La strage silenziosa nelle carceri italiane di Stefano Stimamiglio Famiglia Cristiana, 3 ottobre 2025 Un giovane detenuto nordafricano si è tolto la vita nel carcere di Pavia dopo pochi giorni di reclusione. È l’ennesimo dramma di un sistema che conta più di un morto a settimana e che rende impossibile la rieducazione prevista dalla Costituzione. I magistrati di Area, riuniti a Genova dal 10 al 12 ottobre, denunciano: “Le condizioni di vita nelle carceri italiane sono una vera emergenza civile e democratica”. Le lenzuola annodate in una lunga corda stretta attorno al collo gli hanno permesso di lasciare la sua cella. Da morto. Deve aver pensato che comunque era la soluzione migliore. Se n’è andato così un giovane nordafricano detenuto nel carcere di Pavia: è il 64mo suicidio dall’inizio dell’anno. Era rinchiuso da pochi giorni ma non ha resistito neanche a quelli. E come lui tanti, troppi, non resistono. Più di un morto a settimana. E la conta va avanti senza che una riflessione ampia investa la politica e la comunità tutta. Ma qualcosa si muove. Ad esempio, tra gli operatori di giustizia come i magistrati progressisti dell’associazione Area che al tema delle condizioni carcerarie hanno deciso di dedicare parte del dibattito del loro congresso, in programma a Genova dal 10 al 12 ottobre, e una maratona oratoria il cui titolo - “All’ennesimo catenaccio” - è un omaggio alla città che li ospita e alla fiaba triste messa in musica da Fabrizio De Andrè con “Don Raffaè”. “La insostenibilità delle condizioni di vita all’interno delle strutture carcerarie è sotto gli occhi di tutti”, dice la presidente di Area Democratica per la giustizia Egle Pilla per spiegare l’impegno dell’associazione su questo fronte: una vera emergenza, dicono senza mezzi termini le toghe. In Italia, vale sempre la pena ricordarlo, il principio della pena rieducativa è sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Un articolo rivoluzionario nella sua semplicità: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In estrema sintesi, reinserire l’individuo nella società, non farne un criminale irrecuperabile. Ma nelle condizioni “che abbiamo sotto gli occhi, nelle condizioni delle carceri italiane è impossibile e irrealizzabile la rieducazione e la risocializzazione di coloro che scontano la pena in strutture sovraffollate e in condizioni non dignitose per la persona”. Il prossimo sarà l’anno in cui saremo chiamati ad esprimerci sulla riforma della giustizia e del Csm attraverso il voto referendario ma l’attenzione delle toghe è anche focalizzata su temi delicati come le condizioni carcerarie, meno immediati forse nella percezione collettiva ma vera emergenza perché - è ancora il ragionamento che fa la presidente Pilla - “il tasso di civiltà e di democraticità di un paese si misura anche dalle condizioni del sistema carcerario. E anche un solo suicidio di un detenuto per l’insostenibilità della vita in cella coinvolge la società tutta ad un’assunzione di responsabilità e la politica ad interventi indifferibili”. Il carcere non può essere la “sola risposta alle istanze legittime di sicurezza e di tutela dei cittadini se veramente si vuole realizzare un sistema che permetta il reinserimento nel tessuto sociale. Quello che dobbiamo capire è che la restrizione fisica non può essere restrizione dei diritti fondamentali della persona e mortificazione della dignità umana”. E solo cambiando il carcere avremo anche società più sicure. Donatella Stasio: “In carcere non c’è amore, l’affettività è un diritto” di Maurizio Gelatti La Stampa, 3 ottobre 2025 Le Giornate della Legalità in programma a Torino sino a domenica 5 ottobre ospitano giuristi, scrittori, docenti e artisti con lo scopo di combattere i luoghi comuni che nella nostra società alimentano l’intolleranza. Il programma 2025 pone l’accento su un argomento ancora troppo poco dibattuto: il diritto all’affettività in carcere. A parlarne, domenica 5 ottobre alle 11,15 nel contesto di “Portici della Legalità, in piazza Castello, è Donatella Stasio, autrice di “L’amore in gabbia - La ricerca della libertà di un reduce dal carcere”. Dal 2017 al 2022, è stata portavoce della Corte Costituzionale e ha scritto per trentatré anni di giustizia, istituzioni e politica. Amore in carcere: è davvero un ossimoro? “Se guardiamo al carcere contemporaneo la risposta è sì perché è un luogo di non-amore. La gente si dimentica che l’amore è il fondamento della qualità dei rapporti etici, civili, politici disegnati dalla nostra Costituzione”. Il suo libro non è solo un’inchiesta ma anche un atto politico? “È un atto politico quello di Gianluca, il protagonista del mio libro, che decide di raccontare una vita di deprivazioni affettive. Questa micro storia di amore in gabbia ci costringe ad affacciarci sulla storia più grande, di cui tutti noi siamo i protagonisti, e che è disseminata di una serie di gabbie nelle quali rischiano di finire i nostri diritti e le nostre libertà”. È corretto parlare di diritto all’affettività e all’intimità? “Sì e ce lo dice la Corte Costituzionale con la storica sentenza 10 del 2024 che riconosce espressamente questo diritto”. La situazione delle carceri oggi in Italia è drammatica. Quale può essere la strada per risolverla? “Basterebbe pensare al carcere come a un servizio che “accompagna” le persone. In prigione entra la persona, non entra il reato”. Sarà alle Giornate delle Legalità insieme a Simonetta Fiori che parlerà del suo libro “Le appassionate”, scritto con Maria Novella De Luca, che narra la storia di donne rivoluzionarie. Perché? “Entrambi i libri attraversano storie personali e parlano di diritti, puntano sulla testimonianza diretta dei protagonisti per raccontare rivoluzioni silenziose, dolorose, faticose. È quasi naturale accostarli”. Lei è stata responsabile della comunicazione e portavoce, con sei diversi presidenti, della Corte Costituzionale, che è il più importante organo di garanzia: come ha vissuto questa responsabilità? “Lavoravo per far conoscere l’importanza della Corte: un organo fondamentale di controllo e di garanzia dei diritti, soprattutto di chi il potere non ce l’ha”. Il clamoroso flop del decreto sulla giustizia civile. Guai per Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 ottobre 2025 Sono soltanto 165, a dispetto dei 500 preventivati, i magistrati che saranno applicati in via d’urgenza presso i tribunali che sono più in difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi del Pnrr sulla giustizia civile. Un vero flop per il decreto giustizia approvato dal governo lo scorso agosto, e convertito in legge mercoledì dal Parlamento, contenente misure d’emergenza per raggiungere entro il 30 giugno 2026 i target concordati con l’Unione europea sulla giustizia civile: riduzione del 40 per cento della durata media dei procedimenti civili (il cosiddetto “disposition time”) e diminuzione del 90 per cento delle cause pendenti rispetto al 2022. È soprattutto il primo obiettivo ad apparire al momento fuori portata, se si considera che al 30 giugno scorso la riduzione dei tempi medi si attestava al 20,1 per cento rispetto al 2019, cioè la metà di quanto concordato con Bruxelles. Da qui l’approvazione in fretta e furia lo scorso agosto del decreto giustizia, che per dare una scossa al sistema puntava principalmente alla costituzione di una sorta di task force di 500 magistrati, incaricata di smaltire da remoto almeno 25 mila procedimenti civili (cinquanta a testa). Nonostante gli incentivi previsti dal provvedimento (un’indennità pari a circa 15 mila euro lordi in caso di definizione delle cinquanta cause, oltre che il riconoscimento di un punteggio di anzianità), soltanto 212 magistrati hanno risposto all’interpello lanciato dal Consiglio superiore della magistratura in attuazione del decreto, dichiarandosi disponibili all’applicazione da remoto. In seguito allo scrutinio delle domande e alla valutazione delle condizioni di inammissibilità e incompatibilità, sono state ritenute valide 165 domande. Un terzo di quanto preventivato, in maniera molto ottimistica, dal governo. L’applicazione di un numero così basso di magistrati implica anche una drastica riduzione della stima dei procedimenti civili che potranno essere smaltiti: da venticinquemila a poco più di ottomila. Se inizialmente il Csm aveva previsto di distribuire i 500 magistrati presso 48 tribunali, “in ragione dell’esiguo numero” dei magistrati disponibili (165), le sedi sono state ridotte a 44, con una radicale diminuzione anche del numero di toghe da distribuire nei vari uffici. Il numero maggiore di magistrati spettava al tribunale di Napoli: 67. Ne saranno applicati soltanto 22. Lo stesso numero di magistrati sarà applicato al tribunale di Venezia, contro i 66 preventivati. La riduzione è proporzionale per tutti gli altri uffici: 10 a Lecce (e non più 32), 9 a Bari (e non 27), 8 a Bologna (e non 24), e così via. Qualcuno, in modo maligno, potrebbe spingersi a sostenere che dietro la risposta così limitata dei magistrati alla “chiamata al fronte” si celi l’intento di indebolire il governo in vista della battaglia referendaria sulla separazione delle carriere. La realtà è però più complessa. Il bassissimo numero di candidati ottenuto dall’interpello appare motivato, oltre che dallo scarso appeal degli incentivi previsti, anche dal rigetto da parte dei magistrati dell’idea stessa sottostante al provvedimento d’emergenza: l’idea di una giustizia fatta esclusivamente di numeri, di fascicoli da smaltire come rifiuti, di procedimenti da condurre da remoto, senza ascoltare neanche le parti ma basandosi soltanto sulla lettura delle carte, con l’adozione di una sentenza da parte di un giudice “virtuale” appartenente a un altro ufficio giudiziario (oppure persino collocato fuori ruolo in qualche amministrazione ministeriale). E’ la mancata condivisione di questa singolare idea di giustizia a spiegare la bassa adesione delle toghe all’appello del governo. Un governo che non ha colpa nell’aver concordato con Bruxelles obiettivi palesemente irraggiungibili (fu il governo Draghi, con la Guardasigilli Marta Cartabia, ad accettare il target del meno 40 per cento della durata media delle cause civili), ma che ha la responsabilità di essere intervenuto in ritardo per provare a raddrizzare la rotta. Già all’inizio del 2025, su