Suicidi in carcere, un antidoto anche nella cura sociale di Maurizia Campobasso* Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2025 Lo Stato che nel punire non impedisce che il condannato muoia perde parte delle funzioni che giustificano la sua potestà punitiva”. Il monito del costituzionalista Carlo Ferruccio Ferrajoli deve essere un imperativo categorico per tutti coloro che quotidianamente hanno la responsabilità della cura e del sostegno delle persone, anche detenute. L’Istituto superiore di sanità afferma che i suicidi sono la tragica conseguenza di più fattori non del tutto prevedibili - individuali, biologici, genetici, sociali e ambientali - e non a caso l’Organizzazione mondiale della sanità evidenzia che il disturbo psichiatrico è uno dei fattori di rischio suicidario ma non il solo, quindi le politiche di prevenzione non possono essere limitate al piano sanitario ma devono farsi carico delle vulnerabilità ambientali, di contesto sociale, economico e relazionale della persona. Un gioco di squadra che va fatto dentro e fuori le mura, che non dovrebbe iniziare e finire in istituto. Perché anche la liberazione può diventare un “fine pena mai” per chi rientra in un contesto sociale che è stato escludente prima e può diventarlo ancora di più dopo la detenzione. Bisogna conoscere la persona, le sue fragilità, i suoi problemi e le sue preoccupazioni. È un dovere di tutti, prima, durante e dopo la detenzione. Per farsene carico, è fondamentale mostrare un interesse umano e pratico che la persona sia in grado di percepire. Una rete diffusa di attenzione che protegga nell’arco dell’intera esistenza. Faro del costituzionalismo penitenziario è il rispetto dei diritti inviolabili, primo fra tutti quello alla vita, valore fondamentale non negoziabile né soggetto a discrezionalità. Solo il riconoscimento e la garanzia di questi diritti rende la vita degna di essere vissuta. Per tutti è un percorso fatto di sfide, dolori, difficoltà, ostacoli ma anche di gioie, di crescita, di cambiamenti e di riscatti. Non deve mai diventare un bagaglio del quale si abbia la tentazione di disfarsi se non si intravedono traguardi raggiungibili e opportunità da cogliere. Sono troppi i diritti che spesso restano teoria per chi vive una realtà fatta di rifiuto ed emarginazione. La “detenzione sociale”, spesso origine della detenzione carceraria, resta una strada segnata per chi è partito svantaggiato. È superficiale sostenere che sia il carcere la sola causa e l’origine della disperazione che porta al suicidio. È altrettanto necessario superare l’approccio clinico e patologico del disturbo psichico per cogliere la natura multifattoriale del disagio biopsico-sociale, anche legato alla non colpevole e diffusa analfabetizzazione civica ed emotiva. Spetta allo Stato, e a ciascuno di noi, includere ogni persona facendola sentire una risorsa e non un peso. O peggio un pericolo. Ci deve essere un vero passaggio di testimone dall’esecuzione penale alla scarcerazione. L’accoglienza in carcere deve essere confermata anche all’esterno perché il detenuto non si senta “un vuoto a perdere”, un soggetto di cui la società farebbe volentieri a meno. *Dirigente penitenziario Zagrebelsky tra i detenuti: “Il carcere non sia un buco nero, qui la vita deve continuare” di Filippo Femia La Stampa, 4 ottobre 2025 La lezione dell’ex presidente della Corte costituzionale al Lorusso e Cutugno di Torino: “Il giudice decide delle vite altrui. La rieducazione? Sa di totalitarismo”. “Parla come se fosse uno di noi”. È sorpreso, quasi incredulo, Daniele quando si alza ad applaudire nella saletta del padiglione E del carcere di Torino. Sta scontando una pena di 16 anni per omicidio e ha appena assistito alla lectio di Gustavo Zagrebelsky. Titolo (provocatorio): “Se sono lì, se lo sono meritato”. Una iniziativa delle Giornate della Legalità, organizzate dalla Città di Torino con Fondazione per la Cultura. Tra citazioni dei Fratelli Karamazov (“Un libro che dovete assolutamente leggere”), rudimenti di diritto penale e ricordi della sua carriera speziati da qualche battuta, l’ex presidente della Corte Costituzionale strega i detenuti. Senza mai salire in cattedra: “I giuristi sono soliti usare parole oscure: se ci casco, fermatemi”, avverte con un sorriso. E sottolinea un paradosso: “Sono qui a parlarvi di carcere, ma non so cosa sia: voi ne sapete molto più di me”. Il ruolo del giudice - Poi arriva il primo invito alla riflessione: “Quanto, nelle nostre scelte personali e quindi anche in quelle criminali, è determinato dall’ambiente e quanto da libere scelte?”. Qualcuno annuisce, altri prendono appunti. E il professore 82enne offre la sua lettura: “Molto dipende dall’ambiente, ma non tutto. Altrimenti vivremmo una condizione disumana, come marionette mosse da altri”. A partire da un brano di Dostoevskij, si arriva a ragionare sul ruolo del giudice, che “compie la più difficile e tragica delle scelte, decidendo delle vite degli altri”. In un silenzio quasi religioso Zagrebelsky confida ai detenuti: “Ho fatto il giudice della Corte Costituzionale per nove anni, ma lavoravo sulle carte. Dovevo giudicare leggi, non persone. Forse, per debolezza, non sarei riuscito a decidere della vita di altri”. I diritti e il regolamento carcerario - L’attenzione è alta, il ghiaccio ormai rotto. Un detenuto alza la mano per un’osservazione: “È vero che c’è un’alta incidenza di schizofrenia tra i giudici? L’ho letto su una rivista scientifica”. Gli altri reclusi, molti del Polo universitario della casa circondariale, sorridono con Zagrebelsky. Che tra il serio e il faceto chiede chi conosca l’articolo 68 del regolamento carcerario. Nessuna mano alzata. “Che vergogna - sbuffa ironicamente il professore -. Dovete conoscerlo a memoria, lì ci sono anche i vostri diritti. Leggetelo prima delle 800 pagine dei Fratelli Karamazov”. Una pena diversa dal carcere - Poi ci si avvicina al nocciolo della questione. Il carcere e la vita al suo interno. “L’umanità ha fatto tantissimi progressi - è il preambolo di Zagrebelsky -, ma non è ancora riuscita a immaginare qualcosa di diverso dal carcere come pena: siamo fermi a secoli fa”. Qualcuno ha ricevuto condanne molto lunghe ed emerge il nodo dell’ergastolo, in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. “È un’utopia”, replica un detenuto che dice di frequentare le carceri dal 1974. “Nel 1849 Dostoevskij venne condannato a morte. Se entrasse qui - risponde il professore - parlerebbe di utopia realizzata”. Il tempo che non passa - Ma è il tempo che non passa che molti evidenziano come vera condanna di un luogo che, nelle intenzioni, dovrebbe condurre alla rieducazione (“Che brutta parola, sa di totalitarismo”, sottolinea Zagrebelsky). “Qui dentro in un anno facciamo quello che voi fate in un’ora”, dice un detenuto. Il costituzionalista cita allora un articolo del 1949 in cui Vittorio Foa spiega quale sia il vero dolore della pena: “Le privazioni materiali sono poca cosa, il peso reale consiste nel progressivo svanire della volontà, cioè nella decomposizione dell’essere umano in conseguenza della nullificazione del tempo”. Un buco nero - Sul senso della vita in carcere, poi, Zagrebelsky pronuncia le parole più apprezzate dai detenuti. “Tutti i tentativi per umanizzare il carcere - ricorda - sono stati fatti affinché il tempo dei reclusi sia da considerare un periodo, come gli altri, della propria vita. Invece spesso è vissuto come un buco nero. Ecco, io credo che il carcere costituzionale debba essere un luogo dove continua la vita”. Applausi. Un ragazzo prende la parola ed evidenzia lo stigma legato al mondo carcerario. “Anche io fino a sette anni fa, prima di entrare qui, avevo pregiudizi verso i detenuti. Per sradicarli è necessaria una sensibilizzazione di tutta la società iniziale”. Si torna alla riflessione iniziale: chi guarda il carcere da fuori non lo conosce. E qui Zagrebelsky azzarda un ribaltamento di prospettiva: “Le misure adottate per superare il carcere come segregazione, la messa alla prova o i permessi premio, sono azioni che dall’esterno arrivano all’interno. Servirebbe invece che la comunità carceraria costruisse una propria voce per parlare fuori e fare capire che cos’è il carcere. Credete che chi siede in Parlamento ne sappia qualcosa?”. Ancora applausi. Daniele sorride entusiasta: “Parla quasi come uno di noi”. Il corpo dei detenuti, il nostro corpo per un carcere umano. Sciopero della fame a staffetta di Valentina Alberta e Maria Brucale*, Stefano Celli e Marta Zavatta** L’Unità, 4 ottobre 2025 La nonviolenza non si arresta, anzi si rafforza proprio ora che la popolazione carceraria ha superato le 63.000 unità, a fronte di una capienza regolamentare inferiore di ben 16.000 posti. In queste condizioni, il rispetto della legalità e della Costituzione viene gravemente compromesso. Nessuno tocchi Caino invita tutti coloro che leggono questo messaggio ad aderire allo sciopero della fame a staffetta, promosso dagli avvocati Valentina Alberta e Maria Brucale, insieme ai magistrati Stefano Celli e Marta Zavatta. Questo sciopero collettivo raccoglie il testimone da Rita Bernardini, che per 30 giorni - durante la pausa estiva dei lavori parlamentari - ha portato avanti il suo digiuno, per denunciare il colpevole silenzio delle istituzioni di fronte alla drammatica realtà vissuta da detenuti e operatori penitenziari. Nel frattempo, il numero dei suicidi tra i detenuti è salito a 65. Più in basso il testo dell’appello con le indicazioni per aderire (anche per un solo giorno) allo sciopero della fame. “50 anni fa il Parlamento varava il nuovo ordinamento penitenziario, iniziando l’attuazione della pena come disegnata dalla Costituzione. Una base solida sulla quale, grazie a una visione strategica e illuminata, si è innestata la riforma Gozzini, che con strumenti ideati e progressivamente ampliati ha condotto a uno straordinario abbattimento della recidiva. La realtà, purtroppo, non si fa carico di celebrare ricorrenze e attuare buone idee e così il 31 agosto, nelle carceri italiane, ci sono 63.167 detenuti, il 140% della capienza effettiva. La situazione è sempre più drammatica e mentre scriviamo dobbiamo aggiornare il conto dei suicidi: 61 dall’inizio dell’anno. Eppure ci sono soluzioni possibili, anche nell’immediato. Una parte della politica ha finalmente cominciato a considerare la necessità di interventi rapidi, primo fra tutti il progetto di legge Giachetti sull’ampliamento temporaneo della liberazione anticipata, accanto a ragionamenti a medio e lungo termine. Rita Bernardini ha ripreso lo sciopero della fame dal 20 agosto e proseguirà sino alla ripresa dei lavori parlamentari, il 10 settembre. Dal giorno dopo intendiamo raccogliere il testimone di una protesta non violenta che proseguirà sino a che il numero di persone detenute non sarà adeguato agli standard di minima civiltà che oggi mancano. Intendiamo replicare l’iniziativa lanciata l’8 luglio, alla quale hanno aderito 500 persone, di digiuno a staffetta. Ciascun aderente, nel giorno liberamente scelto, si impegna a non assumere cibi solidi. Chiediamo innanzitutto a chi ha già partecipato alla nostra iniziativa di aderire nuovamente e convincere, ciascuno, altre nove persone. È una sfida per arrivare dall’insperato numero di 500 adesioni a quello di 5000. È importante supportare un’iniziativa che, nuovamente, attende il segnale di un provvedimento prioritario rispetto a qualsiasi altro, che possa alleviare le sofferenze e disagi gratuiti per chi vive e lavora nelle carceri. Per aderire scrivete una mail a peruncarcereumano@gmail.com, indicando nome cognome e professione, nonché un giorno di adesione a partire dall’11 settembre e almeno sino alla fine di ottobre”. *Avvocati **Magistrati Quello che i magistrati potrebbero fare (e non fanno) contro il sovraffollamento di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 4 ottobre 2025 Quali sono le cause della drammatica situazione carceraria italiana, che vede in costante aumento tanto il sovraffollamento quanto il numero dei suicidi a esso certamente correlati? Quesito impegnativo, al quale è difficile dare risposta univoca. Si potrebbe fare riferimento al sempiterno e massiccio ricorso alla custodia cautelare, alle politiche penali sempre più repressive, che fanno registrare vertiginosi aumenti di pena oltre a nuove incriminazioni, ai reati molto diffusi, come quelli in materia di stupefacenti, per i quali si è scelta la sola risposta punitiva carceraria, ai tempi dei processi, alla mancanza di alternative reali al carcere, al fallimento della rieducazione e alla conseguente recidiva, alle ostatività, all’innalzamento dei minimi edittali, per finire con i criteri bloccanti nel calcolo della pena. Si tratta solo di spunti, ma servono per comprendere come nel discorso pubblico non si faccia mai cenno all’atteggiamento della magistratura. Eppure, i giudici, e non solo quelli di sorveglianza, hanno concretamente nelle loro mani le chiavi del carcere. È quindi legittimo, e addirittura doveroso, denunciare le responsabilità della magistratura non tanto nella causazione diretta del fenomeno del sovraffollamento, quanto nella omissione di quegli interventi, doverosi o discrezionali, che potrebbero quantomeno alleviare la situazione attuale. Nell’immediato e a legislazione invariata, la magistratura potrebbe operare una formidabile supplenza della inerte politica, secondo uno schema già praticato e predicato in passato in settori dell’ordinamento meno rilevanti di quello penitenziario. I giudici potrebbero, in tempi rapidissimi e senza attendere improbabili risposte legislative clemenziali, incidere sia nella fase di cognizione, grazie a una più ragionevole dosimetria sanzionatoria che guardi anche alle ricadute nella fase esecutiva, sia nel procedimento di sorveglianza, con