichiarazione di disponibilità”, in modo da non trovarsi costretti a una complicata “graduatoria a scorrimento” per rimediare a eventuali rinunce; e poi la possibilità che il procuratore generale della Cassazione continui a vantare, dinanzi alla nuova Alta Corte, la titolarità dell’azione disciplinare anche nei confronti dei giudici. In effetti è improbabile che l’altro detentore della potestà inquirente, nella giustizia domestica delle toghe, vale a dire il ministro della Giustizia, possa acquisire una “esclusiva” relativamente ai magistrati giudicanti. È vero che residuerebbe una pur marginale forma di controllo del pm, del “primo pm d’Italia”, se vogliamo, nei confronti degli stessi giudici penali. Ma è anche vero che il vizio d’origine del correntismo, vero obiettivo delle carriere separate, non pare essere arrivato al punto da compromettere addirittura l’equilibrio e l’imparzialità del pg di Cassazione. “Demoni e Angeli”: la giustizia spettacolo vista controcorrente di Francesca Spasiano Il Dubbio, 7 ottobre 2025 Al Senato la presentazione del libro di Simona Musco sul caso Bibbiano con la senatrice dem Valeria Valente, il sociologo Luigi Manconi e l’avvocato Luca Bauccio. Nel circo mediatico-giudiziario tutto si tiene: politica, informazione e giustizia sono tre ingranaggi che si incastrano perfettamente allo scopo di offrire una certa narrazione su un fatto di cronaca. Ma che succede, se uno di questi tre “bracci” si stacca? Il teorema si sgretola, o quantomeno si apre al dubbio, perché c’è qualcuno disposto a guardarlo senza la lente dei pregiudizi e delle condanne già emesse. Così ha fatto la nostra Simona Musco, monade in un deserto giornalistico piegato al racconto colpevolista sul “caso Bibbiano”. E il risultato è prezioso: la verità che nessun altro ha voluto cercare, la storia controcorrente che nessuno ha voluto scrivere. Perché era doloroso e difficile affondare le mani in uno scandalo che sembrava tragicamente reale. Simona Musco lo ha fatto in punta di piedi, con l’ossessione di chi cerca con scrupolo e rigore. Anni di lavoro sulle carte e in tribunale che poi sono confluiti nel libro presentato a Palazzo Madama - “Demoni & Angeli”. Storia vera e completa del caso Bibbiano (Collana BeHopeBooks, già disponile su Amazon) - per impulso della senatrice del Pd Valeria Valente. In sala Nassirya, oltre all’autrice del libro, giornalista de Il Dubbio, ci sono anche Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici e presidente di “A Buon diritto”, che firma la prefazione insieme a Marica Fantauzzi, e Luca Bauccio, avvocato, scrittore e curatore della stessa collana. Si parte dove parte anche il libro, da una scrivania in redazione, giugno 2019: seduta davanti a terribili flash d’agenzia, Simona tentenna, e il suo garantismo ben allenato quasi vacilla di fronte a quelle accuse che raccontano di bambini “strappati” dalle proprie famiglie con “l’elettroshock”. Per la “svolta” le occorrono 24 ore - racconta oggi l’autrice -, il tempo di abbandonare le suggestioni per ritrovare i fatti. Complice quella speciale empatia di cui Simona dispone e di cui anche il giornalismo avrebbe bisogno, sottolinea il direttore del Dubbio Davide Varì dando il via alla conferenza: serve per mettersi nei panni dei presunti carnefici travolti dal diluvio mediatico, come troppo spesso succede. Ma soprattutto per fare ciò che quasi nessuno riesce a fare: sfidare il potere giudiziario come il cronista sfida ogni potere. Simona Musco ne ha avuto lo straordinario coraggio, ribadisce Varì. E gli eco Piero Sansonetti, con cui questa storia è iniziata: “Simona ha stracciato le veline e salvaguardato l’onore della nostra sbilenca categoria”, scrive il direttore de l’Unità, già fondatore del Dubbio. E ora che le sentenze hanno parlato, la voce di quegli indagati dalle vite in frantumi trovano spazio al Senato, nel cuore delle istituzioni, attraverso le pagine di un libro che serve a tutti. A chi vuole abbandonare gli ultimi dubbi, scoprire la vera storia del “Lupo” che non è mai esistito, e a chi ha voglia di domandarsi perché sia così facile costruire il “mostro” e sbatterlo in prima pagina. “L’inchiesta nasce male fin dal suo battesimo - spiega Manconi - utilizzando un titolo a dir poco suggestivo, e ancor più manipolatorio, perché evoca uno scenario fatto di oscurità e pieghe riposte”. “Angeli e Demoni”, recita il nome attribuito in barba alle regole del Csm. E il gioco è fatto: a chi verrebbe mai in mente di stare dalla parte dei demoni, di fronte a quelle vittime fragili per loro natura, i bambini? È qui che il circo mediatico funziona al meglio, ovvero al suo peggio - nota Manconi. Che sa di dover attribuire una responsabilità anche alla politica che “ha fatto di questa vicenda moneta elettorale nella maniera più spregiudicata e feroce”. Ciò che si è scritto e detto di Bibbiano, a un passo delle regionali in Emilia Romagna, è storia. E sarebbe difficile dimenticare certe parole scagliate come “pietre aguzze” (è ancora Manconi), senza sapervi porre rimedio. Ma che dire delle macerie rimaste? A farne le spese non è stato soltanto il Pd, con l’allora sindaco di Bibbiano Andrea Carletti. Ma un intero sistema di welfare - sottolinea Simona Musco - di cui il partito avrebbe potuto fregiarsi: il sistema dei servizi sociali, che esce dall’ombra delle accuse sugli affidi illeciti in Val d’Enza con le ossa rotte e la reputazione macchiata. “Il garantismo dovrebbe essere una battaglia di sinistra”, spiega Valente. Che parte dallo sciacallaggio politico perpetrato sui fatti di Bibbiano per riflettere su una più ampia crisi del sistema democratico che coinvolge partiti, media e mondo giudiziario. “Dovremmo ritrovare l’autorevolezza e il coraggio della politica. Andare controcorrente, come Simona”, spiega ancora la senatrice dem. Mentre Luca Bauccio, che il processo Angeli e Demoni l’ha vissuto da vicino come difensore, ci riporta dentro l’Aula di tribunale, dentro quelle dinamiche di cui troviamo prova e traccia nel libro di Simona Musco. Soprattutto tra le pagine di maggiore tensione emotiva, racconta Bauccio, quando la folla urla e tutto sembra deporre per la gogna e la ghigliottina del colpevole. “Simona va a Bibbiano, va tra la gente, sente gli umori, il dolore, la paura, e lo annota, senza retorica né partigianeria. Il suo è il libro di una testimone, di una persona che ha voluto osservare senza giudicare, che ha voluto “salvare” ciò che veniva smaltito dalla macchina della propaganda, senza enfatizzare, ma annotando, mettendo da parte”, spiega il legale. Perché il processo penale è soprattutto questo, una sommatoria di fatti. E mai nessuno ci racconta, chiosa Bauccio, la vibrazione di un imputato che teme il patibolo. Che teme la condanna per qualcosa che non ha fatto. Nessuno mai ne scrive, tranne questa volta. Gino Cecchettin: “La giustizia riparativa? Possibile anche per Turetta” di Jessica Castagliuolo Il Giorno, 7 ottobre 2025 Il primo anno della Fondazione che porta il nome della figlia Giulia uccisa dall’ex “Ma nel caso specifico il percorso di reinserimento è un orizzonte a lungo termine”. Il primo anno della Fondazione che porta il nome della figlia Giulia uccisa dall’ex “Ma nel caso specifico il percorso di reinserimento è un orizzonte a lungo termine”. Il tempo del lutto si imbroglia nei giorni. “Allora sembra di non potersi più permettere la felicità”. Finché, “il silenzio crea uno spazio di pace, un rifugio. Il posto giusto per chi non c’è più”. Poi, la cicatrice cerca luce: “Se il dolore si trasforma in amore, si può essere liberi”. Sono queste alcune delle frasi contenute in una lettera che Gino Cecchettin, la voce ferma e gli occhi sempre un po’ lucidi, ha letto ieri a Palazzo Marino a Milano, alla presenza del sindaco Giuseppe Sala, del presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia, e di un’aula gremita, riempita da un lungo applauso. Perché arriva sempre anche il tempo degli anniversari. Come il primo anno dalla nascita della Fondazione Giulia Cecchettin, che ha la missione di contrastare la violenza di genere a partire da due semi invisibili, da piantare in profondità: educazione e prevenzione. Di anni, invece, ne sono passati ormai quasi due da quell’11 novembre, quando Giulia Cecchettin è stata uccisa dal suo ex fidanzato, Filippo Turetta. Gino Cecchettin, ha sempre detto che perdonare l’omicida di sua figlia è possibile. Crede a un percorso di giustizia riparativa per chi commette un femminicidio? “Penso, in generale, che possa essere un percorso valido per reinserire nella società le persone che hanno sbagliato, anche in modo grave. Ma bisogna reinserirle dando loro gli strumenti concreti per riparare davvero il loro errore. Parlo però da cittadino, non del mio caso”. E nel suo caso? “Mi vede coinvolto in modo più emozionale”. Ha respinto la richiesta di Turetta di accedere a questo percorso. Ha detto: “È troppo tardi”. “Intendevo che è troppo tardi in riferimento alla fase in cui è attualmente il processo, visto che siamo a un mese dall’Appello. In realtà, forse è troppo presto. Riparare richiede un orizzonte più a lungo termine”. Quindi non esclude la possibilità di un percorso di giustizia riparativa per Turetta? “Non la escludo, assolutamente”. Nel suo discorso ha detto parole importanti anche sulla difficile posizione di chi resta e vive un lutto così forte, trovandosi, al contempo, al centro dell’attenzione mediatica: “Ti senti giudicato. Non puoi prendere posizione su nulla senza essere frainteso. Tutto questo non è solo dolore, ma la prigione di stereotipi e pregiudizi”. Rifarebbe tutto? “Assolutamente sì. Gli stereotipi si combattono anche così. Affrontandoli, senza paura di andare controcorrente. Un po’ alla volta le cose cambiano. Non abbiamo molta scelta: si deve far così, cercare di combattere le correnti contrarie”. Le sue parole sono state capaci di scavare un solco nella percezione dell’opinione pubblica. Eppure, anche nelle ultime ore contiamo tre femminicidi. Qual è il tassello che manca? “Quello che ancora è assente è una reale conoscenza del tema. Bisogna partire da qui. Per questo ho voluto attorno a me un comitato scientifico di esperte ed esperti che studiano il fenomeno da tempo. L’obiettivo è costruire possibili soluzioni partendo da una consapevolezza anche scientifica del fenomeno”. Divulgare, a partire dalla scuola, come fa con la Fondazione? “Sì, anche cercando di creare compendi più semplici, per far emergere le varie facce della violenza. Mostrarle a tutti”. Parla spesso di ragazzi e uomini. Crede che i tempi siano maturi per capire che la violenza contro le donne è un problema (innanzitutto) degli uomini? “Lo spero. E non perdo la speranza”. Daspo nullo se il giudice lo convalida prima delle 48 ore e del deposito delle memorie difensive di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2025 Si tratta di misure restrittive incidenti sulla libertà personale che impongono cautela nella loro adozione e che perciò non possono essere decise omettendo qualsiasi forma di contraddittorio. Il Daspo è nullo se il giudice lo convalida senza che siano decorse 48 ore e prima del deposito delle memorie difensive effettuato comunque entro il medesimo termine di legge. In tal caso non va provata la lesione del diritto di difesa perché sussiste in re ipsa data la totale pretermissione delle ragioni della persona cui viene imposto il divieto di accesso alle manifestazioni sportive e l’obbligo di presentarsi in questura in loro concomitanza, misure restrittive incidenti sulla libertà personale che impongono cautela nella loro adozione e che perciò non possono essere decise omettendo qualsiasi forma di contraddittorio con la parte cui sono imposte e il suo difensore. