Non più ragazzini e non ancora uomini. Punirli o rieducarli? di Irene Famà La Stampa, 5 ottobre 2025 La sfida del carcere è reinserimento e recupero sociale: lo stabilisce la Costituzione, lo vuole il senso comune di speranza e umanità. E questa sfida, quando si tratta di ragazzi, è ancora più rilevante e significativa. Il passaggio dagli istituti penitenziari minorili a quelli per adulti è estremamente delicato e complesso, soprattutto quando si hanno davanti diciottenni o poco più: troppo grandi per stare con detenuti adolescenti, troppo piccoli per scontrarsi con il mondo dei reclusi adulti. Eppure il decreto Caivano, sbandierato dal governo Meloni come rimedio alla criminalità giovanile, ha ampliato i casi in cui un ragazzo può essere trasferito dagli Ipm alle carceri ordinarie. “Tolleranza zero con la delinquenza”, si diceva con forza. Pugno duro contro i giovani che sbagliano. Educare? No, punire. Così, se prima un appena maggiorenne poteva restare negli istituti minorili fino ai ventuno anni - e in certi casi pure fino ai venticinque - oggi il trasferimento “anticipato” è molto più facile. Sempre disposto da un magistrato di sorveglianza, certo, ma agevolato soprattutto per ragioni di ordine e sicurezza. In pratica: un ragazzo è violento, rompe gli equilibri all’interno del penitenziario, cerca di imporsi sugli altri, sfida l’autorità? Va spostato con gli adulti. Poco importa se, in quel contesto, dovrà confrontarsi con criminali di lungo corso e rischierà di essere sopraffatto, sottomesso o addirittura affiliato a reti criminali strutturate. “I rischi ci sono”, dice la procuratrice dei minorenni di Torino, Emma Avezzù. Donna equilibrata e di grande esperienza, invita a non banalizzare la discussione e si sofferma sulle contraddizioni della questione. È vero, un diciottenne che viene trasferito nelle carceri degli adulti può trovare “cattivi esempi” e imparare linguaggi e comportamenti criminali. Però “bisogna valutare caso per caso. Alcuni giovani chiedono di essere trasferiti per stare vicino a casa e poter ricevere più facilmente le visite dei genitori, dei fratelli, degli amici. Ad avanzare questa istanza sono soprattutto le donne: gli Ipm femminili, infatti, sono solo due, uno a Roma e uno Pontremoli, in Toscana”. I penitenziari ordinari, poi, spesso hanno più risorse e possono offrire maggiori progetti di lavoro, dalla ristorazione alla carpenteria, e iniziative di reinserimento. Da qui l’appello: “Per le carceri minorili servirebbero più risorse. Sono da potenziare e ripensare anche a fronte del cambiamento della popolazione”. I più grandi può capitare che chiedano di essere trasferiti per non doversi relazionare con compagni di cella appena adolescenti. Chi delinque è sempre più giovane e da quattro o cinque anni in carcere arrivano in prevalenza quattordici o quindicenni accusati di rapine, furti, violenza sessuale, lesioni. Per non parlare delle segnalazioni dei bambini non imputabili, spesso con meno di tredici anni. Per loro, però, la questione è differente: per legge, in carcere non possono finirci. Sono troppo piccoli per comprendere la gravità delle loro azioni, le conseguenze dei loro gesti. Cinquecento cinquantasei i maschi negli Istituti penitenziari minorili: tra i più affollati Roma, con cinquantadue presenze, Torino con quarantasei ragazzi e Catania che conta quarantatré detenuti. Diciassette, invece, le donne: undici a Pontremoli e sei a Roma. Oltre 1.200 i ragazzi, perlopiù tra i sedici e i diciassette anni, sono entrati negli istituti penitenziari per reati di spaccio o detenzione di droga. “Molti di loro sono anche assuefatti dalla droga e la dipendenza spesso amplia problemi psichici che non vengono dichiarati”, spiegano gli esperti. Che aggiungono: “Tra gli adulti, la situazione può solo peggiorare”. Si tratta soprattutto di ragazzi fragili, che arrivano da situazioni famigliari a rischio, economicamente in difficoltà, educativamente non adeguate, che si ritrovano senza risorse e punti di riferimento. Sono soliti ad agire in “branco”, come lo definiscono i sociologi, perché “trovano nell’agire insieme un modo per esprimere sentimenti di esclusione, assenza di prospettive, il non sapere chi sono”. È doveroso specificare un aspetto: quando si discute sulla permanenza negli Ipm di ultra-diciottenni (sino ai venticinque anni) si parla di ragazzi che hanno compiuto un reato da minori. Ci sono quelli reclusi in misura cautelare e quelli che devono scontare pene molto lunghe e che le diciotto candeline le spengono in cella. Valutare la possibilità di lasciarli in un istituto minorile, spiega Franco Prina, per anni giudice onorario al Tribunale dei minorenni di Torino, docente di sociologia della devianza, “ha avuto a lungo il senso molto positivo - pensando soprattutto a chi è condannato a pene medio-lunghe - di non interrompere percorsi di formazione professionale, di studio e i sostegni educativi”. Il professor Prina sottolinea un aspetto: “Oggi il problema riguarda l’estensione dell’uso del carcere per le misure cautelari e il fatto che negli Ipm vengono rinchiusi quasi maggiorenni difficili, con alle spalle storie terribili. Nelle istituzioni vedono un nemico, realtà e persone considerate ostili, di cui non fidarsi mai. E così sono, a volte, protagonisti di rivolte, resistenze, ribellioni”. La maggiore età diventa, per il sistema, il comodo lascia passare per “liberarsi di quel detenuto problematico, indocile, diventato un problema”. Prina è critico: “Invece di mettere in campo più strumenti di ascolto, più competenze di mediazione, più specialisti, si sceglie la soluzione più semplice: mandarli via”. Il pericolo? Che i trasferimenti anticipati diventino solo un modo per spostare i problemi, non per risolverli. E che le carceri per adulti finiscano per accogliere giovani ancora lontani dall’aver avuto una vera possibilità di cambiamento. Sfida educativa fallita. “Per un carcere umano”, intervista al magistrato Stefano Celli di Antonella La Morgia vocididentro.it, 5 ottobre 2025 È ripartito a settembre il digiuno a staffetta “per un carcere umano” per denunciare le condizioni degli istituti di pena, iniziativa che si aggiunge a quella di Rita Bernardini per sollecitare misure contro il sovraffollamento. L’iniziativa che ha unito avvocati delle camere penali e magistrati si è spontaneamente estesa attraverso i social anche ai cittadini. L’idea è nata ai primi di luglio davanti ad un caffè di Milano. Ce lo ha raccontato il magistrato Stefano Celli a cui abbiamo rivolto alcune domande. Stefano Celli è pubblico ministero presso la Procura di Rimini e vicesegretario generale dell’ANM. Ha lanciato l’iniziativa insieme all’Avvocata Valentina Alberta, ex presidente della Camera penale di Milano. Per aderire al digiuno a staffetta si può inviare una mail all’indirizzo peruncarcereumano@gmail.com. Dott. Celli, circa 500 persone hanno aderito da luglio al 13 agosto al vostro digiuno, avvocati, magistrati e semplici cittadini. La vostra iniziativa non violenta riprende ora con quale obiettivo? Prima di tutto vogliamo continuare a sensibilizzare il decisore politico e l’opinione pubblica e ampliare la cerchia di consapevolezza sulla situazione del carcere che ogni giorno peggiora, ed è diventata da drammatica a tragica. È chiaro che non tutti si devono “curare” della situazione dei detenuti, in senso tecnico. Ma al fondo della questione, c’è un problema di percezione. Molti sono convinti che la situazione della pena, com’è oggi scontata in carcere, sia un corollario accettabile della stessa. Gli ultimi dati parlano di un sovraffollamento del 144% e anche superiore. I suicidi dall’inizio dell’anno sono 62, ma la differenza di qualche numero in più o in meno a seconda di come si leggono i dati non li rende accettabili. Il tasso di suicidi nella società libera è dello 0,59% mentre per i detenuti è il 18%, cioè quasi 20 volte quello delle persone che non sono in carcere. Però, anche se eliminassimo con un colpo di bacchetta magica i suicidi, l’attuale situazione delle carceri resta insostenibile. Ci spieghi meglio perché? Perché la pena detentiva consiste secondo il Codice Rocco (scritto da un ministro fascista) nella privazione della libertà, non nella privazione di tutti i diritti. Non significa, solo per fare alcuni esempi, la perdita del diritto alla salute o all’igiene personale. Ci sono istituti in cui i detenuti hanno dovuto fare ricorso al magistrato di sorveglianza perché non veniva riconosciuto loro il diritto di fare una doccia (calda) almeno una volta a settimana. E di fronte a chi dice che il carcere “non è un albergo a cinque stelle”? Non è un albergo a cinque stelle, ma neanche deve essere una prigione turca. C’è indifferenza nell’opinione pubblica o cattiva informazione? C’è la convinzione abbastanza diffusa, anche tra le persone più moderate e mediamente sensibili, che il carcere anche se non è un albergo a cinque stelle è un luogo in cui tutto sommato si mangia, si beve, si dorme e non si fa niente. Una parte preponderante del mondo politico asseconda e alimenta questa convinzione, perché ne ha un ritorno di consenso elettorale, e batte sui luoghi comuni, molto diffusi in rete, secondo cui in carcere si sta bene e noi viviamo insicuri. Poi, sì, c’è anche una certa pigrizia ad informarsi, perché se si aprono quasi tutti i giornali, con toni e accenti diversi, il messaggio che si legge è sempre quello. Se non c’è una voce dissonante… a nessuno può venire il dubbio su che luogo il carcere sia effettivamente. Il digiuno può servire a far venire questo dubbio? Se arriviamo a dirlo col digiuno noi pubblici ministeri, che siamo identificati in quelli che, nel gergo comune, chiedono di mettere in galera le persone, allora questo dubbio dovrebbe proprio venire alla gente. Il sovraffollamento è una causa, anche se non l’unica, dei suicidi in carcere. Il Ministro Nordio quest’estate ha minimizzato il problema. Il Garante nazionale ha ricorretto il report inizialmente presentato sull’analisi dei decessi in carcere, dopo il richiamo del Guardasigilli. Come giudica questo episodio? Nella mia veste di magistrato non critico, ma mi limito a registrare il doppio contrasto di vedute: da un lato la posizione del Garante e quella del Ministro, dall’altro l’aggiustamento del Garante che ha dato luogo a una precisazione o dissociazione (ma non è poi così importante la differenza) del Prof. Serio, uno dei tre componenti il Collegio. La discrasia è nei fatti e non spetta a me dire se sia grave o meno. Noto però che l’episodio sia stato un “diversivo” che ha fatto concentrare sulle polemiche tra i vari organi, ma non ci ha fatto fare passi avanti rispetto ai problemi. Il punto fondamentale non è definire se il numero dei suicidi sia sopra o sotto la media, e come debba ciascuno degli organi fare il proprio lavoro. È importante denunciare la realtà e proporre dei rimedi. Occorrono subito provvedimenti deflattivi che più che svuotarle, rendano le carceri un posto vivibile. Altrimenti non si può fare rieducazione e la pena è inderogabilmente anche trattamento rieducativo. La maggior parte delle carceri non è Bollate. Quali proposte avete? Una è la liberazione anticipata speciale prevista nel Ddl Giachetti. Come magistratura associata, gli avvocati come camere penali insistiamo sull’urgenza e fondatezza della proposta. Ci sono molte divisioni tra l’ANM (Associazione Nazionale Magistrati) e le Camere penali, ma sul fatto che la situazione del carcere non è più tollerabile siamo tutti d’accordo. E insieme a noi ci sono l’associazione dei penalisti e numerosissimi professori di diritto costituzionale. Perché non c’è convergenza della politica su questa proposta? I processi sociali e di decisione hanno un grado di complessità che è figlio di una società a sua volta sempre più complessa e interconnessa. Occorrono politici veri, non politicanti, con la postura