un approccio diverso alle misure alternative alla detenzione che tenga conto del surplus di afflittività rappresentato dall’endemico sovraffollamento carcerario. Se anche l’auspicio di una supplenza della magistratura può sembrare velleitario nell’attuale contesto storico, quello che certamente risulta intollerabile è l’inosservanza delle regole vigenti in una situazione drammatica che vede la popolazione carceraria tornata ai livell i pre-Torreggiani. Segnalo al lettore, a mero titolo esemplificativo, la questione della liberazione anticipata pre-esecutiva, di fatto abrogata da prassi devianti. L’art. 656 comma 4-bis c.p.p. impone al pubblico ministero, prima di emettere l’ordine di esecuzione, di trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per l’eventuale applicazione della liberazione anticipata sul presofferto cautelare o in caso di fungibilità della pena. La ratio sottesa al meccanismo del comma 4-bis è quella di evitare l’inutile e dannoso ingresso in carcere di soggetti la cui esecuzione, per il residuo in concreto da espiare, al netto del riconoscimento della liberazione anticipata sul presofferto, può essere sospesa, in quanto inferiore ai limiti previsti dal comma 5, principalmente i 4 anni di detenzione dell’affidamento in prova ordinario. Ebbene, nella prassi il pubblico ministero viene meno al preciso dovere di chiedere al magistrato di sorveglianza la previa determinazione dei periodi di liberazione anticipata, emette così l’ordine di esecuzione non sospeso e chi potrebbe evitare l’ingresso in carcere, accedendo alle misure alternative da libero, si vede costretto a una permanenza in detenzione di circa un anno (questo è il tempo medio di decisione) in attesa che sia il tribunale di sorveglianza a pronunciarsi contestualmente sulla misura alternativa e sulla liberazione anticipata. Perché l’art. 656 comma 4-bis c.p.p. viene troppo spesso disapplicato? Per ragioni puramente burocratiche, perché il pubblico ministero non vuole assumersi la responsabilità del differimento dell’ordine d’esecuzione e perché il magistrato di sorveglianza, senza titolo esecutivo, non ritiene di doversi occupare del tema della liberazione anticipata. Il risultato è che da un’ingiustificabile violazione di legge deriva un non secondario contributo al sovraffollamento. Se non possiamo pretendere la supplenza della magistratura, che implicherebbe una particolare sensibilità per il tema dei diritti fondamentali dei detenuti, dobbiamo almeno far sì che vegano rispettate quelle (poche) regole che sono espressamente volte a ridurre gli accessi al carcere. *Ordinario di Procedura penale Università di Milano-Bicocca Carceri, Minotti: “Serve un nuovo modello, tra diritti umani e sostenibilità” di Maurizio Pizzuto Il Riformista, 4 ottobre 2025 Come sarà il penitenziario del futuro? A questa domanda ha risposto l’ingegnere Sergio Minotti, Presidente della Commissione Codice Appalti dell’Ordine degli Ingegneri di Roma ed esperto internazionale di edilizia penitenziaria, autore di una relazione dal titolo “Il Penitenziario di domani. Superare l’emergenza per garantire una vivibilità sostenibile e il rispetto dei diritti umani”. Minotti parte da un concetto chiave: la realtà carceraria è complessa e spesso ignota ai cittadini. “È possibile che l’osservatore poco esperto sottovaluti le dinamiche e i processi che regolano le attività di ristretti, operatori e chiunque viva all’interno di un penitenziario. Quel muro di cinta non è solo una delimitazione fisica, ma una barriera sociale e culturale difficile da abbattere”, ha spiegato. Il nodo centrale resta la dignità umana. “Abbattere, seppur virtualmente, i recinti che limitano la conoscenza del pianeta carcere è l’unica speranza per attuare azioni efficaci di trattamento dei detenuti. Queste devono puntare al reinserimento nella società civile e alla riduzione delle recidive. Lo impongono la nostra Costituzione e le regole internazionali sui diritti dell’uomo”, ha aggiunto Minotti, sottolineando che senza questo approccio il rischio è quello di perpetuare “ciclico sovraffollamento e sistematico degrado delle strutture”. Quanto alle soluzioni, l’ingegnere ha ricordato l’esperienza di Milano: “Quando fu completato il carcere di Opera si sarebbe dovuto dismettere San Vittore, ma ciò non è accaduto. Lo stesso con Bollate: si parlava di chiudere San Vittore, ma ancora una volta è rimasto aperto. L’aumento della capienza da solo non risolve i problemi”. La proposta, quindi, è un equilibrio tra due linee di azione: “Per mantenere costante l’equilibrio tra costi e benefici per la collettività e garantire una sostenibilità del sistema, le politiche di tipo contenitivo devono andare di pari passo con quelle deflattive”. Il messaggio di Minotti è chiaro: il penitenziario di domani non deve essere solo un luogo di detenzione, ma un laboratorio sociale dove convivono sicurezza, rispetto dei diritti umani e strategie innovative per costruire una società più giusta e inclusiva. Ma la separazione delle carriere dei magistrati è di destra o di sinistra? di Tullio Camiglieri Il Riformista, 4 ottobre 2025 Questa battaglia non è una suggestione di scuola leghista o berlusconiana. Anzi, ha radici ben piantate nel pensiero di personalità insospettabili. Come in quella di Giovanni Falcone. Il tema della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri torna ciclicamente, come un pendolo che oscilla tra riforma e conservazione. Ma è davvero una battaglia “di destra”? Nel 2019, in occasione delle primarie del Partito Democratico, l’attuale responsabile giustizia Debora Serracchiani - insieme a figure di peso come Graziano Delrio, Matteo Orfini, Vincenzo De Luca e Lorenzo Guerini - sottoscriveva la mozione a sostegno di Maurizio Martina. In quel documento si affermava chiaramente: “Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Una posizione netta, senza giri di parole - Oggi, a distanza di appena sei anni, la linea sembra mutata. Che cosa è successo nel frattempo? L’interrogativo non è banale, perché la separazione delle carriere non è una suggestione di scuola leghista o berlusconiana. Anzi, ha radici ben piantate nel pensiero di personalità insospettabili. Giovanni Falcone, nel 1989, scriveva: “Comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti”. Per il magistrato simbolo della lotta alla mafia non si trattava di smantellare l’indipendenza della magistratura, bensì di rafforzarla. Nel 2004, Giuliano Pisapia - allora deputato di Rifondazione comunista, avvocato e giurista - presentava una proposta di legge che affrontava lo stesso tema con parole inequivocabili: “Riconoscere la sostanziale differenza tra la funzione requirente e quella giudicante equivale - diversamente da quanto alcuni temono - a garantire meglio la magistratura, la sua indipendenza e a prevenire il pericolo che ne sia inficiata la credibilità”. Allora perché ogni volta che si pronuncia questa espressione scatta l’accusa di “attacco alla magistratura” o di “deriva autoritaria”? Forse perché la storia politica recente ha legato la battaglia soprattutto al centrodestra, in particolare ai governi guidati da Silvio Berlusconi, che aveva più di un conto aperto con le aule di giustizia. Da lì la semplificazione: se ne parla a destra, allora deve essere un progetto di destra. Ma la realtà è diversa. La riflessione sulla terzietà del giudice, sul ruolo del pubblico ministero e sull’equilibrio dei poteri attraversa tutto l’arco politico, almeno quello che non teme di sporcarsi le mani con riforme di sistema. Chi difende lo status quo sostiene che la separazione indebolirebbe l’azione penale e aprirebbe la strada a un controllo politico dei pubblici ministeri. Ma il vero rischio per la credibilità della giustizia è proprio nella commistione attuale, dove giudici e pm appartengono allo stesso corpo e possono passare da una funzione all’altra nel corso della carriera. È difficile spiegare ai cittadini - osservano i fautori della riforma - che chi oggi accusa domani può giudicare, e viceversa. Certo, la destra l’ha spesso cavalcata, ma lo hanno fatto anche pezzi importanti della sinistra riformista, convinti che si tratti di un passaggio necessario per rafforzare le garanzie. Serracchiani e compagni lo scrivevano nel 2019; Falcone lo diceva trent’anni fa; Pisapia lo ha tradotto in un atto parlamentare vent’anni or sono. La domanda da porsi, semmai, è un’altra: perché il centrosinistra ha cambiato passo? Forse per il timore di consegnare una vittoria simbolica alla destra, o perché il dialogo con l’Associazione nazionale magistrati è sempre stato complicato. Oppure perché, in un clima politico avvelenato, ogni riforma della giustizia rischia di essere letta come una manovra contro qualcuno. La separazione delle carriere appartiene a chiunque ritenga che la giustizia debba essere percepita come terza e imparziale: una chiara e semplice battaglia riformista. “Riforma, quando la protesta dei magistrati diventa un rischio” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 ottobre 2025 “La libertà di espressione è insopprimibile anche per i magistrati, ma se le loro critiche si trasformano in protesta, chiamata alle armi, lutto al braccio, o scioperi, non le ritengo legittime”, afferma il professor Pieremilio Sammarco, ordinario di diritto comparato all’Università di Bergamo. Professor Sammarco, lei è stato sempre un attento osservatore delle vicende della magistratura e delle questioni sulla giustizia, che cosa ne pensa della posizione della mobilitazione dell’Associazione nazionale magistrati contro la riforma della separazione delle carriere fra pm e giudici voluta dal governo Meloni? Prima di entrare nel merito, vorrei fare una premessa: la magistratura è una istituzione che svolge una funzione essenziale per la collettività e lo scontro con il governo e il Parlamento indebolisce l’intero ordine costituzionale. Ci spieghi meglio... I magistrati non sono pubblici dipendenti come tutti gli altri, non possono interferire con l’attività del Parlamento chiamato ad approvare le leggi che poi loro devono applicare, o a cui devono conformarsi. Certo, anche i magistrati sono soggetti alle leggi. Mi sembra una considerazione scontata… Così come leggiamo nelle aule dei tribunali che la giustizia è amministrata in nome del popolo, è lo stesso popolo che attraverso i suoi rappresentanti promulga le leggi. Dunque ogni riforma è frutto della volontà popolare che attraverso il corpo politico da essa eletto deve essere da tutti accettata. Come giudica allora le svariate forme di protesta annunciate dall’Anm e dai suoi vari gruppi associativi? Lo strapparsi le vesti - o meglio la toga - in segno di protesta è a mio avviso del tutto inopportuno, così come l’astensione o lo sciopero. Prenderei in prestito le parole del giurista Arturo Carlo Jemolo che desiderava “se ne dismetta per sempre l’idea, che esca fuori dal novero delle cose possibili, dei mezzi cui si pensi a ricorrere”. Dunque, per lei è intollerabile per i magistrati protestare? E che diano vita a Comitati per il “No’ alla riforma costituzionale? Critico ogni forma di dissenso che spezzi la necessaria continuità giurisdizionale perché inciderebbe profondamente sui diritti di tutti coloro che chiedono giustizia, oltre a contribuire a danneggiare l’economia e l’immagine del paese. Mi ispirerei piuttosto al modello francese, dove per legge sono vietate tutte le manifestazioni di dissenso ai provvedimenti legislativi e alle misure del governo che vengono considerate incompatibili con le funzioni del magistrato. Vi è quindi il divieto di sciopero e di critica per ragioni di tipo politico nei confronti di leggi adottate dal potere legislativo, mentre sono da considerarsi pienamente legittime le astensioni di tipo sindacale per ragioni economiche e organizzative, quali, ad esempio, la carenza di organico, le rivendicazioni salariali e per il malfunzionamento generale dell’organizzazione degli uffici giudiziari. E che opinione ha riguardo alla presenza di esponenti di partiti politici dell’opposizione, contrari alla riforma, alle manifestazioni pubbliche organizzate dalle varie correnti della magistratura associata? Reputo tali presenze del tutto inopportune per la magistratura associata perché vi è il concreto rischio che l’opinione pubblica percepisca i giudici intrinsecamente legati alla politica e che possano svolgere per essa il ruolo di ruota di scorta, o talvolta il vero e proprio motore. Inoltre, in questi casi, il già labile confine tra la critica e la propaganda politica verrebbe definitivamente meno. La contiguità tra magistratura e politica riporta degli esempi eclatanti… Vi sono stati e vi sono tuttora dei casi di magistrati che, oltre a non celare il loro orientamento politico, partecipano alla vita politica, dimenticando il dettato costituzionale. Tutto questo dovrebbe essere maggiormente sanzionato dal Csm, proprio a tutela dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Sembra un legame inestricabile. Sbaglio? Non voglio ripetere ancora che terzietà e imparzialità del giudice siano assicurate sotto il profilo dell’apparenza, né arrivare come diceva Piero Calamandrei al punto che il giudice dovrebbe consumare i suoi pasti in assoluta solitudine, ma ci sono dei limiti e confini che devono rimanere tali. Se pensiamo ai giudici che vanno alle manifestazioni di protesta organizzate da partiti politici, partecipano ai comizi, criticano il governo o i suoi ministri, sono esempi da sanzionare. Se poi consideriamo quello che accade all’interno dei social media, dove la partecipazione dei magistrati è attiva, penso che abbiamo superato il segno. Già, il mondo dei social media è esploso e ha contagiato anche i magistrati... Sì e abbiamo già visto esempi sconcertanti: insulti e offese da parte di giudici verso esponenti politici, colleghi; adesioni virtuali a proteste in atto, pubblicazione di fotografie di propaganda politica e commenti inappropriati. Invoco una maggiore cautela e auspico il divieto di utilizzo dei social media da parte dei magistrati a cui dovrebbe essere consentito solo la pubblicazione di informazioni estranee alla politica (italiana e internazionale) e all’attività giurisdizionale che svolgono. Ci aspetta allora una stagione di partecipazione attiva da parte della magistratura in vista della prossima campagna referendaria... Sarà un banco di prova per l’attuale Consiglio superiore della magistratura: vedremo se la Sezione disciplinare avrà il coraggio di sanzionare le condotte inappropriate che saranno attuate. In passato non si è vista una mano decisa. E forse proprio questo storico permissivismo farà sì che l’opinione pubblica si convincerà maggiormente della necessità della riforma. È favorevole alla riforma che prevede due distinti Csm oltre alla creazione di una alta Corte disciplinare esterna ai due futuri organi di autogoverno? Nel merito della riforma si sarebbero tante cose da dire. Mi limito solamente ad affermare che l’attuale impianto ha mostrato tutti i suoi limiti ed un cambiamento era necessario. Triveneto. I cappellani: “Le carceri rischiano di essere luoghi invisibili ed emarginanti” amicodelpopolo.it, 4 ottobre 2025 L’appello rivolto alla società e alle istituzioni: “Stiamo facendo davvero tutto il possibile per l’accompagnamento, la rieducazione ed il reinserimento di chi è ristretto?”