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 32604/2025 - ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui il Gip aveva convalidato il Daspo a carico del ricorrente senza neanche attendere lo scorrere delle prime 24 ore ma soprattutto senza aver potuto conoscere le ragioni della difesa contenute nelle memorie depositate entro il termine legale di 48 ore con conseguente violazione del diritto di difesa stesso. In tal caso quindi l’illegittimità della convalida si riverbera sul Daspo rendendolo nullo. Infatti, spiega la Cassazione che ciò che rileva in un caso simile è proprio la violazione di un diritto fondamentale e non solo il vizio derivante dal mancato rispetto del termine minimo che deve intercorrere tra notifica del Daspo all’interessato e il suo esame da parte del giudice ai fini della convalida. Termine fondamentalmente imposto proprio al fine di consentire una difesa contro l’applicazione di un divieto così incisivo sulla libertà individuale. In effetti, nel caso che il Daspo sia impugnato solo perché convalidato prima del decorso del termine previsto, la difesa dovrà ai fini della sua annullabilità dimostrare in concreto di averne tratto dall’anticipata decisione un concreto e specifico pregiudizio trattandosi in tal caso di nullità generale a regime intermedio, ossia un vizio superabile in mancanza di specifica allegazione di parte. Verona. Carcere di Montorio, detenuto s’impicca in cella di Angiola Petronio Corriere del Veneto, 7 ottobre 2025 Terzo suicidio dall’inizio dell’anno. B.M., albanese di 52 anni, era in attesa di giudizio per maltrattamenti. Un metronomo. La cui nota monotona scandisce una situazione la cui fragilità ormai sembra non scalfire più nessuno. Ha suonato anche domenica, il metronomo del carcere di Montorio. Cadenzando quella che, per gli amanti delle classifiche, è la terza morte volontaria dall’inizio dell’anno nella casa circondariale. Un altro grano su quel rosario dei suicidi che questa volta racconta di un detenuto che a Montorio c’era arrivato per l’”aggravamento della misura”. Quella carcerazione in attesa di un processo per maltrattamenti in famiglia, in particolare verso uno dei due figli al quale, nonostante il divieto, lui si era avvicinato. Applicazione del “carcere. dice rosso”, e detenzione nella prima sezione, quella di chi sta aspettando il giudizio. Venerdì l’udienza al riesame non era andata come sperava e domenica, nel tardo pomeriggio, ha aspettato che il compagno di cella uscisse per impiccarsi. Lo stesso canovaccio del 18 marzo scorso. Codice rosso e prima sezione in attesa di giudizio, per quell’uomo che la vita se l’è tolta 24 ore dopo essere entrato in carcere. Il girone di Montorio dove, 48 ore prima, a uccidersi era stato un detenuto senegalese di 69 anni. E quella casa circondariale dove oramai il sovraffollamento è una stasi e non un’eccezione. “Una storia a sé”, la definisce il garante dei detenuti don Carlo Vinco. “Come ogni suicidio in Storie che non possono essere omologate”. La storia di un uomo, prima che di un detenuto, “che era taciturno, riservato. Era in una cella da due, ma passava il tempo a rimuginare cose che nessuno è stato in grado di cogliere. Perché - dice don Vinco - il sovraffollamento non è la causa diretta della sua morte, ma nel sovraffollamento non ci si accorge della gravità e dela solitudine di alcune situazioni”. E che il carcere di Montorio ormai trabocchi, lo dicono i numeri. “A Verona 607 detenuti sono stipati in soli 332 posti disponibili (+83%), mentre gli appartenenti alla polizia penitenziaria in servizio sono solo 370, quando ne servirebbero almeno 420 (-26%)”, la denuncia di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria. Per una casa circondariale murata di detenuti ma vuota di personale. “Una delle carceri con una condizione di sovraffollamento tra le più estreme d’Italia”, la bolla De Fazio per il quale si tratta di “numeri indegni per un paese civile che però non sembrano scalfire le coscienze di coloro che, detenendo la responsabilità politica e amministrativa delle carceri, dovrebbero intervenire concretamente quantomeno per arginare quella che è una vera e propria strage”. Sessantacinque suicidi - con quello di domenica a Montorio - il numero di quella strage. In quelle carceri, compresa quella di Verona, che oramai hanno la funzione di “incubatoio sociale”. “Se i detenuti scontano una carcerazione non dignitosa - ragiona il segretario generale della Uila PP - tanto che per noi le carceri non rispondono neppure più ai presupposti giuridici per i loro mantenimento, gli appartenenti alla polizia penitenziaria sono ormai stremati da carichi di lavoro esorbitanti e turnazioni di servizio che si protraggono anche per 26 ore continuative. Pure loro, dunque, patiscono le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio dello Stato che si continua a mostrare patrigno”. Padova. “Camere dell’amore, una conquista. Chi è in carcere è comunque una persona” di Marta Randon Il Mattino di Padova, 7 ottobre 2025 Da ieri, lunedì 6 ottobre, la sperimentazione al carcere Due Palazzi di Padova: i detenuti, con l’ok del magistrato di sorveglianza, potranno incontrare la compagna in totale privacy. La testimonianza di Elton Kalica, in cella per 14 anni: “Intimità fondamentale. Avere bisogno di carezze è umano”. “Si facevano i turni, uno rimaneva in cella, il resto scendeva per consentire al compagno di rimanere da solo con il giornalino pornografico, si creavano dinamiche infantili. Ma non c’era alternativa”. Per Elton Kalica, 49 anni, ricercatore universitario di origini albanesi che ha trascorso 14 anni al Due Palazzi, la “stanza dell’affettività è la più grande conquista che un detenuto possa ottenere”. Da lunedì 6 ottobre, per quattro mesi, il carcere di Padova dà ai detenuti che hanno il permesso del magistrato la possibilità di incontrare in totale privacy la moglie, convivente o fidanzata. L’ex detenuto è fuori dal 2011; oltre a lavorare nel dipartimento di Sociologia è redattore della rivista Ristretti Orizzonti. Per anni, quand’era in carcere, si è battuto per “il diritto alla sessualità e affettività”. Camera dell’amore in carcere a Padova, scoppia la polemica: “Spiegazioni dalla direttrice” “Se ne parla da tanto tempo. Ricordo che al Due Palazzi fu organizzato un incontro con alcuni deputati per parlare della proposta di legge di Marco Boato, firmata da una trentina di onorevoli. Già allora l’opposizione dei sindacati della polizia penitenziaria fu feroce. Non ne volevano sapere. Credo sia soprattutto una questione politica, dei tanti sindacati solo uno è della Cgil, il resto è di destra: un recluso per loro deve vivere di cella, aria e tre pasti. È anche una questione culturale: in un Paese cattolico il rapporto sessuale è finalizzato alla procreazione, non è un’esigenza”. Elton all’epoca aveva 20 anni. “Avevo una fidanzata - racconta - se avessi potuto avere incontri intimi la storia forse sarebbe andata diversamente. La stanza dell’affettività aiuta soprattutto i detenuti sposati o conviventi che hanno una pena lunga. Coltivare un rapporto con la propria compagna, farlo sopravvivere, significa anche potersi vedere in intimità, in totale privacy. Un detenuto è una persona è il bisogno di contatto fisico, di carezze è umano”. La stanza dell’amore del Due Palazzi si trova vicino agli spazi dedicati agli incontri con i familiari: “Durante i normali colloqui è vietato baciarsi - spiega Elton. Se viene a trovarti tua moglie è normale abbracciarsi e baciarsi, ma non si può. La polizia penitenziaria, che controlla da dietro un muro di vetro, bussa col pugno, ordinandoti di smettere. Alcuni sono severi, altri più indulgenti. Al terzo richiamo, però, si perde il diritto di 45 giorni di liberazione anticipata per comportamenti non idonei”. Secondo Elton “i colloqui tradizionali sono un’esperienza traumatica. Mogli, madri, bambini vendono perquisiti. I tempi di attesa sono lunghissimi, i controlli avvengono sotto uno spirito di minaccia con la fobia che possano essere introdotti in carcere oggetti o droga. Non so come sia possibile dato che i detenuti devono spogliarsi prima e dopo l’incontro”. La sessualità è un diritto e un’esigenza fisica, soprattutto per i più giovani. La stanza dell’affettività evita non pochi imbarazzi. “Al Due Palazzi i giornalini per adulti non sono consentiti, ma in qualche modo arrivano; gli agenti se li trovano sono tolleranti. Il problema è che per alcuni detenuti diventa una fissazione”. Reggio Emilia. Viaggio nel carcere, tra morti in cella, maranza e detenute trans di Christian Donelli parmatoday.it, 7 ottobre 2025 Una donna, della mia stessa età, mi parla seduta ad un tavolino in un locale all’aperto. Reggio Emilia che finalmente ha ripreso a respirare dopo il caldo rovente dell’estate emiliana. Intorno a noi giovani studenti con l’espressione piacevole di chi ha tempo e non ha orizzonti vicini. Da diverso tempo questa madre mi chiedeva un incontro, la proposta è stata quella di vederci vicino al suo luogo di lavoro. Si presenta minuta, un corpo asciutto, muscoli nervosi allenati da una carriera umile nel mondo delle pulizie. Parla in modo preciso come chi ha per molte volte ripetuto a se stessa la triste vicenda che le ha spezzato la vita. Il racconto diventa una litania consolatoria fatta di date, fatti, nomi del personale del vicino carcere della città. Il figlio, uomo adulto, è morto in carcere tre anni fa. Quanto è successo si apprende alla fine di una lunga indagine della Procura presso il Tribunale di Reggio Emilia che ha deciso il rinvio a giudizio di un medico e di una infermiera. Questi sono i fatti. È sera. L’uomo si trova rinchiuso in cella. È giunto in carcere il giorno precedente ed ha una crisi di astinenza. Serve metadone. La ricostruzione degli inquirenti determina che ne somministreranno 100 milligrammi, una dose fuori portata per quel corpo debilitato e dipendente, senza droga nel sangue da troppo tempo, chiuso in una cella che da li a poco diventerà il suo avello, il pavimento il sudario del suo corpo madido di sudore. Oggi un medico ed una infermiera dovranno difendersi e dimostrare che non fu un errore. La madre dovrà difendere il figlio, che non c’è più, di cui oggi non rivendica altro che il dimostrare che la sua vita è stata piena di errori ma l’ultimo di questi, quello definitivo, non è lui imputabile. “Dare una dignità a una morte inattesa e ingiusta” - È la frase che mi sento ripetere più spesso da chi ha perso un congiunto detenuto, caduto nel fronte delle galere del Paese, quando chiedono di incontrarmi. Nella regione sono 30 i detenuti morti lo scorso anno, di questi 9 sono suicidi, il resto decessi che a volte mascherano un possibile suicidio. Non sempre il suicidio è palese: il decesso può derivare da un’overdose di farmaci o di alcol, oppure sopraggiungere a seguito di una malattia che ha lentamente consumato la vita del paziente detenuto che, come chi annaspa senza aria nei polmoni, questi si dibatte e si rivolge al magistrato di sorveglianza per chiedere la sospensione della pena, poiché le restrizioni del carcere gli impediscono di curarsi. Quello della sospensione della pena è un meccanismo che si inceppa molto spesso e la concessione, in questi casi, è in proporzione meno frequente quando maggiore è lo spessore criminale del paziente detenuto. Una sorta di irrazionale limite, inatteso ospite, alla scienza medica: la sicurezza e l’interesse del mantenimento dell’ordine e della sicurezza vince anche la diagnosi medica più feroce e con esito mortale. Lascio questa madre con la promessa di rivederci presto. Mentre ci salutiamo penso che nella nostra lingua non esiste un termine al pari di vedova o orfano per un madre che ha perso un figlio. Un vuoto che la cultura non riempirà neppure questa volta, per di più quando è un detenuto ad essere il figlio defunto. Il viaggio dal centro di una città ad un carcere dell’Emilia è la solita distesa di rotonde, quartieri residenziali, qualche isola verde qua e là. Non ho ancora imparato a memoria la strada per arrivare all’istituto penale di Reggio Emilia. Colpisce il lungo viale che si percorre abbandonando la strada principale e che porta all’accesso all’area demaniale del penitenziario. Ad uno dei suoi lati sono disposte belle villette costruite nel corso di recenti interventi urbanistici. La voglia di uno spazio moderno, esteticamente piacevole dove fare abitare le famiglie non subisce le sfide del grigio edificio della caserma della polizia penitenziaria e degli edifici della reclusione, anche grazie ai filari di pioppi che schermano l’edilizia comunitaria di un carcere. Solo testimone delle sfide all’edilizia residenziale reggiana di questa parte della città è un cartello posizionato di fronte alle villette e che recita “Ministero della Giustizia - Ospedale psichiatrico giudiziario”. Si tratta di un cartello che è rimasto orfano del suo significato da quando il nostro paese si è dotato della Legge n. 81 del 2014 che ha abolito gli OPG, fossa di disperazione che neppure l’anima refrattaria ai cambiamenti dei parlamentari e dei senatori ha saputo tollerare correndo ai ripari abolendo così questi reclusori. Ma tant’è, quel cartello rimane e nessuno lo ha mai rimosso, e la memoria è così forte che la sigla OPG resta presente anche nelle cartelle informatizzate della sanità regionale quando riferite ai pazienti psichiatrici che passano da queste parti. In carcere le identità, soprattutto quando sono quelle di uno dei tanti poteri che investono la vita dei detenuti, sono dure da superare. Visito l’istituto per fare una verifica sulle condizioni di detenzione di un giovane detenuto magrebino. La segnalazione proviene dalla madre che mi ha fatto un lungo elenco di problemi che riguardano questo suo figlio che incontro in un piccolo ufficio non lontano dal comando, che come in altri istituti di pena, è “tirato” sul numero effettivo degli agenti in servizio ed è quindi considerato saggio collocare questo colloquio dove, nel caso, i poliziotti sono pronti a intervenire. Così vanno le cose in carcere, l’arte di arrangiarsi e di essere estremamente pragmatici sono i pilastri della buona gestione di un istituto penitenziario. Il giovane arriva con un fare da bullo e l’agente che è con lui si lascia andare a una battuta che spezza la diffidenza tra tutti i presenti. Anche questa è una delle arti da apprendere per sopravvivere in carcere. Il “bullo” è entrato da minorenne in carcere, per scontare una condanna molto breve, ma non lo ha mai più lasciato. Dovrà rimanere sino al 2032. Questo giovane magrebino ha accumulato reati su reati in carcere: risse, lesioni, oltraggio e altro ancora hanno sempre più spostato la “festa” del ritorno alla libertà. Entra in carcere da minorenne, oggi ha 26 anni, la condanna lo rimetterà in libertà quando avrà 33 anni ma sul percorso incombono alcuni sospesi penali e forse il futuro riserverà qualche altro rischio. Nike ai piedi e felpa Adidas con i colori di una squadra di calcio che non riconosco. Sull’onda lunga della battuta del poliziotto si definisce “maranza”, è la sua identità, anche lui ritiene di avere un potere. Ne avrà parecchio bisogno perché il sistema penitenziario non gli offrirà mai una via alternativa a quella di piegarsi alla forza educate della sottrazione del tempo. È una lotta impari e lui, imprigionato in un sistema che gli impedisce di crescere soccomberà, invecchiando in un carcere dai cui uscirà con le mani vuote. Pochi giorni dopo la lunga chiacchierata e il mio tentativo di trovare una mediazione con la direzione, solo in parte raggiunta, questo “maranza” verrà trasferito in un altro carcere in quanto anche qui ritenuto un “problema” per l’ordine e la sicurezza dell’istituto. Questo tipo di trasferimento, ce ne sono diverse centinaia all’anno complessivamente in Emilia-Romagna, rappresenta una strategia dell’amministrazione, attuata quando nei confronti di un detenuto sono falliti tutti i tentativi di dialogo oppure quando il ristretto si è reso autore di fatti gravi contro altri reclusi o contro il personale dell’istituto. Non esiste però nessuno studio che dimostri l’efficacia di questa tradizione penitenziaria che assume, purtroppo, la dimensione della punizione proprio perché non suffragata da un risultato in linea con il senso della pena, se non quello di sfiancare il detenuto, in attesa che l’effetto sedante derivato dalla sottrazione del tempo abbia il suo effetto. Prima di lasciare l’istituto, dopo questo ennesimo fallimento, percorro il lungo corridoio che separa il comando dalla sezione per persone transessuali. Si tratta di una piccola sezione che ospita un gruppo ristretto di trans. Nel percorso incrocio la direttrice. La conosco da parecchi anni e la ricordo quando alla metà degli anni ‘90 prese servizio a Parma con l’incarico di vicedirettrice. Era una giovane donna ancora lontana dai 30 anni. È ancora bella, oggi diventata madre di una donna. La trovo con dei fogli in mano con a fianco un detenuto che ha un corpo enorme, pieno di tatuaggi, uno di questi corre lungo il sopracciglio destro con la scritta “revenge rabbia dentro”. Conversano tranquillamente e sento che il corpulento detenuto ringrazia la direttrice per quello che ha fatto con lui. Si tratta di un uomo con un passato molto complicato, fatto di malattia psichiatrica e di troppi episodi di aggressione e oggi, invece, ha trovato un equilibrio tra gli effetti dell’erosione del tempo che passa e la forza del riscatto. Io e la direttrice ci salutiamo con un cenno del viso, sarà facile incrociarla di nuovo in un corridoio dell’istituto perché lei gira sempre e parla con grande facilità con i detenuti di cui conosce le pieghe delle loro vite. Nella sezione riservata alle detenute trans, un piccolo ghetto - La sezione delle persone transessuali è un altro piccolo ghetto. Poche persone in una sezione ricavata da una ex area di isolamento. Qui i corpi delle persone ristrette sono decisamente espressivi. La gentilezza delle detenute nel salutare è una cosa inusuale in un carcere. Il loro approccio al visitatore è sicuramente accogliente. Non è la prima volta che vengo qui a fare visita e a fare colloqui. Anche qui c’è una cosa alla quale non mi abituo mai. Gli esseri umani non sono fatti per stare chiusi nelle celle. E come vedere i volativi nelle gabbie. Provo una grande pena nell’osservare gli spazi detentivi: celle in cui tutto è accatastato e dove dormire, andare in bagno, farsi un caffè, truccarsi, piangere, guardare la TV, mettersi lo smalto, fare due chiacchiere, se si è in due in cella, va fatto a turno perché non c’è spazio. Così, mentre una detenuta compie la sua azione quotidiana, qualunque essa sia, l’altra deve mettersi sulla branda nel letto a castello ed aspettare il proprio turno. Nella sezione incontro B. condannata per omicidio. Troviamo spazio in una sala per parlare. Lei il problema dello spazio lo ha in parte risolto. Ha ripreso gli studi universitari in filosofia e per buona parte della giornata le è stato concesso di studiare in uno spazio dedicato. Sono alcuni anni che ci vediamo in carcere per cercare di risolvere piccoli e grandi problemi della vita detentiva. Uno tra questi riguarda l’attesa infinita per un intervento chirurgico ad una gamba. B. si presenta sempre in ordine, mai vistosa, abiti femminili mai attillati, un foulard le avvolge il capo senza capelli. La sua professione era la prostituzione in casa a Milano. Un regista, colpito dalla sua storia intrisa di solitudine e di corpo oggetto della voracità dei clienti più diversi, ha raccontato la sua storia in un film che si intitola “La casa dell’amore”. Come nel film B. è una persona dolce, calma, attenta. Un giorno però lo schema è saltato per aria e la sua vita ha virato verso il carcere. Nel raccontare la sua vita parla molto del padre, artista lombardo, non cita la madre, non la descrive e questa figura scivola via nel racconto senza lasciare alcuna traccia. Nel racconto dell’offesa ricevuta da riferire al garante al detenuto succede spesso di mescolare al dolore del presente il ricordo del proprio passato: che sia questo riferito al delitto compiuto o al ricordo di un tempo di libertà, che non tornerà per molto altro tempo. Un ricordo che si conserva nell’intimità del grembo materno del carcere, che custodisce i suoi figli con malata gelosia. Avellino. “Nella sezione protetta una tragedia: celle piccole e senza doccia” di Simonetta Ieppariello ottopagine.it, 7 ottobre 2025 Carcere sovraffollato, lavori di restauro in corso e disagi che restano per i detenuti a Bellizzi Irpino. Ieri il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello è tornato a guardare da vicino una realtà che troppo spesso resta ai margini del dibattito pubblico. Con lui c’erano l’avvocato Alessandro Gargiulo, membro dell’Osservatorio regionale sulla vita detentiva, e Carlo Mele, garante provinciale dei detenuti. “Mi aveva comunicato Carlo Mele che qui erano arrivati detenuti di alta sicurezza. Io confermo che c’è la permanenza di 34 di loro”, ha spiegato Ciambriello. “Ci sono ancora dei lavori, però con mio piacere ho visto un’organizzazione delle stanze, delle docce, del bidet. Ho detto: “Loro, guardate, state meglio degli uomini”. Ma siamo per l’uguaglianza: in altri reparti maschili questo tipo di vivibilità dignitosa non c’è”. Ma nelle sezioni maschili, la realtà cambia volto. “Siamo andati in isolamento, nel reparto dedicato ai protetti, ho visto detenuti che mi avevano scritto”, racconta ancora Ciambriello. “In alcune celle dei “protetti” abbiamo trovato una tragedia. Il rispetto dei diritti umani è completamente calpestato. Questo non è un atto contro la direzione o la Polizia penitenziaria, perché loro sono i primi a essere in difficoltà”. L’avvocato Gargiulo parla con parole asciutte: “Celle di 18-16 metri quadrati con 6-8 persone dentro. Le docce praticamente non ci sono: hanno usato, come si dice dalle nostre parti, una cannola, e con quella cercano l’acqua. Ma abbiamo saputo che è un problema generalizzato: l’acqua va via alle 9 di sera e torna alle 7 del mattino”. Poi, Ciambriello aggiunge: “Qui abbiamo una trentina di tossicodipendenti. Il primo appello è rivolto alla sanità e all’ASL. Serve una sezione dedicata, un servizio che funzioni, e più attenzione alla salute mentale. Inoltre, ci sono solo 5 educatori ma dovrebbero essere molti di più. Nella sezione femminile ci sono quattro donne con gravi problematiche psichiche: occorrono interventi mirati”. Sanità penitenziaria: la fragilità del sistema - Sul fronte sanitario, Carlo Mele non nasconde la preoccupazione. “La sanità è un po’ il lato dolente di tutti gli istituti. L’ASL deve integrarsi e responsabilizzarsi. I medici non vogliono venire, anche se incentivati. È un dramma: i detenuti hanno solo la sanità pubblica. Visite che saltano, reparti chiusi, ricoveri difficili. Serve stabilità, contratti a tempo indeterminato. Il carcere non può accogliere tutto il disagio