di statisti che sanno fare strategia e guardare lontano, non al risultato immediato. I reati hanno sempre un costo sociale. Da un punto di vista oggettivo il problema del carcere è serio e chi se ne deve occupare non sono i magistrati, non gli avvocati, i cittadini, ma il decisore politico. Il Governo non vuole tagli lineari... La proposta Giachetti-Nessuno Tocchi Caino non è affatto una soluzione di tagli lineari come l’amnistia o l’indulto e come erroneamente viene considerata anche dal Ministro Nordio. L’aumento dei giorni di liberazione anticipata non viene riconosciuto a chiunque, ma a chi ne ha già beneficiato. Se uno ha avuto i 45 giorni, ne avrà 75. Si facciano anche altre proposte, purché si ragioni a livello tecnico su misure veramente strutturali. Quali misure? Bisogna cominciare a pensare ad un carcere a tendenziale numero chiuso. Anche se il disegno di legge Giachetti venisse applicato, e sortisse un effetto benefico per un certo numero di mesi e anche di anni, è dichiaratamente provvisorio, perché la misura speciale interviene per un tempo limitato. Si vogliono costruire nuove carceri dalla mattina alla sera? Intanto che si costruiscono, si svuotino parzialmente quelle che ci sono. Ci vuole una depenalizzazione profonda insieme all’introduzione di misure diverse dalla sanzione detentiva. È dimostrato che per certe condotte la sanzione penale diversa dal carcere può essere efficacissima sia a livello preventivo che retributivo. La violenza secondo Aldo Capitini è anche un’oppressione cristallizzata nel tempo. I detenuti secondo lei sono degli “oppressi”? I detenuti per definizione patiscono una pena, e chi patisce una pena è oppresso da questa. Se noi intendiamo oppressi nel senso di “puniti ingiustamente”, invece la punizione è giusta e legittima, perché interviene secondo regole, dopo processi, sì più o meno lunghi, ma in cui l’imputato prima di venire condannato ha la possibilità di fare ricorso e far valere le proprie ragioni. Nel momento in cui però alla pena si aggiungono delle limitazioni ai diritti fondamentali, non transeunti ma permanenti, non dovute a un momento di aggiustamento o a condizioni straordinarie, la pena non è più legittima e giusta. Allora, in una certa misura, la potremmo definire uno strumento di oppressione. Faccio fatica a usare questo termine, perché chi opprime normalmente lo fa volontariamente e non si potrebbe dire che lo Stato volontariamente opprime. Piuttosto, a monte di questa limitazione perdurante dei diritti ci sono negligenza e scelte sbagliate della politica. Alcuni detenuti hanno aderito alla vostra iniziativa del digiuno. Hanno rischiato alla luce della recente norma introdotta sulla disobbedienza agli ordini e sulla resistenza passiva-rivolta? Prima o poi qualcuno solleverà il dubbio di legittimità costituzionale di questa norma, che al di là della Costituzione è del tutto irrazionale e contrasta con il buon senso. Non ho notizie di iniziative disciplinari o peggio penali conseguenti a queste adesioni. Digiunare in quanto si concreti nel non toccare, o passare ad un altro, il vitto comunque preso dal carrello, integra un gesto inequivocabilmente pacifico e non violento, anche nella visione più inquisitoria e persecutoria della nuova norma. Solo in una concezione diversa che individua il detenuto non come un soggetto, ma come un oggetto, cioè una cosa su cui si esercita un potere, - “Io ti dico: mangia e tu devi mangiare, perché te lo dico io” - il digiuno potrebbe essere letto in chiave di resistenza/rivolta. “Dentro e fuori il tunnel resta sempre buio” di Silvia Guidi L'Osservatore Romano, 5 ottobre 2025 “Sono in un tunnel e, dopo tutto quello che ho vissuto in Libia, vedo solo nero”. È la voce di un detenuto straniero in Italia. Una voce che racconta non solo la sua storia, ma quella di tanti altri. Perché, in carcere, nessuno sta bene, ma c’è chi sta peggio, rinchiuso non solo da quattro mura di cemento, ma anche dalle mura delle differenze linguistiche e culturali. Il sistema carcerario italiano attraversa una crisi profonda. Dall’inizio dell’anno, sessantuno persone si sono tolte la vita. Il sovraffollamento è pari al 135,5%, che vuol dire semplicemente che dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne sono 135. In mezzo a loro c’è Amin. Ha lasciato la Nigeria con l’idea di trovare lavoro in Italia. La famiglia gli ha dato gli abiti e i soldi per il viaggio. Il suo racconto è da brividi e il suo corpo porta i segni delle frustate che, a telefono aperto, gli venivano inflitte per chiedere alla famiglia altri soldi. Tutto questo accadeva in un garage/cella, torturato da uomini in divisa, tenuto in vita dai suoi aguzzini con un pezzo di pane raffermo e mezzo bicchiere d’acqua. Dieci giorni d’inferno che, poi, sono diventati venti, fino a quando non sono arrivati i soldi e Amin è stato buttato su un motoscafo, di notte, senza documenti. Sulla costa italiana è stato soccorso da alcuni volontari e portato in un centro di accoglienza. Amin era felice: pensava che il peggio fosse passato. Invece si ritrovava a dormire su un materasso steso per terra, con i servizi igienici impraticabili, le docce inesistenti e solo una canna d’acqua per lavarsi. Un giorno approfitta di una porta aperta: esce e se ne va senza un euro in tasca e senza documenti. Sale su un treno e arriva a Milano dove lo avvicinano alcuni connazionali. Scoppia una rissa, arriva la polizia e Amin finisce in carcere con un’accusa pesantissima. Non era la vita che aveva sperato, ma almeno riesce a farsi una doccia e a dormire su un materasso decente. Da mangiare non manca e il vitto rispetta il suo credo religioso. Amin non conosce una parola di italiano. Solo i volontari e il cappellano si prendono cura di lui dandogli dei vestiti e venti euro per chiamare la famiglia in Nigeria. Ma quando lo fa scopre che i suoi genitori sono morti. Nonostante i numeri - i detenuti stranieri sono il 31,6% di tutta la popolazione reclusa in Italia (19.660 su un totale di oltre 63.000) - il sistema carcerario si dimostra impreparato nella relazione con i migranti. Nessun mediatore stabile e quindi, a causa della lingua, difficoltà a comunicare con il personale carcerario e ad accedere a ogni tipo di iniziativa riabilitativa. Trasferito in un altro istituto di pena, Amin viene assegnato ai lavori interni. Per la prima volta vede poche decine di euro e può acquistare qualche bottiglia d’acqua e un po’ di pelati per cucinare un piatto di pasta e condividerlo coi compagni di cella. Ora pensa a cosa sarà della sua vita quando avrà finito di scontare la pena. E ha paura, perché, dopo la detenzione, il tunnel resta quasi sempre buio per lui e per tutti. Il carcere insegna una cosa sola: a vivere prescindendo dalla razza, dal colore della pelle, dalla lingua. Tutto questo è possibile nel rispetto vicendevole, ma non sempre riesce a essere garantito dalle istituzioni. Padova. Stanze dell’amore: “Così carcere più umano” di Claudia Guasco Il Messaggero, 5 ottobre 2025 Nel penitenziario Due Palazzi saranno inaugurati domani i locali per permettere ai detenuti incontri intimi. È il primo test in assoluto Italia e durerà quattro mesi. Una stanza con letto, televisore e bagno attiguo, senza possibilità di essere chiusa dall'interno. Si chiama stanza dell'amore e da domani sarà a disposizione dei detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. Per due ore e mezza, in totale riservatezza, potranno incontrare la moglie o la compagnia, rinsaldare il legame affettivo, ritrovarsi nell'intimità in un ambiente il più possibile domestico. Un'iniziativa con l'unico precedente già avviato nella casa circondariale di Terni, e altri in fase di elaborazione, che passeranno per una fase sperimentale. Quattro mesi, ha deciso la neodiretta Maria Gabriella Lusi, poi si tireranno le somme. Da una ricognizione effettuata dal Dap su dati aggiornati a fine dicembre dell’anno scorso, la platea di potenziali beneficiari è di quasi 17 mila detenuti. Non tutti potranno usufruirne: per motivi di sicurezza è escluso chi è sottoposto a regimi detentivi speciali, chi è stato sorpreso con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari e oggetti atti a offendere, i condannati per femminicidio. A decidere chi potrà accedere alla stanza dell’amore è il giudice di Sorveglianza, chiamato a esprimersi sui singoli casi. La svolta è arrivata un anno fa, con la sentenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto e tutelato il diritto all’affettività in carcere dichiarando l’illegittimità dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge o convivente senza il controllo a vista del personale di custodia quando non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina”. Ad aprile il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha fissato le linee guida, trasmesse ai direttori delle carceri per misurarsi con la nuova norma e organizzare la struttura. Così ha fatto a Padova Maria Gabriella Lusi, dopo la richiesta arrivata nelle scorse settimane da parte di tre detenuti: attraverso i loro legali si sono rivolti al magistrato di Sorveglianza che ha disposto l’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale. Il riconoscimento del diritto all’affettività dietro le sbarre è complicato sia fuori, sia dentro il carcere. Molti detenuti con moglie o compagna lo considerano un conforto nella solitudine della prigionia, tuttavia a preoccupare è la poca privacy di una stanza proprio accanto all’area dei colloqui e il timore di esporre la persona amata. Ma dopo la pronuncia della Consulta le resistenze non sono mancate dall’esterno. Chiarisce il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari: “Mi ero opposto a balzi in avanti da parte di qualche singolo istituto e spiego perché. Come amministrazione penitenziaria e ministero della Giustizia avevamo costituito un tavolo di lavoro, una squadra che stava esaminando come dare applicazione dal punto di vista pratico a quella sentenza che aveva sancito il diritto. Poiché la commissione stava approfondendo il tema, prima era necessario disporre di una uniformità nelle linee guida da adottare per contemperare le ragioni di sicurezza, dal lato del detenuto, e anche quelle della polizia penitenziaria per un’esecuzione senza problemi”. Linee guida alla mano, gli istituti si sono attivati, “alcuni hanno già gli spazi e altri si devono organizzare, oggi come governo e ministero ci stiamo impegnando per identificare aree adeguate per ampliare i posti disponibili per le celle”. In una previsione al 2027, afferma Ostellari, “abbiamo 10 mila posti in più, ciò che occorre oggi è aumentare gli spazi per garantire dignità ai detenuti e alle persone che nel carcere ci lavorano”. Proprio la polizia penitenziaria, tramite le proprie organizzazioni sindacali, ha espresso pareri fortemente negativi sulle stanze dell’amore. Questione di sicurezza e scarsità di personale, è stato messo in evidenza. “La polizia penitenziaria sa che il diritto all’affettività è riconosciuto dalla Corte costituzionale, noi abbiamo promosso il lavoro della commissione proprio per garantire anche l’aspetto della sicurezza, poi si vedrà nel corso dei prossimi mesi come andrà e se ci sarà bisogno di correzioni. Quando alla necessità di avere più personale, abbiamo fatto oltre 10 mila assunzioni, siamo convinti di essere sulla strada giusta per invertire la tendenza”. Padova. Stanza dell'amore in carcere, la rivoluzione sessuale e affettiva divide di Riccardo Magagna Il Gazzettino, 5 ottobre 2025 Favero (Ristretti Orizzonti): “Era necessaria”. Vona (Sappe): crea problemi. L'amore unisce, l'amore divide. Lunedì, come anticipato ieri da Il Gazzettino, partirà la sperimentazione per quattro mesi delle “stanze dell'amore”. L'affettività apre dunque le sbarre delle celle padovane e così molti cuori possono ricomporsi, a spezzarsi in due invece è l'opinione: da una