queste pagine, sottolineammo come, sulla base dei dati provenienti dai vari uffici giudiziari, gli obiettivi del Pnrr sulla giustizia civile sembrassero un miraggio. Il ministero della Giustizia si spinse persino a inviare una lettera al Foglio per smentire le preoccupazioni. Sei mesi dopo il governo è giunto all’approvazione di un decreto d’urgenza. Forza Italia: ora il sì alla legge sulle chat sequestrate dai pm di Errico Novi Il Dubbio, 3 ottobre 2025 Doveva essere una micro-riforma chirurgica e veloce. E invece la proposta di legge sui limiti ai pm nel sequestro degli smartphone si è incagliata in un ingorgo fra pressioni della magistratura e divergenze nel centrodestra. Solo due giorni fa, dopo una lunga serie di esitazioni e rinvii, la commissione Giustizia della Camera ha indicato il termine per la presentazione degli emendamenti: scadenza fissata per giovedì 9 ottobre alle 12. Ma la verità è che, dopo il via libera in prima lettura a Palazzo Madama dell’aprile 2024, si è creato un serio pregiudizio sul destino del provvedimento, per via di perplessità maturate soprattutto in Fratelli d’Italia. “Noi di Forza Italia”, dice Enrico Costa, “riteniamo invece doveroso introdurre una disciplina nel sequestro dei dispositivi elettronici e in particolare della messaggistica, per il banalissimo motivo che la Corte europea, nell’ormai lontano dicembre dell’anno scorso, ha chiarito senza equivoci che un inquirente non può disporre del telefono o di qualsiasi altro dispositivo di un indagato se non ottiene l’autorizzazione di un giudice. Esattamente come avviene per le intercettazioni”. Ora, osserva tra sarcasmo e amarezza il vicepresidente azzurro della commissione Giustizia di Montecitorio, “se davvero le pronunce dei giudici sovranazionali vanno recepite in Italia immediatamente e tassativamente solo quando fanno comodo alla magistratura, basta che ce lo dicano”. Nelle riflessioni condivise da Costa con il Dubbio, sembra implicito il riferimento alle decisioni della Corte Ue in materia di migranti, in nome delle quali, in effetti, non si è esitato a travolgere, e giustamente, il modello Albania sperimentato dal governo. Nel dettaglio va ricordato che il testo originario, presentato più di due anni fa da un altro forzista, Pierantonio Zanettin, a Palazzo Madama, introduce un articolo 254 ter nel codice di procedura penale che, per il sequestro di dispositivi della persona indagata, fissa obblighi analoghi a quelli imposti alle Procure per le intercettazioni. Già però al Senato il testo originario era stato “depurato”, si fa per dire, delle norme che, pur in presenza di un’autorizzazione del al prelievo di chat dallo smartphone di un indagato, imponevano una successiva udienza stralcio, un contraddittorio in cui anche la difesa potesse chiedere al giudice, al pari dell’accusa, di acquisire nel fascicolo non solo la messaggistica utile alla tesi del pm ma anche eventuali altri elementi favorevoli, appunto, alla persona accusata. Garantismo apparso “ridondante” agli alleati di FI, “un ostacolo esiziale per l’efficacia delle indagini”, avevano obiettato i procuratori in audizione. Sembra però non sia bastata, come limatura. Perché soprattutto il partito di Giorgia Meloni si mostra sensibile anche ad altri rilievi emersi, sul fronte della magistratura inquirente, dopo che il testo era arrivato a Montecitorio. Il procuratore nazionale Antimafia Gianni Melillo, il capo dei pm di Napoli Nicola Gratteri e altre toghe di peso hanno obiettato che è intollerabile la norma, pure prevista nel testo approvato a Palazzo Madama, sui limiti di “riutilizzo” del materiale estratto dai cellulari nell’ambito di una certa inchiesta per indagini diverse da quella iniziale. “Al momento, tale travaso resta consentito solo per i reati gravissimi per i quali è consentito l’arreso in flagranza”, osserva Costa, “ma se i colleghi degli altri partiti, in commissione Giustizia, pensano di dover accogliere le obiezioni sollevate dalle Procure, allora a quel punto noi di Forza Italia presenteremmo anche altri emendamenti, di tutt’altra natura, a cominciare da una rigorosa regolamentazione dei trojan”. Se ne parlerà fra pochi giorni: per la settimana prossima è fissata una riunione fra i deputati di maggioranza della commissione Giustizia. La si deve anche al presidente dell’organismo di Montecitorio, il meloniano Ciro Maschio, che ha raccolto le ripetute sollecitazioni rivolte dai berlusconiani agli alleati. Ci si guarderà negli occhi e si deciderà se evitare ulteriori ritocchi alla “legge smartphone”, e approvarla senza modifiche in modo che entri in vigore. O se assecondare, appunto, i suggerimenti espressi dai magistrati, ma allungare così i tempi, con l’inevitabile ulteriore lettura al Senato. Nella seconda e più probabile ipotesi, ci troveremmo di fronte all’ennesima conferma che Fratelli d’Italia, in vista del referendum sulla separazione delle carriere, non vuole “esagerare”, non intende infierire sulla magistratura. È una logica emersa più volte, da mesi, su diversi altri dossier di politica giudiziaria. Basti pensare all’ormai leggendaria riforma delle misure cautelari, a cui pure il guardasigilli Carlo Nordio tiene molto ma che evidentemente, per Meloni e il suo partito, sarebbe a questo punto un “di più” pericoloso. E alla fine, il pericolo, la ritrosia di FdI nel completare le riforme garantiste, è il riflesso di un approccio diverso, fra i partiti di centrodestra, nel rapporto con gli elettori. Se ci si fa caso, il messaggio che la stessa Meloni si ostina a ripetere in vista del referendum sul “divorzio” giudici- pm è che “si tratta di una riforma non ostile alla magistratura ma necessaria per estirpare la malapianta del correntismo”. Ma sull’abnormità di alcuni strumenti a disposizione dei pm, come nel caso dell’assenza di regole nel sequestro degli smartphone, i meloniani sono assai meno sensibili di Forza Italia. La Lega resta un po’ a metà fra strada, sospesa fra le asprezze di Matteo Salvini nei confronti delle “toghe politicizzate” e la linea meno di rottura indicata da Giulia Bongiorno. Fatto sta che nel centrodestra, anche in vista del referendum sulle “carriere”, si colgono linguaggi molto diversi. FdI presume che ai propri elettori non piaccia veder spuntati gli artigli alle Procure. Forza Italia, dal viceministro Sisto al vicepresidente della commissione Giustizia Costa, preferirebbe invece ampliare il percorso destinato a culminare nella separazione delle carriere. E visto che già la riforma costituzionale è un bel peso da reggere, la linea di Meloni e dei suoi sembra fatalmente più quotata del garantismo azzurro. Mae, la Cassazione: non servono i gravi indizi per la consegna di Antonio Alizzi Il Dubbio, 3 ottobre 2025 Per la Suprema Corte, per eseguire il mandato di arresto europeo è sufficiente che i reati siano chiaramente indicati. Ribadita la validità delle modifiche introdotte dal dl 10/2021. La Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di mandato di arresto europeo: non è necessario che l’autorità estera alleghi o descriva i gravi indizi di colpevolezza, essendo sufficiente che indichi con chiarezza i reati contestati e le circostanze essenziali. È quanto stabilito dalla Sesta sezione penale con una sentenza depositata il 26 settembre 2025, che ha confermato la consegna di un cittadino italiano richiesta dall’autorità giudiziaria tedesca. Scrivono i giudici di legittimità: “La valutazione della gravità indiziaria è integralmente rimessa all’autorità richiedente la consegna, non occorrendo alcun ulteriore controllo, per quanto incidentale, da parte dell’autorità richiesta”. Una presa di posizione netta, che fa leva sulle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 10 del 2021 alla legge n. 69 del 2005: con tale riforma è stato eliminato il riferimento ai “gravi indizi di colpevolezza” tra i presupposti per disporre la consegna. Il caso riguardava un cittadino italiano chiamato in causa per presunta partecipazione a un’associazione a delinquere con base in Germania, finalizzata a evadere imposte, eludere contributi previdenziali e favorire l’ingresso irregolare di lavoratori stranieri. Secondo l’autorità tedesca, l’uomo avrebbe prestato la propria identità per la creazione di società di comodo e avrebbe agevolato l’impieg o di immigrati privi di permesso di soggiorno. La difesa aveva contestato la genericità delle accuse e la sproporzione della richiesta di consegna, sostenendo che l’audizione dell’imputato avrebbe potuto avvenire con modalità diverse, senza ricorrere a una misura così invasiva. Inoltre, aveva segnalato l’impossibilità di accedere a tutte le testimonianze raccolte in Germania. Ma la Cassazione ha respinto punto per punto le obiezioni. In primo luogo ha ricordato che la Corte di appello di Firenze aveva già individuato chiaramente i reati contestati, soddisfacendo così il requisito della “doppia punibilità” (ossia la corrispondenza tra fattispecie penali previste in entrambi gli ordinamenti) e rendendo obbligatoria la consegna. In secondo luogo ha sottolineato che il mandato non era stato emesso per un semplice atto investigativo, ma per sottoporre il soggetto a un vero e proprio processo penale in Germania. Quanto ai motivi aggiunti presentati in memoria dalla difesa, la Suprema Corte ha osservato che nel procedimento sul mandato europeo non è prevista la possibilità di introdurre questioni nuove oltre quelle indicate nel ricorso iniziale. Le memorie possono solo illustrare o approfondire i motivi già proposti, non estenderne l’oggetto. Sul punto, gli ermellini scrivono: “Non si prevede in alcun modo la possibilità di depositare “motivi nuovi”, né è indicato un eventuale termine per tale adempimento. Quanto detto consente di affermare che la difesa è abilitata esclusivamente al deposito di memorie, con le quali non può introdurre questioni ulteriori e diverse rispetto a quelle proposte con il ricorso introduttivo”. Un passaggio evidenziato qualche riga più avanti: “Anche nel procedimento ordinario, vige il principio generale della necessaria connessione tra i motivi originariamente dedotti nel ricorso principale e quelli nuovi”. In definitiva, il ricorso è stato dichiarato infondato e il ricorrente è stato condannato non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche a versare tremila euro alla