sociale”. Genova. Il detenuto di 260 chili trasferito da Cuneo, ma non c’è una cella che possa ospitarlo di Sandro Marotta La Stampa, 7 ottobre 2025 Anche il carcere “Marassi” non è attrezzato per accogliere obesi o diabetici. Da un ospedale non attrezzato a un carcere sovraffollato: questo l’aggiornamento sul caso del detenuto che per più di un mese è stato ospitato all’ospedale Santa Croce di Cuneo perché gravemente obeso e diabetico. “Continua la diaspora del mio assistito - dice Roberto Puce, avvocato del 50enne - dieci giorni fa è stato trasferito al carcere Marassi di Genova, a quanto pare è l’unico che si è reso disponibile ad accoglierlo per un periodo. Anche lì però mi ha detto che si trova male e che vorrebbe tornare a Lecce”. La scelta di Genova non è chiara: “Non so perché, chiedere le spiegazioni al Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria ndr) è lungo e complesso. So solo che è una situazione temporanea, che durerà fino a quando il carcere di Cuneo o di Torino si sarà attrezzato per adattare una cella alle sue esigenze”. Una storia iniziata a Lecce - La storia del 50enne che ora pesa più di 260 chili è stata raccontata nelle scorse settimane da La Stampa. Incarcerato a Lecce, era stato trasferito ai domiciliari dal fratello, a Cuneo. Dopo una serie di difficoltà nella cura domestica, era stato assegnato a una rsa di Bra, dove però aveva minacciato di morte il personale e se stesso; da qui il magistrato di sorveglianza lo aveva dirottato in carcere a Cuneo, dove però non è mai stato ospitato perché non ci sono celle adatte ai pazienti che hanno una ridotta mobilità. Dal 23 di agosto fino a pochi giorni fa è stato al Santa Croce, dove peraltro non c’è un reparto specifico per la cura dell’obesità. La situazione è tutt’altro che risolta. Il primo problema è che, a differenza di Cerialdo, il “Marassi” di Genova è già sovraffollato del 127%, ci sono 142 detenuti in più rispetto alla capienza massima e 17 agenti in meno. La seconda questione è il diritto di cura. In carcere è molto difficile trattare patologie delicate come l’obesità e il diabete, perché le strutture non sono adeguate e il piano alimentare non è tarato sul quadro clinico degli ospiti. Le videochiamate con il fratello - L’amministrazione penitenziaria del carcere genovese, sentita da La Stampa, non ha risposto in merito alla presenza di “camere di pernottamento per soggetti ristretti affetti da disabilità motoria”. “Mi ha raccontato che il letto gli fa male perché non è adatto a sostenere un peso come il suo - racconta il fratello -. Poi ha bisogno di medicazioni continue e di lavaggi. Mi hanno detto che un altro detenuto è stato incaricato di seguirlo, ma ci vorrebbe un infermiere”. Al vuoto sanitario si aggiunge l’edilizia carceraria inadeguata: “Ho chiesto di andarlo a trovare, ma non posso, perché la sedia a rotelle con cui si muove non entra nella sala colloqui - continua -. Posso parlare con lui solo con una videochiamata ogni tanto”. Per poter uscire dal carcere, occorre o che ci sia una struttura sanitaria in grado di curarlo oppure che abbia una casa di proprietà. “Sto ancora cercando di trovargli una casa - ribadisce il familiare, che su La Stampa aveva lanciato un appello alla cittadinanza per aiutarlo a trovare un alloggio -, ma la difficoltà è doppia perché dovrei trovare anche qualcuno che lo accudisca, altrimenti peggiorerebbe”. Napoli. Lo fermano col taser. Muore in ambulanza di Rita Rapisardi Il Manifesto, 7 ottobre 2025 Sull’uomo, in stato confusionale, è stato usato prima lo spray al peperoncino e poi le scariche. Quattro morti sospette da taser in meno di tre mesi e tutte con un copione molto simile. L’ultimo ieri a Napoli, deceduto mentre veniva trasportato in ospedale dopo l’utilizzo della pistola elettrica da parte dei Carabinieri. Al 112 era giunta in mattinata la segnalazione di una lite in famiglia: un uomo di 35 anni all’arrivo degli agenti si è presentato nudo davanti alle forze dell’ordine e in forte stato di agitazione. Secondo quanto riferiscono i Carabinieri, non è stato possibile calmarlo mentre provava ad aggredire i presenti così è stato colpito prima con lo spray al peperoncino e poi con il taser. È stata aperta un’inchiesta per chiarire le cause del decesso. L’arma che viene definita “non letale” continua a lasciare morti dietro di sé. Non è del tutto vero che non si possa morire per l’utilizzo del dispositivo elettrico. L’Ordine dei medici di Torino già nel 2018 aveva preso posizione contro l’introduzione dei taser, esprimendo la propria preoccupazione per la potenziale letalità dello strumento e il rischio di abuso in soggetti deboli, a rischio o anche come forma di tortura. Il punto di vista era accompagnato da uno studio che raccoglieva i dati disponibili e le numerose fonti che esistono sul tema. Nel 2022, alla conferma definitiva che l’arma sarebbe entrata tra quelle in dotazione agli agenti, l’ordine sanitario della città piemontese si era mosso nuovamente con una lettera al consiglio comunale esprimendo contrarietà: grazie a questa battaglia era poi arrivato lo stop del taser ai vigili urbani. Visti gli ultimi eventi la battaglia dei medici non si ferma, fanno sapere dall’Ordine: “Dei metodi alternativi di intervento ci sono: la comunicazione e la mediazione, sono un primo passo per non arrivare all’utilizzo di quest’arma - spiega una dottoressa dell’Asl di Torino -. Il rischio a livello sanitario non è commisurato al beneficio se consideriamo che le linee guida per l’utilizzo della pistola dicono che se sei ubriaco o sotto effetto di stupefacenti sei più vulnerabile”. Anche le indicazioni dei produttori della pistola elettrica confermano che su soggetti deboli, ma anche donne incinte, bambini, persone con problemi cardiovascolari, pacemaker o psichici i rischi aumentano: “Le ditte dicono che non è pericoloso se sei adulto e sano, ma sono molte le persone che invece rischiano rispetto alla popolazione - continua la dottoressa - ad esempio banalmente l’arco voltaico è così doloroso che resti bloccato e puoi morire anche per la caduta, com’è successo in alcuni casi riportati dallo studio condotto da Reuters”. Il conteggio delle morti sospette dell’agenzia è ormai arrivato a 1.081 casi dal 2000 e ci sono alcuni pattern: il 90% delle persone decedute non aveva armi e metà invece aveva problemi psichici, aveva fatto uso di sostanze o alcool o si trovava in una situazione di escandescenza: “Ci vorrebbe un approccio mite in queste situazioni, ad esempio i vigili del fuoco riescono a gestire molto meglio casi di questo tipo, esistono protocolli più specifici che andrebbero insegnati. Non può succedere che basti essere agitati per essere colpiti da una scossa elettrica”. La dottoressa tiene a sottolineare un altro aspetto spesso ignorato, quello per cui secondo il protocollo all’utilizzo del taser è obbligatorio chiamare un’ambulanza: “Innanzitutto come mai chiamare un mezzo di soccorso se l’arma non è pericolosa? Inoltre questa dislocazione di risorse importanti viene tolta ai casi emergenziali, o ad esempio ai pazienti in dialisi che devono essere trasferiti”. Avs attacca: “Non possiamo accettare che uno strumento di morte, introdotto in via sperimentale, diventi la risposta dello Stato a una persona in stato di evidente fragilità. Quell’uomo aveva bisogno di aiuto invece ha trovato la violenza di una scarica elettrica”. Catania. Fuori dalle sbarre c’è una Seconda Chance freepressonline.it, 7 ottobre 2025 Seconda Chance è una giovane associazione del terzo settore, nata a Roma tre anni fa grazie all’iniziativa della giornalista de La7 Flavia Filippi. Il suo obiettivo è chiaro: favorire il reinserimento lavorativo di detenuti e persone che hanno da poco lasciato il carcere, offrendo loro una reale possibilità di ricominciare nel segno della legalità. In soli mille giorni, l’associazione ha attivato quasi 700 opportunità di lavoro per persone private della libertà o da poco reintegrate nella società. Un risultato straordinario, frutto di una rete di volontari e sostenitori attivi su tutto il territorio nazionale. Seconda Chance in Sicilia: sede regionale a Catania - Da oltre un anno, Seconda Chance è presente anche in Sicilia, con una sede regionale a Catania, guidata da Maurizio Nicita, ex inviato della Gazzetta dello Sport oggi in pensione: “Sono tornato nella mia terra per aiutare chi ha bisogno. Troppo spesso usiamo il termine ‘pregiudicato’ come se fosse una condanna a vita. Ma dietro le sbarre c’è tanta voglia di riscatto. Cerchiamo imprenditori minimamente illuminati. Non sono molti, ma chi ci prova poi resta soddisfatto: scopre persone motivate e grate per l’opportunità ricevuta.” Storie di successo: chi ha dato una seconda possibilità - Un esempio concreto è quello dell’architetto Omar Vitagliano, titolare della Arte Srls, azienda di ristrutturazioni che ha assunto T., un ex detenuto: “Ormai è un punto di riferimento del nostro team. Se troverò altre professionalità simili, sono pronto a ripetere l’esperienza. È una scelta che fa bene a tutti”. Anche la ditta di costruzioni Cospin ad Acireale ha aderito all’iniziativa: due ragazzi provenienti dall’istituto minorile di Acireale inizieranno a lavorare nel restauro dello storico Istituto Gulli-Pennisi. Altri due ragazzi, dal minorile di Bicocca, inizieranno presto la loro esperienza lavorativa in un grande store del Centro Sicilia a Misterbianco. Ricerca, formazione e università: un ponte tra carcere e lavoro - Oltre all’inserimento lavorativo, Seconda Chance si occupa anche di formazione. L’Università di Catania ha coinvolto l’associazione in un progetto volto a creare un ponte tra carcere e mondo del lavoro, con il supporto delle associazioni imprenditoriali locali. Durante un evento a settembre al Palazzo delle Scienze, sono stati presentati due interventi significativi: una relazione pedagogica sulla detenzione a cura della psicologa Alessandra Pantano; uno studio sulla condizione sociologica del detenuto, presentato da Pierdonato Zito, ergastolano a Santa Maria Capua Vetere, laureato in Sociologia con il massimo dei voti dopo aver studiato in carcere. Progetti culturali e laboratori nelle carceri siciliane - Seconda Chance non si ferma al lavoro: promuove anche iniziative culturali e laboratori creativi nelle carceri. Come racconta Antonella Speciale, mediatrice penale e membro attivo dell’associazione: “Nelle carceri di Caltagirone e Piazza Armerina stiamo portando avanti laboratori di scrittura autobiografica, arte terapia con narrazione del sé e lettura di letteratura sportiva. Vogliamo aiutare queste persone a raccontarsi e a prepararsi a un reinserimento dignitoso nella società.” Reinserimento sociale e lotta al pregiudizio - Seconda Chance dimostra che offrire una possibilità a chi ha sbagliato è possibile, e può generare benefici concreti per l’intera comunità. Ogni storia di reinserimento riuscito è un passo verso una società più giusta, inclusiva e sicura. Se sei un imprenditore, un volontario, o semplicemente qualcuno che vuole fare la differenza, Seconda Chance è un’opportunità anche per te. Roma. “La giustizia raccontata”, presentazione del libro degli avvocati Ponti e De Pauli La Repubblica, 7 ottobre 2025 Per i due autori, “fare l’avvocato richiede non solamente una competenza tecnica, ma anche una profonda capacità di ascolto”. “La giustizia raccontata. Le sfide dell’avvocato tra presente e futuro” è il titolo del libro a quattro mani degli avvocati Luca Ponti e Luca De Pauli, presentato in Senato su iniziativa di Assocomunicatori e racconta le sfide