parte c'è soddisfazione per questo traguardo dall'altra, invece, crescono le preoccupazioni soprattutto per ciò che potrebbe entrare dall'esterno e sfuggire alla sorveglianza. Intanto, vicino ai locali dove si svolgono i colloqui è stata preparata una camera con letto, lavandino e lenzuola dove i carcerati potranno trascorrere due ore e mezza di intimità con le proprie mogli o conviventi. Ci saranno tre turni: alle 8.30, alle 11 e 13.30. L'incontro avverrà in totale libertà e riservatezza nel pieno rispetto della privacy, lontano dallo sguardo della polizia penitenziaria e degli altri detenuti. Grande entusiasmo arriva dall'associazione di volontariato “Ristretti Orizzonti”, la rivista scritta dai detenuti del Due Palazzi. “Come redazione siamo stati fin dall'inizio convinti sostenitori di questa battaglia - spiega la direttrice Ornella Favero - Il primo numero di “Ristretti”, uscito nel 1998, parlava già di affetti e di sessualità negata. La possibilità di un rapporto completo con la propria compagna significa, semplicemente, garantire il diritto a mantenere e salvare una relazione d'amore. La politica non è riuscita a produrre una legge, nonostante in gran parte d'Europa i colloqui intimi siano realtà consolidata. È stato necessario un ricorso alla Corte Costituzionale che ha riconosciuto questo diritto, ma nemmeno quello è bastato”. Decisivo il ruolo della magistratura di sorveglianza: “Solo grazie al reclamo presentato da un detenuto, sostenuto dalla nostra redazione, e all'intervento di una giudice di sorveglianza che ha imposto al carcere di adeguarsi entro 60 giorni, si è finalmente arrivati a predisporre gli spazi - osserva Favero - Così nasce questa sperimentazione”. Di segno opposto la posizione del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. “Non siamo per nulla d'accordo con le modalità scelte - afferma il segretario regionale Giovanni Vona - Possiamo anche condividere i principi fissati dalla Corte Costituzionale, cioè l'importanza di coltivare la dimensione affettiva, ma per come è organizzata qui ci sembra tutt'altro. Di fatto è stato ufficializzato quello che definirei un “iperrealismo di Stato”: nella stessa area dove si svolgono i colloqui visivi ora ci saranno anche questi incontri intimi, con tutto ciò che comporta”. Il problema potrebbe essere di tipo organizzativo e di sicurezza. “Già oggi alcuni detenuti cercano di introdurre stupefacenti o cellulari occultandoli in parti intime - racconta Vona - Perché non pensare che possano tentare di farlo anche durante questi incontri? Il carcere resta carcere, e il rischio che certi ambienti criminali sfruttino queste occasioni per i propri interessi non è da sottovalutare. Si dice che saranno autorizzati solo i detenuti modello, ma anche in passato detenuti “eccellenti” hanno portato droga all'interno. Non possiamo sottovalutare nulla: la sicurezza ricade tutta sulla polizia penitenziaria, che già oggi soffre di una carenza di organico stimata in oltre cento unità”. Secondo il Sappe la soluzione poteva essere diversa: “Se davvero si vuole riconoscere un diritto, lo si faccia attraverso i permessi premiali già previsti. Vedo una concessione che potrebbe essere difficile da gestire”. Scandurra: “L'affettività in cella non sia un tabù, altre strutture pronte ad attivarsi” di Claudia Guasco Il Messaggero, 5 ottobre 2025 Finalmente. La stanza dell'amore nel carcere di Padova inserisce l'Italia in un quadro normativo europeo e internazionale nel quale misure di questo tipo già esistono. Ci porta anche in un ambito di legalità costituzionale che non è un'iniziativa meritoria, ma deriva da una sentenza che obbliga il sistema a uniformarsi. Purtroppo non accade ovunque, nelle nostre visite verifichiamo che in alcuni istituti si sta ragionando sulla creazione di questi spazi, in altri non ci si pensa nemmeno. È un traguardo importante anche se difficile da raggiungere, Padova dimostra che si può fare”, riflette Alessio Scandurra, coordinatore dell'Osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione. Quali sono le resistenze? “Per tanti anni l'affettività dietro le sbarre è stata considerata un tabù. Per la Polizia penitenziaria la gestione viene considerata una un aspetto degradante della propria professionalità. Ma è un fatto puramente culturale. È normale che il carcere debba farsi carico delle necessità quotidiane e pratiche di un detenuto, bisogni minuti come un materasso da cambiare o esigenza pratiche, ma anche l'affettività è una dimensione di ordinarietà nell'esistenza di ciascuna persona”. Parlando con i reclusi la mancanza di contatti è una necessità manifestata? “A lungo c'è stato un certo pudore nell'affrontare questo aspetto da parte dei detenuti, è difficile trovare le parole giuste. Oggi la questione è più sentita e ci sono aspettative a riguardo. Il punto fondamentale è che quando una persona esce dal carcere ha bisogno di un tetto sopra la testa e di cibo in tavola nel giro di poche ore e la famiglia è il luogo più ovvio deputato all'accoglienza. Purtroppo la detenzione distrugge i legami e questo è anche conseguenza di una frattura nell'affettività”. Dopo Padova ci saranno altre stanze dell'amore? “A breve dovrebbe aprire quella nel carcere femminile di Trani. Se in alcuni Istituti le cose cominciano a muoversi, in altri ancora no. Da parte di alcuni direttori si avverte un po' di fatica, è una novità importante e c'è chi la porta avanti con molta determinazione. Ma ora abbiamo le indicazioni della Corte costituzionale e del Dap, a questo punto il mandato è chiaro. Le resistenze ci sono, poco alla volta bisogna superarle”. Napoli. Detenuto muore in carcere. Il Garante: “Condizioni invivibili” Il Mattino, 5 ottobre 2025 L'uomo, 56 anni, è stato stroncato da un infarto. La polemica: “In stanze con 10 persone impossibile anche aprire la finestra”. Un 56enne detenuto nel carcere di Poggioreale a Napoli è morto ieri sera, stroncato da un infarto. A darne notizia è il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che questa mattina ha visitato il carcere di Poggioreale e il reparto nel quale ieri sera è morto il 56enne italiano. Nel carcere, ricorda Ciambriello, “sono presenti 2.137 persone. Fino al 31 luglio di quest'anno vi sono stati 2 suicidi, 24 tentativi di suicidio, 196 atti di autolesionismo, un decesso per cause da accertare e 9 decessi per cause naturali. A oggi, in Italia 182 morti in carcere, di cui 65 suicidi, 5 in Campania”. Secondo Ciambriello “il sovraffollamento, celle da 6, 7 e 10 persone, letti a castello che impediscono di aprire le finestre, spazi angusti, problemi igienici sanitari costituiscono trattamenti inumani e degradanti. Chi deve intervenire? Non solo la politica, ma anche le Procure, la magistratura di sorveglianza e le Asl. La politica che nella custodia del detenuto non impedisce che il detenuto muoia perde il suo mandato costituzionale. Le morti, i suicidi sono anche la tragica conseguenza di fattori prevedibili. Occorre farsi carico delle vulnerabilità e della dignità negata, la vita in carcere deve continuare, il carcere non sia un buco nero o una tragica fatalità”. Cuneo. Si aggrappa alle griglie del carcere durante l’ora d’aria: detenuto condannato a 2 mesi di Barbara Morra La Stampa, 5 ottobre 2025 Si è concluso con una condanna a due mesi il singolare processo a T.R., 45 anni, detenuto presso la casa circondariale di Cuneo, imputato per interruzione di pubblico servizio. Il motivo? Un’ora intera trascorsa aggrappato alle griglie anti-scavalcamento del “passeggio” interno del carcere, durante l’ora d’aria. Era il 4 ottobre 2021 quando l’uomo, al termine delle due ore previste all’aperto, si è rifiutato di rientrare in cella. Tre agenti di polizia penitenziaria, come ricostruito in aula, lo hanno invitato più volte a scendere, ricevendo in cambio solo una richiesta perentoria: “Voglio una cella singola!”. Secondo l’accusa, sostenuta in aula dal pubblico ministero Alessandro Bombardiere, la protesta plateale ha inevitabilmente bloccato il normale svolgimento delle attività di sorveglianza dell’istituto, da qui l’accusa di interruzione di pubblico servizio. Il rappresentante dell’accusa ha chiesto la condanna a due mesi, tenendo conto del parziale vizio di mente riconosciuto da una perizia psichiatrica. L’avvocata della difesa, invece, ha cercato di smontare l’impianto accusatorio puntando sull’eccentricità del gesto: “Un comportamento bizzarro non può necessariamente assumere rilevanza penale” ha detto. “È stato già sanzionato in via disciplinare. Inoltre, le sue condizioni di salute sono gravissime. Mi appello al vizio parziale di mente accertato dalla perizia”. Il giudice, pur accogliendo in parte le attenuanti, ha deciso per la condanna: due mesi. Nessuna pena accessoria o custodia aggravata. Firenze. Detenuti a lezione dagli scalpellini, la pietra serena diventa una seconda possibilità La Nazione, 5 ottobre 2025 Partito il corso autunnale della scuola degli Scalpellini di Firenzuola riservato ai detenuti tra i 19 e i 29 anni, organizzato nell’ambito del Progetto Serena (dal nome della pietra) da Associazione Volontariato Penitenziario, dall’Associazione Seconda Chance impegnata nell’inclusione lavorativa dei detenuti, e dall’Associazione Scalpellini di Firenzuola, della quale fanno parte i maestri che introdurranno i giovani ai segreti di un mestiere che rischia di scomparire. Fino al 30 novembre, tutti i sabati e le domeniche, cinque giovani detenuti nell’Istituto penale minorile, nel carcere di Sollicciano e nell’Istituto Gozzini, accompagnati dai tutor, raggiungeranno Firenzuola per prendere confidenza con la pietra serena - dalla visita alle cave a quella del Museo della pietra serena - e soprattutto imparare i rudimenti del mestiere nei laboratori di imprese della zona sotto la guida dei maestri scalpellini. “Si tratta - spiega Simone Bonciani, presidente dell’associazione scalpellini - del secondo corso. Al primo, fatto a giugno e luglio, hanno partecipato quattro detenuti vicini alla fine della pena. Due di loro sono in corso di valutazione da parte delle aziende, per una eventuale assunzione”. Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e la collaborazione della Fratellanza Militare di Firenze. A conclusione del corso ai partecipanti sarà rilasciato un attestato, con l’obiettivo di introdurre i giovani detenuti ad un mestiere affascinante e richiesto, in stretto contatto con i professionisti e le imprese del settore aprendo loro anche la strada di una possibile occupazione. Busto Arsizio. “Il carcere non basta, rieducazione e lavoro per dare futuro a chi ha scontato la pena” varesenews.it, 5 ottobre 2025 Il cappellano del carcere Don David Maria Riboldi e l'ex politico Nino Caianiello: lanciano un appello alle istituzioni affinché si superi l'idea puramente punitiva del carcere: “In cooperativa solo uno su 35 è tornato dentro”. Non finisce tutto con la scarcerazione. Anzi, spesso il vero percorso di reinserimento inizia proprio lì, fuori dai cancelli del carcere, dove però mancano strutture e strumenti adeguati per accompagnare chi ha scontato la propria pena verso una nuova vita. Se ne è parlato con don David Maria Riboldi, cappellano e fondatore della cooperativa sociale La Valle di Ezechiele, e Nino Caianiello, ex politico ed ex detenuto, oggi impegnato nella stessa cooperativa per offrire una seconda possibilità a chi, come lui, ha vissuto l’esperienza del carcere nel podcast di Radio Materia “Chi l’avrebbe mai detto”. “Non esiste un vero sistema istituzionale per il reinserimento dei detenuti - ha spiegato Don David -. Il lavoro viene lasciato quasi interamente al terzo settore, che però ha risorse limitate e non può da solo garantire un percorso efficace per tutti”. È proprio per rispondere a questa mancanza che è nata La Valle di Ezechiele, una realtà che offre opportunità lavorative e percorsi di accompagnamento sociale a chi esce dal carcere. Il lavoro, in particolare, è considerato lo strumento principale per evitare la recidiva. “A chi ha pagato il proprio debito con la giustizia serve una possibilità concreta - ha aggiunto Don David -. Senza una prospettiva, è facile tornare negli stessi circuiti che hanno portato alla detenzione”. Accanto a Don David, la voce di Nino Caianiello ha portato la prospettiva di chi ha vissuto in prima persona il carcere. “Il recupero non è solo un fatto umano, ma una questione di sicurezza sociale - ha sottolineato. Se non si costruisce un sistema che accompagni davvero il reinserimento, la recidiva è quasi certa. Servono politiche serie e strutturate che guardino al carcere non solo come punizione, ma come occasione di cambiamento”. Caianiello ha raccontato la propria esperienza, ma anche l’impegno attuale nella cooperativa: “Cerco di restituire quello che ho imparato. Ho avuto una seconda possibilità, ed è giusto fare in modo che altri possano averla. Il carcere deve essere un passaggio, non una condanna a vita”. Recuperare è possibile, ma serve una rete - L’incontro ha evidenziato con forza l’importanza della rete tra enti, istituzioni, terzo settore e comunità locali per rendere il reinserimento una realtà possibile. Senza una sinergia concreta, chi esce dal carcere rischia di trovarsi solo, con il passato come unico orizzonte. Don David e Caianiello lo ripetono più volte: recuperare è possibile, ma non accade per caso. Servono percorsi pensati, risorse, lavoro e fiducia. E soprattutto, una società pronta ad accogliere chi ha sbagliato e ora vuole ricominciare. Torino. “LiberAzioni”: per un dialogo con il carcere di Antonia Fama collettiva.it, 5 ottobre 2025 Dall’1 al 16 ottobre Torino ospita la quinta edizione, promossa dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Film, spettacoli, laboratori tra dentro e fuori. Torna a Torino, per la sua quinta edizione biennale, LiberAzioni, il festival delle arti dentro e fuori il carcere, che dal 1° al 16 ottobre proporrà film, spettacoli, presentazioni, laboratori a ingresso libero. Fra gli ospiti Andrea Pennacchi, Daniele Mencarelli, Paola Bizzarri, Celina Escher, Edgardo Pistone e la compagnia Voci Erranti. Due settimane, dedicate al dialogo tra le persone detenute e il resto del mondo, per costruire ponti attraverso l’arte. Il festival è promosso da un gruppo di associazioni culturali e del terzo settore, coordinate dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Valentina Noya, direttrice artistica di LiberAzioni, quale è stata dieci anni fa la scintilla all’origine del festival? Sono passati ben dieci anni da quando nacque l’idea, che come Associazione Museo Nazionale del Cinema condividemmo insieme a un gruppo di cooperative e realtà del terzo settore. Una compagine molto ampia, che oggi anima ancora il Festival LiberAzioni, l’apice di un lavoro che va avanti per tutto l’anno, con uno sforzo importante, collettivo e capillare. La scintilla è scoccata dal nostro impegno quotidiano per il reinserimento lavorativo e i diritti delle persone private della libertà personale. Grazie a una rete di sostegni sia pubblici che privati, negli anni abbiamo portato avanti un’idea di festival che favorisse l'osmosi tra il dentro e il fuori, partendo dal presupposto che le persone recluse lo sono per un tempo limitato della loro esistenza. Le persone non sono il loro reato ma necessitano, nel periodo in cui sono recluse, di compiere un percorso che le renda preparate a reinserirsi nella società. E proprio l’arte, attraverso il dialogo, può alimentare questo scambio tra due mondi che non devono essere intesi come dicotomici. Qual è secondo lei il punto debole di questo processo di rieducazione oggi? A mio parere è la delega pressoché totale da parte delle istituzioni nei confronti degli enti culturali e del terzo settore, che si trovano a dover supplire alle lacune dello stato sociale. Oggi sono le realtà associative a farsi in gran parte carico di quello che la politica trascura, mentre lo stato sociale viene progressivamente eroso. Il carcere è il riflesso di questo processo. Per esempio molti docenti, che abitualmente insegnano in carcere, negli ultimi tempi lamentano quanto ciò sia diventato più difficile. E invece è importante garantire anche dietro le sbarre il diritto universale allo studio. Il tempo del carcere deve essere assolutamente valorizzato. Per quali motivi questi progetti stanno subendo dei ridimensionamenti? Innanzitutto per via degli scarsissimi investimenti pubblici destinati alla riabilitazione delle persone recluse. Ma anche a causa di una chiusura sempre più ideologizzata da parte delle istituzioni. Le realtà culturali come la nostra fanno sempre più fatica a inserire nella loro programmazione le attività realizzate per e con le persone detenute. Alla luce di quanto detto fino ad ora è chiaro che un festival come LiberAzioni si pone tra gli obiettivi quello di fare pressione sulle istituzioni. Ma vuole anche parlare all’opinione pubblica, smontando stereotipi e preconcetti sulla detenzione? Certamente. Tra i problemi principali del carcere c’è quello di essere un mondo chiuso. Quello che noi cerchiamo di fare da dieci anni è dunque mostrare l'altra faccia del carcere, quella umana. Quest’anno abbiamo scelto di aprire con un documentario che ci è piaciuto molto e che ha avuto una sola anteprima in Italia, al Festival dei Diritti Umani di Milano. Si tratta di Tehachapi, realizzato dall’artista francese JR all'interno della prigione di massima sicurezza di Tehachapi, in California. Un film estremamente commovente, che invita a riflettere su quanto l'arte possa essere una forza incredibile per cambiare le vite e costruire consapevolezza. Il Festival si svolge sia dentro al carcere che fuori, è una rassegna diffusa... Avremo due giornate dedicate completamente alla popolazione detenuta, con la restituzione di uno dei laboratori di scrittura creativa che abbiamo condotto quest'anno con gli scrittori Alessio Romano e Daniele Mencarelli. Ci sarà lo spettacolo di Andrea Pennacchi, e diversi momenti di formazione per film maker totalmente gratuiti. E poi il vostro concorso nazionale di corti e film. Com’è cambiata la narrazione del carcere in questi anni, vista attraverso i lavori che partecipano? Il carcere ha sempre rappresentato un mondo interessante per il cinema, perché misterioso, chiuso in sé stesso e dunque stimolante da raccontare. Purtroppo, negli anni, c’è stato un peggioramento. Non per il livello e la qualità dei lavori pervenuti, ma per la difficoltà crescente di raccontare una realtà che diventa sempre più chiusa rispetto al mondo esterno. Pensiamo a un film come Tutta colpa di Giuda, per la regia di Davide Ferrario, nostro presidente onorario. Lo abbiamo proiettato nel corso dell’edizione 2023, ma risale a circa vent’anni fa. Un film che oggi sarebbe impensabile girare, a cui parteciparono addirittura diversi agenti di Polizia Penitenziaria. Un grande set allestito tra le mura del carcere, in cui la troupe si mischiava alla popolazione detenuta e agli agenti. Un'opera realmente collettiva, che oggi sarebbe totalmente impensabile. Quando parliamo di detenzione non ci riferiamo solo alle carceri, ma anche altri luoghi come i cpr, in cui le persone vengono private della loro libertà personale e spesso a torto. Il Festival parla anche di loro e a loro... Partiamo da un paradosso che ha sottolineato l’Asgi, (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione). Nel nostro paese vengono detenute anche persone che non hanno commesso reati penali, per esempio quelle prive di documenti regolari per poter permanere sul suolo italiano. Ne parleremo con Lorenzo Figoni e Luca Rondi di Altraeconomia, autori della bellissima inchiesta Gorgo cpr, che squarcia il velo sulle “galere per stranieri”. Veri e proprio gorghi in cui le persone scompaiono, vengono inghiottite in un limbo,dove sprofondano in situazioni di disagio psichiatrico grave. Persone che non parlano la lingua e che vengono imprigionate spesso senza capire le ragioni precise per cui si trovano lì dentro, né per quanto dovranno restarci. Le condizioni dei cpr nel nostro paese non sono lontanamente paragonabili a quelli delle carceri, nel senso che nei centri per il rimpatrio si vive in condizioni di degrado, in cui le persone dormono nello stesso luogo dove mangiano e dove espletano i loro bisogni fisiologici fondamentali. Sono luoghi in cui i diritti umani vengono sistematicamente violati, e questo non dovrebbe essere ammissibile in uno stato di diritto. “Zitta e buona”: Stefanini e le altre vittime del terrorismo di Claudia Labati Libertà, 5 ottobre 2025 Nel podcast di Elisabetta Fusconi prodotto da Radio 24. La storia del nostro Paese si ricostruisce anche grazie alle voci. Grazie a questo bellissimo e completo podcast “Zitta e Buona” di Elisabetta Fusconi, prodotto da Radio 24, riusciamo ad immergerci completamente negli anni tremendi e sanguinari del terrorismo in Italia: voci che escono a un “mangianastri” - come lo chiamava mia nonna - un po’ metalliche, sporcate dall’imperfezione, ma che ci ricordano quanto la memoria sia un atto di resistenza civile. L’autrice si imbatte in un articolo di Giovanni Bianconi che ricordava la storia di due donne vittime della furia brigatista: Germana Stefanini, 57 anni, dipendente penitenziaria a Rebibbia, addetta allo smistamento dei pacchi per le detenute, e Giuseppina Galfo, medico penitenziario nello stesso carcere: vittime innocenti di attacchi efferati da parte del Nucleo per il Potere Proletario Armato, irriducibili militanti del terrorismo rosso. Era il 1983, si viveva tra gli strascichi di quelli che erano stati gli anni di piombo e un clima di apparente leggerezza, ben lontano dagli anni bui appena trascorsi. Eppure, il seme della violenza alimentata dall’odio politico non è ancora stato estirpato. La giornalista inizia un lungo lavoro di ricerca: ben nove faldoni polverosi, pieni zeppi di documenti, registrazioni magnetiche e un’audiocassetta. Ed ecco il punto di svolta del podcast: la voce di Germana Stefanini, terrorizzata ma mai supplichevole, ci investe con una forza quasi insopportabile: È la voce di un’interrogata durante un “processo proletario” mentre risponde alle domande incalzanti del comitato di esecuzione dei tre giovani brigatisti armati che la incalzano con domande rabbiose e toni durissimi. Ancora una volta l’ascolto ci riporta ad una dimensione reale, direi storica, quasi più delle immagini. La vera forza dei podcast, lo sostengo da sempre. Ore di interrogatorio incalzante, i toni duri, e quell’ordine ripetuto: “Zitta e buona”. La condanna è già scritta, annientamento. Dopo ore di incubo, Germana verrà uccisa e ritrovata nel bagagliaio di una Fiat 131, proprio come accadde anni prima con Aldo Moro. Un processo proletario in piena regola, che aveva subito due mesi prima anche la dottoressa Giuseppina Galfo: sequestrata, interrogata e registrata dal vivo, ferita alla testa. Contro ogni previsione sopravvisse, diventando la prima vittima designata di una campagna contro le carceri che i brigatisti volevano portare avanti con spietata determinazione. La serie podcast prosegue con la ricostruzione della cattura dei tre responsabili - Francesco Donati, Carlo Garavaglia e Barbara Fabrizi - che ancora oggi scontano la loro pena, senza mai essersi pentiti o dissociati dalle loro azioni sanguinarie. Una parte difficile da ascoltare, perché l’efferatezza dei gesti resta inspiegabile, soprattutto quando ha per bersaglio due donne che facevano semplicemente il loro lavoro. Un podcast assolutamente imperdibile, ben calibrato tra documenti audio e interviste ricche di senso: mai una parola giudicante, fuori posto, solo un importante lavoro di ricostruzione intelligente ed emozionante. Direi, necessario. Negli anni Settanta e Ottanta, le carceri