Cassa delle ammende. In buona sostanza, l’Italia, quando riceve un mandato di arresto europeo, non deve sindacare sulla solidità delle prove raccolte all’estero. Spetta al Paese che emette il mandato verificare la fondatezza delle accuse. All’autorità italiana resta solo il compito di controllare che vi sia chiarezza nell’indicazione dei reati e rispetto delle condizioni di legge. Padova. Al via le “stanze dell’amore” per i detenuti e le loro mogli di Luca Preziusi I Gazzettino, 3 ottobre 2025 Il sottosegretario Ostellari si era opposto al progetto, ma gli avvocati hanno impugnato la sentenza della Consulta. Rivoluzione sessuale (e affettiva) al Due Palazzi: le stanze dell’amore del carcere di Padova sono pronte. Letto, lavandino e lenzuola sono già disponibili in una camera vicino ai locali dei colloqui, in attesa della prima coppia. Da lunedì 6 ottobre i detenuti del carcere di Padova avranno diritto ad un po’ d’intimità con le loro mogli o conviventi, con cui potranno passare due ore e mezza in assoluta riservatezza e libertà. Tutto avverrà quindi nel rispetto della privacy, lontano dagli occhi della sorveglianza della polizia penitenziaria. Dell’ipotesi si era parlato già all’inizio dello scorso anno, quando le diverse associazioni padovane di volontari che lavorano con i reclusi avevano lanciato la proposta, alla luce di una sentenza della Corte Costituzionale. Un diritto da sempre negato, che adesso Padova concederà da lunedì prossimo, rifacendosi alla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività e alla sessualità in carcere. Una decisione che ha di fatto bocciato la parte della legge 26 del luglio 1975 con cui si vietano ai detenuti colloqui con il coniuge (ma anche parte dell’unione civile o la persona con cui vive stabilmente) senza il controllo a vista del personale di custodia. Per i reclusi si tratta quindi di una vera e propria conquista. Oltre alla restrizione della libertà individuale, da sempre chi non ha diritto ai permessi premio deve rinunciare a quella sessuale. E, al di là del piacere, anche alla possibilità di avere dei figli. E questa la Consulta l’ha considerata una vera e propria violenza fisica e morale sulla persona. Per la Corte Costituzionale si può quindi ipotizzare che le visite a tutela dell’affettività “si svolgano in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, organizzate per consentire la preparazione e la consumazione di pasti e riprodurre, per quanto possibile, un ambiente di tipo domestico” - si legge. È comunque necessario che sia assicurata la riservatezza del locale di svolgimento dell’incontro, il quale, per consentire una piena manifestazione dell’affettività, deve essere sottratto non solo all’osservazione interna da parte del personale di custodia (che dunque vigilerà solo all’esterno, ndr), ma anche allo sguardo degli altri detenuti. Da quel momento, quindi, a Padova si sono mosse le associazioni, soprattutto “Ristretti Orizzonti” di Ornella Favero, per avviare da subito una sperimentazione. Sperimentazione a cui si era opposto il sottosegretario alla Giustizia, il leghista padovano Andrea Ostellari, ritenendo di dover prima regolamentare l’eventuale applicazione della sentenza. Cosa che nel frattempo è avvenuta. Il ministero della Giustizia ha infatti steso le norme, di cui ora i direttori dei penitenziari potranno liberamente servirsi. Ed è quello che ha già fatto la neodirettrice Maria Gabriella Lusi dopo la richiesta arrivata nelle scorse settimane da parte di tre detenuti nel carcere di Padova. Attraverso i loro legali si sono rivolti al magistrato di sorveglianza, che ha quindi prodotto una ingiunzione nei confronti della direttrice, con la richiesta di applicare la sentenza della Corte Costituzionale. A quel punto Lusi ha concesso la possibilità di sperimentare per quattro mesi la cosiddetta “affettività in carcere”, facendo predisporre una stanza vicina all’area dei colloqui, con tre turni da due ore e mezza l’uno (8. 30, 11 e 13. 30). La decisione preoccupa però i sindacati della polizia penitenziaria. Venendo meno la sorveglianza, infatti, secondo loro ci sarebbero dei rischi per l’incolumità delle persone che sarebbe difficile da garantire all’interno di una stanza chiusa. E non solo: lamentano anche il fatto che gli ospiti potrebbero introdurre più facilmente in carcere droga, telefoni, messaggi dall’esterno o addirittura armi. Ovviamente non tutti i detenuti avranno diritto all’intimità. L’ultima parola spetterà sempre al magistrato di sorveglianza, che volta per volta dovrà giudicare le richieste, gli eventuali rischi e la condotta del recluso. Difficile, se non impossibile, che sia concessa ad un femminicida. “Omnia vincit amor”, alla fine l’amore vince sempre, diceva Virgilio. Genova. Il caso Stefan, suicida a Marassi, riaperto alla Camera: Giachetti incalza sulle cure negate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2025 C’è un filo invisibile che lega le celle dei penitenziari italiani. Un filo nero, spesso, che corre da una sezione all’altra, da un istituto all’altro. È il filo della solitudine, dell’abbandono terapeutico, del disagio psichico che diventa condanna a morte. Vasile Stefan, 34 anni, rumeno, ne ha seguito il percorso fino all’ultimo nodo: l’impiccagione nella cella numero 4 del piano terra della sesta sezione del carcere di Genova Marassi, a gennaio 2022. È morto all’ospedale San Martino dopo alcuni giorni di agonia. Un caso archiviato troppo in fretta e che oggi ritorna sotto i riflettori grazie a un atto parlamentare che punta a smontare la coltre di opacità che avvolge quella vicenda. Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e da anni, da buon radicale, impegnato sul fronte dei diritti dei detenuti, nell’interrogazione rivolta al ministro della Giustizia e a quello della Salute, non si limita a ricordare una morte: scoperchia il buco nero della psichiatria penitenziaria, quello spazio dove i protocolli esistono sulla carta ma scompaiono nella realtà delle sezioni. Vasile Stefan non era un detenuto qualunque. O meglio, era uno di quei detenuti che il sistema avrebbe dovuto proteggere, curare, seguire con attenzione. Già da giugno 2021, le relazioni del personale di Marassi lo segnalano come soggetto da tenere sotto “attenta sorveglianza” per problematiche psichiatriche. Un bollino rosso che, almeno sulla carta, implica un regime di monitoraggio costante. Eppure quel monitoraggio si è rivelato tutto fuorché terapeutico. Il 25 giugno 2021 si registra l’episodio più significativo: Vasile viene trasferito dopo una grave reazione agitata, accompagnata da gesti autolesivi. Calci e pugni contro il muro, colpi di testa contro lo spioncino della cella. Il personale annota la difficoltà nell’allocazione del detenuto: crisi di pianto, urla frequenti, comportamenti che influenzano negativamente gli altri reclusi. Vasile parla da solo, non dorme, sottrae sigarette ai compagni. Tutti segnali chiarissimi di un disagio psichico che esplode, che chiede aiuto. Ma l’aiuto non arriva. O arriva nella forma peggiore: lo spostamento da una cella all’altra, la sorveglianza visiva degli agenti di polizia penitenziaria, la convivenza forzata con detenuti che non hanno gli strumenti per gestire la fragilità altrui. Il 30 dicembre 2021 Vasile viene trasferito al piano terra della sesta sezione e assegnato in cella con il detenuto D. D. P. Il primo gennaio 2022 - e già questa data dovrebbe far riflettere - il compagno di cella appicca un incendio per protesta. Protesta contro la convivenza forzata con un “pazzo”, accusa Vasile di avergli finito il tabacco. La risposta del sistema è l’isolamento. Vasile viene sottoposto a valutazione medica che rileva “stato di agitazione associato a manifestazioni paranoidi” e finisce nella cella numero 4, da solo. È lì che, poco dopo, tenta il suicidio mediante impiccagione. Morirà all’ospedale alcuni giorni dopo. L’interrogazione di Giachetti è un atto d’accusa preciso. Il deputato di Italia Viva cita la relazione del consulente tecnico della procura nel procedimento - poi archiviato - contro il medico chirurgo M. P., in servizio il giorno del tentativo di suicidio. Quella relazione è impietosa: il rischio suicidario era chiaramente segnalato, le annotazioni sul disagio psicologico erano costanti, i pensieri paranoici e le paure generalizzate erano evidenti. Gli eventi critici occorsi durante la detenzione avrebbero richiesto “un monitoraggio clinico accurato e non meramente visivo da parte degli agenti, con regolari colloqui psicologici e frequenti valutazioni psichiatriche, come previsto dai protocolli di prevenzione”. Invece, la documentazione sanitaria parla di “visite specialistiche sporadiche”, nonostante le numerose segnalazioni. È su questo punto che Giachetti affonda il bisturi. Le domande poste al ministro della Giustizia e al ministro della Salute sono tre, ma potrebbero valere per centinaia di casi simili sparsi nei penitenziari italiani. Primo: quanti colloqui psicologici e quante visite psichiatriche ha effettivamente ricevuto Stefan Vasile durante la detenzione a Marassi, in particolare dal giugno 2021 fino al gesto autolesivo? È la domanda più semplice, ma anche quella che mette il dito nella piaga. Perché se la risposta sarà quella che si può intuire dalla documentazione acquisita dalla procura, allora emergerà con chiarezza che l’attenta sorveglianza era in realtà un’attenta indifferenza terapeutica. Secondo: quanti sono i casi psichiatrici a Marassi e come viene assicurata l’assistenza psichiatrica e psicologica? Quanti specialisti psichiatri ci sono e quale copertura oraria settimanale garantiscono? Sono previsti tecnici della riabilitazione psichiatrica e con quale presenza? Sono domande che fotografano l’inadeguatezza strutturale del sistema. Perché i detenuti con disagio psichico non sono eccezioni, sono una parte consistente della popolazione carceraria. E se non ci sono risorse, professionisti, ore di terapia sufficienti, allora il problema non è solo di Marassi, ma sistemico. Terzo: in cosa consiste e come si articola il protocollo per la prevenzione delle condotte suicidarie presso il carcere di Marassi? È la domanda che dovrebbe mettere in imbarazzo chi si riempie la bocca di procedure, linee guida, best practices. Perché i protocolli ci sono, sulla carta. Ma se poi un