odierne della professione forense e il ruolo imprescindibile dell’avvocatura nella tutela dei diritti dei cittadini. Il libro ripercorre passato, presente e prospettive future dell’avvocatura, raccontati da due professionisti con decenni di esperienza condivisa. Nonostante le trasformazioni che hanno segnato la professione, il tema del confronto dialettico appare ancora centrale, soprattutto nel diritto penale, dove è in gioco la libertà individuale. L’essere umano rappresenta il il fulcro dell’attività forense e, secondo la convinzione dei due autori, fare l’avvocato non è una semplice professione, ma una vocazione che richiede competenze tecniche, sensibilità nell’approccio psicologico con il cliente e una profonda capacità di ascolto. Nel corso dell’incontro, i relatori hanno sottolineato la complessità e la ricchezza della professione legale, che non si limita alla conoscenza tecnica delle norme, ma implica anche sensibilità psicologica, capacità di ascolto e una profonda attenzione alla persona assistita. Per il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, “l’avvocato deve conoscere il diritto in tutte le sue manifestazioni e non può essere un giurista a metà. Tuttavia, oggi questo principio non è più sufficiente. Sappiamo infatti che, all’interno delle diverse discipline giuridiche, si sono sviluppate specializzazioni. È altrettanto vero, però, che se il giurista perde la visione filosofica complessiva del diritto, non adempie più alla sua funzione fondamentale: quella di non ledere alcuno e di dare a ciascuno il suo”. “Siamo orgogliosi di aver approvato di recente la legge sull’ordinamento forense, - ha sottolneato il Guardasigilli - che ha accolto numerosi suggerimenti, pur sollevando legittime critiche, e ha restituito alla figura dell’avvocato una nuova dignità, autonomia e valorizzazione. Il mio unico rammarico è non essere riuscito a inserire la figura dell’avvocato in Costituzione. Speriamo di poter raggiungere un consenso trasversale su questo punto prima della fine della legislatura. La riforma costituzionale sulla separazione delle carriere che stiamo portando avanti garantisce, ancor più di prima, la distinzione dei ruoli nel processo e, di conseguenza, una rinnovata centralità alla figura dell’avvocato”. L’avvocato Antonio Di Pietro ha affermato che “il ruolo dell’avvocato è molto condizionato positivamente dal processo telematico in ambito civile. Tuttavia, resto perplesso dal processo telematico in ambito penale, in quanto credo occorra un maggiore confronto tra accusa e difesa. L’intelligenza artificiale rappresenta uno strumento utile e necessario, anche per l’avvocatura e per la giustizia, sebbene debba restare un mezzo al servizio dell’uomo, e non un’isola autonoma a cui ricorrere per mancanza di volontà o di impegno nell’approfondimento. È, in un certo senso, come la zappa per il contadino: indispensabile, ma incapace di operare da sola. Nel mondo della magistratura, dell’avvocatura e, più in generale, nelle diverse professioni, non sempre si riesce ancora a tenere il passo con l’evoluzione tecnologica; si procede, per così dire, a vista. Ciò non significa, però, che si debba rinunciare a progredire: anche navigando a vista, dopotutto, si è arrivati in America”. “Questo convegno è particolarmente importante perché dà voce alle trasformazioni in atto sempre più decisive per il futuro dell’avvocatura. - ha sottolineato Simonetta Matone, membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati - Sono temi profondamente connessi, che rendono il ruolo dell’avvocato centrale per garantire un vero equilibrio tra accusa e difesa, obiettivo su cui il Governo sta lavorando con convinzione. Credo, però, che gli avvocati debbano farsi sentire di più, superando le divisioni politiche: questa non è una battaglia di parte, ma una battaglia di civiltà, per restituire all’avvocatura il ruolo che le spetta in un sistema giudiziario complesso come il nostro. Ben vengano, quindi, convegni e confronti su un tema tanto essenziale per la democrazia del Paese”. Per Michele Vietti, già Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, “il libro è un vero e proprio vademecum per l’avvocato e per chi desideri approfondirne il ruolo. Da un lato emerge l’esigenza di chiarezza e di tecnicalità, dall’altro quella della rapidità e della profondità di analisi. Oggi l’avvocatura è chiamata a raccogliere le sfide di un mondo in continuo cambiamento, a partire dalla rivoluzione digitale. I dati ci mostrano che una parte significativa degli avvocati fa già ricorso all’intelligenza artificiale; tuttavia, l’essenza della professione forense risiede ancora nel rapporto con il cliente, nella capacità di gestirne le emozioni e le difficoltà. Il nucleo della professione resta fondato su valori fondamentali quali autonomia, competenza, correttezza ed etica”. Il co-autore Luca Ponti ha spiegato che il libro “nasce dal desiderio di raccontare la professione forense attraverso le storie, le emozioni e le sfide quotidiane che la attraversano. Non un manuale tecnico, ma un invito a riscoprire l’avvocato come interprete dell’umano: capace di ascoltare, comprendere, collaborare e mantenere viva l’empatia, anche nell’era dell’intelligenza artificiale. Perché il futuro dell’avvocatura non si giocherà sulla freddezza dell’algoritmo, ma sulla profondità dello sguardo umano”. L’altro co-autore Luca De Pauli ha aggiunto “la nostra è un’idea di avvocato che va oltre la tecnica: un interprete del presente, capace di visione e ascolto. In un tempo che spinge verso l’iper-specializzazione e la giustizia digitale, credo servano professionisti trasversali, aperti alla complessità della vita reale e capaci di restituire umanità al diritto. Senza relazione, senza comprensione profonda, la giustizia rischia di perdere la sua anima”. Tommaso Cerno, Direttore del quotidiano Il Tempo, ha dichiarato che “il vero tema è che ci sono milioni di italiani che hanno bisogno di giustizia. Nella riforma sulla separazione delle carriere non c’è ipocrisia: il ministro Nordio ha espresso posizioni ragionevoli. Nel contesto attuale, il libro di Ponti e De Pauli è prezioso perché evidenzia come il ruolo degli avvocati sia fondamentale in questo processo di superamento dello scontro ideologico. Nessuno vuole sminuire le prerogative del pubblico ministero, ma è necessario tornare al buon senso e alla ragionevolezza”. Monza. I detenuti incantano al Manzoni. Un successo “Senza parole”, è proprio il caso di dirlo di Alessandro Salemi Il Giorno, 7 ottobre 2025 Al Teatro Manzoni il pubblico ha tributato una standing ovation ai detenuti della Casa circondariale di via Sanquirico e all’associazione Geniattori, protagonisti di uno spettacolo che ha già conquistato il Premio nazionale Maurizio Costanzo come miglior pièce teatrale realizzata nelle carceri italiane. Sul palco, dieci detenuti hanno raccontato - senza una parola, ma con la forza del gesto e dello sguardo - una giornata tipo dietro le sbarre: dal risveglio alla notte, passando per il lavoro, i colloqui, la palestra. A fare da filo conduttore, la voce fuori campo di Mauro Sironi, direttore artistico dei Geniattori. “Un glossario emotivo per sensibilizzare chi spesso del carcere conosce solo i titoli dei giornali”, spiega Paolo Piffer, volontario dell’associazione. “Non pretendiamo di risolvere i problemi del sistema penitenziario, ma di aggiungere la nostra goccia nel mare: un piccolo contributo per una causa spesso trascurata”. Il laboratorio teatrale dei Geniattori va avanti dal novembre 2023 nel reparto “Luce” del carcere. Ogni martedì, i detenuti si mettono alla prova riscoprendo le loro emozioni. “Dietro un reato violento non sempre c’è crudeltà - aggiunge Piffer -, ma spesso l’incapacità di sentire l’altro e il suo dolore. Il teatro serve proprio a questo, a reimparare l’empatia”. Ideato da Francesca Conforti, Senza parole nasce da un brainstorming con i detenuti: undici quadri per undici emozioni, dal mattino alla notte. Dopo il debutto al Binario 7 lo scorso febbraio, lo spettacolo ha conquistato anche il pubblico del Manzoni. La vita in carcere nel libro “Il Gabbio. Storie di umanità reclusa” dello psicologo Gianluca Biggio di Elisabetta Bolondi sololibri.net, 7 ottobre 2025 Attraverso i diciannove capitoli del libro, l’autore ha raccontato aneddoti, atmosfere, personaggi, interventi terapeutici, incontri con un mondo, quello dei “ristretti”, come vengono denominati i detenuti, che apre uno squarcio nella società. Nuova stagione di letture e di incontri alla libreria indipendente Koob di Roma. Sabato 4 ottobre è stato presentato il libro Il Gabbio. Storie di umanità reclusa di Gianluca Biggio, psicologo e psicoterapeuta, che per anni ha lavorato nella Casa circondariale di Regina Coeli, il più antico e noto carcere romano. Durante la presentazione, l’autore si è soffermato nel dialogo con i lettori su alcuni aspetti specifici della vita in carcere: gli odori che si sentono, il rapporto con i guardiani, con la burocrazia, con i medici e gli infermieri, il dolore cocente che molti provano, la possibilità di una redenzione, rara ma possibile, le ferite che molti si infliggono per sentirsi vivi, per essere visti/ trovati. Nella logica del carcere esiste un ordine che gli stessi ristretti si danno: ecco allora la gerarchia nelle celle, dove “lo zio”, il più anziano e autorevole, tiene ordine; poi c’è il cuoco, che cucina manicaretti per tutti, dato che solo i più poveri mangiano il cibo passato dall’amministrazione. Biggio ha parlato del rapporto tra italiani e stranieri dentro le mura del carcere e ancora delle caratteristiche psicologiche di molti detenuti: quelli a cui il carcere “gli arimbalza” (n.d.r. espressione in romanesco per esprimere che “non ne sono toccati, non crea loro disagio”), quelli che rischiano il suicidio, quelli che vivono Regina Coeli come una porta girevole, da cui si esce e si rientra, quasi fosse una specie di casa/rifugio. Molte domande dal pubblico, molto interesse per questo libro denso di spunti e originale nell’impianto. Il 7 ottobre e i due lati di una stessa data di Franco Vaccari Avvenire, 7 ottobre 2025 Due anni dopo la strage di Hamas. Finché la memoria sarà solo un’arma e non una ferita di cui prendersi cura, nessun futuro sarà possibile. Sette ottobre 2023. Una svolta tragica nel violento conflitto israelo-palestinese, un giorno che rimarrà scolpito nella memoria di entrambi i popoli. Una immediata e incontenibile moltiplicazione di odio che nella società globale ha infettato il mondo. Due anni dopo è difficile dire qualche parola che non accenda altro odio, perché è una data impregnata di odore di morte e non risolta ancora nel suo esito primo: gli ostaggi, i civili morti che continuano a morire. Ancora attendiamo la restituzione di persone e corpi. Ancora questa data è sottoposta alla drammatica tensione tra chi non vuole legittimamente minimizzarla o, peggio, archiviarla, chi, al contrario, vuole normalizzarla e chi, ovviamente, vuole enfatizzarla per tentare di giustificare ogni azione violenta successiva. Due anni dopo, certamente quella ferita non è stata curata con coraggio da una sapienza medico-politica ma si è squarciata, dilaniando tutto e tutti: quel sangue e quei lutti divenuti quotidiani traversano le coscienze dei protagonisti e, in modi assai diversi, quelle di tutti noi. Il 7 ottobre 2023, come ogni data, segna un prima e un poi, apre la constatazione che sempre si ripete: “nulla sarà più come prima”. Certe date dolorose, infatti, aprono fossati, la terra erutta veleni, nuove faglie separano per sempre. 