Le garanzie travolte dal processo mediatico di Vincenzo Roppo* Il Dubbio, 6 ottobre 2025 I fenomeni di anti-garantismo derivano da fattori istituzionali: gli interventi del legislatore e l’azione della magistratura. Ma il garantismo è minacciato anche da fattori socio-culturali: a partire dalle modalità con cui l’informazione cartacea o elettronica copre i fatti della giustizia penale. Parlo del fenomeno per cui i mass media si impadroniscono di alcuni processi, particolarmente golosi al palato popolare, e ne fanno materia di processi paralleli celebrati sulle pagine dei giornali o sugli schermi delle televisioni, processi-spettacolo offerti a un pubblico di lettori o spettatori avidi di coinvolgersi nelle vicende processuali non solo come osservatori distaccati ma più spesso con l’animus dei tifosi di curva. È un fenomeno che di per sé non appartiene al mondo del diritto, ma piuttosto a quello della comunicazione, del costume, della cultura di massa. E tuttavia ha connessioni così estese e profonde con la realtà della giustizia penale, che i giuristi non mancano di farne materia delle loro riflessioni. Accade così che una paludata opera di letteratura giuridica come l’Enciclopedia del diritto - vero e proprio monumento dello scibile legale - ritenga di dedicare al “Processo mediatico” un’apposita voce. E che uno stimato professionista della legge scriva un libro intitolato al “circo mediatico-giudiziario”: titolo fantasioso e molto espressivo nell’indicare, con una parola come “circo”, che gli intrecci e i condizionamenti reciproci fra giustizia penale e comunicazione di massa possono dare luogo a qualcosa di molto discutibile, qualcosa da cui comunque deve trovarsi modo di “uscire”. Chiariamo. Non si discute che i professionisti dell’informazione abbiano il diritto (e anche il dovere) di trasmettere al pubblico notizie e commenti sui processi in corso; e tanto meno che il pubblico abbia il diritto di riceverli: dopo tutto il popolo è idealmente il “mandante” della giustizia, che per costituzione viene amministrata in nome suo. E la trasparenza (cioè l’ampia conoscibilità) dei modi in cui essa si esercita è il pre-requisito della sua credibilità agli occhi del popolo, di quel generale “affidamento” popolare al sistema di giustizia che a sua volta costituisce presupposto perché questo svolga la sua funzione di garantire l’ordinata e pacifica convivenza sociale. E si comprende che ciò valga con particolare forza per quel settore della giustizia che ruota intorno alla “terribile” potestà punitiva dello Stato - la giustizia penale. E tuttavia devono esistere limiti, necessari per evitare che una totale e indiscriminata conoscenza pubblica dei fatti del processo pregiudichi obiettivi e valori che meritano di essere salvaguardati. Certi atti del processo vanno tenuti coperti, almeno per un certo tempo, perché la loro segretezza è indispensabile per l’efficacia delle indagini, soprattutto nella fase iniziale. E la divulgazione di fatti e commenti relativi al processo va contemperata col giusto rispetto che si deve alla riservatezza e all’onore delle persone coinvolte. Occorre dunque un esercizio che già abbiamo incontrato: il ragionevole bilanciamento tra finalità e principi tutti apprezzabili, ma in potenziale conflitto reciproco. E occorre che le regole prodotte dal bilanciamento vengano effettivamente rispettate. In questo scenario si pongono serie questioni di garantismo, anzi diciamo pure che importanti valori garantisti escono offesi dalle più discutibili pratiche del processo mediatico. E la radice di tutto sta nella predominanza del momento dell’accusa sul momento del giudizio. L’interesse mediatico per i fatti della giustizia penale è massimo nella fase iniziale, quando “esplode il caso”: e il caso esplode quando risulta che una procura della Repubblica svolge indagini su qualche ipotesi di reato. Quello che succede dopo - il dibattimento, e poi perfino la decisione - è meno “interessante” dal punto di vista mediatico. Primo, perché è invecchiato: fra l’avvio delle indagini e la loro conclusione con l’apertura del dibattimento possono passare molti anni; la curiosità dell’opinione pubblica, che di quel caso si era già saturata, è a questo punto declinante; e con essa declina l’attenzione che il sistema informativo vi dedica. E poi perché la fase del dibattimento e il momento del giudizio sono, molto più delle indagini, intrisi di tecnicismi che il normale utente della stampa e dei media digitali fatica a digerire. Nel processo mediatico, dunque, protagonista assoluto è il pm che impersona le indagini e l’accusa, mentre la figura del giudice terzo e imparziale resta marginale e sfuocata. Di conseguenza, è col pm che i professionisti dell’informazione intrattengono rapporti privilegiati, fatti di uno “scambio” che soddisfa interessi di entrambi: l’interesse del magistrato a che la propria azione divenga oggetto mediatico, conquistando risonanza e visibilità presso l’opinione pubblica; e soprattutto l’interesse del giornalista a ricevere da lui elementi di conoscenza, valutazioni e commenti sull’iniziativa penale in corso, che sono il materiale indispensabile per il suo lavoro professionale. Questo dipende, in definitiva, dalla disponibilità del pm a “parlare” con lui. Accade così che i giornalisti giudiziari da ‘cani da guardia della democrazia’ … si sono trasformati in ‘cani da salotto delle Procure’, in attesa del boccone informativo. Fattosi in tal modo mediatico, il processo ne esce segnato da gravi distorsioni che compromettono importanti dimensioni del garantismo. Se le indagini svolte dall’accusa prendono tutta la scena, oscurando fino alla soglia dell’irrilevanza il successivo dibattimento e poi perfino la sentenza con le sue motivazioni, che ne è del principio garantista per cui il giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato si forma esclusivamente con le prove raccolte nel dibattimento, nel contraddittorio su basi di parità fra accusa e difesa? Se la prevalente fonte informativa del sistema mediatico che lo celebra è l’accusa, è inevitabile che il processo venga rappresentato all’opinione pubblica in termini che riflettono la tesi accusatoria, dunque “colpevolista”: tesi che l’opinione pubblica tenderà a interiorizzare. E succederà del resto facilmente, perché asseconda quell’ansia di colpevolizzazione, di responsabilizzazione, di punizione che spesso insorge nel corpo sociale di fronte a eventi che toccano in modo forte la vita e la sensibilità collettive, e che sembra di poter esorcizzare solo trovando un colpevole da punire. Il processo mediatico diventa così, inevitabilmente, gogna mediatica. Come tutto ciò sfregi la garantista presunzione di innocenza, non ha bisogno di essere spiegato. E non si può contare neanche su un pur tardivo recupero, grazie alla sentenza che alla fine assolva l’imputato dichiarandolo innocente. Quasi mai, infatti, questa sfugge alla tenaglia dell’alternativa fra irrilevanza e vituperio. Irrilevanza: il processo mediatico si è celebrato e sostanzialmente esaurito nella fase delle indagini, sotto il segno della tesi accusatoria; quando infine arriva la sentenza, è ormai storia vecchia che non cattura più l’attenzione; l’assoluzione non fa breccia nell’opinione pubblica, non riesce a dissolvere retroattivamente l’alone di colpevolezza addensatosi dall’inizio intorno all’imputato. Vituperio: se mai l’opinione pubblica si mostra attenta alla decisione assolutoria, è più che altro per bersagliarla di critiche sdegnate - quasi fosse incomprensibile e intollerabile qualsiasi smentita al sentiment colpevolista che il processo mediatico aveva a suo tempo indotto o avallato nella coscienza collettiva. E infine, il processo mediatico è sovente veicolo di lesione delle garanzie dovute a fondamentali diritti della persona come l’onore, la riservatezza, l’immagine. Nei confronti dell’imputato: si sono ricordate le foto di Enzo Carra e di Enzo Tortora in manette. O - anche peggio - nei confronti di persone estranee a ogni imputazione: come quando si pubblicano conversazioni intercettate fra l’imputato e i suoi interlocutori, le cui parole finiscono in pasto al pubblico; o parole dell’imputato, relative a vicende e persone che non hanno nulla a che fare col processo. L’interesse mediatico che perlopiù spinge a queste pubblicazioni non è la loro oggettiva pertinenza alla materia del processo o la loro rilevanza pubblica, ma piuttosto la loro capacità di soddisfare futili se non morbose curiosità del pubblico. E questo ne esalta la potenzialità lesiva: perché quanto più i fatti o le parole di una persona suscitano curiosità morbosa, tanto più significa che sono fatti o parole della sua sfera intima, meritevoli quindi di particolare protezione. Come rimediare a queste distorsioni? Come realizzare un migliore bilanciamento fra la necessaria informazione del pubblico intorno ai fatti della giustizia penale, e la salvaguardia delle garanzie che rischiano di uscire lese da cattive pratiche informative? In qualche misura con appropriati interventi del legislatore su qualche punto particolarmente critico: come il recente decreto attuativo della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, là dove pone freni all’esuberanza informativa delle procure e della polizia giudiziaria stabilendo modalità vincolate per le comunicazioni al pubblico su indagini o processi in corso (nessuna comunicazione personale/informale; in genere solo comunicati ufficiali del procuratore, nessuna conferenza stampa se non in casi eccezionali di rilevante interesse pubblico dei fatti). Ma anche, e in misura prevalente, con l’applicazione di più elevati standard etico-professionali da parte degli operatori che pur su fronti diversi risultano ugualmente coinvolti: giornalisti e magistrati. *Estratto da “Garantismo. I nemici, i falsi amici, le avventure” di Vincenzo Roppo (Baldini e Castoldi, 2022). Meloni torna alla Camera, l’ultima sfida ai giudici per chiudere il caso Almasri di Francesco Malfetano La Stampa, 6 ottobre 2025 Giovedì in aula il voto su Nordio, Piantedosi e Mantovano. L’appuntamento è fissato per giovedì mattina alle nove. Poche ore più tardi scatterà il voto, che a Montecitorio assume già i contorni di un mezzogiorno di fuoco per la maggioranza. Giorgia Meloni ha deciso di non mancare: la premier dovrebbe infatti sedersi tra i banchi del governo e - salvo imprevisti d’agenda - seguire dall’inizio alla fine la discussione sulla relazione della Giunta per le Autorizzazioni a procedere. Poi, al pari dei suoi ministri, potrà esprimere il proprio voto. Segreto nella forma, ma politico nella sostanza. È il punto di arrivo di una vicenda che la presidente del Consiglio ha sempre vissuto sulla propria pelle. “Non sono Alice nel Paese delle meraviglie”, disse a La Stampa quando il Tribunale dei ministri archiviò la sua posizione, lasciando però nel mirino Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano. E subito dopo, in un videomessaggio, assicurò che si sarebbe “seduta accanto a loro al momento del voto”. Parole nette, mai ritrattate ma congelate dalla prudenza. Perché nel frattempo, attorno a lei, i dossier internazionali si sono moltiplicati e il rischio politico di ogni scelta è cresciuto. Chi ha avuto modo di parlarle in questi giorni racconta di un dubbio che continua ad agitarla: meglio mostrarsi in Aula, consapevole che il silenzio rischierebbe di diventare un pretesto per le opposizioni, pronte a rinfacciarle il rifiuto di riferire su Gaza, Ucraina o sulla vicenda della Global Sumud Flotilla? O conviene defilarsi, lasciando che il messaggio politico passi attraverso il voto e non attraverso la sua presenza a rischio che possa sembrare che abbia scaricato i suoi? La scelta non è neutra. A Montecitorio la premier verrebbe fotografata accanto ai tre ministri sotto accusa, assumendosi in prima persona il peso della loro difesa. Ma così facendo offrirebbe anche un bersaglio facile a Elly Schlein e ai leader delle opposizioni, che da settimane (l’ultima