detenuto segnalato come a rischio, seguito, isolato, finisce comunque col togliersi la vita, allora forse quei protocolli sono carta straccia. Nel 2022 il ministero della Giustizia ha indetto una procedura per l’affidamento di 6 incarichi professionali a esperti psicologi, criminologi e pedagogisti con competenze nel trattamento di soggetti a rischio suicidario, segno che la criticità era nota e certificata. Ma evidentemente sei figure professionali a tempo determinato non bastano a coprire i bisogni di quasi 700 detenuti del Marassi, molti dei quali con fragilità psichiche evidenti. Il caso di Vasile Stefan non è isolato. Nel 2024 un giovane di 21 anni è morto dopo il ricovero nel reparto di assistenza intensificata: in quel caso due agenti sono stati indagati per omicidio colposo. È la conferma che il sistema non funziona, che la fragilità psichica viene identificata ma non curata, che tra la diagnosi e la terapia c’è un vuoto in cui le persone muoiono. L’”attenta sorveglianza” si è rivelata un’etichetta burocratica, un timbro su una cartella che non ha impedito la tragedia. I protocolli di prevenzione del suicidio esistono, ma nella pratica quotidiana delle sezioni sovraffollate, con personale sanitario insufficiente e carico di lavoro insostenibile, quei protocolli si dissolvono. Il filo conduttore è sempre lo stesso: detenuti fragili, segnali ignorati, protocolli che restano sulla carta. L’atto di Giachetti, più che una richiesta tecnica, diventa così un’accusa politica: il carcere continua a essere un buco nero dove i malati psichiatrici non ricevono cure adeguate e la prevenzione dei suicidi resta affidata alla buona volontà di chi è in turno. Ora tocca al ministro Nordio e al ministro Schillaci rispondere. Ma la vera domanda è un’altra: quanto ancora si può nascondere la morte dietro le statistiche, prima che lo Stato ammetta che il sistema penitenziario, così com’è, non garantisce né sicurezza né dignità? Cagliari. Emergenza carceri, Marta Cartabia: “Dare attuazione ai principi della Costituzione” L’Unione Sarda, 3 ottobre 2025 Diritto, giustizia, pena, carcere, quello che viene dopo il carcere, la possibilità della giustizia riparativa. Temi affrontati nel dialogo tra Marta Cartabia, già ministra della Giustizia, prima donna a presiedere la corte costituzionale, oggi docente di diritto costituzionale all’Università Bocconi di Milano e l’arcivescovo di Cagliari e segretario della Cei Giuseppe Baturi. Un incontro, cominciato in tarda serata, ma comunque seguito da un folto pubblico a conferma di quanto le questioni affrontate siano avvertite come centrali nel dibattito collettivo. In sala tantissimi giovani. “Le emergenze del sistema carcerario - ha sottolineato Marta Cartabia - condizionano l’attuazione della Costituzione che ha come principio cardine quello del reinserimento sociale dei detenuti”. Nell’aula magna del Seminario arcivescovile di Cagliari, dopo l’introduzione di Diego Zanda, responsabile della Pastorale dei giovani della diocesi, si è discusso anche di giustizia riparativa parte integrante dell’ordinamento italiano grazie a Marta Cartabia che venerdì 3 ottobre interviene al convegno organizzato dall’Università negli spazi del Polo giuridico in via Sant’Ignazio. Nel video la presidente emerita della Corte Costituzionale Marta Cartabia e l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi. Caserta. “Una vita in comune, dopo il carcere”, convegno sul reinserimento degli ex detenuti informareonline.com, 3 ottobre 2025 Il tema del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti sarà al centro del convegno “Una vita in comune, dopo il carcere. Rinascere con le istituzioni locali: quali prospettive?”, in programma alle ore 10.30 presso l’Auditorium della Provincia di Caserta, in via A. Ceccano. L’evento, promosso dal Garante provinciale dei diritti delle persone private della libertà, don Salvatore Saggiomo, nasce per affrontare le difficoltà e le opportunità del ritorno alla vita libera dopo il carcere, con il contributo di istituzioni, enti locali, terzo settore, scuole, università e imprese. Apriranno i lavori la Vice Presidente del Senato, Mariolina Castellone, e il Presidente della Provincia di Caserta, Anacleto Colombiano. Seguiranno gli interventi del Garante regionale Samuele Ciambriello, del sociologo Arturo Formula, dell’avv. Augusto Cerqua, del sindaco di Maddaloni Andrea De Filippo, della direttrice della Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere Donatella Rotundo e della direttrice dell’UEPE Caserta Maria Laura Forte. Particolarmente attesa la testimonianza di Sebastiano Lauretano, ex detenuto che racconterà il suo percorso di reinserimento. Il convegno lancia un messaggio chiaro: la pena non deve essere solo punizione, ma occasione di rinascita e responsabilizzazione, possibile grazie al sostegno delle comunità e alla collaborazione tra istituzioni e società civile. La psichiatria è poesia e compassione, parola delle eredi di Borgna e Basaglia di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 3 ottobre 2025 L’incontro coordinato da Vittorio Lingiardi all’Università La Sapienza di Roma. Quant’è diventato difficile parlarci, e intenderci. Tra amici e amanti, tra genitori e figli, tra chi difende e chi si difende, tra chi ferisce e chi cura, tra medici e pazienti, tra medici e medici. Intenderci, forse, ci importa poco: ci interessa di più parlare che parlarci, sebbene parlarci sia ciò che ci rende umani. Noi siamo un colloquio e quindi ci ascoltiamo, scrisse Hölderlin, poeta, schizofrenico per buona parte della sua vita: era uno dei versi preferiti di Eugenio Borgna, lo psichiatra della tenerezza e della fragilità, uno dei più importanti della psichiatria italiana, piemontese (di Borgomanero), morto a dicembre scorso, a 94 anni, dopo una vita spesa per una comprensione umana della follia, e una dimensione etica della cura della malattia mentale. “Mio zio vi affida un compito di resistenza: non lasciatevi travolgere da logiche efficientiste, che sacrificano la relazione umana, perché la cura autentica richiede tempo, presenza, disponibilità ad abitare la zona d’ombra dell’altro. La sua voce, sulla scia di quanto il professor Basaglia gli ha insegnato, vi chiama a un compito etico e culturale, a una responsabilità alta ma necessaria: custodire l’umanità della cura perché solo così la scienza diventa davvero servizio alla vita”, ha detto ieri Serena Borgna, nipote di Eugenio, nel suo intervento alla cerimonia di apertura dell’anno accademico della facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università La Sapienza di Roma. Con lei, Alberta Basaglia, figlia di Franco, il padre della legge 180, che chiuse i manicomi e rivoluzionò la psichiatria italiana, e Vittorio Lingiardi, ordinario di Psicologia dinamica nella stessa università, e ideatore (insieme alla preside di facoltà Tiziana Pascucci e grazie alla rettrice Antonella Polimeni) dell’incontro tra queste due donne e le loro eredità e testimonianze, pensato per dare il benvenuto alle matricole, far conoscere loro Basaglia e Borgna, e soprattutto discutere della “Fragilità che è in noi” e degli acceleratori di quella difficoltà nel comunicare, entrare in relazione, ascoltare, ai quali la nostra vita ci espone ed espone la scienza che di noi si prende cura, e chi la fa, la studia, e agisce. Serena Borgna ha detto agli studenti e alle studentesse che hanno il compito etico e culturale di essere “competenti, ma pure donne e uomini capaci di compassione e poesia”, e di ricordare sempre che la medicina e la psicologia servono a fare le diagnosi, ma non sono scienze esatte: vanno sempre integrate con l’arte e la letteratura, che servono a capire il senso della vita e del dolore, e a lasciare viva la domanda su entrambi. Alla fine del suo intervento, uno studente è intervenuto per dire quanto è importante e urgente che l’empatia diventi, nel loro mestiere, “un metodo elettivo”, e quanto la vede, invece, almeno nell’insegnamento, carente: le competenze tecniche restano l’acquisizione principale degli studi universitari. Da quello che la cronaca ci racconta, da quello che avvertiamo nella nostra vita quotidiana, da quello che ciascuno di noi sperimenta quando entra in relazione con un medico o uno psichiatra, sono quelle tecniche la parte preponderante, a volte quasi integrale, della cura, a detrimento dell’aspetto umano, umanistico, che, in un travisamento culturale che ha finito con l’essere anti-culturale, si ritiene una specie di supplemento superfluo, un placebo, un contorno estetizzante. Il covid lo ha evidenziato e il post covid, incredibilmente, lo ha aggravato. L’approccio tecnico-scientifico e la sua mancata sinergia con quello umanistico viene rilevato spesso nella cura dei disturbi dei ragazzi, del loro malessere (Michela Marzano lo ha raccontato nel suo ultimo romanzo, Qualcosa che brilla, che è un’opera di fiction basata sull’ascolto di decine di ragazzi in cura presso centri specializzati: molti di loro non vengono ascoltati, né visti, sono appiattiti e identificati con diagnosi omologate, protocollari, e vengono curati il più delle volte con terapie farmacologiche che, di fatto, li zittiscono). I ragazzi sono tra le persone che, secondo Alberta Basaglia, non hanno voce: a non avere voce, nelle nostre società sono per lei “tutti coloro che vengono riconosciute come diverse” e male accolte come tutti coloro che hanno un sintomo psichiatrico e soffrono. Oltre ai ragazzi, ci sono per lei le donne “che da quando hanno cominciato ad avere più voce, vengono ammazzate”, i bambini “che sono diversi perché guardano il mondo da un’altezza diversa, e il mondo visto da laggiù è tutta un’altra cosa” (e viene da chiedersi: chi si incarica di comprendere la loro prospettiva, così da aiutarli a esprimerla?); le persone straniere, “alle quali riserviamo un’accoglienza simile a quella che si dava nei manicomi”. La rivoluzione di Franco Basaglia, che sua figlia Alberta definisce un’avventura, sembra oggi ferma, forse persino incastrata: la battaglia affinché non solo i luoghi di cura e accoglienza non siano recinti di segregazione, ma pure non esista più nemmeno il concetto di segregazione, sembra molto lontana dalla vittoria. Per Alberta Basaglia, “Negli anni Settanta, un gruppo di persone tra cui mio padre capirono che nei