24 febbraio 2022: la Russia invade l’Ucraina. 11 settembre 2001: il mondo entra nell’era del terrore globale. 6 luglio 1995 inizia il massacro di Srebrenica. 6 aprile 1994: inizia il genocidio in Ruanda. 6 agosto 1945: Hiroshima. Ogni volta un prima e un poi… e così all’infinito. Date che fanno dimenticare i lunghi processi da cui sono emerse e cristallizzano le narrazioni. Con queste date si può conservare dolore e odio, una contrapposizione permanente che frena e ritarda il futuro. Ma, pur essendo divisive, queste date non separano mai del tutto la storia umana che accanto ai traumi e alle separazioni più cruente, continua. Continua nelle memorie, nelle narrazioni, nei simboli, dai cimiteri alle titolazioni delle strade, ai libri di storia su cui si formeranno le generazioni successive. La storia avanza tra elaborazione onesta, oblio e revisionismo. E le date possono trasformarsi. Ricordo il 4 novembre, “Festa della Vittoria”, quando il maestro ci portava in caserma a far festa e mi infilavo eccitato dentro un carro armato. Oggi il 4 novembre è cancellato giustamente dal calendario. Le date mutano, nel fluire della storia, possono diventare una soglia per incontrarsi anziché un muro per perdersi. Perché la ferita che separa le parti che si sono orribilmente uccise è paradossalmente l’unica porta ancora aperta. Se la data si sostituisce a un lungo e complesso processo, se resta unica traccia di mille dolori, unico racconto di quel giorno, regna e regnerà la divisione: due narrazioni inconciliabili rimbalzeranno per secoli come un’eco maligna di rabbia, dolore, odio. Le date, oltre a “un prima e un poi”, come le pietre miliari, hanno due lati. Stanno tra due tempi, ma tengono insieme due spazi. Quando ci si fa del male, quando ci si fa molto male, il dolore scivola su due versanti che devono prima o poi ricongiungersi nella continuità della storia. Così la data è una soglia che collega due mondi, due dolori immensi e permette un cambiamento. Per i palestinesi, il 7 ottobre è rottura brutale e inevitabile, grido di un popolo inascoltato. Per Israele, il 7 ottobre è lutto e smarrimento: la fine dell’illusione di sicurezza, un trauma che ha risvegliato l’eco della Shoah, il misconoscimento della propria identità culturale che inizia ad albergare nei cuori. I due lati della data si ripropongo in una continuità tragica che affonda le radici nel 14 maggio 1948, giorno che ha segnato l’inizio del conflitto, giorno in cui si annodano errori e orrori dell’epoca precedente: dalle terre conquistate, spartite, assegnate e frettolosamente abbandonate dagli imperi coloniali, alla Shoah, alla richiesta e concessione maldestra di risarcimento, al rifiuto di giungere a nobili compromessi e avviare una storia nonviolenta. Le narrazioni che ci giungono troppo spesso omettono elementi decisivi per tenere onestamente “pulita” quella data. Per Israele quello è il giorno dell’Indipendenza (Yom Ha-atzmaùt): nasce lo Stato ebraico, dopo millenni di diaspora e persecuzioni. Una festa nazionale di orgoglio e rinascita. Per i palestinesi è la Nakbà - “la catastrofe”: centinaia di migliaia di persone costrette a fuggire o espulse dalle loro terre. Stessa data, due mondi sostanzialmente bloccati e inconciliabili, mentre il dolore non accolto, non condiviso, è scivolato su due versanti senza comunicazione trasformandosi in rabbia e odio che hanno inquinato la storia. Il 7 ottobre si configura così come l’apertura di un nuovo capitolo di questa storia senza pace, una tragica continuità della Nakbà. Le ferite aperte allora, mai sanate, sono tornate a sanguinare, riaffermando che la questione fondamentale - la vita, la terra, la dignità di due popoli - resta irrisolta. Dal lato politico palestinese, si sente spesso questa affermazione: “Il 7 ottobre è stato barbarie, ma chiedetevi cos’è stato ogni giorno a Gaza, per 16 anni e per tutti gli altri decenni nella Cisgiordania”. E sul fronte israeliano, la risposta netta e decisa: “Il 7 ottobre ha segnato il confine oltre il quale non si può e non si potrà più parlare di convivenza. Israele ha il diritto - e il dovere - di difendere i suoi cittadini da chi vuole cancellarlo”. Il 7 ottobre recita nei due lati ostinati soliloqui, ancorati a due diritti in conflitto insolubile, un muro di parole e di comportamenti che allontana per sempre la giustizia e il reciproco riconoscimento. Una parete refrattaria che amplifica l’odio senza trovare fine. Eppure, anche nel momento più cupo, emergono voci di riflessione e autocritica da entrambe le parti, che suggeriscono una possibile via d’uscita: “Abbiamo investito in muri, tecnologia, eserciti. Ma il 7 ottobre ci ha mostrato che la vera sicurezza non si costruisce ignorando l’altro. Abbiamo sottovalutato l’odio che cresce quando la disperazione non ha voce” (israeliani). “Il 7 ottobre ha portato al mondo la nostra tragedia, ma anche il nostro abisso. Ci siamo illusi che la violenza potesse spezzare le catene: ha solo moltiplicato le macerie” (palestinesi). Queste parole, se ascoltate insieme, aprono una fessura, una breccia sulla complessità di una realtà che non si riduce a bianco o nero, vittima o carnefice, nonostante le sproporzioni e le evidenti asimmetrie. Dicono che il 7 ottobre non è solo una data da commemorare o da contestare, ma un monito. Un invito a riconoscere l’umanità nell’altro, anche quando sembra impossibile, per provare - almeno - a interrompere la spirale di violenza che divora vite innocenti. La storia non si legge mai da un solo lato del calendario. Ogni data - anche la più celebrata, anche la più atroce - ha almeno due voci, due silenzi, due dolori. 15 maggio 1948: indipendenza per gli uni, catastrofe per gli altri. 7 ottobre 2023: terrore per gli uni, rivolta per gli altri. Ogni popolo ha le sue memorie, le sue date, ma troppo spesso le usa come confini, non come soglie, come ponti da transitare per accedere a un futuro di pace. Eppure, finché le date continueranno a dividere invece che unire, il futuro resterà prigioniero del passato. Un giovane israeliano, mentre andavamo insieme all’ambasciata di Israele, a Roma, per la festa del 14 maggio, mi disse: “Ho scoperto che la nostra festa è considerata la “catastrofe” dai miei amici palestinesi. Da allora la nostra festa la vivo con una venatura di tristezza. Mi voglio impegnare per una nuova data, quella che sarà festa per noi israeliani e per i palestinesi. Quella sarà una festa di gioia piena”. Dentro questa frase c’è un mondo intero: l’etica, la politica, la concretezza delle relazioni che distruggono i muri e scelgono di stare sulle soglie che non tradiscono le memorie, ma aprono al futuro. Non esiste una verità condivisa. Ma esiste un’urgenza: vedersi, ascoltarsi, riconoscersi - anche attraverso il dolore. Perché se ancora oggi l’una parte considera la memoria dell’altra come una menzogna o una minaccia, non ci sarà pace. Solo la ripetizione infinita delle stesse date, in forme sempre più tragiche. Due anni dopo il 7 ottobre, le parole si sono moltiplicate, ma il buio è rimasto e ogni parte continua a contare solo i propri morti, a urlare la propria verità, a ignorare l’umanità dell’altro. E così le date si accumulano: Nakbà, Intifada, pogrom, stragi, esodi, assedi. Ognuna chiama vendetta, nessuna chiama giustizia. Finché la memoria sarà solo un’arma e non una ferita di cui prendersi cura, nessun futuro sarà possibile. E se si sceglie la forza invece della parola, la paura invece della dignità, allora il prossimo 7 ottobre è già scritto. Solo non sappiamo ancora dove - né per chi. Fili della Storia uniti dall’odio per i diritti umani di Leonardo Coen* Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2025 Il 7 ottobre segna due tragedie: l’omicidio della giornalista russa nel 2006 e il pogrom di Hamas nel 2023, entrambi simboli di repressione. Quello del 7 ottobre è un doppio drammatico ed emblematico anniversario: 19 anni fa, l’assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaja nell’androne di casa sua, a Mosca. Due anni fa, il pogrom di Hamas che ha provocato la morte di 1200 civili e militari israeliani e il rapimento di oltre 250 ostaggi, scatenando la spietata reazione di Israele, la devastazione di Gaza, la morte di 70mila palestinesi di cui oltre 50mila civili, molti, troppi dei quali bambini, oltre ad aver costretto alla fuga gli abitanti della Striscia, afflitti da malattie, carestia, fame. Azioni che hanno fatto accusare (a cominciare dall’Onu) il premier israeliano Netanyahu di genocidio. Due fili della Storia apparentemente slegati e disconnessi ma che invece sono purtroppo orditi dallo stesso disprezzo nei confronti dei diritti umani, della libertà, dei principii basilari di una società civile e democratica. Anna Politkovskaja era una giornalista scomoda per il potere, lavorava per il bisettimanale Novaja gazeta dove pubblicava inchieste documentatissime che inchiodavano apparati dello Stato, del Cremlino, delle forze armate. Corruzione, intrallazzi, atrocità in Cecenia, e soprattutto l’onnipresente ruolo dei servizi segreti, ossia gli uomini dell’ombra, le eminenze grigie che stavano di nuovo forgiando la Federazione Russa scaturita dalle macerie dell’Unione Sovietica, orchestrate dall’uomo forte del Cremlino, ossia Vladimir Putin. E’ su di lui che spesso si concentra il lavoro investigativo di Anna, e sulla questione cecena, gli intrighi per appropriarsi delle risorse energetiche, l’ascesa di clan legati al nuovo presidente, gli oligarchi che avevano edificato le loro immense fortune all’ombra del sistema Eltsin (il primo presidente della Federazione russa). I capi dei grandi conglomerati economici, a cominciare dall’onnipotente Gazprom, avevano deciso di continuare ad operare in sintonia col Cremlino: certo, non erano un gruppo monolitico ma, nella sostanza, salvo alcune eccezioni (pagate con arresti, detenzioni in Siberia, fughe all’estero o omicidi…), si erano schierati con chi stava diventando intoccabile, proprio perché la guerra in Cecenia aveva rafforzato la sua alleanza con l’esercito, e perché lui stesso era un ex del Kgb e poi divenuto capo dell’Fsb, l’intelligence sua erede. Politkovskaja raccontò l’ascesa, spettacolare per tempismo e metodi, di Putin, per lei il Kgb era ritornato al potere, al Cremlino. Descrisse, grazie a fonti molto ben informate, il periodo più delicato della sua scalata al potere, di come si sbarazzò di giudici troppo zelanti che stavano mettendo in croce Eltsin, di come il paese venisse spartito, delle sofisticate manipolazioni per garantirsi il controllo dell’apparato statale, quello che Anna battezzò “il metodo Putin”. Il quale mal sopportava quella ficcanaso, e più volte lo disse e lo fece sapere alla diretta interessata. Diciassette anni dopo inizia la tragedia di Gaza, col pogrom di Hamas. In questi giorni, le clamorose mobilitazioni per i palestinesi hanno scosso l’apatia politica italiana, cloroformizzata dal governo Meloni. Se Politkovskaja è stata fatta fuori perché le sue rivelazioni, i suoi articoli, le sue accuse, i suoi bellissimi libri d’inchiesta erano una spina intollerabile nel fianco del potere (il processo agli assassini, dei pesci piccoli, non ha chiarito alcunché sui mandanti), dimostrandone il carattere autoritario e l’intolleranza alla libertà d’opinione (tantissimi altri giornalisti sono stati uccisi, tutti i media non allineati e i leader dell’opposizione costretti a chiudere, a emigrare o a finire sotto terra, pensate a Alexei Navalni, alle testate in esilio, alla censura dominante in Russia), altrettanto