italiane erano luoghi di tensione continua. Celle sovraffollate, condizioni igieniche precarie e un sistema penitenziario percepito come disumano alimentavano un forte malcontento sociale. In quegli anni maturò quella che venne definita la “rivoluzione carceraria”: un intreccio di proteste, rivolte interne e campagne di denuncia che coinvolsero tanto la sinistra istituzionale quanto i movimenti extraparlamentari. La prigione diventava simbolo di oppressione e terreno fertile per un discorso politico che metteva insieme richieste legittime di riforma e derive violente. Mentre giornali, associazioni e intellettuali sollevavano l’attenzione sulle condizioni disumane dei detenuti, i gruppi eversivi scelsero di radicalizzare questa battaglia. Per formazioni come il Nucleo per il Potere proletario armato, legato all’orbita brigatista, la lotta contro le carceri non poteva fermarsi a manifestazioni o articoli di denuncia: doveva trasformarsi in “giustizia rivoluzionaria”. Da qui la scelta di colpire chi nelle carceri lavorava. Nel 1982 viene rapita e ferita il medico penitenziario Giuseppina Galfo; pochi mesi dopo, nel gennaio 1983, la dipendente penitenziaria Germana Stefanini viene sequestrata e uccisa. Sono le prime, e uniche, donne mai prese di mira dal terrorismo rosso: simboli di un’istituzione ritenuta da abbattere, più che persone. Negli anni successivi, la memoria di Germana è stata più volte onorata. Nel 2007 le è stata conferita la Medaglia d’oro al Merito civile, nel 2012 Roma le ha dedicato una strada e dal 2017 la Casa circondariale femminile di Rebibbia porta il suo nome. Nel novembre 2023 una cerimonia ufficiale l’ha ricordata alla presenza del Guardasigilli e dei vertici dell’amministrazione penitenziaria. La famiglia, tuttavia, non si è mai costituita parte civile nei processi contro i suoi assassini, preferendo lottare affinché la memoria di Germana Stefanini venisse ricordata dalle istituzioni e soprattutto dalle donne. John Harsanyi e il sogno di una giustizia matematica di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2025 Resta da chiedersi se davvero la vita morale possa essere compressa in un calcolo. John C. Harsanyi è nato tra le macerie della storia nella Budapest del 1920 e cresciuto nel clima inquieto dell’Europa dei totalitarismi. Brillantissimo negli studi nel 1944 si laurea in farmacologia. Durante l’occupazione nazista, in quanto ebreo, viene rinchiuso in un campo di concentramento e costretto ai lavori forzati. Riesce a salvarsi grazie ad una fuga rocambolesca e alla protezione che trova in una comunità di gesuiti. Dopo la guerra è nuovamente a Budapest dove si rimette a studiare e ottiene il dottorato in filosofia e sociologia. Si converte al cattolicesimo, inizia a studiare teologia ed entra in quello che allora si chiamava terz’ordine domenicano. Ma nell’istituto di sociologia dell’Università di Budapest dove aveva iniziato a lavorare il clima per lui inizia a farsi pesante a causa delle sue idee radicalmente antimarxiste. Il regime comunista non lasciava grande spazio a pensatori indipendenti e Harsanyi è costretto alle dimissioni. Per anni lavora nella farmacia di famiglia, di notte studia Kant e Mill, e intanto osserva i disastri dell’autoritarismo su singoli e comunità. Nel 1950 decide di rischiare tutto; con la moglie Anne attraversano clandestinamente il confine austriaco, in fuga dal regime. I due si trasferiscono prima in Australia dove la moglie aveva dei parenti e dove Harsanyi di giorno lavora in una fabbrica e la notte studia economia. È davvero brillante e prima ancora della laurea inizia a pubblicare i suoi saggi sulle più importanti riviste accademiche del settore. Grazie ad una borsa di studio riesce a partire per gli Stati Uniti. A Stanford incontra il futuro premio Nobel, Kenneth Arrow, di un anno più piccolo di lui ma già una superstar dell’economia matematica. Arrow lo prende sotto la sua ala protettiva, Harsanyi studia e pubblica e nel 1959 ottiene un secondo dottorato. Dopo un breve ritorno in Australia, nel 1964 viene chiamato dall’Università di Berkeley in California, dove passerà il resto della sua vita accademica. È in questo contesto di vita e di pensiero che matura la sua convinzione più profonda: l’etica non può dipendere da emozioni volubili o da autorità arbitrarie, ma deve avere la forza del calcolo razionale, capace di resistere ai venti della storia. Se le società vogliono evitare i disastri del Novecento, devono darsi regole imparziali, costruite con la stessa solidità con cui la scienza costruisce le sue leggi. La giustizia o è razionale o non è giustizia. Così inizia ad applicare le tecniche matematiche che aveva iniziato a sviluppare in gioventù - la teoria dei giochi ad informazione incompleta - ai problemi fondamentali dell’etica sociale. Per lungo tempo, l’economia tradizionale aveva rifiutato l’idea che fosse possibile confrontare le utilità di individui diversi. Vilfredo Pareto, ad esempio, sosteneva che la teoria economica potesse dire se una situazione A fosse migliore di una certa situazione B solo se era possibile dimostrare che passando da B ad A avremmo ottenuto il miglioramento del benessere di qualcuno senza, contemporaneamente, ridurre il benessere di nessun altro. Il problema è che questo approccio impediva di parlare seriamente di giustizia distributiva: se non posso dire se un miglioramento per un povero valga più o meno della perdita di un ricco, non posso discutere razionalmente di equità, redistribuzione o welfare. Harsanyi invece sostiene che non solo possiamo confrontare le utilità tra individui differenti, ma che dobbiamo farlo se vogliamo prendere sul serio i problemi della giustizia distributiva. Non è assurdo dire che il beneficio marginale di un ricco - il piacere di una vacanza extra, il lusso di una nuova auto - valga meno del sollievo di un povero che grazie a un sussidio a all’accesso gratuito ai servizi può curarsi, mandare i figli a scuola, vivere una vita dignitosa. In questa prospettiva, le politiche redistributive non appaiono più come un imperativo morale generico, ma come il risultato di un calcolo razionale: ciò che si perde da un lato pesa infinitamente meno di ciò che si guadagna dall’altro. Per giustificare questo passaggio è sufficiente un semplice esercizio: dobbiamo provare a ragionare dietro il “velo di ignoranza”. L’idea che in genere si fa risalire alla Theory of Justice di John Rawls pubblicata nel 1971, in realtà era stata introdotto da Harsanyi in un saggio pubblicato nel 1953 sul Journal of Political Economy. Ragionare dietro il “velo d’ignoranza” vuol dire ragionare sulle regole del gioco senza sapere in anticipo in che ruolo giocheremo. L’implicazione che Harsanyi sviluppa è che in questa condizione di imparzialità, ciascuno dovrebbe operare per massimizzare l’utilità attesa della collettività, come se stessimo scegliendo una polizza assicurativa contro il rischio di finire nelle posizioni più svantaggiate. In termini più formali, la società dovrebbe organizzarsi cercando delle regole capaci di massimizzare una funzione di utilità sociale che abbia come obiettivo la somma, o la media, delle utilità individuali, tutte pesate allo stesso modo. Harsanyi non si limita a descrivere questa intuizione, ma elabora una dimostrazione formale - il cosiddetto “Teorema di Harsanyi” - secondo cui, se accettiamo alcuni assiomi di razionalità e imparzialità, l’unica funzione di utilità sociale coerente è quella di tipo utilitarista. Un approccio nel quale Adam Smith incontra Immanuel Kant, Jeremy Bentham e John Stuart Mill. Da Smith riprende l’idea dello “spettatore imparziale” che troviamo originariamente nella Teoria dei sentimenti morali (1759). Un osservatore ideale che ciascuno porta dentro di sé e al quale rivolge lo sguardo interiore quando deve giudicare le proprie azioni. Per Smith, questa figura è anzitutto psicologica e morale: è ciò che ci permette di valutarci con un minimo di distacco, immaginando come appariremmo agli occhi di un altro che dovesse osservare le nostre azioni dall’esterno. Harsanyi riprende questo spunto ma lo trasforma radicalmente. Per lui l’osservatore imparziale non rappresenta tanto la coscienza interiore, quanto un costrutto teorico che consente di fondare l’utilità sociale. Mentre Smith mirava a spiegare la genesi della moralità nei rapporti interpersonali, Harsanyi cerca di risolvere un problema di filosofia politica: come sommare preferenze individuali diverse in una società complessa. L’osservatore imparziale, nel suo modello, deve valutare le alternative come se potesse trovarsi in qualunque condizione sociale, e proprio per questo diventa il garante della comparabilità tra le vite possibili. È un passaggio decisivo: il “sentimento morale” smithiano diventa, nelle mani di Harsanyi, un algoritmo di giustizia. Ma l’utilitarismo di Harsanyi si differenzia in maniera profonda da quello dei classici. Mentre Bentham, per esempio, parlava di massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore, quasi come se fossero quantità naturali da sommare in un calcolo aritmetico, Harsanyi abbandona questa psicologia del senso comune e si affida alle “preferenze rivelate”. Non possiamo entrare nella testa delle persone per misurarne gioie e dolori ma possiamo certamente osservare le loro scelte. Se davanti a due alternative A e B un soggetto sceglie A, allora starà “rivelando” le sue preferenze per A rispetto a B. Ci starà dicendo che si aspetta di vedere il suo benessere crescere dopo aver scelto A più di quanto non sarebbe capitato se avesse scelto B. Ciò che conta, dunque, è quello che una persona sceglierebbe se fosse coerente e pienamente informata di tutte le opzioni disponibili. Questo ci porta a un’altra distinzione cruciale rispetto all’utilitarismo classico. L’utilitarismo di Harsanyi, infatti, è in una qualche misura “kantizzato”. Mentre la versione dei classici può essere definita come un “utilitarismo degli atti” (act utilitarianism) e prevede che ogni singola azione venga giudicata dalle sue conseguenze immediate, la versione di Harsanyi appartiene all’”utilitarismo delle regole” (rule utilitarianism) e, in questo caso, ciò che conta sono le norme generali, le regole che, se seguite da tutti, garantiscono i migliori risultati collettivi. Se mentire oggi ad un amico è per evitargli un dolore inutile, allora la bugia può anche essere considerata giusta. Se evadere una piccola tassa mi consente di curare un familiare, il gesto può sembrare moralmente lecito, perché aumenta la felicità complessiva in quel momento. Quella dell’utilitarismo degli atti è un’etica “al dettaglio”, che decide caso per caso. L’utilitarismo delle regole, invece, sposta la prospettiva. Non chiede se mentire in questo caso porti più benefici che danni, ma se accettare la menzogna come regola generale non corromperebbe la fiducia generale. E lo stesso vale per le tasse: un’eccezione può sembrare innocua, ma se tutti facessero lo stesso - ecco la dimensione kantiana, l’universalizzabilità contenuta nell’imperativo categorico - lo Stato non avrebbe più risorse per ospedali e scuole. In altre parole, l’utilitarismo dell’atto somiglia a un automobilista che decide quando fermarsi al semaforo rosso solo in base alla convenienza del momento. L’utilitarismo delle regole, invece, si chiede se l’esistenza di una norma che vieta il passaggio col rosso porterà o no ad una società più sicura per tutti. Così come un agente razionale posto di fronte ad una scelta incerta opterà per massimizzare la sua utilità attesa - il benessere derivante da un certo evento data la probabilità che quell’evento si verifichi - analogamente, come società dovremmo scegliere regole che massimizzano il benessere medio. Non conta il potere, lo status, la ricchezza: ogni individuo pesa ugualmente nel calcolo collettivo. La sua tragica esperienza personale sta alla