volta della premier a Montecitorio è stata prima del Consiglio Ue di giugno, e la prossima sarà prima di quello del 23 ottobre) insistono perché Meloni parli in Aula delle crisi internazionali, non solo per il tramite di Antonio Tajani. Proprio il ministro degli Esteri, peraltro, giovedì non ci sarà: assenza annunciata, sarà a Parigi a discutere con gli alleati europei e i partner arabi l’attuazione del piano di pace di Donald Trump. Nessuna defezione, invece, nel resto della squadra di governo o nei ranghi parlamentari. Luca Ciriani e i capigruppo hanno trasmesso un ordine chiaro: presenza tassativa, senza eccezioni. La fotografia che Palazzo Chigi vuole consegnare al Paese è quella di una maggioranza compatta, capace di trasformare una trincea giudiziaria in un atto politico di coesione. Idealmente, per il centrodestra, il voto di giovedì dovrebbe chiudere la partita. Mettere una pietra sopra a mesi di indagini e tensioni. Ma non tutto è risolto. Resta sospesa la posizione di Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, accusata dal Tribunale dei ministri - e poi dalla procura di Roma - di aver reso false dichiarazioni all’autorità giudiziaria durante l’inchiesta. Una coda velenosa dato che il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, dopo aver confermato l’indagine, ha escluso che il reato ipotizzato possa beneficiare dell’autorizzazione a procedere. Una risposta che apre la strada al conflitto di attribuzione tra Montecitorio e la procura. O, volendo, tra il governo e i giudici. Milano. Abusi, paure e speranze. Le storie dei ragazzi dentro di Nello Trocchia Il Domani, 6 ottobre 2025 Venti reclusi più del previsto, centinaia di ore di straordinario per gli agenti e l’ombra delle violenze. Il Beccaria racconta lo stato degli istituti minorili e delle etichette (“maranza”) che distruggono. La rete nuova si alza lungo il muro di cinta. Serve per evitare le evasioni. Il campo di calcio, invece, è chiuso per evitare i lanci delle palline di fumo. L’erba è cresciuta, la pioggia ha nutrito la gramigna, toccherà ai ragazzi rimettere in ordine ogni angolo. “A volte sembra di spostare il mare con una forchetta, sembra che cambi poco, quasi niente. L’impegno non è commisurato all’esito, ma è il nostro quotidiano, il nostro mestiere”, dice Elvira Narducci, a capo dell’area educativa. L’istituto Cesare Beccarla di Milano è il racconto perfetto delle condizioni delle mari minoridai redusiche,trita no la strutturaa cinque minuti dalla metro Bisceglie, una delle periferie della città. Gli. Italiani sono pochissimi la maggior parte dei ragaz.zi sono minori stranieri non accompagnati. gli altri sonale seconde generazioni. Sono quelli che fuori dal carcere una narrazione tossica e semplificata ha ribattezzato “maranza”. Mi arrabbio quando li chia rnancaccsi perchéè un modo facile per dare urfetichetta aragazzi alla ricerca disperata di identità, perché sono ragazzi sui quali possiamo anca. rastrivere e. invece. li collodtiamo in un gruppo clisfurizionalea continua Narducci. Al Beccaria non ai sono solo i ra,gard su. cui si appiccicano etichette. Il resto è tutto il dramma del carcere. Undrarntna che iniziacialle violenze. La procura di Milanoha indagato 42 personetra medici, funzionarle agenti, questi ultimi, avario titolo, rispondono anche di tortura. secondo i prn al Beccarla Cera ma stanza dove avveniamo le violenze ed era ~- niente sprovvista di [2~ re. ,t Dope orni haiino pearrar0, ira una stanza singola (4 ~tre uhi plcall lavane dicevano “sei ural unarabe ‘zinaga. ro-”. racconta una vittima. Insuitt sr iasi e .4tiauditevliolietazea, usando le parole del giudice. Tra gli iscritti anche la dirigenza delll.stinno, due ex direttrici del carcere Minorile Beccaria di Milano, Cosi ma Buccollero e Maria l’Unenti, e una vi oadiraffica che ha assunto per tifi bnaR periodo la reggenza Raffaella Messina. ancora vice nell’i5lìnur a. Coinvolto anche un altro ex direttore, Fabrizio Rinaldi lie diràgenti dell’istituto penale minorile sono accusare in particola - re di aver tenuto condotte ornis- SiVe.artrareerSare un istitutoregnatO da un’inchiesta dirompente restituisce criticità ingigantite e irrisolte. Di parlarne nessuno ha molta voglia, piuttosto desiderano mostrare attività, iniziariveedeirendpervaltare una pagina che racconta pelò& Un triennio di abusi. lei sono indagni aprite, io lavoro qui da 31 anni. Quello che è accaduto ha interrotto la relazione fiduciaria tra noi adulti, è stato uno tsunami”, dice Narducci. Non si sottrae al quesito neanchel a nuova comandante della polizia penitenziaria ‘blanda Tornar una vita spesa per la divisa che è appena arrivata “È una grande ferita, l’auspicio é che si alleggerisca la posiaione di tanti dei coinvolti Alcuni degli Indagati seno stati miei colleghi eli ho visti speridesi per un’ideg dl detenzione e Pena che nulla ha da spartire con quelle accuse. Non è possibile”. dice. Alcuni agenti indagati lavorano ancora al Beccarla ma non a contatto con i ragazzi. alcuni dei reclusi cheha n ne raccontate quanto subito ami n ritornati da detenuti nel l’isrin ita, rna la per per Cpan I rlieginrno. ndi cazione è di evitare contatti tra chi ha denunciato e chi è finito sotto inchiesta il processo accerterà le singole responsabilità, ma chi abita il Beccari.a, da detenuto o lavoratore continua a pretendere risposte. Soviraiffellanzento Calando arriviamo in visita nell’istituto ci sono 74 detenuti (79 qualche giorno prima), i posti disponibili sono 55. Venti in più, in pieno sovraffollamento. E allorala soluzione è semplice piazzare i materassi a terra. una pratica diventata abitudinaria non solo qui, ma che racconta l’assuefazione al peggio.” Ai Beccarla si sta a volte bene e a volte male, dipende da come ci si sveglia Nella mia cella siamain quaoioandaese dovreinmoessere tre, uno di noi dorme per terra. iu o rnenoda una sa- &nana è li Abbiamo chiesta “un’altra branda, ma non ci sta la C011 n é pktehm, raCCOIMIL tifin dei detenuti stranieri che incontriamo, Se il governo delle ‘destre, con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Del mastro Delle Vedove, s m ulteriormente devastando il sisma carcere, lo stato delle cose prima dell’arrivo del governo Meloni era di diffusa indifferenza. Molti esponenti di centrosinistra hanno scoperto i temi degli istituti di pena quandohannocomindatoasederetra banchi dell’opposizione, prima era solo silenzio. Dal 2013 fino ai noti fatti da queste parti non ci sono un direttore e un comandante stabili questo significa incertezza assenza di vertici e riferimenti. Nulla spiega violenze e angherie, ma lasciare un carcere inbalia degli eventi è colpa grave. blocco del 111111-ONTT e delle assunzioni ha fatto il resto. Mancano agenti nella fascia di età 35-50, quella dell’esperienza Ccksi ci si trama con agenti di poco più di vent’anni che dovrebbero mostrare il volo) dello stato di fronte a reclusi oche hanno la stessa era. A volte i detenu.ti sono anche più. grandi il dipartimento ha cosi disposto l’uso della divisa anche nelle 5e210- Elà, Mallen é Urla diViSa a formare il personalee arenderbautorevole nai i ciechi di chi guarda uso per cento del poliziotti penitenziari che lavorano al Beccarla ba, meno di due anni di servizio, un’età che oscillA trai 21 e i 30 anni Gli agenti sono l’ultimo anello di una catena, quella che paga il prezzo più alto. Sono 1C3S, ne servirebbero una ventina in più, ICI”e chi arriva a 1C0 ore di straordinario al mese, Tra dorro significa dieci, dodici OFB al giorno di lavoro, Aspettano ancora la mensa, chiusa nel 2010 Il futuro li Noti A meri: mattinata una parrede i ragazza reclusi é a scuola entriamo nell’aula accompagnati dagli agenti e dalla responsabile dell’area. educativa Sulla lavagna digitale una pagina del libro Lo gruma strega re di Di n o Buz iati. I soldi apparsi dal nulla nella tasca e il peso della coscienza. un racconto datato anni Sessanta che parla ancora al presente. Dentro il carcere ci so n o storie +che incrociano disagio e abbandono e spesso fa capolino anche la brama di apparire la caccia al dio denaro. uno di loro risponde alle nostre domande e racconta il suo passatcc Mt,e scarpe i vestie soldi servivano, mi ero ubriacato di denaro. Guadagnavo gnehp mille caro al giorno”. racconta I soldi elle sì moltiplicano pazieal lucrato florido della droga, di cui si può facili:~ re” state vittima o diventare carnefici M piano t e r r a ci sonoalteestanze dove sii svolgono le attivit2t fomative cucina. pasticceria, falegnarneiria impianti ~- dimisi perdarsi una possibilità quando il perooiso dentro Sarà finita Anche se a volte ogni prratreSSil di cambiamento si i n frange C?rin19 le assenze del mondo fuori. Ci sono venti minori stranieri non accompagnati, più di un quarto dei detenuti. Senza famiglia senza radici e conuna criminalità che attira e segna. A volte sembra proprio di muovere l’oceano con una forchetta. Milano. Ipm Beccaria: 33 ex detenuti pronti a testimoniare su presunte torture milanopost.info, 6 ottobre 2025 Fissato per il prossimo 30 ottobre l’inizio del maxi incidente probatorio richiesto dalla Procura di Milano nell’inchiesta sui presunti pestaggi e le torture avvenute nel carcere minorile Beccaria. L’obiettivo è cristallizzare le testimonianze delle 33 presunte vittime (ex detenuti) in vista dell’eventuale processo. L’udienza del 30 ottobre, ammessa dalla gip Nora Lisa Passoni, servirà principalmente a definire il calendario e il programma dei successivi appuntamenti, necessari per l’ascolto delle vittime. L’inchiesta conta 42 persone indagate. Tra queste figurano agenti di polizia penitenziaria e tre operatori sanitari. Le accuse, a vario titolo, sono di tortura, maltrattamenti aggravati, falso e lesioni. Un indagato è accusato anche di violenza sessuale. Tra gli indagati ci sono anche le ex direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti, chiamate a rispondere anche del non aver impedito le “condotte reiterate violente e umilianti” da parte degli agenti. L’inchiesta è emersa pubblicamente nell’aprile del 2024, con l’arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria e la sospensione di altri otto. Le violenze sarebbero avvenute principalmente in un ufficio del penitenziario e, successivamente, in celle definite dai giovani detenuti “di isolamento”, prive di telecamere. Agli atti sono descritti diversi episodi di vessazione. Ad esempio, è riportato il caso di un ragazzo che, nel 2021, dopo aver tentato il suicidio, sarebbe stato colpito con schiaffi al volto e calci alla pancia, prima di essere portato in cella di isolamento. I tre operatori sanitari indagati sono accusati di aver redatto “referti falsi o concordati con gli agenti” per coprire le lesioni riportate dai giovani detenuti. Inoltre, avrebbero assistito ad alcune aggressioni senza intervenire né segnalare i fatti. Le indagini erano partite a seguito delle segnalazioni fatte alle istituzioni da alcune psicologhe, madri di ex detenuti e dagli ex detenuti stessi, e sono state condotte tramite intercettazioni e l’acquisizione delle immagini di videosorveglianza interna. L’Aquila. L’Ipm sarà intitolato a San Francesco d’Assisi gnewsonline.it, 6 ottobre 2025 Dopo l’inaugurazione avvenuta lo scorso 4 agosto, l’Istituto Penale per i Minorenni de L’Aquila sarà ufficialmente intitolato a San Francesco d’Assisi. La cerimonia si terrà lunedì 6 ottobre alle ore 11,45 presso l’Ipm (via Giuseppe Mezzanotte), alla presenza del Sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, del poeta e scrittore Davide Rondoni, Presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni dell’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi, e dei rappresentanti delle istituzioni locali. L’Istituto, gravemente danneggiato dal sisma del 2009, aveva temporaneamente messo a disposizione dell’Università parte dei propri locali. Oggi, con la conclusione degli interventi di ristrutturazione, tornano pienamente operativi non solo gli spazi destinati alla funzione detentiva, ma anche le aree dedicate al