è successo in Palestina. Pure qui, dall’ottobre del 2023 sono stati ammazzati oltre duecento giornalisti, e si è impedito alla stampa straniera di entrare nella Striscia, impedendo così di documentare ciò che succedeva. Secondo le organizzazioni che si occupano di libertà d’espressione - uno dei diritti fondamentali dell’uomo - i giornalisti locali (“gli occhi del mondo su questa atroce guerra”) sono diventati obiettivi militari. Di qui, le accuse ad Israele di non volere testimoni. I giornalisti dunque sono divenuti pure loro vittime di questa tragedia umanitaria: pagano con la vita quello che sentono come un dovere, informare, descrivere, ascoltare, vedere. E documentare. Non poterlo fare, perché il governo Netanyahu lo ha vietato, è una situazione senza precedenti. È il lato oscuro delle autocrazie. Come ha detto una volta Julian Assange, “se le guerre possono essere avviate dalle bugie, esse possono essere fermate dalla verità”. La verità, parola ormai abusata e disossata, è sempre più un vessillo lacerato. La si invoca come ci si aggrappa e si evoca la parola democrazia, quale territorio di progresso e libertà. Come ha scritto Marco Travaglio nella prefazione al libro dell’ex senatore dei Cinquestelle Gianluca Ferrara Nel nome della democrazia (GFE editore, 2025), si sta rivelando una parola vuota, in nome della quale “si sono perpetrati crimini politici e militari indicibili”. L’indescrivibile orrore che ci circonda - Gaza ci è sempre più vicina, così come lo è stata l’uccisione di Anna Politkovskaja - ci lacera dentro e ci fa chiedere: come si può giustificare tutto questo? No, non lo si può giustificare. *Giornalista e scrittore Dall’abisso ci si salva insieme di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 ottobre 2025 Le piazze piene sono la forma assunta da un movimento spontaneo, che non sappiamo se e quanto durerà. Di certo, però, da quella consapevolezza non si torna indietro. Il 25 dicembre 2023, dal pulpito della Chiesa della Natività a Betlemme, il reverendo palestinese Munther Isaac tenne un’omelia per il mondo: “Noi palestinesi ci riprenderemo. Ci rialzeremo di nuovo dalla distruzione come abbiamo sempre fatto come palestinesi. Ma coloro che sono complici, mi dispiace per voi. Vi riprenderete mai da tutto questo?”. Di fronte aveva un presepe avvolto tra le macerie simbolo dell’annichilimento di Gaza. Erano trascorsi pochi mesi dall’attacco di Hamas, dai 1.200 israeliani uccisi e gli oltre 250 rapiti e dall’inizio di un’offensiva feroce contro la Striscia che si è fatta genocidio. Sono trascorsi 732 giorni e l’abisso non è mai sembrato tanto profondo, capace di inghiottire vite umane, comunità, sogni, ma anche gli strumenti condivisi del diritto internazionale e un bagaglio di valori dato per scontato. Il secondo anniversario del 7 ottobre cade, però, in un contesto molto diverso dal primo, in un turbinio che è doppio: il negoziato egiziano e la mobilitazione globale. Due piani paralleli: da una parte l’idea della pace come mera assenza di conflitto che non prevede eguaglianza né liberazione; dall’altra una richiesta potente di giustizia per le vittime e i sopravvissuti, per una storia che non si limita a questi 732 giorni ma che attraversa intere generazioni di oppressi. A Sharm el-Sheikh si discute una “pace” che pace non è, perché il suo sguardo di lungo periodo si fonda sull’assunto che i palestinesi devono accontentarsi di restare vivi. Cessa il fuoco, non l’occupazione. Due anni di genocidio in diretta hanno però prodotto anche altro, accanto allo svelamento dello storico obiettivo della pulizia etnica della Palestina. Hanno prodotto una consapevolezza nuova, che ha impiegato tempo ed energie per radicarsi, tanto tempo, probabilmente troppo per chi è prigioniero a Gaza, ma che ha stravolto le coordinate politiche occidentali. Moltitudini in ogni angolo del pianeta stanno facendo confluire le proprie rivendicazioni, apparentemente particolari, dentro un paradigma globale e che ha trovato una sua bandiera. La Palestina è divenuta il simbolo di dinamiche internazionali, dello spossessamento, della disumanizzazione, dell’oltraggiosa idea che esistano vite che valgono più di altre, delle forme più palesi o più sottili del colonialismo contemporaneo. Le piazze piene sono la forma assunta da un movimento spontaneo, che non sappiamo se e quanto durerà. Di certo, però, da quella consapevolezza non si torna indietro. Può servire a salvare anche noi. C’è un negoziato sotterraneo a Sharm el-Sheik: quello per riabilitare l’Onu di Nello Scavo Avvenire, 7 ottobre 2025 Sul tavolo aperto per la tregua c’è anche la sconfessione della Gaza Humanitarian Foundation, con riabilitazione delle agenzie delle Nazioni Unite per la consegna degli aiuti. I veterani delle trattative si tramandano un vecchio adagio: “Gli accordi si firmano sul tavolo, ma si formano sotto il tavolo”. E da Sharm el-Sheik già sul piano umanitario si ascoltano bisbigli da “sotto al tavolo”. A cominciare dalla restituzione all’Onu delle operazioni umanitarie a Gaza. Netanyahu deve aver ingoiato un grosso rospo se, come si legge al “punto 8” dei 20 in discussione, si sconfessa l’operazione israelo-americana della controversa Gaza Humanitarian Foundation. E stavolta neanche gli influencer israeliani arruolati per screditare la stampa internazionale (a cui è vietato mettere piede nella Striscia), potranno inventarsi molto. “L’ingresso e la distribuzione degli aiuti nella Striscia di Gaza avverrà senza interferenze da parte delle due parti (Israele e Hamas, ndr) attraverso le Nazioni Unite e le sue agenzie, la Mezzaluna Rossa e altre istituzioni internazionali non associate in alcun modo a nessuna delle due parti”. È l’amara rivincita, almeno nelle bozze, del Diritto umanitario calpestato e dileggiato in due anni di mattanza. È come se l’amministrazione Usa, che si è intestata la svolta negoziale, stavolta riconoscesse che le Nazioni Unite non sono state “il braccio umanitario di Hamas”, come sostiene la propaganda governativa israeliana. I mercenari della Ghf dovranno farsi da parte, restituendo il posto che dal dicembre del 1949 spetta all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (Unrwa). Da allora è rimasta l’unica missione delle Nazioni Unite dedicata esclusivamente a una popolazione esautorata. Ma è il paragrafo precedente che nasconde un’insidia per Netanyahu. La sua posizione è ancora sotto i riflettori della Corte penale internazionale, che aveva emesso mandati di cattura per lui ed altri esponenti del governo e delle forze armate, oltre che per i capi di Hamas, nel frattempo uccisi dalle operazioni mirate israeliane. È il “punto 7”. Comincia con un non dichiarato atto d’accusa: “Una volta accettato il presente accordo, tutti gli aiuti saranno immediatamente inviati nella Striscia di Gaza”. In altre parole, anche gli autori della bozza di intesa spinta da Donald Trump, riconoscono che l’assistenza umanitaria è stata deliberatamente contingentata, tanto da indicare nella proposta negoziale la proporzione di spedizioni che dovranno invece essere recapitate nella Striscia. Non è un caso che il ministro della Sicurezza nazionale, il leader di estrema destra Ben Gvir, si sia lamentato perché a Gaza alcuni panifici sono tornati a sfamare i civili, quando invece “occorre intensificare le operazioni militari”. Parole che certo non sfuggiranno alla Corte dell’Aja, ma che adesso dovranno fare i conti con l’impegno “come minimo”, recita la bozza della pax trumpiana, all’invio di “quantità di aiuti coerenti con quanto previsto dall’accordo del 19 gennaio 2025 in materia di aiuti umanitari, tra cui la riabilitazione delle infrastrutture (acqua, elettricità, fognature), la ristrutturazione di ospedali e panifici e l’invio delle attrezzature per la rimozione delle macerie e la riapertura delle strade”. Perché Netanyahu ha accettato di esporsi fino a questo punto? Israele, in quanto potenza occupante, era obbligata dal diritto internazionale ad affrontare “obblighi vincolanti nei confronti delle popolazioni sotto il suo controllo. “Le operazioni umanitarie devono rispettare rigorosamente i principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”, chiedeva da Ginevra il Consiglio Onu per i diritti umani. Il non detto “sotto al tavolo” delle trattative è che un progressivo ritiro dalla Striscia non impegnerebbe più Tel Aviv ai vincoli di “potenza occupante”. Scaricando i palestinesi che non lasceranno Gaza sulla vituperata comunità internazionale. I volontari del Mean in Ucraina un esempio di resistenza umana di Luca Doninelli Avvenire, 7 ottobre 2025 Il movimento nato dopo lo scoppio della guerra non ha mai cercato di far parlare di sé: non di noi, dicono i suoi membri, ma di coloro che restano e soffrono. Soccorritori ucraini lavorano sul luogo di un attacco russo nel villaggio di Lapoivka vicino a Leopoli, la notte del 5 ottobre 2025. La notizia dello scampato pericolo dei 110 volontari del Mean (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) alle porte di Leopoli porta con sé una luce nuova e per tanti aspetti strana, che sarebbe un delitto ignorare. La bella notizia, in questo caso, è di gran lunga più importante della brutta - il solito vile attacco con droni -: così importante che non basta dire “per fortuna”, no. La luce di cui parlo si accende, in questo caso come in tanti altri che passano ai lati del nostro campo visivo, sul significato stesso delle vicende umane, anche delle più brutte. Come ci ricordano uomini come Takashi Paolo Nagai a Nagasaki, i Martiri d’Algeria e tanti altri, la storia non si riduce alle sue brutte possibilità, portatrici di sconforto e disperazione, che un senso luminoso esiste oltre la tempesta e ci fa ripetere, con lieto realismo: “Non si turbi il nostro cuore”. Certamente, il caso di Leopoli porta in primo piano l’attività di un gruppo di persone non meno eroico di coloro che si sono imbarcati nella Global Sumud Flotilla, con la stessa finalità ma, diciamo così, con un altro stile. Lo dico perché un bene prezioso della nostra Europa sta proprio nella convivenza creativa e vivida di diverse radici culturali, che senza negare le differenze hanno cercato di porre, insieme, le basi del bene comune. Flotilla e Mean sono la testimonianza della forza antica, plurale e in parte sepolta, di una cultura che oggi rischia la dimenticanza, anche da parte di chi dovrebbe averla a cuore. Il Mean, nato dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, non ha mai cercato di far parlare di sé: non di noi, dicono i suoi membri, ma di coloro che restano e soffrono. Una scelta precisa, perché dettata dalla necessità di non alimentare un odio (quello degli ucraini verso i russi) già alle stelle, ma di portare un conforto, non solo materiale, a gente che non vive soltanto a Kiev o a Kharkiv ma in villaggi mai raggiunti dai mezzi d’informazione, dove la guerra crea non solo morte ma anche solitudine e perdita di senso. Il Mean porta aiuti ma con gli aiuti porta un abbraccio di cui c’è bisogno come del pane, perché il pane è importante, ma lo è anche il modo in cui lo si porge. Non è un movimento pacifista nel senso tradizionale, non è nemmeno in primis un movimento antirusso: è un gruppo di persone pronto a rischiare quel che c’è da rischiare per portare quel filo di compagnia, di solidarietà, di cui c’è bisogno per vivere. L’odio e la solitudine ci indeboliscono, rendono difficile la resistenza (che è prima di tutto resistenza umana), producono frustrazione davanti alla forza e alla prepotenza e rischiano di creare una spirale senza