manicomi avvenivano delle ingiustizie, e che era arrivato il momento di fermarle. Quel fervore civile e quella rabbia, che si rimprovera alle nuove generazioni di aver estinto, a me sembra invece che siano tornati, vivi e pulsanti”. All’umanizzazione a cui siamo chiamati, e della quale sembriamo desiderosi, ma per la quale, forse, non siamo preparati, contribuirà l’uso delle tecnologie: quando uno studente ha chiesto in quale momento, nelle nostre coscienze, ha iniziato a diradarsi la capacità empatica, rendendoci inaccorti e aggressivi verso le fragilità, Lingiardi ha risposto che il passaggio dalla vita analogica a quella digitale, e quindi il passaggio dalle relazioni toccanti a quelle smaterializzate, ha reso meno quotidiane le esperienze della comprensione, della gentilezza, dell’immedesimazione, che dell’empatia sono strumenti. Tuttavia, per Lingiardi, la tecnologia è un mezzo straordinario per l’indagine antropologica e psichica, così come per la relazione tra individui: la funzione farà l’uso, se lo vorremo. Nel cortile dell’Università è stato esposto Marco Cavallo, la scultura di 4 metri che nel 1973 i degenti (non più “internati”) del manicomio di Trieste realizzarono in omaggio al cavallino che nei reparti veniva usato per trasportare la biancheria: volevano simboleggiare i loro sogni, e il desiderio che tra dentro e fuori ci fosse movimento, non barriera. Quando si decise che la scultura avrebbe dovuto uscire dall’ospedale e andare fuori - come poi, da allora, ha fatto, per andare a presidiare tutti gli spazi di reclusione (di recente è stato presso i Cpr di Ponte Galeria) -, si vide che le sue dimensioni impedivano l’operazione. Prima si pensò di tagliare la testa, poi di abbattere il muro della sala in cui si trovava. E così fu fatto. Abbattere i muri, prima di ogni cosa quelli tra noi, è la grande poesia che possiamo scrivere tutti ma è pure, soprattutto, il dialogo che ogni giorno possiamo e dobbiamo costruire. Di Costanzo e lo sguardo del cinema sull’umanità occultata nel male di Luigi Abiusi Il Manifesto, 3 ottobre 2025 Cinema Con “Elisa”, ancora nelle sale, il regista ha affrontato un passaggio che si riflette nelle nuove ambientazioni. Il film mette in luce i gesti e le espressioni di una colpa senza motivo apparente. Un Di Costanzo raggelato, rigoroso; un cinema scarnito, anche estenuato (da canonici ingombri di figure e di dialoghi, messi di solito a garanzia della narrazione, ora invece silente, latente) quello di Elisa, puntellato da musiche gelide, graffianti, di un post-rock all’insegna di arpeggi metallici, e di cui la protagonista è perfetto correlativo soggettivo: Barbara Ronchi che sembra seguire una metrica intima, fatta di gesti, espressioni, parole monche, dettati da un senso di alienazione, lo sgomento costante, da uno stridore, cigolio acceso nei recessi più nascosti della coscienza. Passato in concorso alla Mostra di Venezia, Elisa è ancora in sala e merita un’attenzione particolare non solo per questi elementi formali, ma anche per il presupposto, il cosiddetto tema, certo scomodo, da cui parte, cioè l’umanizzazione del “mostro”, che potrebbe tenere a distanza lo spettatore meno smagato (ma è un rischio che Di Costanzo fa bene a correre in nome di un umanitarismo estremo) quando non gli susciti proprio un rifiuto, simile a quello manifestato da Laura (Valeria Golino) che, nella struttura narrativa del film, lo rappresenta, lo simbolizza, incarna lo spettatore, appunto, seduto in una sala in penombra, che guarda il film Elisa. Si tratta di distinguere, come dice il giurista Alaoui nella sua lezione in apertura del film, il criminale che non sa di esserlo (per ignoranza, mancanza d’etica, per un’ottusità radicata nell’ontologia della storia, forse anche della stirpe), che pensa di non aver fatto nulla di male e invece ha linciato dei ragazzi di colore, li ha uccisi, mettendosi anche a favore di camera, entro un panorama che vede ergersi il chiaroscuro spettrale di due figure impiccate; da chi al contrario sa del proprio crimine, dell’entità di questo male, e per questo si carica di colpe assolute, corrosive, che risalgono il corso della coscienza muovendo da una zona ctonia, terrifica, da un Es graffiato, urticato, tanto da pensare che quel crimine, quel male sia la chiave di volta della propria natura. Ecco, il film di Di Costanzo mette in immagini quest’imo della psicologia ferita, anzi devastata di Elisa, incaglio di coscienza, di umanità; e mostra il tentativo del disincaglio, del ripristino di una qualche forma di salute, perché magari questa donna ammaccata, questa coscienza segnata da una colpa insoffribile, possa anche solo pensare di continuare a vivere, camminare, salire su un bus, traguardare un orizzonte slavato, muto. “Elisa” è la dimostrazione cinematografica, la messa in scena della tesi del professor Alaoui, per cui dietro un delitto così efferato risiede un tipo di umanità che va fatto emergere perché la responsabilità si attagli al colpevole, se no resterebbe solo il delitto, l’abominio senza senso. La frase precisa di Alaoui recita “la responsabilità del colpevole va ricercata nella sua umanità”, che è il viatico di un carotaggio, di un’ispezione delle profondità labirintiche e scure dell’animo di Elisa, in una Svizzera invernale, taciturna, casolari spogli dentro un carcere di boschi, interni alienanti, come il bar in cui lavora la ragazza, cieli bianchi, sibilanti. Mi viene in mente l’ambientazione (sempre svizzera) di un film dimenticato per quanto interessante, uscito nel 2002 per la regia di Silvio Soldini, Brucio nel vento, in cui risuonava il vuoto degli sfondi, dei lacerti di cielo, gli stessi, come il riflesso metallico di un baratro disperato, presenti in Elisa. Da qui allora risale in superficie, sulla superficie dell’Io la paura in quanto tratto umano riesumato: peso schiacciante e deliquio, sofferenza allucinatoria, stordente che ha causato il crimine, al punto che si potrebbe dire che Elisa sia propriamente un film sulla paura e sulle sue conseguenze. “La paura mangia l’anima”, avvertiva Fassbinder, ed Elisa allora è come fagocitata dall’ansia, dal senso di responsabilità fattosi morbo, frastuono; schiacciata dalla paura del fallimento, della vergogna, cioè dalla paura di non valere nel giudizio altrui, quindi dal terrore di non esistere, se si pensa che l’esistenza di qualcuno derivi dal giudizio dell’altro; di non essere se non un lemure, uno zombie che come in trance dà fuoco a sua sorella e poi alla madre prima di rinchiudersi nella sua pallida mutria, nello sgomento degli occhi slavati, spalancati, come il cielo, lontano, carico di neve, di freddo. Il consenso costruito sul conflitto continuo di Flavia Perina La Stampa, 3 ottobre 2025 L’unità nazionale non si addice ai tempi, alle destre, alle sinistre, a nessuno, e quando c’è è meglio nasconderla, vai a vedere che qualcuno dica: intelligenza col nemico, tradimento, passo indietro. Così l’oggettivo risultato politico raggiunto dal governo con la risoluzione su Gaza, approvata ieri senza voti contrari (caso più unico che raro su questioni di questo rilievo), è minimizzata a evento collaterale di una furibonda zuffa su tutto il resto: lo sciopero della Cgil, la Flotilla, le manifestazioni, i “teppisti” da rimandare a casa con i manganelli, la Portavoce della Commissione europea Eva Hrncinova, Maurizio Landini “che vuole dare una spallata al governo”. E davvero non si capisce come mai un esecutivo che ha chiesto e ottenuto una posizione unitaria sul piano di pace per Gaza, anche se in versione minimal (l’astensione delle opposizioni), preferisca isolarla nel Palazzo come se non gli interessasse raccoglierne i frutti rasserenanti nel Paese. È un doppio registro tenuto fin dall’inizio di questa vicenda, che ha visto la maggioranza e la stessa premier usare una voce nelle sedi istituzionali e un’altra nei talk show, nei comizi, sui social. All’Onu Giorgia Meloni ha portato il sì al riconoscimento della Palestina, con “caveat” analoghi a quelli di Londra e Parigi, e parole molto simili a quelle pronunciate dai dimostranti in piazza sull’inaccettabile strage di civili e sulla violazione dei diritti umanitari. Il suo ministro della Difesa si è adoperato per proteggere la Flotilla. Il suo ministro degli Esteri ha usato ogni canale diplomatico per garantire l’incolumità ai “flotilleros” e il loro rapido rimpatrio dopo il fermo. In Parlamento è stato lanciato un appello all’opposizione per condividere un testo sul piano di pace americano e gli sherpa di maggioranza hanno lavorato di fino a un documento che risultasse digeribile per tutti. Insomma: si è agito con la consapevolezza che la risposta al dramma umanitario di Gaza, in ogni sua forma, compresa la sfida disobbediente della Flotilla, dovesse essere sottratta all’ordinario gioco delle parti. E tuttavia nella comunicazione pubblica nessuno di questi dati è stato valorizzato. Anzi, il “noi contro voi” è rimasto lo spartito del dibattito, quasi che si temesse di confondere gli elettori riconoscendo l’esistenza di momenti, argomenti, crisi, dove abbassare i toni e cercare la condivisione è necessario, e ci sta che qualcuno si imbarchi, qualcuno fermi il lavoro, qualcuno manifesti, altri preferiscano restare a casa, e l’importante è evitare che si sfascino vetrine o si alzino le mani. Appunti dal dibattito pubblico di giornata: Giorgia Meloni che parla dello sciopero generale come un espediente per fare il weekend lungo; Matteo Salvini che annuncia multe più salate per chi non rispetta le regole; il leghista Eduardo Ziello che invoca la bastonatura di eventuali dimostranti indisciplinati; Edmondo Cirielli che taccia i “flotilleros” di essere “tutti estremisti e radicali”; Elena Donazzan all’attacco della portavoce per le dichiarazioni troppo gentili verso gli imbarcati (frase incriminata: “Hanno lo stesso obiettivo che abbiamo noi, fornire al più presto aiuti sufficienti a Gaza”). A finire: la revoca dello sciopero da parte della Commissione di garanzia per mancanza di preavviso, il ricorso del sindacato, un potenziale disastro per la gestione dell’ordine pubblico. “Ci porterà un sacco di voti” è stato detto ieri, da destra, a commento delle code dell’affaire Flotilla che fanno immaginare un weekend di fuoco nelle strade di tutte le grandi città italiane. La frase fa il