Centro di prima accoglienza e alle attività di assistenza e riabilitazione dei giovani ospiti. L’intitolazione a San Francesco d’Assisi assume un valore altamente simbolico: un richiamo ai principi di dialogo, rispetto e speranza che ispirano il percorso rieducativo dei minori e dei giovani adulti sottoposti a procedimento penale. Al termine della cerimonia, sarà allestito un coffee break curato da alcuni dei ragazzi impegnati in percorsi educativi e formativi previsti dall’Autorità giudiziaria minorile. Un momento significativo, che testimonia l’impegno dei giovani ospiti verso il reinserimento sociale e la valorizzazione delle competenze. Napoli. Una libreria in romeno per detenuti del carcere di Secondigliano ansa.it, 6 ottobre 2025 Al via, con il console Popescu, il progetto “Un libro per tutti”. Secondigliano, il progetto “Un libro per tutti”, che vede in prima linea il console generale della Romania a Roma, Marian Popescu e, nel capoluogo partenopeo, la direttrice istituto, Giulia Russo, e il vicario della Prefettura di Napoli Franca Fico. Alla presentazione del progetto, destinato ad estendersi in tutti penitenziari, hanno preso parte anche le istituzioni romene, con i rappresentanti dei consigli regionali delle città Sibiu, Tulcea, Calarasi, Suceava e Neamt ognuna delle quali ha fatto delle donazioni. “Un libro per tutti” nasce a Napoli perché è la città dalla quale, per la prima volta, proprio un cittadino rumeno detenuto ha inviato al capo dell’ufficio consolare una lettera con cui ha chiedeva supporto per avere un libro da leggere che fosse nella sua lingua. “Tutti hanno il diritto all’educazione e alla cultura nella propria lingua madre”, ha sottolineato nel corso del suo intervento il responsabile dell’ufficio consolare. I libri in lingua romena donati dal Consolato Generale di Romania sono stati consegnati a un cittadino rumeno privato della libertà: faranno parte del fondo libri che si trova nella biblioteca dello stesso penitenziario, accessibile a tutti i coloro che sono interessati alla lettura. La direzione ha illustrato al console Popescu le principali attività che si svolgono nell’istituto, così come le modalità di educazione e formazione professionali che sono anche di livello universitario. Il progetto “Un libro per tutti” sarà varato in altri penitenziari e si estenderà anche nei centri che accolgono i cittadini rumeni minorenni sotto tutela. Ferrara. Il carcere incontra la città: “Non siamo nati detenuti, siamo persone come voi” di Giacomo Locci ferraratoday.it, 6 ottobre 2025 In occasione di Internazionale un confronto con la redazione del giornale Astrolabio. “Non è da tutti entrare in galera di venerdì pomeriggio e fare anche la fila per accedere”. Con queste parole, ammantate da quell’ironia che aiuta sempre a sciogliere momenti di tensione, è iniziato l’appuntamento promosso da Arci Ferrara ‘La città incontra il carcere’ previsto all’interno del programma del festival Internazionale a Ferrara. Le parole sono state pronunciate da Mauro Presini, maestro elementare in pensione e curatore di ‘Astrolabio’, il giornale del carcere di Ferrara. All’incontro era presente anche Maria Martone, direttrice del carcere, insieme alla comandante della polizia penitenziaria, alle operatrici dell’area educativa e di quella sanitaria, oltre a Vito Martiello, direttore responsabile del periodico. In uno dei maggiori eventi che coinvolge la città e che fa dell’inclusione un suo valore portante, non poteva rimanere escluso quello che a tutti gli effetti è una sorta di quartiere di Ferrara e che, nonostante l’isolamento e la rimozione dalla vita cittadina, rappresenta una realtà delle comunità ferrarese. Quello vissuto dai più di trenta cittadini che hanno varcato le porte della Casa Circondariale ‘Costantino Satta’ è stato un momento unico nel suo genere. Per una volta, infatti, chi arrivava da fuori non era lì per parlare, insegnare, recitare o suonare (come già avviene), ma per ascoltare, assistere e partecipare alla riunione di redazione del giornale pubblicato grazie da una collaborazione tra Asp e la Cooperativa Sociale Integrazione Lavoro di Baura. Alternandosi al microfono, i sette componenti della redazione, in rappresentanza di un gruppo più ampio, hanno fatto capire come funziona la composizione del giornale, la scelta dei temi e la scrittura degli articoli. Una scrittura individuale che parte però da un confronto collettivo nelle aule dell’area pedagogica della struttura carceraria. E nel percorso di reclusione, dove ognuno è solo con la sua pena, il poter fare un’attività insieme ha un significato di vitale importanza. “Quando scrivo mi sento vivo, mi sento libero” questo uno degli slogan del giornale, che può sembrare un paradosso detto da persone recluse, ma che spiega invece bene l’approccio a questo tipo di iniziativa. Sono state molte le storie e i temi personali condivisi con coraggio e che trovano spazio nel giornale, perché “quando uno scrive per sé, scrive anche per gli altri”: dai rapporti con le famiglie e con i figli (alcuni dei quali conosciuti solo dopo anni) alla consapevolezza del reato commesso, dalla soddisfazione nel poter partecipare ad attività culturali e sportive all’orgoglio di portare avanti percorsi di istruzione anche di livello universitario. E poi temi alti ma con ricadute molto pratiche come la giustizia, la pena, le vittime. Per una volta si è parlato quindi di carcere dal carcere: “Non siamo nati detenuti, siamo nati come tutti gli altri” è stata una delle frasi che ha più scosso la platea. Perché la persona non è mai solo il suo reato, ma soprattutto perché verrà per tutti il giorno di uscire fuori e rientrare in società. Ed è interesse della società, prima ancora che del singolo, accogliere una persona diversa: a cui è stata tolta la libertà, ma alla quale deve essere offerto un tempo per imparare, crescere, cambiare. Come l’astrolabio, nell’antichità, era lo strumento che aiutava i naviganti a guardare il cielo e a trovare la rotta e la direzione, nel suo piccolo ‘Astrolabio’ serve a rompere l’isolamento e l’immobilismo delle mura dell’Arginone e a tracciare un ponte che collega il dentro e il fuori, attraverso la parola e la scrittura. Il giornale letto da chi è in carcere serve per conoscere meglio i propri diritti e opportunità, letto da chi è dal lato opposto delle sbarre fa comprendere una realtà sconosciuta, che fa paura e che arriva alle cronache cittadine solo per casi di tortura o aggressioni. Mentre qualcuno parla di nuovi padiglioni da costruire e di un numero di detenuti da far crescere, nonostante l’affollamento e il numero spaventoso dei suicidi, c’è chi si ostina a pensare alle persone, siano esse fuori o dentro al carcere, alle loro traiettorie di vita e a cosa le possa rendere più sicure e consapevoli: anche attraverso un esperimento di giornalismo partecipato, aperto a chiunque voglia collaborare (info@giornaleastrolabio.it). Pisa. “Giustizia in carcere”, dibattito a San Giuliano Terme tuttomondonews.it, 6 ottobre 2025 “Giustizia in carcere. Dalle parole di De Andrè alla realtà penitenziaria”, interviene la Direttrice del Don Bosco. Al momento in cui scriviamo sono 63 i suicidi avvenuti nelle carceri italiane dal 1 gennaio 2025. Una vera emergenza. Dalle parole di De André alla realtà, questo sarà il filo conduttore dell’incontro dibattito “Giustizia in carcere”. Mercoledì 8 ottobre alle ore 17:30 in piazzale dei Pini - o parterre - nell’ambito del settembre sangiulianese si terrà l’incontro “Giustizia in carcere” organizzato dall’Associazione Periphèria in collaborazione con la Camera Penale di Pisa. L’associazione Periphèria già lo scorso anno all’interno del settembre sangiulianese aveva dedicato un’intera giornata al tema del carcere con due diverse iniziative: il dibattito “Oltre le sbarre” e “Canzoni alla sbarra” spettacolo musicale. Quest’anno l’associazione Periphèria dando continuità a ciò, torna sull’argomento perché il tema del carcere è cocente e troppo poco se ne parla. Lo scorso anno il focus dell’iniziativa fu sul mondo del volontariato che lavora all’interno del carcere e sulle pene alternative, quest’anno vogliamo entrare proprio nel carcere: parlare dei luoghi, delle condizioni, dei suicidi e lo faremo con la direttrice della Casa Circondariale Don Bosco, Alice Lazzarotto, con la referente dell’osservatorio carceri della Camera Penale, avv. Chiara Benedetti e con il giurista e scrittore Fabrizio Bartelloni. “Vorrei ringraziare fin da adesso la dottoressa Alice Lazzarotto per la sua presenza e per aver accettato l’invito della Camera Penale - dice Mary Ferri, presidente di Periphèria - Non è facile e per niente scontato che una figura istituzionale con compiti così delicati prenda parte a pubblici eventi”. La Camera Penale di Pisa, attraverso i referenti locali dell’osservatorio carcere, scende nuovamente in piazza al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla gravissima situazione in cui versano oggi le carceri italiane e lo fa a fianco della direzione della Casa Circondariale Don Bosco di Pisa, nell’intento di rendere comprensibili alla popolazione tematiche spesso fraintese, frutto di preconcetti e pregiudizi errati. “Giustizia in carcere non vuol dire vendetta - dice Serena Caputo, Presidente della Camera Penale di Pisa - non è accettabile che le persone recluse perdano la loro dignità: oggi sono “vittime di questo mondo” (per usare le parole di De André come ricorderà lo scrittore Fabrizio Bartelloni) e di un sistema penitenziario che deve essere radicalmente riformato”. Genova. “La forza e il diritto. Il presidio della giurisdizione” di Riccardo Ferrante giustiziainsieme.it, 6 ottobre 2025 Lunedì 6 ottobre prossimo Area avvierà le iniziative che porteranno al suo congresso annuale. Presso la sala di rappresentanza del Comune di Genova, dalle 17.00, si parlerà di La riforma Nordio: una riforma della magistratura che non serve alla giustizia. A chi scrive sarà affidata una (breve, come di norma si precisa) introduzione, di taglio storico. E anticipo qui le linee generali. Il dibattito su una separazione tra requirenti e giudicanti è in effetti risalente nel tempo. Lasciando da parte il lavoro della Costituente, nei primi anni 60 proprio alla magistratura “progressista” capitò talvolta di proporre i PM come “corpo distino dalla Magistratura giudicante”, ma per una disarticolazione di quella che Nello Ajello, in una storica inchiesta su l’Espresso del 1965, chiamava le “toghe di piombo”, l’insieme dei magistrati tradizionalisti che venivano dall’esperienza fascista. Non era forse opportuno avere figure professionali preparate specificamente all’attività di indagine, in un contesto - culturale, sociale e politico - in febbrile trasformazione? Si tratta della stessa logica che anima qualche decennio dopo le riflessioni di Giovanni Falcone, proprio nell’ultimissima fase della propria vita. Anche qui, però, è indispensabile contestualizzare. Il magistrato palermitano, dopo la epocale celebrazione del maxiprocesso, aveva subìto una serie di cocenti “sconfitte” professionali. Gli era stata negata innanzi tutto la guida del pool antimafia dopo la partenza di Caponnetto: nonostante la sua specialissima competenza, non era il più anziano degli aspiranti alla direzione dell’ufficio istruzione di Palermo. Medesimi furono gli argomenti con cui subito dopo fallì la nomina ad Alto commissario per la lotta alla mafia. La stessa “superprocura”, poi Procura nazionale antimafia, nasceva dall’idea di una specializzazione, da una sua visione di PM “moderno” uscito dalle pagine del nuovo codice di procedura penale. Larga parte della magistratura - Magistratura democratica, ma non solo - era invece contraria alla sua istituzione, per la paventata vicinanza di questo organo all’esecutivo. A maggio del 1992, pochi giorni prima della strage di Capaci, in una lezione palermitana, annotava che “il pubblico ministero dipende sì dalla magistratura ma rispondendo a esigenze e a istanze decisionali diverse da