base di questa convinzione. Avendo visto la brutalità dei regimi che classificavano gli individui in razze, classi e categorie da annientare, Harsanyi sognava un’etica che non lasciasse spazio a gerarchie arbitrarie. La felicità di un povero vale quanto quella di un ricco. E soprattutto, la riduzione del benessere di un ricco deve valere meno della liberazione dalla miseria di chi non ha nulla. In questo senso, la redistribuzione del reddito non è un gesto di carità, ma il frutto di un calcolo razionale orientato alla massimizzazione del benessere collettivo. Il framework teorico di Harsanyi forse non è noto ai più, ma certamente la sua applicazione è pervasiva e condiziona la vita di tutti noi. Durante la Pandemia, per esempio, in una situazione nella quale ancora le dosi del vaccino scarseggiavano e i respiratori erano insufficienti per tutti i malati, il problema di chi curare per primo ha diviso governi e cittadini: privilegiare i più fragili, come avrebbe suggerito Rawls, o chi contribuisce maggiormente al benessere medio, come avrebbe voluto Harsanyi? IN molti regolamenti e direttive governative è stata la posizione di Harsanyi a prevalere. Lo stesso interrogativo vale per il cambiamento climatico: quanto dovremmo sacrificare nel presente per garantire i benefici futuri ai nostri figli? In tutti questi casi, l’utilitarismo fornisce un linguaggio e degli algoritmi di calcolo, immediati e intuitivi, anche se non privo di riduzionismi. Ci concentreremo sulle principali critiche al pensiero di Harsanyi nel Mind the Economy della settimana prossima. Critiche che non possono faranno passare in secondo piano il contributo del filosofo ungherese che vincerà il Nobel per l’Economia nel 1994 assieme a John Nash e Reinard Selten. La sua opera, infatti, non rappresenta solo contributo tecnico raffinatissimo, ma un vero e proprio manifesto per un’etica razionale. Un tentativo di offrire alla politica un linguaggio condiviso, capace di unire filosofi, economisti e decisori pubblici. La sua promessa è ardita: se vogliamo davvero essere razionali e imparziali, non abbiamo scelta. Dobbiamo accettare l’utilitarismo come bussola. L’etica, sostiene Harsanyi, deve avere la stessa solidità della scienza, deve fondarsi su regole razionali capaci di resistere ai venti della storia. Non possiamo permetterci un’etica fatta di emozioni o dogmi: la giustizia deve avere la forza di un calcolo rigoroso. Resta da chiedersi se davvero la vita morale possa essere compressa in un calcolo. In un mondo sempre più governato da algoritmi che decidono per noi la sfida di Harsanyi è più attuale che mai. Il rischio, però, è che riducendo la complessità delle vite umane a numeri, finiamo per dimenticare ciò che quei numeri non possono catturare: i legami, le storie, la dignità irriducibile di ciascuno. Harsanyi ci sfida a guardare l’etica con occhi della ragione e la freddezza del calcolo, ma il vero test resta un’altro: sapremo misurare la giustizia, ciò che ci dobbiamo gli uni gli altri, senza mai tradire quella stesso profondo senso di umanità che essa dovrebbe custodire? Come educare al pensiero nell’era dell’Intelligenza artificiale di Cristina Dell’Acqua Corriere della Sera, 5 ottobre 2025 Con ChatGpt e con gli altri strumenti di Ai l’apprendimento non sarà più come prima. L’insegnamento forse sì. Immaginiamo di entrare in un pensatoio, un luogo dove si va solo per riflettere, e incontrare Socrate che lì vive, almeno nella fantasia del poeta comico Aristofane. Socrate, nelle Nuvole del 423 a.C., vive appeso a una cesta, è un bizzarro imbroglione che corrompe i giovani insegnando loro come vincere discussioni anche quando hanno torto. E nella sua scuola prende vita un dibattito singolare tra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto: il primo sostenitore di una educazione tradizionale. E sarà sconfitto; il secondo di una più spregiudicata che spinge solo a godersi la vita. Una pagina di attualità, non solo greca, che provoca e domanda: quale strada avrebbe dovuto prendere Atene per rendere i suoi giovani autonomi e pensanti davanti ai cambiamenti di ogni epoca? L’anno scolastico è entrato nel vivo di una sfida appassionante con al centro gli studenti e il loro rapporto con l’AI generativa, definitivamente tra noi. Abbiamo la prima legge sull’Intelligenza Artificiale, approvata dal Senato il 17 settembre scorso (entrerà in vigore il 10 ottobre), perfettibile ma tappa importante verso l’uso “corretto, trasparente e responsabile, in una dimensione antropocentrica, dell’AI, volta a coglierne le opportunità”. Ormai è chiaro: con ChatGpt e gemelli l’apprendimento non sarà più come prima. L’insegnamento forse sì. Lo ha scritto bene Gianmario Verona su queste pagine (4/9) in un articolo ricco di spunti su come disegnare la didattica futura. Uno in particolare colpisce: spaccare l’aula in tanti piccoli momenti di condivisione per puntare alla personalizzazione del processo di apprendimento. Come creare, in un’aula liceale, un laboratorio di teatro all’interno delle proprie ore curriculari. Un pensatoio dove si spostano i banchi, si legge insieme, si dà vita a una narrazione e ai suoi personaggi, pensando ai ruoli e ai costumi (comprati a basso prezzo online ovviamente) per interpretarli. E sogno che questo investimento di tempo possa avvenire già a partire dai bambini di dieci anni: il tempo dedicato al teatro, in ogni sua forma, anche la più semplice, è tempo dedicato all’educazione dei sentimenti, ciò che abbiamo di più umano. La trama delle Nuvole in pochi secondi ce la racconta ChatGPT. Per lo studio mnemonico e passivo è sufficiente. Ma quello che nessuna AI potrà mai dirci è quale lato umano tocca Aristofane quando siamo noi a indossare i panni e le parole di Socrate, del Discorso Giusto e Ingiusto. Entrare in parole ben pensate e aiuta a pensare bene. Se la generazione Z ora lotta con il corpo di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 5 ottobre 2025 Sui ragazzi avevamo sbagliato le previsioni. Come facciamo quasi sempre, su tutto. Perché le nostre previsioni sono, in verità, decisioni: piccoli esercizi di controllo sulla realtà, e in certi casi guerre alla realtà. Ci confortiamo con le letture più facili, le deduzioni veloci, e le usiamo per stabilire come andrà. Avevamo previsto che gli adolescenti, i ventenni, gli universitari, i ragazzi italiani, e di tutto il mondo, di questo tempo, si sarebbero alzati dai divani solo per ricaricare gli smartphone, e che solo e soltanto da lì avrebbero condotto le loro battaglie: avevamo deciso che sarebbe andata così. Avevamo deciso che erano una generazione troppo fragile e smidollata, viziata e acerba, privilegiata e frammentata, per guidare una rivoluzione, o anche solo individuare un punto comune da tenere fermo, tutti insieme. E questo ci serviva a dirgli come avrebbero dovuto fare, perché eravamo certi che non lo avrebbero fatto. Ben lungi da dargli un esempio, non abbiamo fatto altro che dirgli di svegliarsi, alzarsi, indignarsi, ribellarsi, informarsi, appassionarsi, amarsi, scoprirsi, toccarsi. Quando hanno cominciato a fare gli attivisti sui loro profili di Instagram e TikTok, li abbiamo o derisi o sottovalutati. Lo slaktivism, l’attivismo digitale, è stato uno dei molti mali del nostro tempo al quale abbiamo dato statuto di sintomo di malattia incurabile. Quando hanno cominciato a scendere in strada, li abbiamo accusati di farlo in modo scomposto e buffonesco: bambini, buoni, non si gettano le zuppe su Van Gogh. Bambini, dominio. Ragazzini, signoria. C’è stato un momento, qualche anno fa, in cui durante alcune occupazioni di licei romani, è venuto fuori genitori portavano ai figli coperte e patatine per la notte, e anche lì ci siamo arrischiati a dire che erano dei bamboccioni. Abbiamo insultato la loro musica: non si capisce niente, non ci sono parole, non ci sono storie, non c’è avventura, non c’è poesia. Abbiamo irriso la loro immaginazione quando ci hanno chiesto di rivedere le nostre idee su cos’è un uomo e cos’è una donna, quando ci hanno dato la grande lezione sulla metamorfosi come volano dell’identità. Non abbiamo saputo ascoltarli quando mettevano in pratica quello che il poeta Ben Lerner dice oggi a questo giornale: sperare in una possibilità migliore, avere sogni e desideri irrazionali, e crederci in modo così forte da creare un contagio di energie che, insieme, cambiano la luce del mondo, la sua direzione, la sua ambizione. Abbiamo lanciato allarmi sulla loro regressione sessuale, perdendo l’occasione di capire che i loro nonni hanno fatto la liberazione del sesso e loro, invece, vogliono fare la liberazione dal sesso, e ci siamo persi l’occasione di trarre, dal loro ripensamento, beneficio, possibilità, nuove prospettiva. Abbiamo convocato psicologi e psichiatri per farci dire come mai soffrono così tanto, hanno paura di uscire, sono vegani radicali. Non abbiamo visto che dei social si sono stancati, che hanno cominciato a disintossicarsene, e che ci hanno lasciati lì sopra a polemizzare, sacramentare, proiettare. Noi, sì, smaterializzati e divisi, narcotizzati, pigri e tronfi nel decretare che siccome non hanno canzoni condivise, non possono avere principi condivisi. Poi, però, dopo due anni di massacri in diretta, a cui hanno assistito dai loro telefoni, mentre noi eravamo impegnati a spiegargli come ci si informa e a rimproverarli perché abusano di meme anziché di giornali, e che per colpa di quelle vignette che deridono tutto, anche le tragedie, non avrebbero mai avuto la contezza degli eventi necessaria a ribellarsi, è successo che si sono ribellati. L’essere umano, quando capisce che, per andare avanti, deve cambiare mezzo e posizione, lo fa, s’adatta. E così, i ragazzi hanno fatto la sola cosa che è rimasta da fare, perché è la sola che funziona: hanno gettato il corpo nella lotta. Hanno iniettato di senso la democrazia, quella che credevamo non avessero a cuore. Chi l’avrebbe mai detto che la Storia sarebbe tornata a fare la Storia: non a ripetersi ma a generare un gigantesco imprevisto. A sfuggirci di mano. La strada è l’unica salvezza: quella in cui le generazioni si incontrano per una causa di Marco Aime* Il Domani, 5 ottobre 2025 Ogni manifestazione è un rituale e in quanto tale serve a farci riconoscere come parte di una collettività. Quelle donne, quegli uomini di ogni età e provenienza marciano per le città, si toccano, si vedono, si contano. E quindi non possiamo leggere le loro azioni solo come “contro” qualcosa: mostrano anche un senso di comunità ritrovata. Strade traboccanti, piazze gremite, gente di ogni età che cammina gomito a gomito, sfiorandosi, stringendosi, sorridendosi. Sorridendosi sì, perché queste manifestazioni non vanno lette solo in termini “contro”. Certo, si è lì per condannare, ma la forza della condanna sta proprio nell’esserci con il proprio corpo. In un’era in cui le nostre comunicazioni passano sempre di più attraverso dei media che ci smaterializzano, che ci riducono a pixel, il corpo riacquista un valore profondo. Certo la rete è importante, anche per organizzare una manifestazione, ma fino a quando lo sdegno, l’indignazione, la protesta rimangono intrappolati nei meandri del web, per poi impantanarsi nelle paludi dei social, rimangono sterili, non danno fastidio a nessuno. Basta spegnere lo schermo e tutto si azzera. Nella rete non si radunano persone, si creano degli sciami digitali, che non diventano mai folla, perché non possiedono un’anima, uno spirito. In un gruppo online ciascuno di noi è un nessuno, una sigla, privato di ogni personalità. Lo sciame digitale, come quelli animali, è instabile, fugace, volatile, la massa classica, quella che scende per strada, fatta di corpi e volti invece, non è transitoria, è una formazione stabile. Parafrasando Elias Canetti la “massa è potere”, genera potere. Quelle donne, quegli uomini di ogni età e provenienza