paio con quelli che da sinistra credevano (e magari credono ancora) la stessa cosa e hanno innalzato la bandiera di Gaza pure sulla campagna per le Marche. Forse la spiegazione del doppio registro è solo quella: il conflitto tra tifoserie come elemento fondante del consenso, al quale non si sa rinunciare neanche davanti a vicende enormi che interrogano la coscienza collettiva. L’unità nazionale non si addice ai tempi perché non porta voti. O meglio: chissà se li porta o no, ma nell’indecisione meglio evitare azzardi e lasciare tutto come sta. Quattro verità sull’immigrazione che cambiano la prospettiva di Maurizio Ambrosini Avvenire, 3 ottobre 2025 Un fenomeno globale, fatto non solo di barconi, in gran parte femminile, vittima di politicizzazioni. Accogliere gli immigrati missionari di speranza - nel fine settimana il Giubileo del mondo missionario e dei migranti - richiede un cambiamento dello sguardo, e una conoscenza più fondata del fenomeno può contribuire a muovere in questa direzione. Cerchiamo quindi d’individuare alcune tendenze salienti della mobilità umana attraverso le frontiere. Globalmente, gli immigrati internazionali nel mondo sono stimati dall’Onu in 304 milioni (dato 2024), il 3,6% della popolazione mondiale. Di questi, 51,6 milioni sono rifugiati internazionali o richiedenti asilo: circa un sesto del totale. Ma il dato complessivo dice poco: una prima tendenza è la differenziazione delle forme e dei tipi d’immigrazione. Non solo gli immigrati in minima parte sbarcano dal mare, mentre la grande maggioranza entra in modo regolare. Ma tra gli immigrati troviamo studenti, medici e operatori sanitari, professionisti e imprenditori, familiari ricongiunti, assistenti familiari degli anziani, persino pensionati che vanno verso Paesi dai climi più miti e costi più bassi. Dovremmo domandarci non se siamo favorevoli o contrari all’immigrazione in astratto, ma con riferimento a categorie specifiche d’immigrati. Una seconda tendenza è la globalizzazione del fenomeno. L’idea che gli immigrati muovano dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa, o dal Sud America verso gli Stati Uniti, è una rappresentazione ansiogena che alimenta le chiusure. In realtà, si è ampliato il numero dei Paesi di origine e di accoglienza nel mondo. Regioni come il Golfo Persico o l’Estremo Oriente sono diventate importanti poli di attrazione d’immigrati di diverso livello. I più importanti Paesi d’origine sono nell’ordine India, Messico, Russia, Cina. Paesi intermedi, non poverissimi. Molti Paesi sono nello stesso tempo luoghi di origine, di approdo e di transito dei flussi migratori: tra questi Turchia, Messico, Marocco, la stessa Russia, e pure l’Italia. Importante anche notare che i migranti non vanno solo dal Sud del mondo verso il Nord, ma anche in direzione opposta, così come vanno dal Nord verso altri Paesi del Nord (pensiamo alla nuova emigrazione italiana), e dal Sud verso altri Paesi del Sud, o in posizione intermedia: questi accolgono oltre il 70% dei rifugiati internazionali, oltre ad apparire come luoghi che possono offrire qualche opportunità a chi viene da contesti più travagliati. Dal Venezuela in questi anni sono partiti 6,2 milioni di cittadini verso la Colombia, il Brasile, il Perù e altri Paesi del Sud America. Un terzo trend internazionale riguarda la femminilizzazione delle migrazioni, e soprattutto delle migrazioni per lavoro. Le donne sono quasi la metà dei migranti internazionali, la maggioranza in Italia e nell’UE. Insieme ai ricongiungimenti familiari, la crescente domanda di servizi domestici, assistenziali e sanitari sollecita la mobilità internazionale al femminile. Molte donne conquistano così un’emancipazione pratica, ma pagano anche il prezzo della separazione dai figli, affrontando la sofferenza della maternità transnazionale. Ultimo e inquietante aspetto è la crescente politicizzazione e securitizzazione della mobilità umana attraverso i confini. Sappiamo quanto la rappresentazione dell’immigrazione come invasione abbia favorito il successo delle forze che vogliono la chiusura delle frontiere. Anche quando, come sta accadendo ora in Italia, all’ostilità dichiarata si contrappongono un po’ in sordina misure di sostanziale apertura verso i lavoratori richiesti dai sistemi produttivi e dalle famiglie. Governi e società riceventi sono in definitiva “importatori riluttanti” d’immigrati: non li vorrebbero, ma si trovano nella necessità di accettarli. E gli immigrati finiscono per essere richiesti, ma non benvenuti. La relativa accettazione sul lavoro si scontra con le resistenze verso l’integrazione extra lavorativa, abitativa in primo luogo. Non si possono però importare solo le braccia, senza accogliere le persone e le loro famiglie. Ne va della qualità della convivenza e della coesione sociale di domani. Fine vita: questione di legittimità costituzionale sull’aiuto al suicidio Il Dubbio, 3 ottobre 2025 L’ottava volta alla Consulta. Il GIP di Bologna solleva dubbi sull’articolo 580 del Codice penale per il caso della signora Paola, 89enne accompagnata in Svizzera. Al centro il “requisito del trattamento di sostegno vitale”. La questione del fine vita torna per l’ottava volta all’attenzione della Corte Costituzionale italiana, in seguito a un’ordinanza depositata il 29 settembre dal GIP del Tribunale di Bologna, Andrea Romito. Il giudice ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, che disciplina l’istigazione o l’aiuto al suicidio, in risposta a una richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Bologna due anni e mezzo fa. Il procedimento riguarda specificamente l’episodio che ha visto coinvolti Felicetta Maltese, Virginia Fiume e Marco Cappato, indagati per aver accompagnato l’8 febbraio 2023 in Svizzera la signora Paola, un’89enne affetta da parkinsonismo irreversibile. La paziente, pur essendo “lucida e consapevole”, non era, tuttavia, dipendente da un trattamento di sostegno vitale e non avrebbe potuto ricorrere ad alcuna forma di rifiuto delle cure, potendo morire “solo mediante suicidio medicalmente assistito”. Il nodo centrale, sottolineato dall’associazione Luca Coscioni che segue il caso, è proprio il “requisito del trattamento di sostegno vitale”. Il GIP di Bologna ha infatti rilevato che il limite imposto dalla precedente sentenza della Corte Costituzionale, che pure aveva legalizzato il suicidio assistito a determinate condizioni, “crea una discriminazione tra pazienti”, impedendo a coloro che soffrono in modo irreversibile, ma non sono attaccati a macchinari, di esercitare pienamente il diritto all’autodeterminazione. La questione di legittimità, con il conseguente sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Consulta, è stata sollevata in relazione al rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza, libertà personale e diritto alla vita privata, oltre che all’articolo 8 della CEDU (Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo). Spetterà ora alla Corte Costituzionale chiarire se il criterio del “sostegno vitale” rappresenti un limite ingiustificato al diritto di scelta del malato. “Vietare i social agli under 14, provocano danni cerebrali e dipendenza” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 3 ottobre 2025 Prima class action in Italia contro TikTok e Meta. Il Moige, insieme a un pool di esperti e avvocati, da Torino porta in tribunale Meta e TikTok chiedendo di tutelare i minori dagli effetti nocivi dei social: vietare l’accesso under 14, stop agli algoritmi che creano dipendenza. “Non possiamo aspettare la prossima tragedia per intervenire. Proteggere i nostri figli è un dovere. Questa non è solo una battaglia legale, è una battaglia di civiltà”. Parte da questa riflessione la scelta di Moige (Movimento italiano genitori Aps) di avviare, con la collaborazione e assistenza dello studio legale torinese Ambrosio & Commodo, una class action - la prima in Italia - contro Meta (Facebook e Instagram) e TikTok: in sostanza, si tratta di un’azione inibitoria che punta a proteggere i minori dai danni cerebrali e psicologici derivanti dall’uso smodato dei social. Il ricorso - Il ricorso è stato depositato al Tribunale delle Imprese di Milano, competente per materia. “Chiediamo di fermare pratiche illegali e pericolose - spiega Antonio Affinita, presidente di Moige. Ad oggi non ci sono tutele per i minori che usano i social e di danni ne sono già stati fatti”. Divieto sotto i 14 anni - Il cuore dell’azione legale si sviluppa in tre macro-aree: il rispetto dell’obbligo di verifica dell’età e del divieto di accesso ai social per i minori di 14 anni; l’eliminazione dei sistemi che creano dipendenza dalle piattaforme, in particolare la manipolazione algoritmica e lo scroll infinito dei contenuti perché questi meccanismi - definiti dalla letteratura scientifica “tecnologia persuasiva” o “captologia” - rappresentano un ramo della scienza che esplora l’intersezione tra informatica e persuasione, realizzando sistemi informatici progettati per modificare atteggiamenti e comportamenti senza apparente coercizione; l’obbligo di una corretta, chiara e diffusa informazione sui pericoli derivanti dall’abuso dei social (al pari di ciò che avviene per il fumo o il gioco d’azzardo). Base per un’azione risarcitoria - “Il nostro ricorso vuole l’applicazione della norma, non si chiede di legiferare nuove leggi - sottolinea l’avvocato Stefano Commodo -. I social non sono baby-sitter. Puntiamo a difendere i minori e i più fragili dal loro utilizzo eccessivo e a creare buona informazione sui rischi che derivano dall’abuso delle piattaforme”. Insiste il legale: “Questo ricorso vuole dare voce ai genitori che vedono i propri figli perdere la loro gioventù e la loro spontaneità dietro a uno smartphone e creare le basi per un’azione risarcitoria di massa per le tante drammatiche vicende che spesso vengono riportate dalle cronache quotidiane”. Gli studi confermano che l’uso eccessivo può provocare ansia, depressione e isolamento sociale. E persino danni permanenti alla salute mentale degli adolescenti. Due anni di lavoro - La class action arriva dopo due anni di lavoro che ha visto sul campo una squadra multidisciplinare: gli avvocati Stefano Commodo, Stefano Bertone, Fabrizio Lala e Daniele Lonardo - che coordinano l’azione legale -, la psicoterapeuta Marta Caciotto (docente all’Università Guglielmo Marconi di Roma e componente dell’Osservatorio sulle dipendenze), Stefano Faraoni (assistent professor in law all’Università di Birmingham) e Tonino Cantelmi (professore di cyberpsicologia all’Univerisità di Roma) che hanno fornito il supporto scientifico. L’iniziativa, oltre che da Moige, è proposta anche da alcune famiglie in rappresentanza dei tanti genitori che vivono questo genere di difficoltà. La prima udienza è fissata il 12 febbraio 2026. Se la pace conta meno di Antonio Polito Corriere della Sera, 3 ottobre 2025 Le contraddizioni in piazza. Dalla solidarietà alla protesta: l’Italia tra manifestazioni e contrasti politici sulla Palestina. L’intifada italiana. Così il sito “ArabNews” ha descritto l’ondata di proteste pro Pal in corso nelle nostre città, e che dovrebbe trovare il suo culmine oggi nel secondo sciopero generale in due settimane, indetto stavolta insieme da due sigle sindacali di solito inconciliabili, Cgil e Usb. La definizione coglie bene l’eccezionalità di quanto sta succedendo da noi. Non solo rispetto alla solidarietà per altre cause internazionali, mai così vasta e accesa, certamente non per un’altra nazione invasa, l’Ucraina. Ma anche di fronte al resto d’Europa, dove la vicenda della Flotilla non ha suscitato la subitanea rabbia vista ieri sera nei cortei improvvisati. Perché? Certamente c’è nel nostro Paese un profondo sentimento di sconcerto per il massacro compiuto dalle forze armate israeliane a Gaza, e un moto di generosa solidarietà col suo popolo martoriato. Ma su quell’indignazione si è innescato qualcosa di più: un fattore interno. E cioè il tentativo di rovesciare sul governo di centrodestra la colpa della tragedia palestinese, definita addirittura “complicità” con ciò che ormai comunemente, ma impropriamente, viene chiamato “genocidio” (si può odiare un immane massacro di civili e bambini con tutte le proprie forze anche senza paragonarlo all’imparagonabile). E a nulla è valsa la rapida conversione del governo Meloni (leggono i sondaggi anche a Palazzo Chigi) che ora condanna senza più se e senza ma le scelte di Netanyahu, fino all’ipotesi di considerare il riconoscimento condizionato dello Stato di Palestina. Che senso avrebbe altrimenti, in segno di protesta contro il blocco navale di 50 italiani sulla Flotilla, tentare il blocco dei treni per 50 milioni di italiani? Eppure la parola d’ordine lanciata dall’Usb, “blocchiamo tutto”, è ormai il mantra di queste manifestazioni. E non c’è davvero da meravigliarsi se poi i militanti, chiamati a bloccare tutto, davvero provano a farlo irrompendo nelle stazioni o negli aeroporti. Per quanto condannate, nascono da quella parola d’ordine violenze come quelle recenti di Milano, che si potrebbero definire di “diciannovismo in salsa maranza”, per parafrasare un celebre giudizio di condanna che Enrico Berlinguer pronunciò nei confronti dell’estremismo di piazza del 1977. È come se in Italia ci fossero due diverse forme di solidarietà alla Palestina. Le abbiamo del resto viste nel teatro di Reggio Emilia, dove un povero sindaco del Pd, premiando Francesca Albanese, si era permesso di augurare insieme “la fine del massacro dei palestinesi e la liberazione degli ostaggi israeliani”. Solo per essere svillaneggiato dalla immeritatamente premiata, che ha chiamato il pubblico alla protesta contro quel pensiero rivolto agli ostaggi, ritenuto incompatibile col diritto del popolo palestinese a ribellarsi all’occupazione. A questo hanno portato tanti mesi di indiscriminati massacri a Gaza: a far dimenticare a una parte consistente della popolazione italiana che tutto è cominciato il 7 ottobre di due anni fa, che niente di quel pogrom è scusabile, comprensibile, accettabile. Mentre ormai c’è chi sdogana apertamente le ferocia antisemita di Hamas come lotta di liberazione nazionale. Ma se i manifestanti hanno pieno diritto a portare in piazza le loro passioni, la guida politica di questi movimenti avrebbe il dovere di indicare loro una strategia. La vera domanda da porre a chi oggi sfilerà è dunque: questi cortei sostengono oppure no il piano di Trump per la pace a Gaza? In parlamento i partiti di opposizione possono anche astenersi, come hanno fatto quelli del Campo largo, lo fanno sempre più spesso anche per non mostrare le divergenze interne. Ma nelle piazze, nei movimenti, non ci si può astenere su un punto di così cruciale importanza. Perché potrebbe mettere fine almeno temporaneamente a quel massacro che tutti condanniamo. Eppure in piazza lo spiraglio di pace a Gaza, per quanto ancora incerto, sembra passato in secondo piano rispetto alla vicenda della Flotilla. La Cgil ha motivato lo sciopero addirittura con “il colpo all’ordine costituzionale” che ne sarebbe derivato. Dobbiamo rispettare il coraggio e la passione che ha spinto quei militanti a rischiare anche in proprio per suscitare l’attenzione del mondo sulla tragedia di Gaza. Ma non possiamo non vederne le numerose contraddizioni. Come la pressione perché una scorta militare proseguisse fino al limite dello scontro con le forze armate israeliane, da parte di pacifisti incalliti. Oppure lo scivolamento in secondo piano dell’obiettivo della consegna degli aiuti umanitari di fronte al ben più politico intento di forzare il blocco navale. Ma, in ogni caso, l’abbordaggio della Flotilla resta, per usare l’espressione di un cattolico del Pd, Graziano Del Rio, una nuvola rispetto al temporale che si sta abbattendo sul popolo palestinese. E l’obiettivo di fermarlo, anche se ci riuscisse l’odiato Trump, è forse meritevole di essere perseguito prima di ogni altra cosa. In particolare Pd e Cgil, eredi di una grande tradizione riformista e laburista, devono stare attenti a non disperderla in un’ubriacatura movimentista che galvanizza ma alla lunga isola, che riempie le piazze ma non le urne, come abbiamo visto di recente. Oggi in piazza è il momento di gridare “pace in Palestina”, non “blocchiamo tutto”. La pace ha bisogno di compassione, non di rancore di Massimo Calvi Avvenire, 3 ottobre 2025 La natura del conflitto tra Israele e Hamas, con il male che sta diffondendo, sembra aver consumato fino a lasciare scoperti i fili di trasmissione di quel poco di umanità che ci resta. C’è qualcosa che fa male al cuore in queste ore mentre si seguono le gesta della Flottiglia, la conclusione prevedibile e attesa del suo navigare in acque agitate e le reazioni all’abbordaggio israeliano, le piazze che in Italia si riscaldano, la lotta politica che ritrova il passo abituale della contrapposizione e delle strumentalizzazioni. Fa male perché c’è un dolore di fondo che nasce dalla sofferenza oggettiva e reale di persone e popoli, di bambini e famiglie, ma anziché di lacrime gli occhi si gonfiano di rabbia e di sangue, e le istanze di giustizia faticano a trovare percorsi di sostegno autentici, canali di aiuto capaci di restituire la speranza di un approdo. La natura di questo conflitto tra Israele e Hamas, con il male che sta diffondendo, sembra aver consumato fino a lasciare scoperti i fili di trasmissione di quel poco di umanità che resta, e il rischio di cortocircuito compromette ogni tentativo di accendere un sano confronto, anche tra amici, tra colleghi, in famiglia. Non dovrebbe essere così quando c’è una guerra. Le persone dovrebbero poter provare compassione, parlarne, organizzarsi, inviare aiuti, spendersi in prima persona, ritrovarsi nelle piazze, conoscere un’occasione di confronto politico ampio, che è diverso dal replicare in casa la dinamica stessa del conflitto. Le istanze di pace si nutrono di una grammatica ancora ben leggibile, ma fatichiamo a ritrovarle quale costante, cioè cifra prevalente. Certo, l’occasione è grande. C’è in Italia un governo di destra-centro, e si attraversa una fase in cui le destre e le sinistre globali sono tornate a sfidarsi in campo aperto, un terreno di riarmo planetario tale per cui pronunciare la parola pace è come emettere un sospiro terminale. La strumentalizzazione è possibile, c’è, si tocca con mani, ma è persino scontata. Come potrebbe non esserci se la politica tutta tentenna nel leggere la novità di un conflitto in cui le istanze di giustizia e di vicinanza alla sofferenza non riescono a indirizzarsi nei canali di sempre? Perché c’è nel Dna italiano qualcosa che è un di più, una capacità di aiutare e di spendersi per le sofferenze, una forza che può anche avere appartenenza politica. E nasce innanzitutto da una rete di base fatta di comitati, associazioni, organizzazioni, gruppi, realtà di impegno civile, il nostro mai abbastanza celebrato Terzo settore o Non profit, un universo di persone nelle quali batte forte un cuore, e questo pulsare serve a muovere gambe e braccia, in un impegno che genera solidarietà, cultura ed economia. Ci sarà, insomma, anche una contrapposizione strumentale in atto, in tanti ambiti, ma saper mantenere separati i piani oggi è fondamentale, come capire la differenza tra Israele ed ebrei, tra palestinesi e Hamas. Si ricordava, in questi giorni, discutendo di Flottiglia, la “nave dei folli”, quella che il 7 dicembre 1992 partì dal porto di Ancona con 496 persone dirette a Sarajevo, tra le quali don Tonino Bello, che cinque giorni dopo terrà un discorso memorabile nella capitale bosniaca assediata dall’esercito serbo. L’ex Jugoslavia era qui, vicinissima: il 29 maggio 1993 un convoglio di aiuti umanitari partito da Brescia venne assalito da un’unità paramilitare bosniaca e tre giovani pacifisti italiani, Sergio Lana, Guido Puletti, Fabio Moreni, persero la vita. Tempi lontani, certo, paragoni improponibili: ma ce ne ricordiamo? Riusciamo a fare memoria di chi siamo nel profondo, o anche di cosa siamo stati, quando cerchiamo di dare forma o senso a uno sforzo umanitario, incasellandolo in appartenenze, tifoserie, convenienze, o lotte politiche? È questo che fa male, oggi, l’aiuto “a perdere”. L’impegno ha bisogno di spazi per esprimersi, più che di bandiere, fumogeni, plexiglass e sampietrini, ma anche di occasioni di ascolto. Forse è mancato il contesto, o la lucidità, per renderlo possibile. Siamo in tempo per non lasciare che il desiderio di rivalsa reciproca degeneri in uno scontro del quale non c’è bisogno, ma che pure talune frange contrapposte alimentano e desiderano, quasi non aspettassero altro da tempo. Non ne