. A Zelarino, alle porte di Venezia, si sono riuniti l’1 ottobre 2025 i cappellani delle carceri del Nordest insieme all’arcivescovo di Gorizia, monsignor Carlo Maria Redaelli, responsabile della pastorale penitenziaria per il Triveneto. L’incontro è stato l’occasione per fare il punto sulla situazione degli istituti penitenziari del territorio, in un anno segnato da diverse iniziative legate al Giubileo ma anche da numerosi episodi drammatici. Il più recente è avvenuto nel carcere di Belluno, dove si è registrato il 58° suicidio dall’inizio dell’anno. Un numero che, sottolineano i cappellani, non può essere considerato soltanto come un dato statistico: “Non si tratta di un semplice “dato spiacevole” da registrare, ma riguarda una persona, come tutte le altre 57, la cui vicenda interroga tutti”. Da qui la domanda che i cappellani rivolgono alla società e alle istituzioni: “Stiamo facendo davvero tutto il possibile per l’accompagnamento, la rieducazione ed il reinserimento” di chi è in carcere? Nel loro comunicato, i sacerdoti richiamano l’attenzione sulle condizioni quotidiane delle carceri. Strutture spesso fatiscenti e sovraffollate, personale ridotto, assenza di opportunità alternative esterne: fattori che, spiegano, finiscono per rendere gli istituti penitenziari “luoghi invisibili ed emarginanti”. Neppure la situazione dei minori appare migliore, anzi. Anche in questo ambito si registra “una esplosione dei numeri che ormai è emergenza cronica”. Il messaggio conclusivo richiama le parole di Papa Leone XIV, pronunciate in occasione del Giubileo degli operatori di giustizia: “Troppo spesso, in nome della sicurezza si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Le nostre città non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione”. Padova. Parte la stanza dell’amore al Due Palazzi grazie all’omicida redento di Alessandro Fulloni Corriere del Veneto, 4 ottobre 2025 Il ricorso vinto dal detenuto, la sperimentazione che inizia lunedì. Che c’entra il ricorso all’Ufficio di Sorveglianza di un detenuto condannato per omicidio con l’apertura, dopodomani, di una “stanza dell’amore” al carcere di Padova? Il legame è pressoché diretto. E ora vediamo il perché. Partiamo però dal gennaio del 2020, quando quest’uomo - oggi 34enne - uccide volontariamente un parente, travolgendolo con un’auto in una città del Nord. Il seguito è l’arresto e una condanna a 15 anni. Ma è anche, una volta affidato al carcere Due Palazzi, la storia di un carcerato - che ha quattro figli, tutti minorenni, dalla compagna con cui è legato dal 2010 - animato dal desiderio di redimersi ed essere recuperato. Ha ammesso la colpa più volte, si dichiara pentito. Grazie alla buona condotta, in parlatoio vede regolarmente i familiari. Non solo. A partire dal 2022, ha iniziato un tirocinio presso la cooperativa Giotto da cui è stato assunto l’anno dopo. “Con la piccola retribuzione, aiuta la famiglia”, si legge nelle carte giudiziarie che lo riguardano. Ha ottenuto più volte dei permessi con scorta per andare a trovare il padre, ammalato, che ha salutato un’ultima volta ai recenti funerali. Ma soprattutto, quando è autorizzato, va a trovare uno dei figli, gravato da una pesante disabilità. Infine è entrato in contatto, frequentandola, con “Ristretti Orizzonti”, la storica rivista, diretta da Ornella Favero, scritta in gran parte da detenuti o ex detenuti, divenuta il punto di riferimento per tutte le questioni delle carceri, ma viste dal di dentro. Da questo punto in poi entriamo però nel cuore dell’iter che riguarda le “stanze dell’amore” a Padova. Il nostro detenuto, attento alla cronaca e a tutto ciò che lo circonda, nel febbraio 2024 presenta un’istanza per avere colloqui intimi con la compagna. Ma la richiesta viene inizialmente bocciata. “Non è previsto”, è più o meno la risposta che arriva dall’allora direzione del carcere. Senonché l’11 dicembre 2024 la Corte Costituzionale emette una sentenza “spartiacque”, stabilendo che per un detenuto i colloqui intimi con il coniuge sono una legittima espressione del diritto all’affettività. Il carcerato di Padova, assistito dall’avvocata Annamaria Alborghetti, torna allora alla carica e presenta un reclamo - l’oggetto è questo: “violazione del diritto all’affettività” - che atterra sul tavolo del magistrato di sorveglianza Lara Fortuna. L’ordinanza firmata il 22 maggio scorso, e i cui effetti entreranno in vigore da lunedì, accoglie l’istanza. Al ricorrente deve essere “consentito di svolgere un colloquio in presenza, riservato e senza controllo da parte della Penitenziaria, nello spazio che deve essere individuato dalla direzione del carcere” seguendo le linee guida del Dipartimento dell’amministrazione carceraria varate dopo la pronuncia della Consulta. “Il ricorso del detenuto ha di certo accelerato il via libera alla stanza della privacy”, commentano ora all’unisono Ornella Favero e Annamaria Alborghetti. Va comunque aggiunto che nell’ordinanza della magistrata è la stessa neodirettrice del carcere Maria Gabriella Lusi a riferire che sarebbe stata “imminente l’attuazione della sentenza della Corte”. Si comincia appunto dal 6 ottobre, in uno spazio predisposto accanto alla stanza dei colloqui. Si tratta di una sorta di sperimentazione che durerà quattro mesi. Per due ore e mezza, suddivisi in tre turni al giorno, i detenuti a cui sarà dato il permesso potranno avere incontri intimi in un ambiente che riproduce una normale camera da letto con bagno e senza la sorveglianza diretta della polizia penitenziaria. I sindacati degli agenti di custodia sono però perplessi: temono che durante quegli incontri privi di sorveglianza possano essere introdotti in carcere droga, telefoni, messaggi, addirittura armi. Sarà dunque l’Ufficio di Sorveglianza (sul cui tavolo erano nel frattempo giunti altri due ricorsi che chiedevano il diritto ai colloqui intimi) a dare il via libera caso per caso. Conclusione: anche quello di Padova (dove, va ricordato, si era già parlato del tema sebbene il governo avesse “frenato”) rientra nel ristretto numero delle carceri italiane (in tutto circa 190) che stanno attrezzandosi per rispettare quanto deciso dalla Suprema Corte. Per ora si sono adeguate solo Parma e Terni. Un’altra trentina lo sta per fare. Ma il detenuto che ha dato il via all’iter? Ieri era nella redazione di “Ristretti Orizzonti”, ospitata dentro al penitenziario. Nell’abbracciare Ornella Favero le ha sorriso: “Sono felice, credo di avere fatto qualcosa di importante non tanto per me, quanto per i miei compagni di carcere. È un qualcosa che sarà ricordato”. Ogni settimana quest’uomo, tra l’altro, incontra le scolaresche che vanno in visita ai “Due Palazzi”, incontrando i detenuti proprio tra tavoli della rivista. Favero spiega: “Racconta loro la sua colpa ma anche la sua storia di redenzione. I ragazzi lo ascoltano attenti, coinvolti”. Belluno. Suicidi in carcere, l’ultimo episodio a Baldenich Il Gazzettino, 4 ottobre 2025 I consiglieri comunali Bavasso e Noro: “Serve un garante dei detenuti”. “La dottoressa Maria Losito si è dimessa nel dicembre scorso e che ad oggi non è stata individuata ancora una figura in grado di sostituirla”, affermano i consiglieri. Un detenuto di 35 anni due giorni fa è stato trovato nel bagno della sua cella, nella casa circondariale di Baldenich. Si è impiccato. Sul caso intervengono la consigliera comunale Ilenia Bavasso (Insieme per Belluno Bene Comune) e Davide Noro (segretario Pd città di Belluno). Un episodio, ricordano i due, “che non possiamo ignorare” e che arriva a 9 anni di distanza dall’ultimo in una struttura che altri presentano come “ottimale”. “La società si sta lentamente abituando alle morti in carcere. Noi sottolineiamo come l’assenza di un garante per i detenuti presso l’istituto, non faccia che aggravare tale situazione: sappiamo che la dottoressa Maria Losito si è dimessa nel dicembre scorso e che ad oggi non è stata individuata ancora una figura in grado di sostituirla”. Dice Bavasso: “All’interno delle carceri il suicidio rimane la causa più frequente di morte: una parabola ascendente negli ultimi anni: nel 2022 si era avuto un picco tragico di 85, ma il 2024 c’è stato il record con 92 detenuti e 7 agenti di polizia penitenziaria (non si parla mai abbastanza di loro). E ora nessuno ci assicura che questo ragazzo di 35 anni, il 58esimo detenuto suicida del 2025, sia l’ultimo dell’anno”. La consigliera allarga ancora lo sguardo, ma senza dimenticare Baldenich: “A ciò devono aggiungersi i morti per causa da accertare, giacché spesso gli accertamenti riconoscono proprio nel suicidio la causa della morte. In ogni caso le statistiche dicono che i detenuti si suicidano circa 18 volte più della popolazione libera e gli agenti con una frequenza 4 volte superiore”. Un disagio certificato “dall’uso regolare di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi (20% delle persone detenute); il 40% fa uso di sedativi o ipnotici, aumentano aggressioni (668 nel 2024, cinquanta in più del 2023) e atti di autolesionismo (12,896, 514 in più); nel 2024 sono cresciute anche manifestazioni di protesta collettiva”. Ma a fronte di tutto questo il “ministro della Giustizia Carlo Nordio sostiene che non vi sia correlazione tra l’elevato numero di suicidi e il sovraffollamento carcerario ed anche a Belluno ad agosto c’era stata una protesta per questo”. Infine, da avvocato, divenuta tale proprio dopo essere stata esaminata da Nordio in procedura penale, Bavasso chiude: “Non posso inoltre ignorare l’altissimo tasso di recidiva e lo svuotamento del principio costituzionale che indica come la pena debba tendere alla rieducazione del condannato: oggi prevale una logica punitiva i cui effetti dovrebbero essere sotto gli occhi di tutti”. Queste invece le riflessioni di Noro: “Da oltre un anno assistiamo a clamorose manifestazioni di insofferenza nella casa circondariale di Belluno e aspettiamo un gesto o una minima dimostrazione di interesse da parte del centrodestra bellunese che governa nel capoluogo, a Venezia e a Roma. Al contrario continua imperterrita la narrazione di una struttura ottimale se non addirittura di eccellenza, supportata dal fatto che una discreta quantità di detenuti è impiegata in attività lavorative. Narrazione alimentata anche dal senatore bellunese De Carlo: ci si aspetterebbe, invece, un giudizio un po’ più oggettivo da parte di chi spesso e volentieri entra ed esce da Baldenich. Deve essere chiaro il messaggio: il lavoro in carcere non è l’unica soluzione. La qualità di vita dei detenuti deve essere misurata su diversi parametri: è fondamentale insistere su altri aspetti, a partire da quelli strutturali, viste le condizioni drammatiche in cui versa la struttura, vecchia e fatiscente. Servono, lo ribadiamo ancora con più forza, un supporto psicologico regolare ed accessibile e la presenza fissa di mediatori culturali all’interno del carcere, visti i tanti detenuti stranieri con difficoltà linguistiche”. Monza. “Noi, educatori licenziati dall’oggi al domani” di Dario Crippa Il Giorno, 4 ottobre 2025 Parla Claudia Farina, punto di riferimento per i nuovi ingressi in struttura: “Ho imparato che si tratta prima di tutto di persone, non sta a me giudicare. Mi occupo anche delle prime necessità, dalla felpa alla mamma da chiamare”. Quando i nuovi detenuti entrano in carcere, i primi volti che incontrano, dopo quello del medico, sono quelli di persone come Claudia, 30 anni. Agenti di rete - si chiamano - un progetto nato in Lombardia che serve per accogliere i detenuti e spiegare tutto quello che occorre per orientarsi nella nuova realtà in cui si troveranno a vivere. C’è chi non conosce i propri diritti e doveri, “chi ha bisogno di una felpa perché ha freddo o di una bottiglia d’acqua. O si avvisare la mamma in Marocco... Siamo la bussola? Beh, si può dire di sì. Soprattutto in un momento come questo di sovraffollamento delle carceri, in cui per esempio a Monza si sono oltre 700 persone (molte delle quali straniere e con problemi psichiatrici o di dipendenze, ndr) per 411 posti”. Claudia Farina è una delle due persone che erano in servizio alla casa circondariale di Monza fino all’altro giorno. “Fino a martedì. Il giorno prima abbiamo appreso che il Progetto Sintesi, che in Lombardia andava avanti da una ventina d’anni, non