quelle della magistratura”. Erano i magistrati a non comprendere le riflessioni, assai minoritarie, di Falcone? O si sbagliava Falcone? Il nuovo codice di rito aveva disegnato un “nuovo PM” (il magistrato siciliano lo aveva sottolineato con largo anticipo) molto più centrale che in passato; più di prima “inquirente”, che non requirente. Più “esposto” mediaticamente, come la vicenda di Manipulite dimostrava proprio in quel torno di tempo. Le sentenze della Consulta del 1992, secondo la dottrina quasi unanime, avevano smantellato l’impronta accusatoria del 1988, e una certa spinta della magistratura forse c’era stata. Capisco possa risultare urticante leggerlo in questa sede, ma lo sviluppo del populismo giudiziario ha giocato un ruolo non secondario nel dibattito istituzionale successivo, e non è stato di aiuto per la difesa dell’indipendenza dei magistrati. Agli storici, e alla dottrina giuridica, questo appare oggi chiaro, come appare chiaro un certo atteggiamento autoreferenziale della magistratura associata. Anche oggi, sulla separazione, non “mettersi alla testa” di una riforma della pubblica accusa, da parte di ANM in particolare, potrebbe rivelarsi infine un errore costosissimo. Già l’argomento che solo l’1%, o poco più, di PM passa alla funzione giudicante a chi scrive pare errato. Si potrebbe facilmente rispondere che allora proprio la realtà di fatto, due esperienze professionali nella stragrande maggioranza dei casi radicalmente distinte, giustifica una formalizzazione costituzionale. E invece, al contrario, ai PM - cui è affidato un potere che necessariamente può essere terribile - si dovrebbe probabilmente chiedere di aver fatto obbligatoriamente anche il giudice, proprio sul presupposto dell’unità profonda della funzione di magistrato: dal difficilissimo esercizio del giudicare, si può imparare un modo misurato e prudente di accusare. Magari con valutazioni della professionalità maggiormente stringenti e stilate anche da non magistrati, e (almeno) minime verifiche dei costi/benefici nelle operazioni investigative. Pensare invece a una semplice dimidiazione dell’ordine giudiziario ha sostanza semplicemente punitiva, e di questa materia è fatto il “sogno” berlusconiano di separare in due la magistratura, d’altronde composta da “malati di mente”. E invece, al netto dei tanti errori, la magistratura italiana - lo dice un “laico” - rimane una straordinaria riserva della Repubblica e per sapere tecnico è fra le migliori al mondo. Il progetto della destra potrebbe spingere la pubblica accusa all’interno di un alveo culturale e operativo che è esattamente quello che i “garantisti”, fautori della separazione delle carriere, vogliono contrastare. Il magistrato inquirente rischierebbe il rango di “avvocato della polizia”. E non si continui a ripetere che, alla luce del testo del disegno di legge costituzionale, non c’è rischio di subordinazione del PM all’esecutivo. Lo ha scritto autorevolmente Marcello Pera, ora senatore di Forza Italia; con un PM separato, che però mantiene le prerogative del magistrato, in particolare senza vincolo gerarchico, e che diventa via via più forte, con un proprio organo di governo autonomo, si generebbe uno sbilanciamento, “un pericolo per la democrazia. (…) Sembra allora chiaro che la sola separazione non basta. (…) Occorre necessariamente rivedere la Costituzione”. Come? Reinserendo la gerarchia per i PM, modificando la loro autonomia e indipendenza rispetto a quella riservata ai giudicanti. E la riprofilatura del potere esecutivo, nel senso del “premierato”, sarà a breve il nuovo orizzonte “riformatore” della maggioranza. Una costituzione “nuova”, un disegno complessivo cui certo non può essere negata una profonda coerenza interna. Non occorre essere dei profeti per comprendere quali esiti successivi potrà avere la pubblica accusa in Italia. “Il silenzio dentro (Quando raccontare diventa un atto di giustizia)”, di Francesca Ghezzani imgpress.it, 6 ottobre 2025 “Che valore ha la libertà? Ce lo siamo mai chiesti? E se lo è mai domandato chi oggi sta scontando una condanna dietro le sbarre un attimo prima di compiere il reato?”. Questi e mille altri quesiti hanno spinto Francesca Ghezzani, nota giornalista e conduttrice televisiva e radiofonica, a percorrere un viaggio dentro e fuori i penitenziari per raccogliere, attraverso decine di interviste, le testimonianze di carcerati, ex detenuti oggi reinseriti nel tessuto sociale e nomi autorevoli del panorama istituzionale e associazionistico, esperti di criminologia e psichiatria forense, giornalisti e addetti alla comunicazione, esponenti del clero, sociologi, senza tralasciare i concetti di finanza e imprenditoria sociali, economia carceraria e circolare, upcycling presenti all’interno del sistema penitenziario e il delicato rapporto, sempre più sfidante e attuale, tra giustizia penale e intelligenza artificiale. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” affermava il padre dell’Illuminismo Voltaire secoli fa e, ancora oggi, è doveroso interrogarsi sulle condizioni delle prigioni, spesso alle prese con carenza di personale, sovraffollamento, casi di suicidio tra i detenuti e persino nel Corpo di Polizia Penitenziaria, con un anno 2024 che ci ha lasciato in eredità drammatici record. Alla fine del suo viaggio Francesca Ghezzani forse ha trovato risposte che cercava, ma sicuramente si è trovata a porsi altre domande. Cosa fare, allora, senza cadere nella retorica del buonismo e ben sapendo che non tutti sono pronti a riabilitarsi o desiderano farlo, affinché la giustizia faccia il suo corso e chi si è macchiato di un reato e voglia ricucire gli strappi possa contare su un concreto reinserimento che lo tenga lontano da recidive al termine della pena e si salvi? Come agire affinché la ritrovata libertà non faccia più paura della stessa prigione e non si torni a essere un pericolo per sé stessi e la sicurezza sociale? Come far sì che la detenzione, se volta a un processo di rieducazione, sia un investimento per i detenuti e una garanzia per la società? “Il silenzio dentro” con il suo sottotitolo che deve essere uno stimolo alla lettura, rappresenta l’essenza del vero giornalismo d’informazione e di inchiesta. Quello che possiamo affermare con assoluta certezza è che questo libro dai contenuti spesso sorprendenti e, se vogliamo inquietanti per gli argomenti che tratta, si può leggere come se fosse un grande romanzo che induce alla riflessione il lettore. Del resto non potevamo aspettarci nulla di diverso da una grande giornalista come Francesca Ghezzani che da oltre un ventennio è autrice e conduttrice di programmi di informazione che affrontano temi sociali a 360°. Il libro è edito da Swanbook Edizioni di Desenzano del Garda e sarà disponibile a partire dal 10 ottobre p.v. “Mi costituisco a Modena”, l’esperienza di Versi Liberi, laboratorio di poesia nelle carceri corriereirpinia.it, 6 ottobre 2025 Un libro che è frutto dell’esperienza maturata nel progetto “Versi Liberi”, laboratorio di poesia ideato e organizzato dall’associazione sportiva-culturale no profit Nazionale Italiana Poeti appositamente per gli Istituti Penitenziari. Un laboratorio promosso con successo in numerose case circondariali, dalla casa di reclusione Bollate di Milano al Cutugno di Torino. È il volume “Mi costituisco a Modena”, di Michele Gentile e Francesco Pasqual. Sarà presentato sabato 11 ottobre, alle 18, presso Palazzo Vescovile nell’ambito della rassegna “Avellino letteraria”. A introdurre l’incontro Annamaria Picillo, direttore artistico della rassegna. A partecipare all’incontro Monsignor Arturo Aiello, Vescovo di Avellino, Edgardo Pesiri, presidente onorario dell’Associazione di Promozione Sociale “Carlo Gesualdo”, di Gennaro Iannarone, già magistrato, scrittore e poeta, e di Matteo Claudio Zarrella, già presidente del Tribunale di Lagonegro. A dialogare con gli autori Rosa Mannetta, docente e scrittrice. Seguirà un intervento del giornalista sportivo Carmine Losco e un intermezzo musicale affidato al chitarrista Amedeo Morrone. I lavori saranno coordinati dalla giornalista Daniela Apuzza. I proventi derivanti dalla vendita del volume saranno destinati all’Associazione Antigone, impegnata nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. “Versi Liberi - spiegano gli autori - è qualcosa di più di un semplice laboratorio di poesia. È un punto di contatto tra sensibilità diverse e nel medesimo tempo urgenza di sensibilità. È riuscito in questi anni a creare, attraverso lo strumento della poesia, magnifici momenti di pura condivisione tra i volontari, i detenuti e molto spesso gli Operatori Penitenziari. […]. Una poesia che serve quindi e che si mette a servizio di chi ha bisogno per fare da ponte tra esterno e le mura del carcere, per assottigliare i fili dell’emarginazione. Mi costituisco a Modena è la logica conseguenza in versi delle nostre esperienze con Versi Liberi nelle carceri italiane. Una sorta di rielaborazione poetica che abbiamo più o meno consapevolmente effettuato rispetto a tutte le istanze, gli echi, le aspettative, i dolori, i turbamenti, le speranze che hanno condiviso con noi i detenuti incontrati lungo questo cammino”. Se l’economia serve la società: 400 mila realtà per colmare le carenze di Stato e mercato di Paola D’Amico Corriere della Sera, 6 ottobre 2025 Cooperative, associazioni, fondazioni e imprese sociali coinvolgono oltre 6 milioni di persone. Oggi la sfida è la sostenibilità economica. Nuovi bisogni: ambiente, abitare, giustizia. È un “ecosistema” così composito che anche chi lo studia fatica a trovare una definizione univoca. I numeri dell’economia sociale elaborati da Euricse documentano un vivace e dinamico scenario che, solo nel nostro Paese, è fatto di quasi 400 mila tra cooperative, mutue, associazioni, fondazioni e imprese sociali e coinvolge oltre 6 milioni di persone tra chi vi lavora (1,5 milioni) e volontari. Per tutte queste realtà la principale sfida dei prossimi 5 anni “sarà la sostenibilità economica” oltre ad avere la capacità non solo di coprire bisogni esistenti ma “anticipare le trasformazioni future”. Ne è convinta la vasta platea di esperti (126) che Percorsi di secondo welfare, laboratorio di ricerca dell’Università di Milano, ha coinvolto in una Expert survey per capire quanto l’economia sociale è davvero riconosciuta come parte integrante delle infrastrutture sociali dell’Italia, qual è il suo ruolo in relazione all’evoluzione del welfare, quali saranno i fattori di impatto di qui al 2030. Che sia l’elemento centrale per una società più equa e sostenibile non è in discussione: la consapevolezza che lo sviluppo sostenibile di una società non può poggiare unicamente sulla dimensione economica, ma deve fondarsi su un equilibrio tra crescita, coesione sociale e giustizia ambientale, è diffusa. “Abbiamo però pensato di raccogliere attraverso una metodologia poco usata in Italia i pareri di chi, studiando quotidianamente queste tematiche, può avere una visione prospettica. Sulla definizione di economia sociale - spiega Chiara Lodi Rizzini, politologa e ricercatrice di Percorsi di secondo welfare - emerge ancora un po’ di confusione. Ma ciò è dovuto al fatto che è un mondo eterogeneo al suo interno”. Tutti gli esperti collocano chiaramente l’economia sociale come “parte integrante dell’architettura del welfare contemporaneo”. Cento settantuno anni sono trascorsi da quando è nata la prima cooperativa, il Magazzino di previdenza di Torino: iniziativa degli operai per contrastare l’aumento dei prezzi. Oggi le imprese dell’economia sociale operano ovunque: città, campagne, aree interne dove offrono servizi spesso essenziali. Hanno dimostrato una buona capacità nel colmare le lacune lasciate da Stato e mercato, si sono dimostrate innovative, adattabili e reattive ai bisogni delle comunità, e un modello per sostenere l’economia in tempi di crisi, dando priorità agli obiettivi sociali rispetto al profitto, reinvestendo gli utili nelle finalità sociali. Per gli esperti i settori