marciano per le strade delle città, si toccano, si vedono, si contano. In uno sciame digitale nessuno marcia, nessuno si sfiora e per questo si dissolve con la stessa rapidità con cui si è formato, senza sviluppare energie politiche. Ogni manifestazione è un rituale e un rituale cos’è in fondo se non una messa in scena (nel senso teatrale dell’espressione) di una collettività, qualunque essa sia? Un rituale è un dramma sociale, una performance che serva a contarci, a vederci. Ecco l’importanza dei corpi, della materia fisica di cui siamo fatti, che ci rendono persone, visibili, concrete, non ectoplasmi elettronici facilmente camuffabili. Il corpo svela chi sono e più corpi vicini, che camminano insieme, svelano chi siamo. Quegli sguardi rivolti l’uno all’altro, ai simboli di un desiderio comune di pace, ci dicono che non siamo soli. Ecco l’importanza del rituale. Victor Turner, antropologo britannico degli anni Cinquanta che fece ricerca nell’allora Rhodesia, comprese che l’importanza del rituale della pioggia non era fatto solo per invocare l’acqua, ma per radunarsi, per contarsi, per vedere e sentire che si è parte di una comunità. Per sapere che anche in caso di difficoltà non si è soli. Questo è il senso profondo dell’incontrarsi, del condividere uno stesso spazio, uno stesso tempo. Se c’è una cosa che mi ha colpito in queste manifestazioni sono i sorrisi. Non mi si fraintenda: quei sorrisi non significano il dimenticare i tragici motivi per cui si è lì a manifestare, ma sono il gesto emotivo che rivela un senso di comunità ritrovata per i più grandi, scoperta per i più giovani. Una strada dove le generazioni si incontrano per scandire gli stessi slogan, dove è chiaro a tutti che ci sono problemi più importanti delle piccole beghe quotidiane, per cui protestare. Che ci sono ideali che accomunano tutti e quei sorrisi in fondo sembrano rivolti a una parole, un concetto, che da troppo tempo era stato espulso da ogni lessico politico, in modo molto più grave, da quello della sinistra: “solidarietà”. “C’è solo la strada su cui puoi contare, la strada è l’unica salvezza” cantava il compianto Giorgio Gaber. Sì e quella strada dobbiamo fare sì che rimanga nostra, che resti il luogo dove ci si incontra. *Antropologo Sergio Cofferati: “La politica è arrivata dopo i movimenti. Confrontiamoci per evitare la violenza” di Alessandro De Angelis La Stampa, 5 ottobre 2025 L’ex segretario della Cgil: “In piazza più movimenti, un popolo che non si spiega con vecchie categorie”. In piazza a Genova c’era anche Sergio Cofferati, il “Cinese”. Uno che di mobilitazioni se ne intende. Da segretario della Cgil riempì, nel lontano 2002, il Circo Massimo con tre milioni di persone a difesa dell’articolo 18: “Vedo, in tutte le manifestazioni di questi giorni, tutta un’altra storia rispetto a un’antica tradizione nelle relazioni tra partiti o sindacati e popolo. E sarebbe un errore mettere a questa storia le braghe di ciò che si conosce. Rischi di non capire “chi sono” e “cosa vogliono” quelli che manifestano”. Ecco, chi sono e cosa vogliono? “Ho visto giovani e anziani, lavoratori di ogni attività economica e precari, alunni e professori. Figure diverse, tenute assieme però da un sentire comune su due temi: il rifiuto della guerra e la difesa dei diritti che la violenza uccide. Ho visto ieri anche incappucciati e frange radicalizzate, ma non si spiega solo con loro una manifestazione di quelle dimensioni”. Insomma, è scattato un movimento, dentro cui c’è di tutto, potabile e impotabile... “La molla è l’indignazione per quel che sta accadendo e di anelito alla pace. E questo sentimento si manifesta in forme soprattutto spontanee. La mobilitazione non nasce da una piattaforma o da una dimensione “politica” in senso classico, se non in parte. Vale per quella di venerdì e ancor di più per quella di ieri, che ha tratti di radicalità e di disordine ancora più marcati”. Per questo lei dice: indaghiamo ed evitiamo facili paragoni... “Qui non c’entra il Vietnam, dove la protesta aveva un forte connotato politico-ideologico: l’imperialismo americano. Né Porto Alegre, che aveva un focus contro la globalizzazione e una struttura organizzativa. Né le nostre mobilitazioni su obiettivi politici e sindacali. Ricorrere ad antiche categorie è un po’ come usare internet per leggere il Novecento. Rischi di non capire”. Che dimensione politica ha questo movimento? “Sono più movimenti politicamente informi. Non è un giudizio, ma un dato di fatto. Infatti sono movimenti che non hanno un’organizzazione e magari non vogliono neanche darsela. Per questo il tema oggi diventa proprio questo: a chi spetta dare una forma politica al sentimento e come darla”. Qui però c’è un problema. Politica e sindacato si sono accodati. Come fa a guidare chi si accoda? “Qui c’è la sfida vera. Non c’è dubbio: quelli sollevati - la guerra, i diritti - sono temi che dovrebbero riguardare la politica. Aggiungo: la grande politica. E invece, in questo caso, politica è arrivata dopo la dimensione sociale. Tuttavia questa crisi di rappresentanza non può essere una giustificazione. Bisogna misurarsi con la risposta”. Come? “E i pilastri dell’azione cui sono chiamati partiti e sindacati, di fronte alla novità di una grande partecipazione, sono due, irrinunciabili: la ricerca del confronto e il rifiuto della violenza. Questa folla, anche se non vuole, va aiutata a darsi un assetto organizzato, facendo emergere la parte più propositiva e isolando l’estremismo. Chi è organizzato deve provare a farli camminare in questa direzione”. Dia un giudizio degli episodi di violenza di questi giorni... “Vanno condannati, al pari di certi slogan antisemiti, perché in una democrazia tutte le opinioni sono legittime, anche le più radicali, con un unico discrimine: la violenza. E non vanno minimizzati, perché se il comportamento di una minoranza viene considerato banale o accettabile, esso può crescere. E questa crescita porta in sé due rischi”. Quali? “Il primo è quello di sporcare le sacrosante ragioni di chi manifesta in modo pacifico e rispettoso. Secondo: ridurre il consenso attorno al tema, alimentando l’altrui riflesso d’ordine”. Vecchia storia la criminalizzazione del dissenso. Ci provarono ai tempi del suo Circo Massimo, utilizzando l’omicidio di Marco Biagi... “Vedo impegnata all’opera anche l’attuale presidente del Consiglio. Allora andò male perché rispondemmo con una grande “forza tranquilla”, schierata in difesa dei diritti e della democrazia. Anche oggi la risposta deve essere non a chi urla più forte, ma la tranquillità di chi indica soluzioni e prospettive sui temi che hanno suscitato l’emozione collettiva delle piazze”. Lei dice “confronto”. Non vedo chi possa guidare. Questo movimento considera la sua crescita come sbocco. Non riconosce interlocuzioni... “La cosa impressionante è che la rappresentanza tradizionale, in entrambe le manifestazioni, stava in mezzo a una platea di persone sconosciute. Queste persone non vengono a casa tua, devi essere tu in grado di proporre una discussione leale e trasparente e forme di organizzazione anche nuove. Se non lo fai, proprio perché “informe”, quella massa può essere soggetta a spinte nella direzione di una radicalizzazione”. Ecco, i contenuti. Tra essi magari c’è un giudizio sul piano di pace. Financo Hamas sta riflettendo. In Italia è stato liquidato come “colonialismo”... “Da un lato è giusto che organizzazioni che si misurano sul tema della rappresentanza cerchino un calore sociale nei movimenti. Dall’altro è necessario che ci stiano senza perdere il contatto con la grande storia. Essere contro la guerra significa essere per i due popoli e per tutte le soluzioni che vanno in quella direzione”. Cofferati, però, diciamocelo. Non sarà che la Cgil ha cercato di supplire con la politica a un corpo sociale infragilito? “Ci sono dei ritardi, e non da oggi. Penso al fatto che lo Statuto dei lavoratori è del 1970, non tutela una parte consistente del mondo del lavoro e non c’è verso che questo entri al centro della discussione. Non do colpa alla Cgil, che anzi fa degli sforzi. Però penso che la Cgil dovrebbe provare a sollecitare anche Cisl e Uil sul tema dei diritti”. Ma lei avrebbe scioperato? “Lo sciopero è uno strumento antico, importantissimo, indispensabile. Non va abbandonato, bisogna usarlo ragionevolmente, nelle situazioni nelle quali è efficace. E va accompagnato anche da una dimensione politica che deve stare in campo, non necessariamente attraverso lo sciopero: iniziative, confronti, discussioni, manifestazioni. Non devi cambiare la natura dello sciopero se ne vuoi mantenere l’efficacia”. Sognare la pace in un’epoca di speranze tradite di Andrea Malaguti La Stampa, 5 ottobre 2025 “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo serve: a camminare”. Eduardo Galeano. Viviamo in un’epoca di speranze tradite. Immagino che sia per questo che migliaia di persone scendono spontaneamente in piazza in ogni angolo del mondo. Trump ad Anchorage ci aveva promesso la pace in Ucraina. Tappeto rosso per Putin. Due pacche sulle spalle. E il solito arrogante “scansatevi, ci penso io”. Non ha funzionato. L’Orso russo martella Kiev come mai in passato. E la diplomazia americana, schiacciata da Mosca e Pechino, dà l’impressione di non essere mai stata tanto disorientata, moltiplicando, di riflesso, la debolezza già piuttosto radicale dell’Europa. Chi custodisce le nostre speranze? Adesso c’è la partita mediorientale a rimettere The Donald al centro della scena. Piano per il cessate il fuoco in venti punti, condivisione con i Paesi arabi, nessun coinvolgimento palestinese. Ma, dalla notte di venerdì, a sorpresa, l’apertura dei tagliagole di Hamas, dopo due anni esatti di violenza, dolore, crudeltà e l’annichilimento di sessantamila gazawi per mano dell’Idf (le forze di difesa di Israele). “Siamo pronti a ridare gli ostaggi”. Vivi e morti. La destra israeliana guidata dall’inumano Ben-Gvir si ribella. Vuole lo sterminio, il ministro della sicurezza. L’idea di un accordo lo sconvolge. Cerca la soluzione finale e non si fa scrupolo di dirlo apertamente, mentre calpesta i principi più elementari del diritto internazionale e umilia gli attivisti della Flotilla. Netanyahu, messo apparentemente spalle al muro dalla Casa Bianca, prende tempo, molti analisti reputano illusoria la fine del conflitto, ma fino a quando questa debole fiammella di civiltà resta accesa, vale la pena immaginare che sia vera. Specialmente nel giorno di San Francesco, celebrato ieri ad Assisi da Giorgia Meloni, improvvisamente a suo agio con il saio e con le regole di povertà, obbedienza e castità. Valori che ciascuno declina a modo suo. E che, intanto, spingono la premier a dire ispirata che, grazie al piano-Trump, “una luce di pace squarcia le tenebre della guerra”. Un filo retorico, ma magari fosse. Diversamente la crepa tra Decisori e Società civile diventerebbe voragine. L’opinione pubblica si è mossa in blocco. Con la fragorosa, nobile, confusa contraddittorietà delle piazze italiane, ma anche con i cortei di Dublino, Atene, Stoccolma, Parigi, Berlino, Bruxelles, Ginevra, Istanbul Brasilia, Buenos Aires, Kuala Lampur, Tunisi e qui mi fermo, salvo notare che difficilmente questo disagio diffuso lo si può interpretare come un assalto a Palazzo Chigi. Sottovalutare il sentimento popolare sarebbe catastrofico. La stessa amministrazione Trump faticherebbe a sopravvivere ad un nuovo imbroglio diplomatico. Basta ascoltare un paio di podcast dell’influencer Maga (Make America Great Again) Tucker Carlson, per capire l’aria che tira. Israele è nel mirino degli ultranazionalisti-suprematisti-bianchi. Un po’ perché in loro resiste l’anima da nazistelli dell’Illinois, un po’ perché - e forse soprattutto - alla favola del Trump pacificatore ci avevano creduto davvero. Se dopo l’imbarazzante teatrino di Anchorage arrivasse un nuovo flop, la parola