era stato più finanziato. E quindi dal giorno successivo il nostro lavoro non sarebbe stato più servito”. O meglio, almeno a Monza, serve ancora, ma a occuparsene ora sono sostanzialmente la direttrice e la sua vice. Accogliere i nuovi detenuti è fondamentale per una civile convivenza. E gli Agenti di rete facevano questo e altro. “Sono laureata in Scienze dell’Educazione - racconta Claudia - e ho lavorato in quel grande mondo del sociale con diverse esperienze: dai centri diurni alle comunità per pazienti psichiatrici. Poi, quando mi sono imbattuta per la prima volta nel lavoro in carcere, ho capito che era la mia strada”. Non deve essere facile. “Oltre agli studi molto insegna l’esperienza. All’inizio, prima di incontrare un nuovo detenuto andavo a leggermi il suo fascicolo, per capire cosa aveva fatto, come era arrivato fino a lì. Poi mi sono resa conto che era l’approccio sbagliato, e avrebbe rischiato di condizionarmi. Ho capito che per me i nuovi arrivati prima di tutto erano persone. E io non sono nessuno per giudicare quello che hanno fatto, a questo pensano i Tribunali. Che abbiano commesso una rapina a mano armata, una violenza su una donna o hanno rubato una bicicletta, non deve condizionare il mio lavoro”. Arrivano tutti con le loro esigenze e le loro vite. “La prima cosa che chiedo a un nuovo giunto è se è mai stato in carcere, in modo da sapere cosa già conosce di questa realtà. Poi mi informo della sua famiglia, se c’è una rete di affetti che lo può sostenere e aiutare anche fuori. Anche qual è il loro titolo di studio. E poi ci sono tante cose da sapere, come accedere alle telefonate, come contattare un avvocato”. Claudia lavorava a Monza da due anni. Accogliere i nuovi ingressi sono la prima non è semplice. “A volte, soprattutto nei fine settimana, potevano arrivare 20-25 nuovi ospiti e c’era parecchio da fare. L’accoglienza va fatta per Legge entro 72 ore dall’ingresso nella struttura. E noi siamo pochi, due per struttura, ma abbiamo sempre cercato di lavorare al meglio. Certo, non si può farlo una volta a settimana e lasciare i nuovi detenuti a se stessi. Gli Agenti di rete sono sempre stati figure precarie, con i contratti che andavano rinnovati di volta in volta, pur sapendo che alla fine sarebbero stati rinnovati”. Quanto si guadagna? “Un migliaio di euro al mese per 26 ore a settimana, assunti da una cooperativa. Non molto, questo lavoro - scherza - è quasi una vocazione. Certo, non ci aspettavamo che sarebbe tutto finito in un batter d’occhio”. Bologna. I detenuti: “Rinunciamo a un giorno di libertà” Corriere di Bologna, 4 ottobre 2025 Anche i detenuti del carcere bolognese della Dozza, quelli che lavorano per “Fare Imprese in Dozza”, l’azienda metalmeccanica interna all’istituto detentivo di via del Gomito, hanno deciso di aderire allo sciopero generale indetto dalla Cgil per Gaza e per la Global Sumud Flotilla. “Preso atto di quello che sta avvenendo a Gaza, noi dipendenti della Fare Impresa in Dozza abbiamo deciso di scioperare il 3 ottobre - hanno scritto in una lettera che ha letto nel corso della manifestazione in segretario della Camera del Lavoro di Bologna, Michele Bulgarelli -. Per noi reclusi andare a lavorare è un momento di libertà dal contesto carcerario in cui viviamo ogni giorno. Nonostante ciò, rinunciamo a un giorno di libertà e al nostro stipendio. Questa decisione è stata presa per manifestare tutta la nostra indignazione per il genocidio tuttora in atto e per supportare le persone della Flotilla, arrestate con l’unica colpa di essere ambasciatori d’umanità. Questo è il minimo che possiamo fare per poter ringraziare tutti quei cittadini che ogni giorno si battono per i diritti dei detenuti”. Benevento. Dal carcere al cantiere, detenuti a lavoro sull’alta velocità di Emilio Gioventù Italia Oggi, 4 ottobre 2025 Quattro reclusi della casa circondariale di Benevento hanno iniziato un percorso di reinserimento sociale grazie al Protocollo firmato tra Webuild e il Dap. Altri 5 detenuti arriveranno da Avellino. Dalle sbarre delle celle alle traversine dei binari. Per quattro detenuti della Casa Circondariale di Benevento il reinserimento corre veloce sulla la linea ferroviaria alta velocità/alta capacità Napoli-Bari. Una vita fuori grazie a un contratto di lavoro all’interno di uno dei progetti infrastrutturali più ambiziosi del Sud Italia. Formazione e lavoro - La fase operativa del progetto - che prevede l’assunzione complessiva di circa dieci persone - è iniziata con la selezione dei primi quattro candidati, individuati con il supporto del Dap e dell’agenzia per il lavoro Randstad. Per loro si è aperto un percorso dentro il programma Cantiere Lavoro Italia, l’iniziativa di Webuild che offre gratuitamente formazione e sbocchi professionali nei grandi cantieri del Gruppo. Il cammino non è stato immediato. I partecipanti hanno prima seguito la Scuola del Territorio, un corso di formazione pre-assunzione erogato direttamente all’interno dell’Istituto penitenziario, per poi accedere alla Scuola dei Mestieri, centro specializzato in formazione intensiva. Solo dopo aver completato con successo questi step, i quattro detenuti sono stati assunti e inseriti nel cantiere del lotto Apice-Hirpinia della nuova alta velocità Napoli-Bari, commissionata da Rfi (Gruppo FS Italiane). Un risultato che apre la strada ad altri: dopo Benevento, il progetto si è esteso alla Casa Circondariale di Ariano Irpino (Avellino), dove sono in corso i colloqui di selezione per cinque nuovi partecipanti destinati al lotto Hirpinia-Orsara della stessa linea ferroviaria. Il grande cantiere ferroviario del Mezzogiorno - La linea Napoli-Bari è il progetto più avanzato, con quattro lotti affidati a Webuild - Napoli-Cancello, Apice-Hirpinia, Hirpinia-Orsara e Orsara-Bovino - per un totale di 74 chilometri. L’opera prevede la costruzione di 6 gallerie con l’impiego di 8 TBM (Tunnel Boring Machine), 10 viadotti e 6 tra nuove stazioni e fermate. Una volta completata, la linea permetterà ai treni di viaggiare fino a 250 km/h, riducendo drasticamente i tempi di percorrenza: il collegamento Napoli-Bari scenderà a circa 2 ore (contro le 4 attuali), mentre Roma-Bari sarà coperto in appena 3 ore. Ma il valore della linea va oltre i tempi di viaggio. Rientra, infatti, nella strategia europea TEN-T, che punta a spostare entro il 2050 il 50% del traffico merci dalla gomma al ferro, triplicare la rete AV e ridurre del 60% le emissioni dei trasporti. Accanto alla Napoli-Bari, sono in corso i lavori per la Salerno-Reggio Calabria, che porterà l’alta velocità fino in Calabria, e per la Palermo-Catania-Messina, con una nuova linea a doppio binario che ridisegnerà i collegamenti interni della Sicilia. Avellino. Emergenza carceri, il confronto tra magistrati, avvocati e politica di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 4 ottobre 2025 Al Circolo della Stampa focus sulle principali emergenze del sistema penitenziario italiano: “Da troppi anni non si è avuta la possibilità né la capacità di rivedere organicamente l’intero sistema giudiziario”. Questa sera, presso il Circolo della Stampa di Avellino, in Corso Vittorio Emanuele, si è tenuto il convegno dal titolo “Le problematiche carcerarie attuali”, un appuntamento che ha riunito rappresentanti del mondo politico, giuridico e dell’associazionismo per discutere delle condizioni del sistema penitenziario italiano e delle prospettive di riforma. A introdurre i lavori è stata Sonia Lombardo, mentre a moderare l’incontro la dottoressa Rosa Criscuolo. Tra gli interventi, quello del magistrato Giuseppe Cioffi, che ha definito l’emergenza carceraria parte di una questione più ampia: “Quella che voi chiamate emergenza, che in realtà allargherei un po’ di più: l’emergenza giudiziaria italiana è anche l’emergenza della sicurezza, l’emergenza di ripensare le istituzioni e le metodologie”. Cioffi ha sottolineato la necessità di un approccio nuovo: “Con almeno trent’anni di ritardo, bisogna rivedere e riorganizzare tutto con criterio, perché abbiamo un problema di sicurezza che riguarda anche la presenza, ormai da quarant’anni, di un numero enorme di cittadini extracomunitari arrivati in Italia”. Un’analisi severa anche da parte dell’onorevole Carmela Rescigno, che ha definito l’attuale condizione carceraria una normalità più che un’eccezione: “Secondo me, parlare oggi di emergenza carceraria è quasi superfluo, perché ormai si tratta di una condizione che è diventata la normalità”. Rescigno ha evidenziato le principali criticità: “Il sistema penitenziario vive una forte emergenza sotto diversi punti di vista: da quello sanitario alla carenza di personale, fino al problema del sovraffollamento”. Francesco Urraro: “Serve garantire dignità e rieducazione” - Il consigliere avvocato Francesco Urraro, vicepresidente del Consiglio di Presidenza del Consiglio di Stato, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di garantire dignità ai detenuti: “Ormai l’emergenza carceraria è diventata un’atavica tradizione distorta. Si tratta di questioni già attenzionate da una giurisprudenza nota, a partire dalla sentenza Torreggiani: gli spazi, le strutture, ma soprattutto, sotteso a tutto, il valore e la dignità dell’uomo e della persona”. Urraro ha ricordato che il carcere non può prescindere dal principio costituzionale di rieducazione e ha rimarcato il ruolo del lavoro come strumento di reinserimento: “È ormai chiaro che chi non ha un lavoro, nel 98% dei casi, tende a reincorrere nella delinquenza”. Un confronto aperto sul futuro delle carceri italiane - Il convegno, a cui hanno preso parte esponenti del mondo politico, accademico e associativo - tra cui il senatore Sergio D’Elia, Sabino Morano, l’avvocato Giovanna Perna, il giornalista Luigi Mercogliano, l’avvocato Gerardo Di Martino e l’avvocato Giulia Cavaiuolo - si è configurato come un’occasione di confronto su un tema centrale e irrisolto del dibattito pubblico: il futuro delle carceri italiane. Alba (Cn). Attivato il Tavolo territoriale carcere per la Casa di reclusione G. Montalto comune.alba.cn.it, 4 ottobre 2025 Coinvolge tutti gli attori che si occupano della Casa di Reclusione albese ed ha l’obiettivo di condividere conoscenze e competenze sul tema specifico per lo sviluppo di iniziative concrete. Ad Alba è stato attivato il Tavolo Territoriale Carcere per la Casa di Reclusione “G. Montalto” promosso dal CSV Società Solidale ETS in collaborazione con il Comune di Alba, attraverso l’Assessorato alle Politiche Sociali guidato dall’assessora Donatella Croce ed il Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Emilio De Vitto. Il Tavolo di lavoro sul carcere coinvolge tutti gli attori che si occupano della Casa di Reclusione albese ed ha l’obiettivo di condividere le rispettive conoscenze e competenze sul tema specifico per lo sviluppo di iniziative concrete. Non ha finalità di rivendicazione politica, bensì si propone di attivare iniziative e interventi per migliorare le condizioni dei detenuti e degli operatori e contemporaneamente sensibilizzare la cittadinanza sul tema carcerario. Il primo incontro si è svolto martedì 30 settembre nella sala Consiglio “Teodoro Bubbio” del Palazzo comunale. Oltre all’assessora Croce e al garante De Vitto, all’incontro hanno partecipato anche il sindaco Alberto Gatto, insieme ai due consiglieri comunali delegati al Tavolo Carcere, Martina Amisano per la maggioranza ed Emanuele Bolla per la minoranza, il direttore della Casa di Reclusione Nicola Pangallo, la presidente della Consulta Comunale del Volontariato Eliana Victoria Davila. Presenti anche: Giovanni Bertello direttore tecnico del progetto agricolo interno al penitenziario albese, il direttore del Consorzio Socio-Assistenziale Alba - Langhe - Roero Marco Bertoluzzo, don Gigi Alessandria della Caritas, i referenti di Asl CN2 con il direttore generale Paola Malvasio e il direttore sanitario Luca Burroni; gli esponenti di: Arcobaleno Odv di Alba, Agenzia Synergie - Sportello inserimento lavoro, Casa di Carità Arti e Mestieri di Savigliano, Cooperativa Alice di Alba e Consorzio Compagnia di Iniziative Sociali-CIS di Alba, Ufficio di Esecuzione Penale Esterna - UEPE di Cuneo, CRIVOP Italia OdV, Istituto Cooperazione e Sviluppo - ICS APS ETS di Alessandria, i dirigenti scolastici del Centro Provinciale per l’istruzione degli adulti - CPIA, dell’Istituto Istruzione Secondaria Superiore “Piera Cillario Ferrero” e dell’Istituto Superiore “Umberto I” di Alba. Nel corso del primo incontro, Samanta Silvestri e Silvia Battaglio, operatrici di Società Solidale ETS hanno illustrato perché il CSV propone e vuole coordinare il tavolo carcere sul territorio di Alba, in stretta collaborazione con l’Amministrazione comunale ed il garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Alba. Il tavolo carcere si inserisce nel progetto Liberi Legami selezionato da Impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa. L’obiettivo primario del progetto è quello di tutelare i diritti di circa 500 tra bambini e ragazzi che hanno un genitore detenuto. Il progetto vuole accompagnarli nel loro percorso di crescita, offrendo loro opportunità educative e di inclusione sociale. “Ringraziamo il CSV Società Solidale ed il Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Emilio De Vitto per l’attivazione di questo Tavolo - dichiarano il sindaco Alberto Gatto e l’assessora alle Politiche Sociali Donatella Croce - Questa collaborazione di lavoro tra tutti i soggetti coinvolti porterà maggiori sinergie, idee e stimoli per realizzare progetti concreti atte a migliorare la permanenza dei detenuti all’interno della struttura di detenzione. Il carcere albese attualmente in corso di ristrutturazione e ammodernamento potrebbe essere destinato al trattamento avanzato per persone detenute di media sicurezza, con una forte