in cui l’economia sociale è più forte (e impiega più persone) sono quelli dell’inclusione dei gruppi vulnerabili (71,4%), dell’assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti (51,6%), della disabilità (51,6%) e dei servizi per l’infanzia, educativi, istruzione e formazione (41,3%). Più rare le politiche per l’abitare (18,3%) e le politiche attive del lavoro (12,7%). “Ma secondo la survey - continua Lodi Rizzini - c’è un margine di crescita per allargare il perimetro della protezione sociale, si pensi alle nuove sfide: ambiente, abitare, conciliazione”. La sfida per il futuro, oltre che su sostenibilità economica, cambiamenti demografici, diseguaglianze, polarizzazione sociale, “si giocherà anche sulla capacità di questo ecosistema complesso di relazionarsi, non essere autoreferenziale, imparare ad adattarsi a nuovi interlocutori che hanno una visione diversa”. Per questo è importante la formazione. “Per poter sviluppare l’economia sociale è infatti necessario lavorare all’interno - conclude la ricercatrice - formando gli operatori. Servono non solo incentivi fiscali ma incentivare la professione”. Insomma, il cambiamento e la crescita possono/devono venire innanzitutto da dentro. Il Piano nazionale - Intanto, precisa Luigi Bobba fondatore di Terzjus, “il nostro Governo ha dichiarato l’intenzione di realizzare entro fine novembre il Piano nazionale della economia sociale, scelta coerente con la raccomandazione Ue del 2023, che obbliga a definire in modo chiaro il perimetro dei soggetti, operazione necessaria se si vogliono mettere in campo le politiche adeguate, strumenti e risorse, utili a far sì che questi soggetti creino più occupazione e più inclusione”. Cruciale è anche il ruolo delle amministrazioni locali nell’abilitare l’economia sociale. Un buon esempio di visione arriva da Bologna che, come spiega Laura Freddi che ne è la responsabile, ha già redatto il Piano Metropolitano per l’economia sociale (economiasocialebologna.it). Qui si tracciano le direttrici per lo sviluppo economico della città nella direzione della sostenibilità, dell’inclusione e dell’equità: “È anche una base per crescere e espandere pratiche che forniscono tanto valore di economia sociale ma sono molto fragili, dall’oggi al domani potrebbero non esserci più”. La disaffezione per la politica. I dati dell’Istat e qualche idea per invertire la tendenza di Sabino Cassese Il Foglio, 6 ottobre 2025 Sfiducia e disinteresse. In Italia non è in calo solo l’affluenza alle urne, è diminuita anche la partecipazione invisibile, fatta di informazione e discussione. Che cosa si può fare per aumentare il senso di appartenenza alla collettività? Tra il 2003 e il 2024, si è osservato un calo generalizzato della partecipazione invisibile (informarsi e discutere di politica). Questo trend riguarda uomini e donne, ma con intensità diverse, contribuendo a ridurre le ampie differenze di genere. Nel 2003, a informarsi con regolarità di politica era il 66,7 per cento degli uomini a fronte del 48,2 per cento delle donne. Nel 2024 questi valori calano di 12,6 punti percentuali per gli uomini e di 5,7 punti per le donne. La differenza tra uomini e donne passa da 18,5 a 11,6 punti percentuali”. Questa la sintesi della recentissima accurata analisi della partecipazione politica in Italia, svolta dall’Istituto nazionale di statistica. Dunque, la distanza tra paese reale e paese legale non è misurata soltanto dalla decrescita della partecipazione al voto dei cittadini italiani, che dal 93 per cento è ora calata al 63 per cento, ma anche dalla disaffezione per la politica o dal disinteresse per essa mostrato da questi dati. Essi misurano la distanza tra il paese e la sua classe dirigente. Ecco, dunque, una indagine che cultura e politica italiani dovrebbero studiare con molta attenzione perché da essa, piuttosto che dalle piccole liti quotidiane, dipende il futuro del paese. Prima di procedere, esaminiamo però più attentamente alcuni aspetti di questa indagine, in particolare quelli riguardanti i divari di genere, di età e territoriali, i motivi del disinteresse e i fattori che contribuiscono all’interesse per la politica, quali il titolo di studio e l’esperienza lavorativa, sempre valendoci dell’indagine Istat. Secondo quest’ultima, “permangono evidenti differenze di genere che vedono gli uomini partecipare più numerosi alla vita politica del paese. Nel 2024, poco più di due donne su cinque (42,5 per cento), infatti, si informa settimanalmente di politica, contro il 54,1 per cento degli uomini. In particolare, è sull’informazione quotidiana che il gap di genere è più evidente (27,6 per cento degli uomini e 19,0 per cento delle donne)”. Ancora più preoccupanti i livelli più bassi di partecipazione politica invisibile che riguardano i giovani fino a 24 anni e, in particolare, i giovanissimi: “Si informa di politica almeno una volta a settimana il 16,3 per cento dei ragazzi di 14-17 anni e poco più di un terzo (34,6 per cento) dei 18-24enni. A non informarsi mai, invece, sono rispettivamente il 60,2 per cento e il 35,4 per cento”. Influenzano la partecipazione il titolo di studio, cioè l’istruzione e la scuola, e la condizione lavorativa: “La disaffezione totale per l’informazione e la discussione politica è più diffusa in presenza di titoli di studio più bassi. Non si informa mai di politica l’11,3 per cento dei laureati, una percentuale più che doppia di diplomati (24,4 per cento), e quasi quadrupla per quanti hanno al più la licenza media (41,2 per cento). Un trend analogo si osserva in merito al parlare di politica”. Per quanto riguarda il lavoro, l’Istat rileva che gli occupati, insieme ai ritirati dal lavoro, si informano e parlano regolarmente di politica più degli altri segmenti di popolazione: “Si informa regolarmente di politica il 52,3 per cento degli occupati e il 61,6 per cento dei ritirati dal lavoro a fronte di un valore medio del 48,6 per cento riferito alla popolazione di 15 anni e più”. La partecipazione politica è molto differenziata sul territorio. “Si informa di politica almeno una volta a settimana la maggioranza della popolazione del centro-nord (con valori compresi tra il 52 e il 54 per cento), contro il 40 per cento circa del Mezzogiorno. Sempre nelle regioni del Mezzogiorno una quota analoga (37,3 per cento) non si informa mai a fronte del 25,0 per cento circa delle regioni del nord”. Calabria, Sicilia e Campania sono i fanalini di coda della partecipazione. L’interesse dell’indagine Istat sta anche nella ricerca dei mezzi più diffusi di informazione sulla politica. La televisione è il mezzo informativo più utilizzato, ma con numerose variazioni nel ventennio considerato: “Rispetto al 2003 l’uso della tv come fonte di informazione politica è diminuito di quasi 10 punti percentuali (dal 94 all’84,7 per cento). Si è invece dimezzata, passando dal 50,3 al 25,4 per cento, la quota di cittadini che si informano tramite i quotidiani”. “Emerge ora internet, soprattutto per gli adulti fino a 44 anni, tra i quali le percentuali superano il 60 per cento. Considerando nell’insieme i canali tradizionali e quelli accessibili tramite internet, la radio e la tv restano i mezzi principali, utilizzati dall’89,5 per cento della popolazione. Al secondo posto si collocano i quotidiani (cartacei oppure online): 41,7 per cento, utilizzati dal 45,2 per cento dei maschi e dal 38,0 per cento delle donne”. Quanto alle cause, “degli oltre 15 milioni di cittadini di 14 anni e più che non si informano mai di politica, poco meno dei due terzi (63,0 per cento) sono motivati dal disinteresse, più di un quinto (22,8 per cento) dalla sfiducia nella politica”. Che la partecipazione sia elemento fondamentale della democrazia l’ha spiegato nel 1835 Alexis de Tocqueville nella prima parte della sua opera sulla democrazia in America, in particolare nei capitoli quinto, settimo e ottavo. Tocqueville collegava la partecipazione alla vita locale, alla giustizia e alla libertà di associazione con le seguenti frasi: “Nel comune, come ovunque altrove, il popolo è il vero potere. [...] E’ la partecipazione costante e reale di tutti i cittadini agli affari della società che dà alla vita comunale la sua forza e la sua vitalità”. “Il giurì è anzitutto un’istituzione politica; è la partecipazione della società all’esercizio della giustizia. [...] Fa sentire a tutti i cittadini che essi hanno dei doveri verso la società e delle responsabilità nella sua conduzione”. “La libertà di associazione è, per così dire, la madre di tutte le altre forme di partecipazione politica. E’ nelle associazioni che i cittadini imparano ad agire insieme e a far prevalere l’interesse comune.” Se la partecipazione diminuisce, la conseguenza è chiara, vi sarà minore democrazia e aumenterà lo spazio tra paese reale e paese legale. Questa è una distinzione che risale alla Francia della Monarchia di Luglio (1830-1848) in riferimento al sistema elettorale censitario. Con paese legale si indicava l’insieme ristretto degli elettori ammessi a partecipare alla vita politica secondo la carta costituzionale francese (poco più di 200 mila persone su più di venti milioni di abitanti) e con paese reale la società nel suo complesso, cioè la grande maggioranza della popolazione esclusa dal diritto di voto (contadini, operai, piccola borghesia). François Guizot (1787-1874), storico e uomo politico della Monarchia di Luglio, ne sviluppò l’idea. Per lui solo coloro che possedevano “capacità” (istruzione, ricchezza, indipendenza) dovevano partecipare al governo; donde la restrizione del suffragio. Fu poi ripresa in modo polemico da critici del regime (repubblicani, socialisti, cattolici come Louis de Bonald e poi Charles Maurras). Che si può fare per diminuire la disaffezione per la politica e aumentare il senso di appartenenza alla collettività? L’azione principale non può essere che quella dei partiti, che debbono riscoprire due aspetti della loro tradizione: il primo, quello che riguarda la struttura, cioè il partito associazione e non ristretta cerchia oligarchica; il secondo, quello che riguarda la funzione, cioè il compito di fare un’offerta politica, consistente in programmi, che possano incontrare l’adesione dei cittadini, assicurando così un seguito ai partiti. In secondo luogo, un rimedio alla scarsa partecipazione e al trend negativo potrebbe essere quello di abbassare l’età del voto, in modo spingere un maggior numero di persone, dai 16 anni in poi, a rendersi conto della propria appartenenza ad una collettività-nazione. Un terzo rimedio sta nella scuola, che dovrebbe in qualche modo supplire a una assenza di cognizioni che riguardano, in generale, la politica. Urne vuote e piazze piene, l’apparente contraddizione di Luciano Violante Corriere della Sera, 6 ottobre 2025 Molte migliaia di cittadini hanno voluto manifestare non solo solidarietà nei confronti delle vittime della guerra di Gaza, ma anche fiducia in un mondo dove i bambini non debbano morire per fame, le popolazioni non siano costrette con la violenza a spostarsi da una tendopoli all’altra. I seggi sono vuoti e le piazze sono piene. L’apparente contraddizione permette di riflettere sul rapporto tra i cittadini e i valori nei quali crediamo. Molte migliaia di cittadini hanno voluto manifestare non solo solidarietà nei confronti delle vittime della guerra di Gaza, ma anche fiducia in un mondo dove i bambini non debbano morire per fame, le popolazioni non siano costrette con la violenza a spostarsi da una tendopoli all’altra, dove gli ospedali non siano bombardati e i feriti non siano operati senza anestesia perché l’esercito occupante ha vietato i farmaci; un mondo in cui nessuno possa impedire di dare biscotti e miele a donne e bambini perché troppo proteici, nè dove un ministro possa dire: se serve un boia ci sono qui io, anche per i bambini. Non c’era rabbia in quelle famiglie che sfilavano, in quegli insegnanti che accompagnavano i propri studenti, nei giovani e negli anziani, nelle coppie e nelle persone che erano scese