fine, come ben vediamo in questi duri tempi. Il pericolo che i 110 del Mean hanno corso ci offre una visuale più profonda sul senso degli accadimenti, e ci aiuta ad affrontarli senza frustrazioni. Un vecchio proverbio, nato dal popolo, quindi da gente povera che ben conosceva il tallone del Potere, ma ricca di cristianesimo, dice: “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”. So che non bisogna fidarsi troppo dei proverbi, ma questo fa eccezione perché nasce da epoche dove di pace ce n’era poca, e ancor meno benessere. Lo dicevano donne e uomini che vedevano morire i loro figli (cosa ahimé normale fino a tre generazioni fa) di malattia o in guerra. E perché lo dicevano? Perché è vero. Perché senza il presentimento di una bellezza, di un bene capace di oltrepassare l’orrore non varrebbe la pena di vivere, di soffrire e ogni gioia sarebbe vana. Ma la verità non si impone mai da sé, non cala dal cielo con spade fiammeggianti. Bisogna prendere un aereo, un treno, un pullman, sperare in un passaggio in macchina, confidare nell’umanità di chi potrebbe intralciare il nostro cammino, e spesso lo fa ma non sempre. Per farlo, come diceva Cormac McCarthy, è necessario avere una promessa dentro il cuore. Nel Mean ci sono credenti e non credenti, e tra gli stessi ispiratori della sua azione ci sono personaggi straordinari e ben diversi tra loro, come Gandhi, don Tonino Bello, Papa Francesco e Alex Langer. Ma la radice del loro impegno - giunto agli onori della cronaca in una circostanza di per sé orribile - sta in una fede limpida e chiara: nessun cannone, nessuna bomba atomica potrà spegnere il nostro bisogno di consolazione e di giustizia. Perché esiste sempre la possibilità che la nostra lotta contro l’ingiustizia e la prepotenza contenga un filo di disperazione che finirebbe per corromperla. Stati Uniti. Giustiziare Prometeo, a ora di cena Vincenzo Voltarelli L’Espresso, 7 ottobre 2025 Umberto Eco, nella sua Bustina “Impiccagione in diretta, ora di cena”, immagina come sia assistere, con i propri occhi, al momento in cui un detenuto esala il suo ultimo respiro. Chissà cosa ha provato Prometeo, il titano incatenato ed esposto alle intemperie più turbolente. È stato Zeus a imprigionarlo, accecato dalla rabbia per un furto imperdonabile: Prometeo ruba il fuoco agli dei per consegnarlo agli esseri umani, affinché possano vivere degnamente. Chissà cosa prova un condannato, scorgendo una sedia o una corda in grado tanto di torturare quanto di uccidere. Umberto Eco, nella sua Bustina “Impiccagione in diretta, ora di cena”, immagina come sia assistere, con i propri occhi, al momento in cui un detenuto esala il suo ultimo respiro. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il 26 settembre scorso, ha firmato un ordine esecutivo che permette al dipartimento di Giustizia di eseguire condanne a morte nel territorio di Washington DC. “Una pena capitale per la capitale”, ha dichiarato il capo di Stato. A questo punto, dovremmo provare a immergerci realmente all’interno del fenomeno: immaginiamo di osservare Prometeo, guardandolo negli occhi mentre si contorce dal dolore, sentendolo urlare mentre l’aquila mandata da Zeus divora il suo fegato, mentre il suo petto viene squarciato e il becco freddo ne dilania pezzo dopo pezzo la carne, staccandola dal suo corpo. Prometeo non muore ma, ricomponendosi durante la notte, permette all’aquila di ricominciare il giorno dopo, condannandolo in eterno. Eppure, sentiremo qualcuno sostenere che, per chi commette crimini imperdonabili non esiste altra soluzione: anzi, si è fin troppo clementi a concedere la morte al posto della sofferenza. Trump ha affermato che il provvedimento nasce a fini preventivi, ed è pensato per chi commette un omicidio, come chi uccide un membro delle forze dell’ordine. Tralasciando l’illusione secondo la quale la pena di morte scoraggi qualcuno dal commettere un grave crimine, crediamo di estirpare ciò che condanniamo rendendolo legale. D’altronde, la storia ha insegnato come moltiplicare la violenza abbia portato, alla lunga, a cancellarla. Uno come Prometeo è stato ingiustamente punito, mentre qui si vuole condannare dei reali delinquenti. Tuttavia, anche se stessimo parlando dei peggiori demoni che popolano la terra, cosa succederebbe se seguissimo ciò che afferma Eco? Devono vedere. Chi difende la pena di morte deve guardare il condannato, continuando a sostenere i propri ideali mentre il prigioniero strepita. In diretta televisiva, possibilmente a ora di cena, in modo che la sedia elettrica sfrigoli mentre “sul fornello di casa scoppiettano le uova al burro”. Mentre, circondati dai propri figli, spieghino loro che è fatto per la sicurezza di tutti noi, per sradicare la barbarie dal Paese. Una chiara lezione per grandi e piccini: per annientare il male è necessario ripeterlo. La procuratrice generale Pam Bondi ha aggiunto che la volontà del governo è quella di estendere la pena di morte nuovamente in tutti gli Stati Uniti (adesso in vigore in 27 Stati su 50). Allora, come scrive Eco, “è in questione il senso, il valore della vita umana, e della giustizia. Quindi non facciamo storie. Se tu sei per la pena di morte, devi accettare di vedere il condannato che scalcia, erutta, bolle, sussulta, tossisce, rende l’animaccia a Dio. Nel passato erano più onesti, compravano i biglietti per assistere al supplizio, e godevano come matti. Anche tu, che sostieni la suprema giustizia della pena di morte, devi ‘godere’: mangiando, bevendo, facendo il cavolo che vuoi, ma non puoi fare finta che questo non esista, mentre ne sostieni la legittimità”. In tutto questo, diamo per scontato un aspetto: che laddove la libertà di parola sta diventando, giorno dopo giorno, un diritto sempre più fragile, la pena di morte sarà riservata nel tempo esclusivamente ad assassini, stupratori e terroristi. La qualità di una democrazia si misura anche e soprattutto dal modo in cui si relaziona alle proprie carceri, dalla forza di rimanere garantista persino nelle ore più buie. Altrimenti, fra tanti diavoli che manderemo all’Inferno, prima o poi finiremo per torturare anche un Prometeo, sgretolando in petto la democrazia pezzo dopo pezzo: stavolta non all’alba dei miti, ma a ora di cena. L’anno zero dell’Iran. Esecuzioni e caccia alle “spie di Israele” di cecilia perino Il Domani, 7 ottobre 2025 L’attacco di Hamas e la successiva guerra tra Tel Aviv e Teheran hanno offerto al regime un pretesto per attuare politiche repressive che colpiscono i dissidenti. L’Iran sta portando avanti la più grande ondata di esecuzioni degli ultimi decenni. In un solo giorno, sabato 4 ottobre, sono stati giustiziati sette uomini, di cui sei accusati di aver operato per Israele conducendo attacchi armati nel sud-ovest del paese. Le esecuzioni sono avvenute a meno di una settimana dall’impiccagione di Bahman Choobiasl, definito dalle autorità iraniane “una delle spie più importanti di Israele in Iran”. L’accusa era di aver incontrato funzionari dell’intelligence israeliana, il Mossad, per riferire sulle “modalità di importazione di dispositivi elettronici” sulla base del lavoro che svolgeva a “progetti di telecomunicazioni sensibili”. Choobiasl è l’undicesima persona giustiziata quest’anno dall’Iran con l’accusa di spionaggio per conto di Israele. Esecuzioni frutto di processi irregolari e confessioni estorte con torture e maltrattamenti, che hanno subito una critica accelerata dopo la guerra di giugno con lo stato ebraico, conseguenza di quanto accaduto il 7 ottobre del 2023. Uno scambio di attacchi durato dodici giorni durante il quale Tel Aviv ha bombardato siti nucleari e missilistici della Repubblica islamica, eliminando scienziati e figure di alto profilo del comando iraniano. Omicidi che, secondo Teheran, sono stati compiuti grazie alle informazioni fornite a Israele in quella che viene descritta come un’infiltrazione senza precedenti nei servizi di sicurezza iraniani da parte degli agenti del Mossad. Caccia all’uomo - Dal 13 giugno, giorno dello scoppio del conflitto, il paese, che è stato indicato come il principale sostenitore dell’attacco compiuto da Hamas due anni fa, ha infatti scatenato una feroce caccia all’uomo che ha portato all’arresto di centinaia di persone per spionaggio. Il tutto a un ritmo che non si registrava dal 1988, quando l’Iran aveva giustiziato migliaia di persone dopo la guerra con l’Iraq. Come riporta la Bbc, il ministero dell’Intelligence iraniano ha dichiarato di essere impegnato in una “battaglia incessante” contro reti di intelligence occidentali e israeliane - tra cui la Cia, il Mossad e l’MI6 - per difendere la sicurezza nazionale. Il timore, invece, è che l’intensificazione del ricorso alla pena di morte sia funzionale, anche e soprattutto, a sopprimere il dissenso e rafforzare il controllo sulla popolazione. In ogni caso, la repressione in atto si inserisce in un clima più ampio di misure volte a contenere la crescente intolleranza popolare. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le proteste nazionali a partire dal brutale omicidio di Masha Amini, una studentessa di ventidue anni di origine sunnita e curda, aggredita e uccisa dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo. Da quel 16 settembre 2022, decine di manifestazioni hanno preso piede in tutto il paese per denunciare le politiche repressive della teocrazia iraniana che da quarant’anni soffoca la voce delle donne e delle minoranze. Il governo, di tutta risposta, ha aumentato gli arresti, le sentenze e le esecuzioni arbitrarie. Attuando in alcuni casi anche politiche più subdole come l’intossicazione di migliaia di studentesse iraniane mentre erano a scuola. Clima di terrore - Solo nel 2025, Amnesty International ha registrato l’esecuzione di oltre mille persone in Iran, il numero annuale più alto degli ultimi 15 anni. Coloro che vengono presi di mira sono principalmente dissidenti politici, membri di minoranze etniche, donne e manifestanti. Oltre a persone accusate di reati legati alla droga che, secondo l’Iran Human Rights, quest’anno rappresentano il 50 per cento dei giustiziati. Un dato spaventoso se si considera che il diritto internazionale limita la pena capitale ai crimini “più gravi”, di cui chiaramente i reati legati alla droga non fanno parte. Molte delle esecuzioni confermate dai tribunali sono giustificate da accuse di matrice politica, spesso non dimostrate. E i tribunali rivoluzionari, che si occupano della giurisdizione sulla sicurezza nazionale, conducono processi gravemente iniqui. A fine agosto, per esempio, nonostante le numerose irregolarità, la Sezione 39 della Corte suprema iraniana ha confermato la condanna a morte dell’attivista curda per i diritti delle donne e dei lavoratori, Sharifeh Mohammadi, accusata senza prove di militare con il gruppo armato Komala. La comunità curda, in particolare, è tra le più colpite dalla pena di morte insieme a quella afghana e baluchi. Una prassi consolidata per reprimere e tenere sotto schiaffo le minoranze etniche nella regione. Dal 2023 al 2024, il numero di afghani giustiziati dai tribunali iraniani è passato da 25 a 80. Una tendenza che si conferma anche quest’anno e che cresce di pari passo con la sistemica diffusione di una retorica razzista e xenofoba tra le autorità iraniane. La Repubblica islamica si classifica come il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Una pratica che mira alla preservazione di un clima di terrore politico e sociale funzionale all’imposizione del silenzio e alla sottomissione delle minoranze nella totale impunità internazionale.