vocazione lavorativa, trattamentale, con apertura all’esterno dell’istituto in sinergia con il mondo imprenditoriale. Su questo dovremmo arrivare preparati lavorando insieme per accogliere questa nuova realtà che si avvera sul nostro territorio”. Dichiara Emilio De Vitto Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale: “Il tavolo territoriale carcere può rappresentare una reale occasione per favorire una migliore sinergia e collaborazione tra tutte le realtà del pubblico e del privato sociale che operano all’interno della Casa di Reclusione “G. Montalto”. Questa iniziativa realizzata dal CSV si inserisce in Liberi Legami, progetto finanziato da Impresa Sociale Con i Bambini nell’ambito del Bando Liberi di Crescere. È realizzato in partenariato con Il Margine S.C.S (capofila), CTV - Centro Territoriale per il Volontariato in collaborazione con la rete CSVnet Piemonte, 10 Case Circondariali (Alessandria, Asti, Biella, Cuneo, Ivrea, Fossano, Novara, Saluzzo, Torino e Vercelli),13 Enti del Terzo Settore del territorio (APS e ODV, Fondazioni, Imprese Sociali e Società Cooperative), Regione Piemonte Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Torino. Lo “stato” dei diritti: al via a Orvieto il Congresso dell’Associazione Coscioni di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 ottobre 2025 A che punto sono i diritti civili in Italia? Se c’è un luogo adatto a stilare un bilancio, quello è il Congresso dell’Associazione Luca Coscioni. Che da anni porta le sue battaglie nelle piazze e nei tribunali, mantenendo un filo diretto con i cittadini che chiedono spazi di autodeterminazione nel campo dei temi etici. La due giorni prenderà il via domani ad Orvieto, in Umbria: la Regione di Luca Coscioni e anche di Laura Santi, protagonista nell’ultimo anno della campagna sul fine vita. Affetta da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla, la giornalista 50enne è morta lo scorso luglio nella sua casa di Perugia dopo aver ottenuto il via libera al suicidio assistito. La sua lunga battaglia per il sì e la sua importante eredità di parole saranno il filo conduttore dell’intero Congresso, alla quale prenderà parte anche suo marito Stefano Massoli. Ma all’appuntamento umbro (ingresso libero, live anche su Youtube) si parlerà pure di salute riproduttiva, ricerca scientifica, salute in carcere e disabilità. Per ripartire dai risultati incassati e tracciare le linee di azione futura dell’Associazione. Dopo i saluti delle istituzioni locali, i lavori prenderanno il via oggi con gli interventi della segretaria nazionale, Filomena Gallo, e del tesoriere Marco Cappato. A seguire due sessioni sulla libertà di ricerca e sui diritti riproduttivi regolati dalla legge 40, a partire dalla campagna “Pma per tutte”. Al centro le iniziative sull’accesso alla procreazione medicalmente assistita, attualmente negato alle donne single, e le testimonianze sulla gravidanza per altri, che è da poco diventata “reato universale”. Quindi le azioni in tema di aborto farmacologico senza ricovero, di cui discuterà Chiara Lalli. Domenica la sessione dedicata a Laura Santi e al fine vita, con i saluti del parlamentare dem Walter Verini. “Nonostante l’ostilità o l’inerzia dei vertici della politica ufficiale e dei partiti, il 2025 è stato un anno di conquiste e azioni concrete per la libertà di scelta, l’autodeterminazione e il diritto alla salute”, si legge nel comunicato dell’iniziativa. Che cita le due leggi regionali sul suicidio assistito approvate dalla Toscana e dalla Sardegna (di cui la prima impugnata dal governo) a partire dalla campagna “Liberi Subito” e delle proposte analoghe depositate in tutte le Regioni, a cui va aggiunta la proposta di legge nazionale in Parlamento per legalizzare l’eutanasia. Non meno importanti le battaglie giudiziarie che hanno portato a diversi pronunciamenti della Corte Costituzionale, tra cui la sentenza del 2024 sul requisito dei “trattamenti di sostegno vitale”, uno dei quattro requisiti sanciti dalla stessa Consulta per accedere al suicidio assistito. “La nostra missione è quella di dare voce e volto alle persone rese invisibili dalla ottusità e dalla violenza delle istituzioni ancora di più che dalla malattia o dalla disabilità e di consentire loro di battersi in prima persona - spiegano Gallo e Cappato -. Non aspettiamo che “vengano tempi migliori” per le libertà civili, perché rischierebbero di non arrivare mai. Infatti, in assenza di lotte sociali nonviolente, in grado di imporsi nell’agenda della politica ufficiale, si rischia anche nel nostro Paese, come sta avvenendo negli USA e in altri Paesi formalmente democratici, un arretramento sul piano dei diritti civili”. Migranti. Memorandum Italia-Libia a novembre si rinnova il patto che sospende i diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 ottobre 2025 L’arresto, la scarcerazione e il rimpatrio lampo del torturatore libico Osama Elmasry Njeem - noto nelle cronache come Almasri - rappresentano il sintomo più evidente del cortocircuito tra obblighi internazionali, interessi di sicurezza nazionale e rapporti di cooperazione costruiti su scala diplomatica e operativa con Tripoli. Da una parte le indagini della magistratura che hanno coinvolto ministri dell’attuale governo; dall’altra la gestione politica e i vincoli pratici con le autorità libiche, nati attraverso il Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 firmato dal governo di centrosinistra. È inevitabile pensare che il rimpatrio di Almasri sia legato al mantenimento di questi equilibri con un’area strategica come la Libia. A novembre 2025, salvo una discussione a sorpresa in Parlamento, come di consueto il Memorandum sarà rinnovato. Come detto, il Memorandum venne sottoscritto a Roma il 2 febbraio 2017. Il documento, reso pubblico in più versioni e traduzioni, stabilisce la cornice di collaborazione “nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, del traffico di esseri umani, del contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere” tra la Repubblica italiana e la Libia. Il testo è chiaro sulla natura di intesa intergovernativa: impegni di assistenza tecnica, formazione, supporto logistico e progetti di sviluppo collegati alla gestione dei flussi migratori sono parte integrante dell’accordo. La formula procedurale scelta nel testo è tanto semplice quanto determinante: durata triennale e rinnovo tacito salvo disdetta o modifica formale nei termini previsti. Non si tratta dunque di “rifare” l’accordo ogni tre anni con una nuova trattativa parlamentare: lo strumento prevede che, in assenza di una comunicazione di recesso, l’intesa prosegua automaticamente. Questo meccanismo ha trasformato il Memorandum da atto eccezionale a struttura stabile della politica migratoria italiana, con rinnovi che negli anni sono stati gestiti più come adempimenti amministrativi che come scelte politiche complessive sottoposte al Parlamento. Il testo prevede un ventaglio di interventi tecnico- operativi rivolti alle autorità libiche: formazione degli addetti alla sicurezza delle coste, assistenza tecnica per il controllo dei confini marittimi e terrestri, fornitura di mezzi e attrezzature, sostegno a progetti di sviluppo nelle aree d’origine e collaborazione nelle procedure di rimpatrio e nel contrasto alle reti criminali. Nella pratica, queste previsioni si sono tradotte in progetti finanziati, corsi di formazione, motovedette e apparecchiature che hanno potenziato le capacità operative sul terreno. L’obiettivo ufficiale è ridurre le partenze irregolari e prevenire i naufragi; l’effetto concreto, secondo molte indagini sul campo, è stato un aumento delle intercettazioni in mare e il ritorno in Libia di migliaia di persone. Per valutare l’effetto dell’intesa è indispensabile guardare ai dati raccolti dalle agenzie internazionali. Nel 2024, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), sono stati intercettati in mare e riportati in Libia oltre 16.000 migranti. Amnesty International nel suo rapporto 2024- 2025 riporta che durante l’anno 21.762 persone rifugiate e migranti sono state intercettate in mare e rimandate con la forza in Libia. I dati indicano inoltre centinaia di vittime e dispersi nel Mediterraneo centrale. Il Displacement Tracking Matrix dell’OIM identifica in centinaia di migliaia la popolazione migrante presente in Libia: l’analisi più recente registra oltre 700.000 persone presenti sul territorio libico. I centri di detenzione ufficiali ospitano migliaia di persone, con molte strutture caratterizzate da condizioni gravemente critiche e accesso limitato degli operatori umanitari. Questi numeri non sono astratti: corrispondono a persone detenute, vulnerabili, spesso senza protezione legale effettiva. Organizzazioni internazionali e Ong hanno prodotto dossier sistematici che collegano gli strumenti di cooperazione (formazione, finanziamenti, mezzi) con il rafforzamento di pratiche che le stesse organizzazioni descrivono come violazioni diffuse dei diritti umani. Amnesty International, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e reti europee di giuristi documentano arresti arbitrari, torture, estorsioni e violenze sessuali nei centri di detenzione, oltre a condizioni igienico- sanitarie e logistiche inaccettabili. L’accusa costante è che la cooperazione abbia reso più efficiente il ritorno forzato di persone in Libia, senza che sia stato garantito un sistema di monitoraggio indipendente e affidabile sul rispetto dei diritti fondamentali. Nel 2025 Amnesty ha pubblicato analisi sull’impunità e sulle condizioni nei centri, invitando i governi europei a sospendere ogni forma di cooperazione che renda possibili abusi. Il dossier giudiziario è complesso. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con una pronuncia del 12 giugno 2025 su un caso relativo a un naufragio del 2017, ha escluso la responsabilità oggettiva dell’Italia per le azioni della Guardia costiera libica in quel caso specifico: una decisione che ha limitato la possibilità di estendere automaticamente la responsabilità dello Stato italiano a ogni episodio. La sentenza non annulla però le indagini, le inchieste giornalistiche e i rapporti delle Ong che, nella loro totalità, continuano a descrivere una catena di eventi - intercettazioni, detenzioni, abusi - in cui il ruolo operativo e finanziario di paesi terzi è un elemento rilevante per la valutazione politica e morale. La discussione non è solo tecnica. L’accordo produce due effetti sovrapposti e connessi: da un lato, costruisce capacità operative in Libia; dall’altro, sposta dal mare al territorio libico gran parte della gestione dei migranti. Quando quelle capacità finiscono nelle mani di attori poco controllabili - milizie, gruppi armati, reti locali con rapporti ambigui con i trafficanti - il risultato è prevedibile: efficacia nel controllare i flussi e fragilità nel rispetto dei diritti. Le agenzie umanitarie hanno più volte chiesto monitoraggi indipendenti e condizioni chiare per qualsiasi forma di supporto. Le richieste sono rimaste, in molti casi, senza una risposta strutturale che imponga trasparenza e verifica puntuale degli interventi finanziati. La modalità del rinnovo tacito evita un confronto parlamentare pieno sulla strategia. In passato il governo ha informato le Camere, ma senza che il tema si trasformasse in un voto con obbligo di rendicontazione pubblica e condivisione del dossier tecnico sui risultati concreti degli interventi. Il risultato è un’escalation tecnica: ogni tre anni la macchina amministrativa può proseguire senza che il Parlamento sia chiamato a misurare l’efficacia reale delle misure, l’entità dei finanziamenti e il rispetto delle condizioni di tutela richieste dagli organismi internazionali. Il punto politico è semplice: una scelta di questa portata richiede trasparenza, bilancio dettagliato e controllo parlamentare. Senza questi strumenti, la proroga appare più come un automatismo che come una decisione ponderata. La scelta sul rinnovo non è neutra. Un accordo che incide su diritti fondamentali dovrebbe passare attraverso procedure che consentano alla rappresentanza politica di esprimersi con cognizione di causa: audizioni tecniche, accesso ai dati dei progetti, valutazioni indipendenti sull’impatto. Il meccanismo attuale ha reso la materia sostanzialmente una decisione dell’Esecutivo, lasciando il Parlamento in posizione di informazione ma non di controllo vincolante. Per un Paese che normalmente pretende l’osservanza delle norme internazionali, la discrepanza è evidente. Migranti. Era in fuga, altro che scafista: finisce l’incubo di Ahmed di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 4 ottobre 2025 Minorenne al momento della traversata dalla Libia, il giovane ha trascorso quasi due anni in carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nessun contatto con gli organizzatori del viaggio, nessuna mansione da svolgere sul battello scassato e pieno di quasi trecento disperati in fuga dalla Libia che attraversava il Mediterraneo fino alle coste della Calabria, nessun collegamento diretto con il gruppo a capo dell’ennesimo viaggio della speranza: Ahmed Albahlawan non era uno scafista ma solo un ragazzino di 17 anni in fuga. Un ragazzino senza un soldo, scappato a seguito del padre per cercare di costruirsi un futuro diverso da quello garantito dal regime libico. Una storia di quasi “normalità” per molti degli scafisti (veri e presunti) che finiscono nelle mani della giustizia italiana e che è venuta fuori solo in seguito al processo d’Appello che ha ridato la libertà al giovane, dopo una carcerazione preventiva che durava da quasi due anni. La storia del giovane Ahmed non è altro che l’ennesima conferma di come gli scafisti (veri e presunti) siano in assoluto l’anello più debole della intricata catena criminale che da