da sole; c’era la consapevolezza che ad un certo punto l’umanità pretende i suoi diritti. La strage del 7 ottobre e il genocidio dei lager hanno una loro quasi sacra intangibilità; quella strage, come ha detto il Presidente del Consiglio, non può giustificare gli eccidi di Gaza. La Shoah non può essere usata come strumento per respingere le critiche. Ci sono certamente rigurgiti di antisemitismo, sempre e da sempre presenti in quasi tutte le parti del mondo; ci sono imbecilli, spesso in cattiva fede, che credono di battersi per la libertà mettendosi una Kefiah, urlando contro Israele, inneggiando al 7 ottobre, bloccando le stazioni e aggredendo le forze di polizia. Gli imbecilli hanno proclamato la lotta armata; non sanno che l’abbiamo già avuta nelle stazioni, sui treni, nelle strade e che è stata sconfitta da gente simile a quella che sfilava nei giorni scorsi e che ha sfilato anche in quegli anni isolando i terroristi di sinistra e di destra e dando più coraggio a che rischiava la vita per combatterli. Bisogna essere lucidamente e intransigentemente contro gli antisemiti e contro gli imbecilli. Ma questi miserabili non possono impedirci di essere solidali con chi ha manifestato nelle strade o nel Mediterraneo. Nessuno di quei cortei, nessuna di quelle barche ha salvato una vita umana; ma tante vite umane forse si sono sentite meno abbandonate, mentre pativano la fame nella polvere e nel fango di Gaza. Chi lavora davvero per la pace non può vedere in quei cortei un ostacolo. Al contrario, per loro dalle strade e dal mare è venuto un sostegno. La pace da una parte, la solidarietà dall’altra e l’una rafforza l’altra. La pace, la vita, non sono affari delegati in via esclusiva ai governanti; appartengono a tutti noi. La Costituzione disegna un’antropologia che non conosce l’indifferenza: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Quelle migliaia di persone hanno concorso al progresso spirituale della società. Racconta il Vangelo di Luca che un sacerdote e un levita, timorati di Dio, ossequiosi ai riti, rispettosi delle leggi, passano vicino ad un viandante gravemente ferito perché aggredito e rapinato da banditi; si accostano, guardano e vanno oltre. Li motiva la convenienza, il timore di esporsi, il dubbio di sbagliare; e poi non sanno se davvero quel ferito merita pietà. Passa un samaritano, che appartiene ad un popolo disprezzato perché considerato impuro. Il samaritano si avvicina e patisce la contorsione delle viscere, lo “splagchnizomai”, come dice il Vangelo di Luca. Perciò si ferma, lo soccorre lo salva e salva se stesso perché, la solidarietà salva chi ama, anche se impuro. Molti di quei cittadini scesi in piazza, di fronte al massacro di Gaza hanno patito lo “splagchnizomai” del samaritano. Altri fanno come il levita e il sacerdote, sicuri della loro buona ragione, tirano diritti per la loro strada, levano l’indice accusatore. E la morte sorride, perché diventa più forte. Torniamo a noi. Ma se sono tante le persone si sono mosse spontaneamente per difendere il valore della vita, per solidarietà con chi soffre, perché sono tante le persone che disertano le urne dove si sceglie chi governerà, chi organizzerà gli ospedali e le scuole, chi si occuperà di chi è debole e solo? Le organizzazioni politiche appaiono capaci di mettere in campo litigi banali, contrapposizioni sterili, insulti e denigrazioni reciproche, non valori, futuro, speranza, cose per le quali vale la pena di mobilitarsi, di dedicare tempo, di impegnarsi e lottare. Se questo accade, è normale rifiutarsi di scegliere. “L’onore - spiegò Roosevelt nel 1910 alla Sorbona - spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza”. Ma quando la preoccupazione è solo quella di prendere un voto in più e non ci si preoccupa di scuotere coscienze e di suscitare speranze, l’onore spetta solo a chi ha sentito la contorsione delle viscere. Perché la violenza non ha scuse di Vittorio Barosio e Gian Carlo Caselli La Stampa, 6 ottobre 2025 Eman Abu Zayed, scrittrice palestinese, ha inviato questa lettera: “A Gaza le scelte della solidarietà in Italia si sono diffuse da un telefono all’altro, portando un barlume di speranza tra le macerie, la fame e le bombe. Le persone inoltravano i video sulle chat guardando riconoscenti le folle italiane. Queste immagini hanno suscitato sorrisi, ormai rari, sui volti di tanti palestinesi”. La lettera è uno splendido commento sulla marea di gente che è scesa nelle strade, formando un fiume lungo mille chilometri da Nord a Sud del Paese, per sostenere il popolo palestinese contro la follia di Netanyahu. Persone di ogni età, ma soprattutto giovani, capaci di mobilitarsi per una causa sacrosanta, vincendo l’indifferenza che troppo spesso li frena. Milioni di persone che hanno sentito l’indignazione per quello che succede a Gaza e si sono risolutamente scosse, in blocco, da un torpore purtroppo abituale. Con la gente che applaudiva dalle finestre. Anche in questa occasione non sono mancati gruppi di soggetti che si sono inseriti nelle manifestazioni pacifiche e si sono dati ad atti di violenza gravemente distruttivi e vandalici. Ci sembra però che fra queste persone si possa fare una distinzione, perché alla base della violenza vi sono due ragioni diverse. Vi è la violenza imbecille di chi la fa per il gusto della violenza di per se stessa, per una rabbia interna e magari (non avendo di meglio) anche solo per fare qualcosa. E poi vi è una violenza posta in essere non per il gusto di farla, ma per cercare di far valere uno scopo di per sé giusto. Anche questa, ovviamente, è comunque meritevole di sanzioni severe, perché si tratta pur sempre di violenza, cioè di un’azione diretta a prevalere con la forza sulla ragione, recando pregiudizio ad altri. Ma questo secondo tipo di violenza, oltre che da sanzionare, ci pare anche sciocco e controproducente. È vero che oggi si assiste, in molte persone, ad una certa assuefazione alla violenza, quasi come un’accettazione, e che questa sembra persino in crescita. Il che rende la violenza ancor più pericolosa e ancor più da reprimere. Ma è altrettanto vero che dalla maggior parte della gente la violenza è ancora giustamente percepita in modo fortemente negativo. E quindi chi assiste ad atti di violenza è istintivamente portato a reagire prendendo posizione non solo contro i soggetti violenti, ma anche contro lo scopo, di per sé buono e giusto, che essi perseguono. Così il raggiungimento di questo scopo, anziché avvicinarsi, si allontana. Efficaci sono esclusivamente le piazze in cui si sentono solo parole di giustizia e di pace, e cortei che intonano canzoni gioiose o libertarie. È difficile pensare a cortei che sfilino in rigoroso silenzio. Ma, forse, potrebbe essere proprio questo forte e lungo silenzio a impressionare maggiormente, e che quindi servirebbe ancor più alla buona causa. Giuseppe De Rita: “Ma quale violenza, erano preti. La protesta sfugge ai partiti” di Flavia Amabile La Stampa, 6 ottobre 2025 Il sociologo: “Landini guida una rivolta non sua. I giovani non conoscono il conflitto”. “La manifestazione di sabato? Un corteo di preti”, provoca Giuseppe De Rita, 93 anni, sociologo, fondatore e presidente del Censis. Questo concetto dei preti poi lo spieghiamo. Intanto però sabato a Roma c’era un milione di persone in piazza per Gaza. Più di venti anni fa Sergio Cofferati, all’epoca segretario generale della Cgil, di persone ne radunò tre milioni ma per l’articolo 18. Ora, invece, gli italiani si mobilitano per Gaza, che cosa sta accadendo? “Se lo sapessi farei il capo del governo. È tutto così labile: ci sono milioni di persone in piazza ma non si capisce perché. Dichiarano di manifestare per Gaza ma che cos’è Gaza? È un sentimento collettivo? Un’indignazione collettiva? Una paura collettiva? Un conflitto collettivo?”. C’è la rabbia provocata da un’ingiustizia, c’è il dolore per un popolo che viene cacciato via dalla propria terra, che muore di fame, che non ha diritto nemmeno a ricevere aiuti, cure... “I tre milioni di persone scesi in piazza all’epoca di Cofferati erano lì per una battaglia sindacale, per un conflitto di classe, per i precari. C’erano degli interessi precisi. Il conflitto deve basarsi su degli interessi non su logiche di sentimento. Nel caso di Gaza non mi sembra che ci siano interessi a parte quelli di alcuni opinionisti che cavalcano l’onda dell’opinione e. È un punto critico, un vuoto che non si sa come verrà riempito”. Non sarebbe compito della politica cavalcare quest’onda? “Giorgia Meloni infatti è una specialista, per anni ha surfato sull’onda delle opinioni ma oggi ha un ruolo diverso, è presidente del Consiglio. Su Gaza ci troviamo in una situazione strana. L’incertezza non è capire chi siano le persone scese in piazza ma chi potrà gestire quest’onda di sentimenti per portarla non si sa bene dove. L’unica possibilità che vedo è fragile”. Sarebbe? “Che un sentire di rabbia, di paura, di pena per i bambini di Gaza possa creare una contrapposizione politica. Ma mi sembra che la capacità di cavalcare quest’onda da parte di alcuni porti solo a un contrasto con il governo, a una battaglia contro Giorgia Meloni”. Infatti, l’opposizione sta provando a usare Gaza ma con scarsi risultati. La sconfitta nelle Marche ne è una conferma. Piazze piene, urne vuote era scritto su un cartello presente alla manifestazione. “Gran parte di chi era al corteo probabilmente non va nemmeno a votare. E i partiti di opposizione sono ancora immersi in una cultura movimentista. Non sono stati in grado di dare una struttura politica alle emozioni che li hanno mossi, né sono in grado di farlo con l’onda creata da Gaza”. Potrebbe farlo il governo? “Sarebbe di sicuro più facile per chi governa provare a gestire l’onda di emozioni buone, ma anche il governo ha una leader nata movimentista che mostra una debolezza nel passare a una politica strutturale”. I sindacati? “Landini ha scelto mesi fa di andare verso la rivolta sociale mettendo da parte i problemi dei contratti del precariato, dell’articolazione territoriale e di tutte le sfide professionali di un sindacato. Ora che la rivolta è arrivata, lui che ne è uno degli antesignani, si ritrova a guidare una rivolta non sua perché quello di sabato non era un corteo di operai, di precari, di lavoratori. Landini deve fare un esame di coscienza: quelli che erano in piazza non li ha portati lui e non sa da chi verranno usati”. Molti erano giovani. In questa generazione c’è più rabbia che in quelle che l’hanno preceduta? “Nel Sessantotto e negli anni seguenti chi ha fatto la guerra civile erano universitari che si sentivano incompiuti, arrabbiati. Come riferimento avevano leader internazionali del calibro di Adorno o di Marcuse. Ora chi sono i loro riferimenti? Greta o Francesca Albanese? Oggi i giovani non si sentono incompiuti e non mi sembrano arrabbiati, non mi sembrano proprio in grado di pensarsi violenti. Anzi, i violenti li mandano via dalla loro piazza. I giovani non hanno più il conflitto nella pelle. Possono creare un bel manifesto, portare una bella bandiera e cantare Bella Ciao, in nome di un rimpianto per una resistenza di 80 anni fa. Dentro di loro non c’è alcuna rabbia profonda solo un grande sentimento di pace di bontà per chi soffre. Sinceramente la loro mi sembra una manifestazione di preti più che una manifestazione di conflitto”. In questi giorni si è paragonata l’atmosfera che si è creata alla protesta contro la guerra in Vietnam. Come le sembra questo paragone? “Assolutamente falso. Questi non sono figli del Vietnam né di Genova né di altro. Ogni generazione ha il suo destino e questo è ancora tutto da scrivere”. Nel governo spesso si mette in guardia contro il rischio che si vada incontro a una nuova stagione violenta. E nei cortei una parte marginale di violenti esiste. Pensa anche lei che esista questo pericolo? “Nessun pericolo. Il terrorismo oggi è solo verbale e un buon governante ci passa sopra perché deve essere sicuro delle proprie azioni” Saman e le altre: sono le donne la