del Capo precipiterebbe più del dollaro. Dopo Putin, può il presidente degli Stati Uniti farsi prendere in giro anche da Netanyahu e dai terroristi di Hamas? In tutti i discorsi del Tycoon, anche in quelli più crudeli, c’è qualcosa di impostato e di caricaturale, in definitiva di patetico. Eppure, mezzo mondo è con lui. Un tracollo mediorientale ridurrebbe drasticamente il numero dei suoi seguaci e probabilmente rialimenterebbe le piazze. E qui torniamo a casa nostra. Parto da Torino. Tra le mille cose che ha detto Jeff Bezos venerdì alla Tech Week in dialogo con John Elkann, me n’è rimasta in testa una che parlava secco alla politica planetaria. E alla nostra in particolare. È il suo modo di pensare agli affari. Un modo che funziona mi viene da dire. In ogni caso, il punto era sintetizzabile così: “Penso sempre ai bisogni dei miei clienti, ma quando devo decidere le strategie, lo faccio io”. Perché non basta avere un bisogno per sapere anche come soddisfarlo. Bisogna che qualcuno lo interpreti, lo orienti e lo risolva. Nei casi migliori persino che lo anticipi. Traducendo: non ci si può lasciare trascinare dalla corrente, bisogna avere visione e leadership. Merce ormai scomparsa dagli uffici governativi e antigovernativi tricolore. Le manifestazioni sono il respiro di una società. Il modo in cui si esprimono sentimenti e punti di vista. In generale non è saggio comprimerle, né, tanto meno, reprimerle. Sono la valvola di sfogo che spesso consente agli umori di non trasformarsi in ribellione diffusa. Sosteneva Aldo Moro che l’Italia è un Paese tumultuoso. È vero. Abbiamo avuto vent’anni di fascismo e poi il più grande partito comunista occidentale. In noi esiste chiaramente una vocazione all’estremismo. È la nostra natura più profonda. E ogni tentativo per tenerlo a bada è benedetto. Triste, peraltro, quel Paese che non protesta mai. Perché in quel caso possono essere successe solo due cose: o è emotivamente in coma o è sotto una dittatura. Ecco perché è surreale irridere e provocare le piazze da parte di chi è al governo ed è infantile strumentalizzarle da parte di chi è all’opposizione e di sicuro non ha né ispirato né guidato la protesta, ma, piuttosto, l’ha seguita e inseguita. Uscendo dalla Tech Week mi è capitato di fare un pezzo di strada con una studentessa universitaria che sventolava una bandiera palestinese. Le ho chiesto, perché? Mi ha detto: “Non ce la faccio più a vedere bambini che muoiono mentre la politica si gira dall’altra parte e dice che non è ancora il tempo di intervenire”. È stata lei a regalarmi la citazione di Galeano: “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo serve: a camminare”. La ringrazio. È come se mi avesse fatto ringiovanire di trent’anni. Mi ha messo in mano un ideale. Noi adulti ne abbiamo ancora? Domanda inevitabile mentre Meloni e Schlein, testimonial di due mondi che rifiutano la conciliazione, continuano a consegnare un’impressione di sofferta ambiguità. Niente di tutto questo, naturalmente, legittima o tanto meno giustifica gli assalti alle Ogr di Torino, alla stazione di Milano, la bomba carta a Firenze, i vandalismi alla statua del Papa o, men che meno, le sassaiole contro le forze dell’ordine. Violenza irricevibile e gratuita, che peraltro - per scelta o per eterogenesi dei fini - produce l’irrigidimento di un esecutivo già perfettamente a suo agio con il panpenalismo automatico e porta voti ai partiti che teorizzano più ordine in cambio di sicurezza. Chi viola la legge distrugge la protesta. Ma qualcosa sta succedendo e anche se ci mette a disagio bisogna parlarne. Ci eravamo abituati ad un Paese che resta fermo, immobile, come se gli si fosse addormentata la volontà. Adesso il Paese è sveglio. E pretende che qualcuno gli parli. Flotilla. “Nelle carceri di Israele le scene di Bolzaneto” di Andrea Carugati Il Manifesto, 5 ottobre 2025 I quattro parlamentari di Pd, Avs e M5S rientrati in Italia: “Ci hanno chiamato terroristi, senza acqua e al gelo e privi di assistenza legale. Preoccupati per i 15 italiani ancora detenuti, serve una forte pressione diplomatica”. “Meloni? Non ci ha neppure chiamati”. La portavoce Delia annuncia due esposti alla procura di Roma per sequestro di persona. Stanchi, impauriti, ma combattivi. I quattro parlamentari italiani della Flotilla si presentano in conferenza stampa con un pensiero fisso: i compagni ancora detenuti nelle carceri israeliane, fuori da ogni diritto (una quindicina dopo il rientro di 26 ieri notte). “Il nostro appello è a rilasciare tutti i connazionali detenuti. La pressione diplomatica deve essere molto forte”, dice Arturo Scotto del Pd. Lo ripetono anche gli altri tre, la dem Annalisa Corrado, Benedetta Scuderi di Avs e Paolo Croatti del M5S. Raccontano le ore passate nelle mani della polizia di Ben Gvir come un incubo, “ci hanno trattato come pacchi postali, nessuno ci ha dato spiegazioni, nessuna possibilità di comunicare con l’esterno, abbiamo avuto difficoltà anche ad avere acqua o l’accesso ai servizi igienici”. Ma ammettono che il loro racconto è incompleto, quasi un’autocensura: “Ci sono altri ancora detenuti”. Scotto spiega le ragioni della prudenza: “La polizia israeliana è Ben Gvir e la deriva di quel paese è cilena. Alcune scene che abbiamo visto ricordano Bolzaneto, a Genova nel 2001, e i più vecchi tra di noi lo ricordano bene”. La portavoce italiana del Global Movement to Gaza, Maria Elena Delia, ha annunciato due esposti alla procura di Roma da parte della Flotilla: il primo per il sequestro degli attivisti, il secondo per l’attacco subito in acque internazionali circa una settimana fa. “Gli attivisti sono stati detenuti illegalmente senza alcuna base giuridica, prelevati dalla Marina militare israeliana senza che avessero commesso alcun reato. Sono stati sequestrati, non arrestati perché l’arresto presuppone un’ipotesi di reato. In prigione sono stati negati i diritti basilari di difesa e la fornitura di beni e servizi fondamentali”. Per Delia il trattamento subìto è l’occasione per denunciare “quello che accade da anni ai palestinesi che vengono arrestati e detenuti per anni subendo trattamenti disumani”. “Siamo arrivati a 35 miglia da Gaza e non era scontato”, dice Scotto. “Quelle miglia non abbiamo potuto percorrerle perché i governi europei non hanno fatto una vera pressione su Netanyahu”. “Meloni dice che avremmo interferito sul piano di pace? La menzogna più grave. Lo spiraglio di pace è figlio della mobilitazione di milioni di persone nel mondo, non certo dei governi. E un premier non può sindacare sull’attività dei parlamentari”. I quattro raccontano gli interrogatori, i medicinali buttati, i cellulari e le carte di credito sequestrate. “Non abbiamo potuto decidere nulla, neppure il fatto di essere rispediti per primi in Italia”, racconta Corrado. “Abbiamo solo ottenuto, dopo un video in cui dicevamo di stare bene, che venisse portata dell’acqua agli altri della Flotilla”. Niente sonno, gli attivisti sono stati sballottati da un furgone all’altro, tenuti al gelo dell’aria condizionata “senza poter avere neppure una maglia”, racconta Scuderi. “Israele sta venendo meno a qualsiasi forma di stato di diritto”, l’accusa. “Perché il governo italiano tolleri questa situazione va chiesto a Meloni: la premier dandoci degli irresponsabili ha messo in pericolo la nostra incolumità”. “Attorno a noi c’erano sempre almeno 40 persone armate”, dice Corrado. “Ci hanno chiamato terroristi e ci hanno minacciato”, spiega Croatti, “sole le piazze ci hanno protetto”. Il personale dell’ambasciata italiana si è palesato all’aeroporto, poco prima del volo di rientro. Poi gli insulti dei cittadini israeliani nello scalo e durante il volo verso Roma. “Ci facevano il dito medio, ci insultavano”, dice Corrado. “Ma gli assistenti di volo ci hanno portato dei taralli e qualcuno, in aereo, ha detto agli altri di smetterla”. Quanto agli aiuti sulle barche, “sono stati sequestrati dai militari, non abbiamo idea di dove siano finiti”. Dopo il rientro, la premier non li ha chiamati. “Crosetto però è sempre stato in contatto con noi e lo ringraziamo”, dice Scotto. “Siamo andati in Ucraina perché la pace è costruire relazioni di umanità” di Francesco Scoppola* e Andrea Turchini** Avvenire, 5 ottobre 2025 “Il contrario della guerra non è la pace, ma la capacità di costruire relazioni di fraternità”. Queste parole di Alberto, volontario di Operazione Colomba e impegnato a Kherson, città ucraina che patisce pesanti attacchi dalle truppe russe, ci hanno accompagnato nel nostro viaggio in Ucraina. Siamo partiti per vivere il Giubileo della Speranza, organizzato dal Mean (Movimento europeo di azione Nonviolenta) raccogliendo l’invito del Nunzio apostolico in Ucraina e dei vescovi di Kharkiv. Ognuno e ognuna di noi in questi anni di guerra si è posto la domanda drammatica: “Che cosa posso fare per cambiare le cose?”; è una domanda umanamente frustrante e depressiva se non ci si lascia prendere dalla tentazione dell’indifferenza: noi abbiamo scelto di venire in Ucraina per cercare di costruire legami di fraternità e di pace, per incontrare le persone che non si sono arrese alla logica bellicista che prevale nelle narrazioni riguardanti l’Ucraina che circolano in Italia. Abbiamo incontrato le comunità ecclesiali di Kiev e di Kharkiv con i loro vescovi. Abbiamo pregato e celebrato l’eucaristia con loro, ben consapevoli che per camminare sulla via della pace è importante disarmare i nostri cuori. Abbiamo incontrato una chiesa che gode di grande credibilità e stima presso la gente, grazie alla scelta di rimanere fedelmente presente accanto alle persone che pativano le conseguenze della guerra e facendosi carico con grande generosità delle esigenze concrete dei tanti sfollati dalle zone coinvolte dal fronte di guerra.​​ Abbiamo accolto con gioia la testimonianza evangelica ricevuta dal Nunzio apostolico, mons. Visvaldas Kulbokas, unico degli ambasciatori a non aver mai abbandonato il Paese, prodigandosi incessantemente per sostenerle comunità ecclesiali e portare nel dialogo diplomatico una visione differente. In Ucraina abbiamo incontrato e ascoltato con attenzione la testimonianza di alcune donne che, con grande competenza e passione, si stanno impegnando per la mediazione umanitaria, per la giustizia riparativa, per prevenire e denunciare la corruzione, avendo cura delle persone, delle comunità e delle relazioni nel tentativo di custodire e costruire il Paese che dovrà uscire dalla guerra. Abbiamo incontrato e ascoltato i sindaci dell’Oblast di Kharkiv, uomini e donne totalmente dediti al loro servizio nel tentativo di venire incontro alle tante esigenze concrete che emergono per le famiglie che, vivendo in situazione molto precaria come conseguenza del conflitto, spesso si trovano senza energia elettrica, senza acqua potabile, senza riscaldamento nelle case e con l’esigenza di organizzare l’istruzione mentre le scuole sono chiuse da più di tre anni. Abbiamo incontrato e ascoltato i docenti dell’università di Kharkiv, che vivono il loro impegno nell’insegnamento come atto patriottico, consapevoli di contribuire alla costruzione del Paese che uscirà dalla guerra e dando una prospettiva concreta ai giovani e alle giovani che lì si stanno formando. Abbiamo incontrato e ascoltato gli scout e le guide ucraine che, nella diversità delle loro esperienze, continuano a coinvolgere i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze attraverso attività educative che rendono i più giovani protagonisti della loro vita e non solamente vittime di una situazione più grande di loro. Siamo venuti in Ucraina per costruire relazioni di fraternità con altri uomini e donne che non hanno rinunciato a sperare e ad impegnarsi per una realtà diversa da quella della guerra. Siamo venuti perché crediamo nella pace. *Presidente del Comitato Nazionale Agesci **Assistente Ecclesiastico Generale Agesci