decenni si occupa di trasbordare in Italia migliaia di disperati dalle coste del nord Africa e da quelle della Turchia. Un anello così debole che spesso, per finirci strozzati, è sufficiente passare qualche provvista tra i compagni di viaggio, anche se non si ha accesso alla cambusa. Il giovane Ahmed era ancora minorenne quando a metà del mese di marzo del 2023 si imbarcò su un vecchio peschereccio in partenza dalle coste libiche con destinazione Europa. Era in fuga assieme al padre, entrambi senza i soldi necessari per pagarsi il passaggio fino alle coste italiane (passaggio che costa, in media, tra i 5mila e gli 8mila euro a persona). Per superare l’ostacolo economico che sembrava insormontabile, il padre del ragazzo (che ha patteggiato in Tribunale una pena a tre anni di reclusione) si accordò con chi stava caricando quel vecchio peschereccio come una scatola di sardine: l’uomo - che non ha mai pilotato una barca in vita sua - accettò di controllare il pilota automatico dell’imbarcazione, settato con la rotta da seguire dagli organizzatori prima della partenza, in cambio di un passaggio per lui e per suo figlio. Quasi un passaggio “per utilità” che ha portato però il ragazzo in carcere con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Diventato maggiorenne durante la traversata dalle coste della Libia, Ahmed è stato giudicato come un adulto e, dopo la sentenza del tribunale di Locri, condannato alla pena di quattro anni e due mesi di reclusione e ad una multa mostre di 3 milioni di euro. Ad incastrarlo le testimonianze, piuttosto contraddittorie, di appena quattro migranti su un totale di 295 passeggeri che lo individuano come l’uomo che, in alcune occasioni, si era occupato di distribuire qualche razione di cibo sulla nave. Il processo di primo grado con rito immediato disposto dal Tribunale di Locri ha seguito l’ormai consueto iter e si è concluso con la pesante condanna per il diciottenne, ennesimo “scafista” condannato sulla rotta delle migrazioni. È solo grazie all’appello dell’avvocato Giancarlo Liberati che la storia di Ahmed ha preso un’altra piega. Durante il processo dinnanzi ai giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, è venuta fuori un’altra storia. A partire dalle parole di Rasha Aishemey, giovane medica egiziana in fuga e unica donna presente sul barcone durante quel viaggio. La testimonianza della donna era stata acquisita a processo grazie all’esame probatorio con il quale aveva riconosciuto Ahmed tra i quattro uomini identificati come scafisti. Ma durante la sua deposizione nel processo d’Appello sono venuti fuori alcuni elementi che non erano stati presi in esami davanti al primo giudice. Aishemey ha spiegato infatti in tribunale che solo quattro erano state le foto che le erano state sottoposte per il riconoscimento dei sospettati. Guarda caso proprio le foto dei quattro migranti che erano stati individuati come possibili scafisti. Tra loro anche quella di Ahmed. A completare il quadro poi, la giovane dottoressa aveva spiegato, rispondendo alle domande dell’avvocato Liberati, di come la sua testimonianza fosse stata in qualche modo “veicolata”, sia dagli altri tre migranti accusatori, sia dei mediatori culturali che si occupavano della traduzione che, quando le mostrarono le foto le dissero, stando a quanto ha poi riferito, “se non dici che gli altri tre sono stati loro a guidare questa barca ti mettono a te in carcere”. Durante l’esame poi la giovane donna aveva specificato che Ahmed non era stato l’unico che lei, dalla sua posizione privilegiata - in quanto unica donna, aveva fatto il viaggio separata dagli altri migranti - aveva visto distribuire acqua e cibo durante la traversata. Testimonianza che ha contribuito a cambiare la storia futura di quel diciottenne in fuga che ha passato gli ultimi due anni dietro le sbarre con sulle spalle l’accusa di essere un trafficante di uomini e che ora, dopo la sentenza dei giorni scorsi, è tornato un uomo libero. Una decisione che, in attesa delle motivazioni, potrebbe segnare un precedente importante per i migranti colpevoli di avere passato una bottiglia d’acqua ad un compagno di traversata. Migranti. Mediterraneo, 33mila morti in dieci anni: i “mai più” che ci hanno portato fin qui di Giulio Cavalli Il Domani, 4 ottobre 2025 Solo nel 2025 i morti e dispersi sono stati 1.293, che diventano 1.646 se si include anche la rotta atlantica verso le Canarie. Dal naufragio di Lampedusa del 2013 a oggi, le promesse disattese sono il ritornello che accompagna, puntualmente, le nuove bare allineate sulle coste. Nella Giornata della memoria e dell’accoglienza, i numeri ufficiali inchiodano la cronaca. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, dal 2014 al 24 settembre 2025 sono morte o scomparse quasi 33mila persone lungo le rotte del Mediterraneo. Solo nel 2025 i morti e dispersi sono stati 1.293, che diventano 1.646 se si include anche la rotta atlantica verso le Canarie, sempre più battuta e sempre più letale. Il 78% delle vittime riguarda il Mediterraneo centrale, la rotta che dalle coste libiche tenta di raggiungere l’Italia. È il mare che separa, ma soprattutto il mare che inghiotte. Un po’ di storia - Il percorso comincia il 3 ottobre 2013, con il naufragio di Lampedusa: 368 persone annegate a poche miglia dall’isola. José Manuel Barroso, allora presidente della Commissione europea, promise che “una tragedia così non dovrebbe mai più accadere”. L’Italia rispose con l’operazione Mare Nostrum, missione di ricerca e soccorso che costava 9 milioni di euro al mese, capace di salvare oltre 150mila persone in un anno, ma che fu chiusa poco più di dodici mesi dopo e sostituita da Triton, programma Frontex con compiti di controllo più che di salvataggio. Nel 2014 i morti furono circa 3.300. L’anno successivo la strage del 18 aprile al largo della Libia - fino a 800 vittime in un’unica notte - spinse i capi di Stato e di governo a riunirsi d’urgenza. Angela Merkel e François Hollande, davanti alle bare a Catania, giurarono: “Mai più”. Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue, ammise: “Lo abbiamo detto troppe volte: mai più”. Eppure il 2015 si chiuse con 3.800 morti e dispersi, più dell’anno precedente, a conferma che l’Europa aveva scelto di ridurre la presenza in mare proprio mentre aumentava il rischio di nuove stragi. Il 2016 segnò il picco: oltre 5.000 morti in dodici mesi. L’Unione europea varò l’operazione Sophia e puntò a rafforzare la Guardia costiera libica. L’obiettivo dichiarato era “salvare vite”, la pratica fu esternalizzare i respingimenti. Nel 2017 l’Italia di Paolo Gentiloni firmò con Tripoli il Memorandum voluto dal ministro Marco Minniti: mezzi, fondi e formazione per i libici in cambio del blocco delle partenze. Dimitris Avramopoulos, commissario Ue, parlò di “azione comune per fermare le tragedie”. I dati raccontano altro: 3.100 morti quell’anno. Negli stessi mesi arrivava il Codice di condotta per le ong, primo segnale di una politica che progressivamente avrebbe limitato le navi civili di soccorso. Nel 2018 e 2019 i decreti sicurezza del governo Conte I - firmati da Matteo Salvini - introdussero multe e sequestri per le imbarcazioni delle organizzazioni. Giuseppe Conte dichiarò in parlamento: “Mai più morti in mare”. Nel 2019, anno in cui i morti furono comunque circa 1.300, i soccorsi delle ong crollarono. Con la pandemia e il nuovo assetto della missione Irini, incentrata sull’embargo di armi e non sulla ricerca e soccorso, i morti nel Mediterraneo restarono sopra quota 1.400 nel 2020, per risalire oltre 2.000 nel 2021. In quei mesi Mario Draghi, a capo del governo, parlò di “un sistema europeo di soccorso che metta fine alle stragi”. Nel 2022 i morti furono 2.400, mentre aumentavano i casi di intercettazione da parte delle motovedette libiche finanziate dall’Italia e dall’Ue, con migliaia di persone riportate in centri di detenzione denunciati dall’Onu per torture e abusi. Lo spartiacque Cutro - Il 26 febbraio 2023, a Steccato di Cutro, il naufragio di un caicco carico di famiglie curde e afghane provocò almeno 94 vittime a pochi metri dalla riva. Sergio Mattarella si recò tra le bare, ricordando che “questa tragedia è un monito per l’Europa”. Giorgia Meloni assicurò che lo stato avrebbe fatto “di tutto per fermare le stragi”. Il parlamento approvò intanto il decreto Piantedosi, che obbliga le navi delle ong a dirigersi verso porti lontani dopo ogni singolo salvataggio, riducendo di fatto la capacità di intervento. Il 2023 si chiuse con oltre 3.100 morti: il peggior bilancio dal 2016. Il 2024 ha confermato il trend, con circa 2.500 vittime nel Mediterraneo e nuove intese con Libia, Tunisia ed Egitto per fermare le partenze. Nel 2025, nonostante le promesse e i protocolli, i dati aggiornati parlano di 1.293 morti e dispersi al 24 settembre solo nel Mediterraneo, 1.646 se si aggiunge la rotta atlantica. Sei naufragi negli ultimi dieci anni hanno superato per numero di vittime la stessa Lampedusa del 2013. In tutto questo decennio, le parole non sono mancate. Barroso, Merkel, Hollande, Avramopoulos, Conte, Draghi, Meloni: ognuno, dopo ogni strage, ha scandito un “mai più”. Ma il Mediterraneo resta la frontiera più letale del mondo. I dati Oim e i richiami dell’Unhcr convergono: senza missioni di ricerca e soccorso, senza vie legali di accesso, senza interrompere la strategia che spinge i migranti verso i trafficanti, la conta continuerà. Dieci anni di promesse disattese hanno trasformato il “mai più” in un ritornello che accompagna, puntualmente, le nuove bare allineate sulle coste. Nelle piazze una marea umana per Gaza. I sindacati: “Siamo più di due milioni” di Flavia Amabile e Edoardo Venditti La Stampa, 4 ottobre 2025 Cento cortei venerdì hanno paralizzato le città, manifestanti bloccano porti, stazioni e autostrade. Cariche e lacrimogeni a Bologna e Milano. Per il Viminale circa 500 mila le presenze. “E ‘mo menace pe’ du’ ova!”, urlano. Non sono due le uova che hanno appena lanciato, saranno una ventina, vanno a infrangersi sui blindati della polizia schierati davanti al ministero dei Trasporti. Poco dopo scoppia un petardo e ci sono alcuni pugni battuti sul portone dell’ambasciata tedesca. Le tensioni a Roma finiscono qui. Il ministero guidato da Matteo Salvini è la tappa più sensibile della manifestazione di Roma, il punto più a rischio nel passaggio dei trecentomila che sfilano per ore per sostenere l’azione dei componenti della Flotilla finiti in carcere dopo aver tentato di aprire un corridoio umanitario verso Gaza. Hanno deciso di bloccare l’autostrada partendo da Termini, un percorso di uffici e case private, poco adatti a essere presi di mira da chi è sceso in piazza. Il palazzo dove ha sede il ministero guidato da Matteo Salvini, invece, sembra perfetto. Ed è lì che avvengono gli unici momenti di tensione. La testa del corteo dove ci sono i manifestanti dei Cobas, passa gridando: “Esci fuori!”. Gli spezzoni successivi vanno oltre. “Assassino”, “Amico dei terroristi”. E poi insulti. Quando davanti al ministero passa un gruppo di studentesse e studenti universitari ha inizio il lancio delle uova accompagnato da un nuovo coro di richieste di dimissioni e di insulti. Mentre il tuorlo cola sulla lamiera dei blindati e gli studenti si divertono a provocare, i poliziotti in assetto antisommossa, con casco e manganelli in mano, restano fermi. Lo sanno anche loro che per “du ova” non è il caso di menare nessuno. Non sono questi gli ordini che hanno ricevuto. Il corteo che ha attraversato Torino - Le istruzioni sono di trattare, come già due sere fa portando diecimila manifestanti a pochi passi da palazzo Chigi senza che ci fosse il minimo scontro. Lo stesso avviene durante il corteo di ieri che riesce ad arrivare fino all’autostrada come desiderava e lascia intatte sia la stazione Termini che la stazione Tiburtina che erano lungo il percorso della protesta. Vista da Roma la protesta in nome della Flotilla è una marcia colorata, dai toni accesi, capace di racchiudere mondi diversi. Tra chi sfila ci sono il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, la segretaria del Pd Elly Schlein, i leader di Avs Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, attori come Valerio Mastandrea, estremisti come lo studente filo -Hezbollah che cammina con la foto del leader Hassan Nasrallah ucciso dalle forze Israeliane un anno fa. Ognuno ha il proprio modo di protestare ma nessuno oltrepassa mai il confine della violenza. La “battaglia” dei dati - Non accade lo stesso ovunque in un’Italia che ieri ha dovuto affrontare il terzo giorno di blocco in nome della Flotilla. A scendere in piazza sono stati più di due milioni di persone secondo gli organizzatori della protesta mentre per il Viminale sono al massimo mezzo milione, quattro volte di meno. Oltre cento le città interessate (29 secondo il Viminale), ancora forti disagi per porti, treni e autostrade e scontri in particolare a Bologna, Torino e Milano. E 55 poliziotti feriti in due giorni. A Bologna, un corteo di più di quindicimila persone dopo due tentativi è riuscito a forzare il blocco delle forze dell’ordine cercando di avanzare in tangenziale. Ne sono nate delle cariche. Il bilancio è di due manifestanti fermati e rilasciati in serata. Momenti di tensione anche a Milano, dopo che i manifestanti sono arrivati in tangenziale. Alla partenza erano circa ottantamila tra studenti, lavoratori, genitori e bambini, uniti al grido di “Palestina libera”. Verso mezzogiorno, però, la compattezza si è rotta: la Cgil ha deviato verso piazza Leonardo Da Vinci, mentre Usb e Cobas hanno puntato alla tangenziale est. Un fiume umano ha bloccato la carreggiata verso Segrate. Dopo un breve tratto il furgoncino Usb è rientrato in città, ma una frangia a volto coperto ha tentato di raggiungere la polizia. Gli