prima linea contro la segregazione di Diego Motta Avvenire, 6 ottobre 2025 Viaggio a Novellara, dove l’adolescente pachistana venne uccisa dalla violenza del suo clan. Qui la lotta per l’emancipazione femminile non si ferma. L’ex sindaca Carletti: denunciare resta difficile. Nella terra in cui è morta Saman, la lotta per l’emancipazione femminile resta la vera battaglia da combattere. Lo era prima, a Novellara, Comune del reggiano di 13.500 abitanti, che da trent’anni ospita comunità di stranieri provenienti dal Pakistan, dall’India, più recentemente dalla Turchia. Lo è adesso, che i processi per la morte della giovane pachistana uccisa a seguito di un piano ordito dalla sua stessa famiglia, hanno svelato al resto d’Italia i contorni di un fenomeno già conosciuto da queste parti: quello della segregazione della donna, vittima di clan familiari che rispondono alle regole arcaiche di culture lontane, quello dei matrimoni combinati che sembra un reperto storico nel nostro Paese eppure qui silenziosamente prosegue. Questa settimana ha fatto scalpore il caso di una ragazza di Rimini, di origini bengalesi, costretta alle nozze combinate, che poi è riuscita a ribellarsi al suo destino grazie al ritorno in Italia. A salvarla è stata un’operazione coordinata dai carabinieri di Rimini, significativamente chiamata “Saman 2”, a testimonianza del fatto che il pericolo di nuove storie del genere non è affatto scongiurato. Ma quanti casi sommersi, di questo tipo, ci sono ancora? È un terreno, quello complicatissimo dell’uscita dal silenzio e dall’omertà, che vede protagoniste altre donne di questo territorio. Donne che aiutano altre donne. Una di queste è l’ex sindaca del paese, Elena Carletti, oggi consigliere regionale del Pd. “Ricordo quella mattina, la chiamata del comandante dei carabinieri. Capii subito che per noi sarebbe stata una cosa deflagrante, una tragedia destinata a cambiare la nostra storia”. Di fianco a lei, nel bar a pochi passi dal Comune che Carletti ha guidato fino a un anno fa, ci sono Erica Tacchini, referente per i progetti culturali e interculturali del Comune di Novellara, e Kiranjit Kaur, detta Kimmi, una ragazza di origine indiana oggi cittadina italiana, che fa l’insegnante di sostegno in una scuola elementare e si è trovata a fare da mediatrice culturale in questi anni, tra tanti suoi connazionali e il paese che li ospita. Così ha conosciuto le storie di tanti ragazzi e ragazze che spesso arrivano dagli stessi contesti di Saman. “La condizione della donna in questi contesti è un tema delicatissimo e difficilissimo da affrontare - raccontare Kimmi -. Dipende molto da famiglia a famiglia, dalla classe sociale in cui si vive, dal tipo di percorsi che si fanno. Sono comunità, quelle che ho incontrato, in cui conta di più la comunità e la famiglia, rispetto all’individuo”. Quante Saman ci siano ancora in queste terre e che rischi corrano, è domanda a cui non si può rispondere con certezza, numeri alla mano. “Segnalazioni e richieste d’aiuto come quelle che sono arrivate anche questa settimana da Rimini continuano spiega Carletti dal suo osservatorio regionale - ma il punto vero è arrivare a denunciare. Arrivare a mettersi contro i propri genitori per potersi salvare la vita richiede coraggio, anche perché tante ragazze non vorrebbero che padri e madri poi finissero in carcere. Dicono: io non voglio sposarmi, ma non voglio neppure che i miei genitori finiscano sotto processo”. Per Erica Tacchini, “serve davvero una rete per evitare che queste giovani finiscano in trappola. Una rete fatta di altre persone: compagne di classe, insegnanti, amici, mediatori culturali. Non basta un centro antiviolenza per fare prevenzione, perché lì si affronta solo l’emergenza”. Prima c’è appunto la logica del clan, il ricatto familistico e mafioso di cui è stata vittima Saman. “Occorre distinguere - riprende Kimmi - tra matrimonio combinato e matrimonio forzato. Il matrimonio combinato esiste anche nel mondo indiano. Ho un’amica il cui marito è stato deciso dai genitori. Io le ho detto che non ero d’accordo. Abbiamo discusso a lungo, per me doveva fare una scelta libera. Lei mi ha risposto che era felice e io ho dovuto accettare. C’è una visione patriarcale dietro tutto questo, in cui l’uomo comanda e la donna si adegua. È una visione che combatto, ma che in queste comunità resiste nonostante tutto. Altro conto è la violenza, l’imposizione con la forza”. Racconta l’ex sindaca Carletti di aver seguito il caso di un’altra ragazza ricondotta con un imbroglio in Pakistan, dove avrebbe dovuto sposare un uomo scelto dalla famiglia. “Ci siamo attivate con l’ambasciata, l’abbiamo rintracciata e fatta tornare in Italia. Lei si è salvata, ma quante altre storie del genere non riusciremo mai a intercettare? “ si chiede. Nell’oscurità delle nozze imposte, ci sono addirittura atti matrimoniali fatti al telefono: la donna dice sì tre volte a un uomo deciso da altri, che magari si trova in Pakistan. Mesi dopo, in Comune viene recapitato il certificato di matrimonio. Le crisi e i drammi familiari si verificano quando la parte fragile si accorge della trappola e si ribella: allora scatta la violenza. “Ci sono magari anche unioni coniugali che riescono, per carità, ma più spesso la donna finisce in isolamento. Non parla italiano, non comunica più e sparisce dai radar”. Ecco, il peso dell’insegnamento della lingua italiana è cruciale. Più in generale, lo è l’alfabetizzazione di queste persone, che altrimenti scontano ritardi irrecuperabili. “Uno dei punti su cui abbiamo insistito in questi anni è stato proprio il lavoro sulla lingua madre, con corsi in arabo proposti dal centro interculturale, perché abbiamo scoperto che tanti ragazzi non parlavano più la lingua originale dei genitori - continua l’ex sindaca di Novellara -. Se ti trovi davanti gente analfabeta rispetto al proprio contesto di provenienza, il primo segnale devi darlo su quel versante. Poi sull’apprendimento dell’italiano, abbiamo affiancato le attività dei Cpia, i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, con investimenti e strumenti nuovi, partendo dal coinvolgimento di insegnanti in pensione che venivano volontariamente al centro a fare lezione”. Il ruolo di Kimmi è stato fondamentale. “Serviva una figura a scuola che fosse in grado di parlare urdu e punjabi. Io conosco entrambi e, per tante donne che erano tentate di chiudere la porta con la scuola, sentirsi dire le cose nella propria lingua ha fatto la differenza - spiega la giovane di origine indiana -. Ci è voluto tempo ma i pregiudizi poi sono caduti, anche con gli uomini”. La scommessa adesso è che crollino altri muri, quelli della discriminazione e del razzismo strisciante, i primi da abbattere se si vuole una società realmente inclusiva. E le differenze religiose? Contano, ma non troppo. La famiglia di Saman non era praticante e non frequentava il tempio sikh di Novellara, il più grande d’Europa, inaugurato nel 2000 dall’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi. “L’ìnduismo è una fede riconosciuta, altre confessioni non lo sono - dice Carletti -. Quando penso alle comunità presenti sul territorio, mi rendo conto che servono luoghi aperti alla cittadinanza, in grado di dare il giusto peso alle diverse fedi, senza ghettizzarle o enfatizzarle. Non vanno cercate soluzioni all’insegna della sicurezza, ma spazi in cui si possano condividere momenti sportivi, attività ricreative e di socialità”. La Flotilla: “Botte in testa, trattati come scimmie al circo nelle carceri israeliane” di Lorenzo Mantignoni Il Giorno, 6 ottobre 2025 “Partiranno domani con un volo charter per Atene”. Con queste parole il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nella tarda serata di ieri ha annunciato (a sorpresa, almeno per le tempistiche) l’imminente rientro dei quindici attivisti italiani che non avevano firmato il foglio di via. “Saranno assistiti - continua - dalla nostra ambasciata nel trasferimento verso l’Italia”. Una buona notizia, dunque, che conclude una giornata, quella di ieri, caratterizzata dai racconti che gli attivisti della Global Sumud Flotilla hanno reso pubblici a proposito della detenzione. Una vera e propria denuncia. “Siamo stati trattati come le vecchie scimmie dei peggiori circhi degli anni Venti”, ha detto il giornalista di Fanpage, Saverio Tommasi, appena rientrato in Italia. “Abbiamo ricevuto botte - ha continuato - nella schiena e in testa. Ci hanno tolto le medicine, e un signore di 86 anni, a cui è stata sequestrata la bomboletta per l’asma, si è sentito male ma non ha ricevuto alcuna assistenza medica”. Violenze sia fisiche sia psicologiche, diritti (anche minimi) negati e un clima di paura: sono questi gli elementi che emergono dalle testimonianze degli attivisti, accolti tra applausi e abbracci negli aeroporti di Fiumicino e Malpensa. “Siamo stati trattati malissimo - ha spiegato Cesare Tofani -, come se fossimo dei terroristi. Avevamo solo l’acqua del rubinetto e il cibo era poco”. “Le donne erano quindici in una cella da quattro - ha aggiunto Paolo De Montis -, noi eravamo dieci in una da sette, con solo un rotolo di carta igienica, senza acqua e con il cibo mangiato per terra”. I maltrattamenti non hanno riguardato solo gli attivisti italiani. Greta Thunberg, infatti, come ha rivelato il giornalista turco, Ersin Celik, anche lui membro dell’equipaggio, è stata “trascinata per i capelli, picchiata e costretta a baciare la bandiera israeliana. Le hanno fatto cose inimmaginabili, come monito per gli altri”. Secondo il Ministero degli Esteri svedese, la giovane attivista avrebbe riferito di non aver ricevuto acqua né cibo a sufficienza, di aver sviluppato delle eruzioni cutanee causate probabilmente dalle cimici e di “essere rimasta seduta per lunghi periodi su superfici dure”. Un’accusa che il ministro degli esteri israeliano, Israel Katz, ha tentato di negare su X: “Le affermazioni riguardanti i maltrattamenti di Greta Thunberg e di altri detenuti della flottiglia Hamas Sumud sono sfacciate menzogne. Tutti i diritti legali dei detenuti sono pienamente tutelati”. E poi, sprezzante, ha aggiunto: “Thunberg e altri detenuti si sono rifiutati di accelerare la loro espulsione e hanno insistito per prolungare la loro permanenza in custodia. Greta inoltre non ha presentato reclamo alle autorità israeliane per nessuna di queste accuse ridicole e infondate, perché non sono mai avvenute”. L’attivista svedese - stando al sito israeliano di informazione Ynet - sarà espulsa oggi da Israele con un volo finanziato dalla Grecia. L’aereo decollerà dall’aeroporto Ramon, nel sud di Israele, e atterrerà ad Atene. Ma sono tante le testimonianze raccolte dal team legale internazionale che sta assistendo gli oltre 300 attivisti ancora nelle carceri israeliane. Gli avvocati denunciano “gravi abusi subìti” dai membri dell’equipaggio della Global Sumud Flotilla, detenuti in celle sovraffollate con scorte di acqua e cibo insufficienti. Qualcuno risulta ferito, “altri sono stati bendati e ammanettati per periodi prolungati. Una donna ha riferito di essere stata costretta a togliersi l’hijab e di aver ricevuto solo una camicia in sostituzione”. Ieri sera un’attivista della Flotilla è stata arrestata per aver dato un morso a una guardia carceraria nel carcere di Ketziot. Lo riferisce Channel 12. La donna, che avrebbe dovuto essere espulsa domani, è stata arrestata nuovamente e sarà portata oggi in tribunale. Pizzaballa: “A Gaza un percorso pieno di insidie, ma c’è uno spiraglio mai visto” di Gian Guido Vecchi Corriere della Sera, 6 ottobre 2025 Il cardinale e patriarca di Gerusalemme: “Il cessate il fuoco sarebbe il primo passo”. Come vede, eminenza, il piano Trump? C’è la possibilità che si arrivi a un’intesa? “Un clima di speranza si percepisce. Anche i media locali qui si mostrano speranzosi, ma con misura. Il fatto è che ci sono tante difficoltà, tanti punti interrogativi. C’è ancora tanto da fare. Tanto. Però questa è una possibilità che non si era mai vista prima”. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, ne ha viste tante. Sabato ha scritto un messaggio ai fedeli: “Le notizie parlano finalmente di una possibile nuova pagina positiva, della liberazione degli ostaggi israeliani, di alcuni prigionieri palestinesi e della cessazione dei bombardamenti e dell’offensiva militare. È un primo passo importante e lungamente atteso”. Ora sospira: “Speriamo che le pressioni internazionali abbiano effetto sulle parti, il governo israeliano e Hamas...”. I processi di pace o almeno di dialogo sono spesso scanditi da sabotaggi. Attentati e violenze, dall’assassinio di Rabin al pogrom del 7 ottobre, che in genere ottengono l’effetto voluto. Vede questi rischi? “Assolutamente sì, è un percorso pieno di insidie, come sempre. Però da una parte c’è anche tanta stanchezza, in tutti, una stanchezza che non può essere del tutto ignorata: basta. E dall’altra vediamo una forte pressione internazionale che apre un minimo di possibilità. Si è aperto uno spiraglio che non ha precedenti. Bisogna entrarci e cercare in ogni modo di allargarlo”. Una prospettiva di pace? “Pace è una parola impegnativa, richiede tempo. La fine di questa guerra orribile non sarebbe la fine del conflitto, il cessate il fuoco non è la pace. Però è un primo passo, la premessa necessaria per cominciare un percorso nuovo, diverso”. Ha detto che in 35 anni non ha mai visto un momento così duro in Terra Santa. Come ci si è arrivati? “Ci ho pensato a lungo. Certo, c’è stato il 7 ottobre. Ma la deriva era iniziata molto prima, una narrativa di disprezzo, di rifiuto, di odio, di supremazia da tutte e due le parti. Questa mentalità di esclusione, la negazione di qualsiasi forma di compromesso, il rifiuto di avere a che fare con l’altro, tutto questo non è una novità degli ultimi due anni. Ricordava l’assassinio di Rabin e anche quello non è nato dal nulla, questo clima c’era già allora, un atteggiamento che è cresciuto nel tempo. Ciò che sta accadendo ha bisogno di un contesto, si tratta di capire che è stato preparato e nutrito in un clima culturale ben definito”. A parte questo, qual è il pericolo più grande? “L’incapacità di trovare un compromesso. È chiaro che tutte le parti debbano rinunciare a qualcosa in vista di un bene maggiore, e vedo una certa difficoltà in questo. Poi ci sono anche questioni di reputazione, di coerenza con la linea presa. Certo sono decisioni che richiedono coraggio e devono essere sostenute dai mediatori e dalla comunità internazionale”. In Europa, e in particolare in Italia, si sono moltiplicate le manifestazioni per Gaza. Folle di famiglie, tantissimi studenti ma anche gesti estremi come l’imbrattamento della statua di Wojtyla. Lei che idea si è fatto? “Le cose estreme le lascerei da parte. Gli idioti ci sono sempre ma non rappresentano la bellezza della stragrande maggioranza della popolazione. Vedo una mobilitazione trasversale, e credo sia un aspetto importante da tenere in considerazione. Le immagini che arrivano da Gaza hanno risvegliato e fatto emergere qualcosa che abita la nostra coscienza, la dignità delle persone, dei diritti, della vita. Lo vedo come qualcosa di molto positivo, da valorizzare e da orientare bene. Crea anche un senso di comunità, di unità sulle cose importanti della vita che hanno accomunato tante persone, al di là degli estremisti”. Il Patriarcato era disponibile a consegnare, attraverso Cipro, gli aiuti della Flotilla. Che è successo? “Noi abbiamo cercato di aiutare, per trovare una soluzione che non fosse lo scontro. Non sapevamo cosa potesse accadere, la situazione era pericolosa, il nostro intento era dare una mano per ottenere il risultato di portare aiuti umanitari e insieme evitare pericoli alle persone. È andata diversamente. Noi restiamo sempre a disposizione per aiutare, ma non facciamo parte di nessuno schieramento”. Gaza è una distesa di macerie con centinaia di migliaia di sfollati. Come si fa? “È tutto da ricostruire. A Gaza City ancora è rimasto in piedi qualcosa ma altrove non c’è nulla. Non ci sono ospedali né scuole, le infrastrutture sono distrutte. Bisogna lavorare sui muri e sulle persone, perché lo stesso tessuto umano va ricostruito. Pensi agli orfani, agli anziani, alle famiglie. C’è da ricominciare da capo”. La Chiesa parla spesso di “purificazione della memoria”. Cosa significa? “Cominciare a riconoscere l’esistenza dell’altro, aprire gli occhi, fare i conti con la realtà. Ci sarà bisogno di tempo e di leadership politiche e religiose capaci di uno sguardo diverso sul presente”. Diverso come? “Si tratta di vedere l’altro, vedere che c’è. Cambiare la prospettiva per cui ciascuno si riconosce come la sola e unica vittima. Il linguaggio di odio disumanizza l’altro. Ciascuno è talmente dentro al proprio dolore che non trova spazio per quello dell’altro”. La missionaria suor Azezet: “La pace? È possibile, ma si impari dalle madri” di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 6 ottobre 2025 La religiosa comboniana si è raccontata alla rassegna Poeti sociali a Verona. Nata nell’Eritrea in guerra, ha vissuto per 14 anni tra Israele, Cisgiordania e Gaza. “Sono nata in guerra, ho seguito la mia vocazione in guerra, ho pregato tanto per la pace. Poi, vivendo per 14 anni tra Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza, ho smesso di pregare per la pace. Perché ho capito che quella è una guerra diversa da tutte le altre sperimentate sulla mia pelle. Scaturisce dall’assurdo desiderio di due popoli fratelli di eliminarsi a vicenda: io devo vivere e tu no. Così ho cominciato a pregare per la coesistenza. Un rabbino con cui lavoravamo mi ha detto: “Sister, non arriveremo a nulla fino a quando non riscriveremo i nostri libri di scuola, noi ebrei e loro musulmani, perché nella gran parte di quei testi instilliamo la paura dell’altro, da cui sgorga l’odio che ci uccide”. Fiducia - Suor Azezet Kidane, missionaria comboniana nata nell’Eritrea in guerra e che prima di seguire la sua vocazione aveva accarezzato l’idea di farsi guerrigliera, sparge attorno a sé “gocce di speranza” nonostante ogni giorno, da quando è giunta in Italia, riceva messaggi disperati da quella che era diventata la sua patria di adozione. “C’erano tanti segnali di distensione. Con i medici, i rabbini per i diritti umani e le tante organizzazioni umanitarie avevamo creato una rete di fiducia tra ebrei e palestinesi. Il sabato andavamo in Cisgiordania a curare i malati e il giovedì a Gaza. Nel nostro piccolo eravamo riusciti a far abbassare le difese. Israeliani e palestinesi si ritenevano cugini. Davvero ci si fidava. Per questo continuo a credere che la pace sia possibile, che tutto questo sangue innocente non andrà perduto”. Ora quei medici e quei rabbini per la pace vorrebbero ancora occuparsi dei palestinesi ammalati, “ma la paura si è annidata tra di loro, la fiducia nell’altro si è incrinata”. I palestinesi muoiono fisicamente ogni giorno, si distruggono le loro case. “Succedeva anche quando se ne parlava meno, un israeliano poteva arrivare un giorno e dire: adesso questa non è più la tua terra. Ma ascolta ciò che ti dico: stanno soffrendo anche gli israeliani. All’opinione pubblica non piace sentir dire questo. Eppure io vedo morti da entrambe le parti. Psicologicamente il popolo israeliano è morto. Ogni giorno amici ebrei mi scrivono. “Ma che cosa stiamo facendo?”. Una mia amica mi dice: “Il solo rimanere in Israele mi fa complice. Non so cosa fare. All’inizio i nostri figli volevano reagire, proteggere Israele. Adesso non vogliono più combattere. Preferiscono essere messi in prigione”. Suor Azezet ospite alla rassegna “Poeti sociali” della diocesi di Verona) ha raccontato di aver perso buona parte della sua famiglia nella guerra per l’indipendenza dell’Eritrea nella quale anche lei inizialmente credeva “Poi, alla fine, abbiamo ottenuto la nostra indipendenza, ma non la libertà che avevamo sognato. Vai a vedere questi signori della guerra e scoprirai che i loro figli non sono al fronte, studiano nelle università americane o europee, le loro famiglie stanno al sicuro, loro stessi non si espongono. Quasi sempre non fanno la guerra per guadagnarsi la pace; lottano per il loro potere”. Ha vissuto anche a Juba, sorella Azezet, dove si combatteva un’altra guerra d’indipendenza: “Anche lì tanta sofferenza. Ho conosciuto una donna analfabeta mai uscita dal suo villaggio. Un giorno mi ha detto: “Voglio scrivere una lettera a tutto il mondo”. E mi detta una poesia meravigliosa: basta guerra, basta fuggire, basta prendere i figli che partoriamo per ammazzarli. Vogliamo solo vivere in pace”. Forse la soluzione potrebbe essere quella di far governare il mondo dalle madri. “In Israele, con alcune donne ebree, portavamo i figli dei beduini al mare, che distava meno di un’ora di strada ma che i loro genitori non avevano mai visto. Era tale la loro emozione che decidemmo di portarci anche le madri. Ogni volta ne caricavamo sei o sette da ogni villaggio, anche in barca. Le ho viste piangere per la gioia e guardare con altri occhi gli israeliani che avevano mostrato loro un orizzonte nuovo. Basterebbe così poco per dare speranza…”. Le donne afghane e la piazza sognata di Giusi Fasano Corriere della Sera, 6 ottobre 2025 Per 48 ore in tutto il Paese il capo supremo dei talebani ha ordinato di “prevenire il vizio” e favorire la “moralità pubblica” tagliando completamente la connessione Internet. per le donne la Rete è l’unica possibilità per seguire lezioni online; l’unico sguardo aperto sul mondo; l’unica possibilità di comunicare con più persone contemporaneamente attraverso i gruppi di WhatsApp. Non hanno e non hanno mai avuto folle oceaniche a difenderle. In questi tempi mobilitazioni di piazza, per loro l’Occidente non ha né slogan da urlare né bandiere da sventolare. Il loro unico punto di luce è l’aiuto di alcune (poche) lodevoli organizzazioni umanitarie che provano a tenere acceso nelle loro vite il concetto di resistenza. E resistono eroicamente, le donne afghane. Resistono alla non-vita nella quale i barbuti del governo talebano tentano in ogni modo di relegarle. L’ultima spaventosa spinta verso il burrone è di pochi giorni fa. Per 48 ore in tutto il Paese il capo supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, ha ordinato di “prevenire il vizio” e favorire la “moralità pubblica” tagliando completamente la connessione Internet. Niente siti, informazione, contatto con il mondo. Niente social, niente whatsapp. Per tutti, ma soprattutto per le donne, che a differenza dei maschi sono già private della libertà e del diritto di parola, di emancipazione, di lavoro, di istruzione, di movimento (sono obbligate ad avere un “mahram”, un guardiano maschile, per spostamenti anche brevi). L’Afghanistan è il solo Paese al mondo a vietare la scuola alle ragazze oltre i 12 anni. E la Rete, dunque, è per loro l’unica possibilità per seguire lezioni online; l’unico sguardo aperto sul mondo; l’unica possibilità di comunicare con più persone contemporaneamente attraverso i gruppi di whatsapp. Adesso, dopo quelle 48 ore di stop, sanno che cos’è l’isolamento assoluto. Una specie di prova tecnica di malvagità per gli uomini che le opprimono dai vertici del potere politico, religioso, giudiziario, e che temono la scuola - il sapere che costruisce libertà - più di ogni altra cosa. Nessuno sa se e quando la “moralità pubblica” verrà di nuovo difesa a colpi di oscurantismo. Il provvedimento drastico preso l’altro giorno ha bloccato i sistemi bancari, ha creato caos nei trasporti, alle dogane, nelle transazioni economiche. Quando hanno ripristinato tutto, nella capitale la gente è scesa in piazza a festeggiare e commentare la felicità ritrovata. Non le donne, ovviamente. Che non possono esultare e parlare liberamente in pubblico. Una repressione di genere per noi inimmaginabile. Sognare non costa nulla. E allora io sogno che per loro, e per tutte le donne che i regimi vogliono oppresse, da questa parte del mondo si scenda in piazza a milioni a reclamare diritti necessari.