agenti sono arretrati evitando lo scontro. Ma il corteo è avanzato ancora finché un nuovo cordone ha bloccato la strada. Ci sono stati momenti tesi, fumogeni e lacrimogeni da un lato, bottiglie e sassi dall’altro. Gli idranti hanno disperso, infine, il gruppo di testa e i manifestanti hanno lasciato la tangenziale. A Livorno è stato bloccato il traffico commerciale e l’accesso al porto, con lunghe file di mezzi pesanti. Oltre cinquemila manifestanti hanno bloccato la circolazione nella zona nord della città, e a loro si è aggiunto un corteo di tremila studenti arrivato dal centro. A Pisa facoltà occupate mentre circa diecimila manifestanti hanno prima sfilato sulla bretella dell’autostrada A12, poi hanno bloccato la superstrada Firenze-Pisa-Livorno, e successivamente raggiunto l’aeroporto Galileo Galilei. Dopo aver forzato lo sbarramento delle forze dell’ordine, hanno invaso la pista e i piazzali, bloccando i voli. A Firenze i manifestanti hanno occupato i binari della stazione, provocando rallentamenti fino a due ore dei treni dell’Alta Velocità e regionali. Lo stesso a Genova dove sono entrati nello scalo ferroviario di Piazza Principe, bloccando i binari e intonando “Bella Ciao”. Bloccato il porto di Napoli dove oltre diecimila persone hanno impedito l’accesso e il deflusso a tutti i veicoli. E oggi si ricomincia con la quarta giornata di protesta che culmina nella manifestazione nazionale che attende a Roma decine di migliaia di manifestanti. Sciopero pro Gaza, Meloni: “Solo un’operazione politica”. E il Governo ora studia maxi-multe di Francesco Malfetano La Stampa, 4 ottobre 2025 Ipotesi sanzioni fino a un milione di euro per le mobilitazioni sindacali senza preavviso. Spaccare il fronte sindacale. È l’ossessione che attraversa da ore i palazzi della maggioranza. Non si tratta solo di gestire l’ennesima piazza difficile, ma di indebolire l’avversario considerato in questa fase più temibile: Maurizio Landini. A Palazzo Chigi lo guardano ormai come a un leader del centrosinistra più che a un capo sindacale, accusandolo di aver messo in piedi una “campagna politica” mirata a logorare l’esecutivo. E la risposta che Giorgia Meloni e i suoi stanno preparando è di quelle muscolari: sanzioni più pesanti in caso di scioperi dichiarati illegittimi dalla Commissione di garanzia e una narrazione tutta incentrata sullo smascherare il segretario Cgil davanti all’opinione pubblica. Frenata, almeno per ora, l’ipotesi messa sul tavolo da Matteo Salvini di cauzioni per chi organizza manifestazioni violente. Il ragionamento parte da lontano. Landini - dicono nei corridoi di governo - ha fallito la mobilitazione economica, non ha sfondato sul referendum, e ora sfrutta il clima internazionale per cavalcare la tensione. Per alcuni ministri sarebbe il preludio a una sua discesa in campo come federatore del cosiddetto “campo largo”. Non a caso, nelle chat dei membri dell’esecutivo tornano a circolare le parole del novembre scorso, quando il sindacalista invitò alla “rivolta sociale”. “Vuole terremotare l’esecutivo”, si ripetono tra loro. A dimostrarlo ci sarebbero proprio le piazze di ieri, riempite nonostante la Commissione di garanzia abbia chiarito che Cgil e Usb non hanno rispettato il preavviso di dieci giorni previsto dalla legge del 1990. Accusa da cui Landini si difende richiamandosi all’articolo 7, quello che permette eccezioni in caso di protesta per “gravi eventi lesivi della sicurezza dei lavoratori” o in difesa dell’ordine costituzionale. E sostiene che quelle condizioni ci fossero: l’Italia, dice, viola i propri limiti costituzionali sulla pace collaborando con Paesi che non rispettano i diritti umani, e gli italiani a bordo della Global Sumud Flotilla erano lavoratori a rischio. Un’interpretazione, appunto, già bocciata (i sindacati hanno annunciato ricorso) e probabilmente oggetto delle sanzioni da 2.500 a 50mila euro che si comminano in questi casi agli organizzatori. Troppo poco, secondo l’esecutivo, per fermare il leader Cgil. “Domani potrebbe rifarlo senza grosse conseguenze”, spiegano fonti ministeriali. Ed è qui che scatta la mossa di Salvini. Come preannunciato nel corso del Consiglio dei ministri di venerdì il vicepremier studia un decreto per aggiornare quelle cifre e renderle davvero deterrenti. L’idea - spiegano dai vertici dell’esecutivo - è portare le multe da un minimo di 10mila ad un massimo di un milione di euro. Non solo: il leghista ragiona su un meccanismo di cauzione preventiva. Chiunque organizzi una manifestazione dovrebbe depositare una somma ancora da quantificare ma modulata in base ai rischi rappresentati dai cortei, e con esenzioni per eventi che nelle edizioni precedenti si sono sempre dimostrati pacifici. A decidere, una commissione del ministero dell’Interno. Una misura che però - avvertono giuristi e pezzi dello stesso governo - rischia di sollevare problemi costituzionali enormi. Lo sa anche Meloni. Per questo, raccontano fonti interne, la premier avrebbe frenato Salvini. Sulle multe, solo momentaneamente, perché convinta che accelerare ora significhi alimentare tensioni di piazza. Sul deposito, invece, per studiarne con esattezza modalità e confini, ed evitare che si vada ad intaccare il diritto costituzionale allo sciopero. Non a caso, tra i più cauti nell’esecutivo c’è chi immagina un percorso diverso: aprire un tavolo con tutte le sigle sindacali e ragionare sull’aggiornamento delle leggi. L’obiettivo più che normativo è però politico, e sta nella volontà di evidenziare le differenze tra la Cgil di Landini e l’Usb, con Cisl e Uil. Perché a Palazzo Chigi sono convinti che la mobilitazione di ieri sia stata più una scelta personale del segretario generale che una battaglia unitaria. Un’operazione che, paradossalmente, avrebbe secondo il governo limitato il diritto allo sciopero degli altri sindacati. Ecco allora la strategia: usare la rigidità del leader Cgil per provare a dividerlo dagli altri, offrendo magari qualche concessione in legge di bilancio per convincere la Cisl e, soprattutto, la Uil a sfilarsi. La premier, venerdì sera in Consiglio dei ministri, ha sintetizzato così la linea: lo sciopero può diventare un’occasione. “Voglio sapere quanto costa la mobilitazione”, ha chiesto ai suoi. “Poi lo spiegherò agli italiani”. È il cuore della controffensiva: mostrare ai cittadini non solo l’eventuale violenza delle piazze, ma anche il prezzo economico che lo Stato e le famiglie pagano per la protesta in termini di interruzione di servizi pubblici e relativi disagi. Meloni, insomma, fiuta l’opportunità: se riuscirà a dipingere Landini come un politico travestito da sindacalista, è convinta che la partita potrebbe persino trasformarsi in consenso per la maggioranza. Tutti gli attivisti della Flotilla in attesa dell’espulsione di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 4 ottobre 2025 Gli avvocati della missione denunciano la violazione del diritto di difesa. ll legale belga Alexis Deswaef si è rifiutato di firmare una falsa ammissione di colpevolezza. Abbordaggio delle imbarcazioni, trasferimento in un centro di detenzione ed espulsione. Sono queste le fasi che hanno caratterizzato il tentativo (fallito) degli attivisti della Global Sumud Flottilla di raggiungere via mare Gaza e consegnare aiuti umanitari alla popolazione palestinese. Dopo essere stati condotti nel porto di Ashdod per gli adempimenti davanti alla polizia e alle autorità di frontiera (identificazione e dichiarazioni sulle condizioni di salute), gran parte dei partecipanti alla missione della Flotilla - in tutto 473 persone di varie nazionalità - hanno raggiunto in autobus il carcere di Saharonim, nella città di Kziot (nel deserto del Negev), nelle vicinanze del confine egiziano. In tutte le fasi che hanno riguardato l’avvicinamento al mare territoriale palestinese - è utile ricordarlo - le violazioni del diritto internazionale da parte di Israele si sono susseguite (si veda anche Il Dubbio di ieri). A partire dal blocco navale imposto da tempo. In base al diritto bellico le navi che vengono adoperate per missioni prettamente di assistenza umanitaria, come nel caso della Global Sumud Flotilla, sono esenti da attacchi da parte di navi da guerra di uno Stato. Israele avrebbe dovuto consentire l’arrivo e la distribuzione di beni di prima necessità alla popolazione palestinese. Il carcere di Saharonim, progettato per ospitare chi entra illegalmente in Israele e dove si trovano i componenti degli equipaggi della Flotilla, dovrebbe comunque svuotarsi in tempi rapidi. Il governo israeliano è intenzionato ad emettere un unico provvedimento di espulsione collettiva. Non mancano i paradossi e le forzature. Gli attivisti della Flotilla sono stati fermati quasi tutti a circa 70 miglia dalla costa di Gaza, in un tratto di mare in cui Israele non avrebbe competenza, ed è stato loro contestato un ingresso illegale. In quest’ultimo caso il clandestino si trova di fronte a due scelte. La prima verte su una procedura rapida e consiste nel comunicare l’intenzione di lasciare Israele entro 72 ore dall’arresto. La seconda scelta: presentarsi davanti a un giudice per la convalida dell’arresto e rilasciare eventuali dichiarazioni. Loubna Yuma, avvocato di Adalah, il team legale della Flotilla, ha chiarito che, con o senza l’iter procedurale abbreviato, gli attivisti della Flotilla saranno tutti espulsi. Diversi attivisti, compreso il vicepresidente della Gsf, l’avvocato belga Alexis Deswaef, si sono rifiutati di firmare i documenti che riconoscono, con una dichiarazione che però non risponde al vero, l’ingresso illegale nel territorio israeliano e hanno iniziato uno sciopero della fame. “È prevista un’udienza nella prigione”, ha comunicato l’International Federation for human rights (Fidh), di cui fa parte la ong Adalah. La Fidh, appartenente ad Adalah- The Legal center for arab minority rights in israel, ha denunciato “le condizioni di detenzione degli attivisti e gli ostacoli incontrati dagli avvocati nel fornire assistenza legale”. Mercoledì tre legali di Adalah hanno atteso molte ore prima di essere ammessi alle udienze per decidere sul prolungamento della detenzione e poi sull’espulsione. Gli avvocati hanno lamentato l’impossibilità a presenziare alle udienze. Un’altra violazione da parte delle autorità israeliane, in questo caso del diritto di difesa. Gli equipaggi della Global Sumud Flotilla sono composti da molti cittadini di Stati dell’Unione europea per i quali sussistono delle garanzie precise in caso di arresto all’estero. Il cittadino italiano ha diritto a chiedere assistenza consolare e, su richiesta dell’interessato, la Rappresentanza diplomatico- consolare può, fra le varie cose, rendere visita al detenuto e fornire nominativi di legali di riferimento in loco. L’attenzione della nostra rappresentanza diplomatica in Israele è stata massima dall’inizio del viaggio nel Mediterraneo degli italiani sulle imbarcazioni della Flotilla. Sulla vicenda è intervenuta anche l’Unione delle Camere penali italiane. L’Ucpi “condanna l’intercettazione in acque extraterritoriali della Global Sumud Flotilla da parte della Marina israeliana” e riafferma “la centralità del rispetto dei diritti fondamentali della persona e delle norme del diritto internazionale umanitario”. I penalisti hanno sottolineato che “le operazioni militari in mare aperto non possono mai svolgersi in violazione dei principi di necessità, proporzionalità e distinzione tra obiettivi militari e civili” e invitato le istituzioni a garantire “il rispetto dei fondamentali diritti di libertà e dell’inviolabile diritto di difesa a favore di tutte le persone ancora illegittimamente detenute”. I primi a fare rientro in Italia ieri pomeriggio sono stati il senatore Marco Croatti, le eurodeputate Annalisa Corrado e Benedetta Scuderi e il deputato Arturo Scotto. Scuderi in una breve conversazione con i giornalisti presenti all’aeroporto di Roma- Fiumicino ha detto che “il pensiero resta a Gaza e alle persone che non sono tornate”. L’esponente di Avs ha aggiunto che “sono accadute tantissime cose” e che sarà possibile parlarne “in modo più pieno”, dato che durante l’operazione di fermo “ci sono state delle violazioni da parte delle autorità israeliane”. Dopo il blocco delle imbarcazioni della Flotilla da parte dei militari di Tel Aviv, si sono perse le tracce per quasi due giorni di Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle Comunità islamiche d’Italia (Ucoii) e imam di Bologna, anche lui diretto a Gaza su una imbarcazione della Flotilla. Ieri le notizie positive. Il segretario nazionale dell’Ucoii, Yassine Baradai, ha riferito che Lafram sta bene e che tornerà in Italia tra oggi e domani. Le rassicurazioni sono giunte direttamente dall’Unità di crisi della Farnesina. Giunti al porto di Ashdod, gli attivisti della Flotilla hanno ricevuto la visita del ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir. L’esponente del governo Netanyahu si è recato non per sincerarsi delle loro condizioni, ma per dar vita ad una serie di provocazioni prontamente riprese da uno smartphone. Ha definito i componenti degli equipaggi della Flotilla “terroristi” e “sostenitori di assassini”. Ma non si è fermato qui. In un video su X ha attaccato il primo ministro Netanyahu, definendo “fondamentalmente sbagliata” la decisione del premier di far rientrare nei loro Paesi i “sostenitori del terrorismo”. “Io penso che bisogna lasciarli qui in carcere per alcuni mesi, affinché respirino l’odore dell’ala dei terroristi”, ha aggiunto. Il “sì” di Hamas al piano di pace. Trump: stop bombardamenti Israele di Nello Scavo Avvenire, 4 ottobre 2025 L’annuncio su Telegram dopo il nuovo ultimatum Usa. Il gruppo armato: “Pronti a discutere i dettagli con i mediatori sul futuro della Striscia”. Incertezza sui tempi. “Apprezziamo gli sforzi del mondo arabo, di quello islamico e quelli internazionali, così come il richiamo del presidente Trump per far finire la guerra nella Striscia di Gaza”. Quando oramai nessuno ci sperava, alle ore 23 di Gerusalemme è arrivata la nota con cui una fonte di Hamas riferiva che l’organizzazione armata accetta il piano per la liberazione degli ostaggi, una tregua duratura, e la cessione del potere a un organismo palestinese indipendente. Nella dichiarazione rilasciata dal movimento fondamentalista attraverso Al Jazeera si afferma che verranno rilasciati tutti gli ostaggi, vivi e morti, “secondo la formula di scambio delineata nella proposta del presidente Trump, a condizione che siano garantite le condizioni necessarie per lo scambio”. Non è l’unica puntualizzazione che può mettere a rischio il definitivo “sì”. Hamas insiste sulla disponibilità ad avviare ulteriori negoziati per affrontare “i dettagli” del progetto Trump. “Accettiamo di consegnare l’amministrazione della Striscia di Gaza - aggiunge la nota - a un organismo palestinese di figure indipendenti e non affiliate”. In cambio i miliziani avranno un salvacondotto se deporranno le armi e decideranno di lasciare Gaza. “Sulla base della dichiarazione appena rilasciata da Hamas, credo che siano pronti per una pace duratura - ha scritto Donald Trump su Truth -. Israele deve immediatamente fermare i bombardamenti su Gaza, così da poter liberare gli ostaggi in modo sicuro e rapido! In questo momento è troppo pericoloso farlo. Siamo già in discussione sui dettagli da definire. Non si tratta solo di Gaza, si tratta della pace tanto attesa in Medio Oriente”, ha concluso il tycoon. La Casa Bianca aveva stabilito un termine di 72 ore dalla firma dell’intesa, perché i circa 20 ostaggi ancora in vita venissero immediatamente consegnati alla Croce Rossa Internazionale. Dunque entro martedì potrebbe avvenire la liberazione, in cambio della scarcerazione di 250 ergastolani palestinesi. L’operazione avverrebbe a ridosso del 7 ottobre, a due anni esatti dal massacro compiuto dai miliziani: 1.250 morti e oltre 250 ostaggi. Dopo il profittevole accordo economico con il Qatar, e le scuse di Netanyahu per l’attacco ai capi di Hamas ospitati a Doha, la posizione americana su Gaza si era fatta più forte. Abbastanza perché Donald Trump alzasse la voce: “Avete tempo fino alla mezzanotte di domenica per accettare la proposta. In caso contrario, sarà l’inferno”. A far mancare il terreno sotto i piedi dei fondamentalisti è stata la risposta dei Paesi arabi. Mai come nelle ultime giornate dalle monarchie del Golfo fino al Pakistan, sembravano decisi a non offrire il consueto ombrello ai leader del gruppo armato. “La migliore proposta di pace dall’inizio della guerra”, ha dichiarato sotto anonimato un funzionario arabo vicino al negoziato, secondo cui dopo due anni di massacri “nessuno è disposto a perdere questa opportunità”. Un progetto definito “imperfetto e vago in alcuni punti, ma è giunto il momento di porre fine ai combattimenti”. Mentre si rincorrono le voci di imminenti azioni militari su larga scala contro gli interessi dell’Iran e della galassia sciita, la maggior parte dei mediatori finora più vicini alle posizioni di Hamas sembrano intenzionati a chiudere un occhio sulle smagliature negoziali. I 20 punti che Donald Trump ha annunciato nel piano “per la pace eterna in Medioriente” - parole sue - non erano in linea con la bozza che gli era stata presentata da un gruppo di Paesi a maggioranza musulmana, ha dichiarato il ministro degli Esteri pachistano, Ishaq Dar. Il gruppo aveva proposto il ritiro completo di Israele da Gaza durante un incontro con Trump il 22 settembre, mentre il suo piano prevede un “ritiro parziale” delle forze israeliane. La proposta del tycoon prevede il rilascio di tutti gli ostaggi, vivi e morti, entro 72 ore dal cessate il fuoco che Hamas dovrà accogliere entro domenica sera per fermare il conto alla rovescia verso nuove massicce ondate di operazioni israeliane. Si fa riferimento a una “Nuova Gaza”, da riqualificare dopo la completa distruzione di intere aree della Striscia. La bozza lascia molti dettagli al negoziato che dovrà proseguire durante il silenzio delle armi. Il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif aveva precedentemente accolto con favore il piano di Trump. La Casa Bianca aveva svelato i dettagli una settimana dopo aver incontrato i leader di otto nazioni musulmane: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Giordania, Turchia, Indonesia e Pakistan. L’amministrazione Trump vuole infatti che i leader arabi accettino di inviare forze militari a Gaza per gestire la fase di transizione, sotto il coordinamento di un’agenzia guidata dall’ex premier laburista britannico Tony Blair e con lo stesso Trump come garante. La bozza preparata dagli stati musulmani chiedeva invece il “ritiro completo di Israele” e “un percorso per una pace giusta sulla base della soluzione dei due Stati”. Netanyahu ha ripetutamente escluso la creazione di uno Stato palestinese, affermando che la sua esistenza e legittimazione metterebbe in pericolo Israele. Vista da fuori, Hamas sembra molto meno compatta. Non solo perché rimaneggiata della sua leadership storica. Mentre l’ex ministro della difesa Liberman, ieri ha seminato non poche preoccupazioni: “Sembra che questa volta gli iraniani stiano cercando di coglierci di sorpresa. Mi rivolgo direttamente ai cittadini israeliani: festeggiate il Sukkot (la festività che comincia dal tramonto di domenica, ndr), trascorrete del tempo con la famiglia e gli amici, ma siate cauti e rimanete vicini ai rifugi”. Vi racconto come Israele, in due anni di guerra, si è isolata dal mondo di Anna Foa Avvenire, 4 ottobre 2025 La reazione corale di un Paese all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 ha passato il segno. Ricostruiamo quel che è successo, cercando di capire quali sono stati i punti di non ritorno. Gli eventi si susseguono senza sosta nelle tragiche vicende mediorientali. Mentre continuano la distruzione della Striscia di Gaza e il massacro dei suoi abitanti; mentre il governo israeliano minaccia l’annessione della Cisgiordania per impedire per sempre la creazione di uno Stato palestinese e intanto appoggia con l’esercito i coloni che ne attaccano e distruggono i villaggi; mentre continua il blocco dei rifornimenti alimentari e medicinali, essenziali alla vita, e a Gaza si continua a morire di fame, un gran numero di Stati, non ultimi il Canada, l’Australia e la maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea riconoscono lo Stato palestinese. Non l’Italia, che si schiera accanto agli Stati Uniti di Trump e attribuisce a questo riconoscimento un valore meramente simbolico, se non addirittura un rischio per le trattative, non la Germania, forse impedita finora dai sensi di colpa per la Shoah. E l’opinione pubblica del mondo diventa sempre più ostile a quello che viene ormai, in buona parte di Israele come nel resto del mondo, definito “genocidio”. Come si è arrivati a questi ultimi eventi? Ripercorriamone brevemente la storia, in questo secondo anniversario del terribile attacco terroristico del 7 ottobre. Gli eventi di quel giorno suscitarono, contrariamente a quanto si è detto da più parti per appoggiare le scelte di Netanyahu, una grande emozione. Ma essi furono rapidamente seguiti da una guerra contro Gaza - se vogliamo usare un termine, guerra, che è difficile applicare alla sproporzione esistente fra i terroristi di Hamas e l’esercito israeliano - che già metteva in conto, modificando le regole di ingaggio dei soldati, l’enorme aumento dei “danni collaterali”, cioè l’uccisione dei civili. Di fronte alle pressanti richieste degli israeliani di sapere perché il confine con Gaza fosse stato così sguarnito e perché i soccorsi avessero tanto tardato, il premier infatti scelse la guerra, che ricompattava necessariamente tutti i suoi oppositori in difesa del Paese, a prezzo però, nel suo indefinito protrarsi e nel continuo sabotaggio di qualsiasi trattativa, della vita della maggior parte degli ostaggi. Gli eventi successivi, in tempi che all’inizio mai si sarebbero pensati così lunghi, hanno visto fasi belliche alterne che sono andate dall’impossibilità di vincere davvero Hamas sul terreno militare alle brevi guerre vittoriose contro gli Hezbollah in Libano e poi contro l’Iran, all’attacco definitivo a Gaza da parte dell’esercito israeliano, iniziato negli scorsi mesi, che ne sta portando a totale distruzione il territorio e causa migliaia di morti. Morti civili nella maggior parte, tutti accomunati dal governo israeliano ad Hamas, tutti definiti terroristi dalle destre estreme al potere nel Paese. Ai morti sotto i bombardamenti si aggiungono i morti per fame, una carestia indotta dal blocco dei rifornimenti per impedire che a distribuirli fossero le istituzioni dell’Onu, accusate dal governo di favorire Hamas. Il risultato è un evento che è ormai impossibile chiamare “guerra” e che sempre più viene definito, non solo nel resto del mondo ma anche dall’opposizione israeliana, come un “genocidio”. Questi fatti sono accompagnati da un forte mutare dell’opinione pubblica, in Israele come nel resto del mondo, e da un fortissimo isolamento internazionale del Paese. In Israele, nei primi mesi lo sconvolgimento di fronte all’orrore del 7 ottobre ha generato anche in una parte della sinistra pacifista e favorevole alla convivenza con i palestinesi una sostanziale adesione alla scelta militare. Adesione poi, anche se con lentezza, messa in crisi dal numero dei soldati caduti, dal sostanziale abbandono degli ostaggi, dalla consapevolezza dell’inutilità della scelta militare come anche dal crescere del numero dei morti tra i civili palestinesi, dall’incremento in Cisgiordania dei nuovi insediamenti, dall’espulsione dei palestinesi, dalle aggressioni ai villaggi arabi. Questa guerra “di difesa” cominciava ad apparire come una gigantesca operazione che mirava non a sconfiggere Hamas e a liberare gli ostaggi, ma all’annessione dei territori occupati e all’espulsione dei palestinesi e che aveva il suo centro nella Cisgiordania: la sede del Governo provvisorio palestinese che avrebbe dovuto, negli accordi di Oslo, essere il nucleo del futuro Stato palestinese. Le manifestazioni dell’opposizione riprendono così forza, all’inizio soprattutto come pressione sul governo per arrivare ad un accordo che riportasse a casa gli ostaggi, poi anche come denuncia del massacro che era in atto a Gaza. Nei cortei cominciano, dopo il blocco dei rifornimenti nella primavera di quest’anno, ad apparire le foto dei bambini palestinesi denutriti, foto impressionanti che ricordano il Biafra o il ghetto di Varsavia. Più che i bombardamenti e le decine di migliaia di morti sotto le bombe, a determinare il cambiamento dell’opinione pubblica sono la carestia indotta, e negata pervicacemente da Netanyahu, e il blocco dei rifornimenti a pochi chilometri dei luoghi dove i palestinesi muoiono di fame. Emozione suscitano anche gli spari contro i civili affamati da parte dell’esercito e della nuova organizzazione preposta dal Governo e dagli Usa a sostituire le distribuzioni coordinate dall’Onu. Crescono le manifestazioni contro Netanyahu della sinistra israeliana, ormai divenute quasi giornaliere. E cresce l’isolamento di Israele da parte del mondo. Misure contro Israele, boicottaggi economici e culturali, blocco dell’invio di armi vengono chieste anche da Paesi, istituzioni, gruppi fino a quel momento esitanti o contrari. Solo gli Stati Uniti di Trump restano come inamovibile supporto di Israele. Le ultime vicende vedono da una parte un precipitare della situazione nella Striscia di Gaza, dove da alcune settimane l’esercito sta occupando la città di Gaza distruggendo le case, dopo aver emanato ordini di sfollamento che per molti equivalgono ad una condanna a morte. File interminabili di sfollati, accatastanti in tutto ciò che è munito di ruote, camion, automobili, carretti, lasciano la città portando con sé materassi, vestiti, tutto il possibile. Ogni giorno muoiono fra i 50 e i 100 civili, in questo atroce cammino verso l’esilio. Dall’altra, si aprono degli spiragli a livello internazionale. Il recente riconoscimento dello Stato di Palestina non è, infatti, solo simbolico, come si dice da più parti, non ultima da parte di quanti lo hanno, come l’Italia, rifiutato rinviandolo a tempo indeterminato. Si tratta invece innanzi tutto di un forte sostegno ai palestinesi e alla loro identità, un sostegno da parte dell’Europa e non solo da parte di Paesi che derivavano dal loro essere usciti dall’oppressione coloniale la loro solidarietà con i palestinesi. È un forte riconoscimento morale, nel momento in cui a Gaza si realizza uno sterminio e in Cisgiordania il governo Netanyahu si accinge all’annessione. In secondo luogo, un riconoscimento implica che lo Stato riconosciuto sia oggetto di rapporti con gli altri Stati. Si creeranno consolati o ambasciate? Quali saranno i legami economici e culturali che un riconoscimento deve implicare? Possono gli Stati vendere armi a chi le usa per fare la guerra a uno Stato da loro riconosciuto? Certo, questo comporta che al riconoscimento seguano altri passi. Ma sarà comunque in ogni caso più difficile distruggere i territori dello Stato di Palestina e cacciarne o eliminarne gli abitanti. Il diritto internazionale è, lo sappiamo, sempre più demonizzato e vilipeso, e proprio da Netanyahu e da Trump, ma esiste ancora, e questa potrebbe essere l’occasione per ridargli forza e autorevolezza. Sono sottili tracce di luce nella notte che stiamo vivendo, non solo in Palestina e in Israele ma anche qui, nella vecchia Europa sempre più in difficoltà fra le aggressioni dello zar Putin e quelle solo verbali di Trump. Sta a noi farle diventare un faro che dissolva l’oscurità.