hanno bisogno le famiglie che soffrono veramente - in questo momento in particolare a Gaza, certo anche nelle tante, troppe altre guerre - e non lo vuole chi sa che cosa significhi veramente compromettersi per la pace. L’Italia, in fondo, è molto di più della rappresentazione in corso. Flotilla “arrestata”. Il Garante dice no allo sciopero proPal di Emilio Minervini Il Dubbio, 3 ottobre 2025 Mobilitazione generale. Questo l’effetto scatenato in Italia dall’intercettazione della Global Sumud Flotilla. Appresa la notizia del blocco della missione umanitaria da parte delle autorità di Tel Aviv, migliaia di persone hanno inondato le strade e le piazze di numerose città italiane sventolando bandiere della Palestina e intonando cori di solidarietà verso il popolo palestinese, e di condanna per il governo israeliano. Le manifestazioni sono proseguite ieri, guidate dagli studenti, che a Bologna e Milano hanno occupato le università. Nel capoluogo emiliano si sono registrati scontri tra la polizia e i manifestanti, che hanno tentato di entrare nella stazione di piazza Medaglie d’Oro per bloccare il traffico ferroviario. Oggi è prevista un’altra giornata di mobilitazioni con lo sciopero generale proclamato da Cgil e Usb, che però è stato dichiarato illegittimo dalla Commissione di garanzia degli scioperi per violazione dell’obbligo di preavviso previsto dalla legge 146/90, mentre per sabato è prevista una manifestazione nazionale. Rispetto alla dichiarata illegittimità della giornata di astensione dal lavoro, “il legislatore non distingue fra sciopero politico e sciopero per ragioni diverse”, spiega, interpellato dal Dubbio, l’avvocato Gianpiero Belligoli, “la legge 146 del ‘ 90 prevede un preavviso non inferiore a 10 giorni per effettuare lo sciopero. L’articolo 2 comma 7 della legge, consente di derogare dal preavviso minimo di 10 giorni nei soli casi di “astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”, che però non rilevano evidentemente nel caso di specie, essendo appunto lo sciopero connotato da ragioni politiche e/ o umanitarie, in ogni caso estranee a quelle menzionate dalla norma. La sanzione prevista dalla legge”, aggiunge Belligoli, “è di tipo pecuniario, per le organizzazioni sindacali che hanno indetto e promosso lo sciopero in violazione dei limiti di legge”, mentre “il lavoratore che aderisce a uno sciopero illegittimo compie un comportamento suscettibile di rilevanza disciplinare, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 146, e potrebbe essergli contestata l’assenza dal lavoro ingiustificata o mal giustificata”. Invece, per un altro giuslavorista, Alberto Piccinini, in un caso del genere non valgono le norme rigide previste per gli scioperi convocati da organizzazioni sindacali nell’ambito di conflitti con una controparte datoriale, giacché si tratterebbe di uno sciopero proclamato in una logica del tutto diversa. Nonostante il blitz della marina israeliana, ieri mattina il sistema di tracciamento del sito della Flotilla mostrava la nave Mikeno ancora in navigazione oltre lo sbarramento del blocco navale, e a meno di un’ora di navigazione dalla costa di Gaza. Il direttivo della spedizione ha però comunicato di non essere in grado di mettersi in contatto con la nave, e Idf ha smentito la notizia. Nel corso del suo intervento alla Camera, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha riferito che “già da venerdì (oggi, ndr) potrebbero avvenire le prime partenze” degli attivisti arrestati dalla marina israeliana “soprattutto per chi accetterà di lasciare volontariamente Israele”. Mentre “per chi rifiuterà l’espulsione immediata, sarà necessario attendere il provvedimento di respingimento dell’Autorità giudiziaria israeliana, che potrebbe richiedere 48-72 ore”, al netto di ritardi dovuti allo Yom Kippur, importante festività ebraica. Gli oltre 400 attivisti arrestati in attesa dell’”unico provvedimento di espulsione coatta” sono stati trasferiti al carcere di Ketziot, definito “un inferno” dalla Ong israeliana B’Tselem per gli abusi e le violenze subiti dai detenuti palestinesi. Il governo israeliano prevede di rimpatriare gli attivisti tramite “due voli charter, lunedì 6 e martedì 7 ottobre, in due distinte capitali europee”, ha spiegato Tajani alla Camera. Tra questi sarebbero 40 gli italiani arrestati dalle forze armate israeliane. Secondo quanto riferito dal vicepremier, la barca Karma, su cui viaggiavano il parlamentare Arturo Scotto e l’europarlamentare Annalisa Corrado, si è staccata dalla flotta e ha fatto rotta verso il porto di Ashdod, da cui dovrebbero ripartire per Cipro o la Grecia, mentre l’eurodeputata di Avs Benedetta Scuderi e il senatore M5S Marco Croatti, che si trovavano sulla nave Morgana, sono stati tra i primi membri della flotta ad essere fermati e, come dichiarato da Tajani, “riceveranno lo stesso trattamento degli altri fermati”. La missione è stata fermata ma non è finita. La seconda ondata di navi umanitarie, stavolta sotto l’egida della Freedom Flotilla Coalition, è partita il 25 settembre dal porto di Otranto ed è composta da due barche a vela battenti bandiera italiana e francese, la Al Awda e la Ghassan Kanafani, a cui si è aggiunta successivamente la Conscience, per un totale di circa un centinaio di attivisti. La Ffc si unirà all’altezza di Creta alla Thousand Madleens, altra flotta umanitaria composta da otto imbarcazioni. Ieri pomeriggio, invece, altre 45 barche sono partite dal porto turco di Arsuz allo scopo di “dare sostegno alla Global Sumud Flotilla”, secondo quanto riportato dalle emittenti turche Sabah e Yeni Safak. La nuova flotta è stata organizzata dalla “Piattaforma per la Palestina”, e non risulta un coinvolgimento del governo di Ankara. “È la risposta all’intercettazione”, dice la Gsf in un post su X corredato da foto delle barche turche. Secondo il portavoce della Flotilla, Feridun Ozdemir, lo scopo della missione è rompere il blocco navale di Israele, definito “la canaglia del Mediterraneo Orientale”. Oggi lo sciopero è confermato, lo scontro è politico di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 3 ottobre 2025 “Blocchiamo tutto” Tutti i sindacati difendono le ragioni costituzionali dell’astensione dal lavoro per la Flotilla e Gaza. Salvini cambia idea sulla precettazione. E Meloni fa l’incendiaria e attacca il movimento. Lo sciopero generale è confermato da tutte le organizzazioni sindacali che lo hanno indetto oggi: Cgil, Usb, Cub e Sgb, S.I. Cobas, Unicobas, Adl e Cobas tra gli altri. Tutte presenteranno un ricorso al giudice del lavoro contro la delibera della Commissione di garanzia sugli scioperi che ieri lo ha dichiarato “illegittimo” per la mancanza di preavviso. L’esame richiederà alcuni giorni e, a prescindere dalla decisione che sarà adottata dal giudice, non potranno esserci sanzioni o multe per i lavoratori che hanno aderito alla protesta: in assenza di una precettazione, l’eventuale sanzione - se comminata - si applica alle organizzazioni sindacali che hanno proclamato il fermo e non può superare i 50mila euro. In ogni caso, il sindacato di base S.I, Cobas ha ricordato ieri di avere convocato oggi il proprio sciopero nei tempi previsti dalla Commissione di Garanzia, vale a dire il 18 settembre scorso. Dunque, la protesta è legittima, i lavoratori possono liberamente scioperare: “Non fatevi fregare dalla campagna di criminalizzazione”. Il vicepremier e ministro dei trasporti Salvini ieri mattina ha di nuovo sventolato lo spettro della precettazione. Un altro contributo alla polarizzazione dello scontro che rischia di aumentare l’intensità del movimento pro-Gaza e mettere in crisi un governo in stato confusionale, sorpreso dalla straordinaria ampiezza di un movimento che contesta la sua complicità con Israele. Poi ha cambiato idea. E infatti, ieri sera dal ministero di Salvini hanno fatto sapere che, “in questa fase delicata, il ministro non ritiene utili prove di forza”. “Se si precetta non si risolve il problema ma si alimenta il clima già avvelenato in modo irresponsabile” hanno fatto sapere dalla Lega, confermando il cambio di linea avvenuto nel frattempo. Salvini ha comunque presentato un’informativa sugli scioperi nel settore trasporti nel consiglio dei ministri che si è svolto ieri sera. Rilanciando lo strumentale intervento della Commissione di Garanzia, che si è già distinta per interpretazioni problematiche di una legge già restrittiva come la 146 del 1990, Salvini continua a minacciare una revisione della normativa sugli scioperi e in particolare delle sanzioni previste, ad oggi da 2.500 a 50mila euro, per punire i sindacati. L’idea è di fare versare una “cauzione” per chi organizza manifestazioni. A polarizzare lo scontro ci ha pensato di nuovo ieri la presidente del consiglio Meloni che ha rilanciato la tesi classica della fascio-sfera e del qualunquismo piccolo borghese, quella per cui lo sciopero di oggi, venerdì, coincide con un “week-end lungo” che “non sta insieme con la rivoluzione”. Un segnale di disprezzo che non mancherà di corroborare la carica della mobilitazione. La mossa fa parte della strategia della stigmatizzazione del movimento. “Offende, porti rispetto” ha ribattuto Maurizio Landini della Cgil. Nello specifico, il Garante ha ritenuto “non pertinente il richiamo dei sindacati all’articolo 2, comma 7 della legge 146 che prevede la possibilità di effettuare scioperi senza preavviso solo ‘nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale, o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori”. La ricostruzione è stata contestata dai sindacati secondo i quali è il parere del Garante ad essere “illegittimo” e non pregiudica la partecipazione allo sciopero di oggi, nel rispetto dei servizi pubblici essenziali. L’idea della “difesa dell’ordine costituzionale”, nel caso attuale, consiste nel difendere gli italiani che sono stati arrestati illegalmente da Israele che ha compiuto un atto di pirateria in acque internazionali per di più contro imbarcazioni battenti bandiera italiana. Ciò permette di considerare l’azione di pirateria come una violazione del territorio italiano e una messa a rischio della vita dei connazionali impegnati in una missione politica umanitaria a sostegno del popolo palestinese vittima di un genocidio. In tali casi, hanno ricordato Piero Bernocchi e Domenico Teramo della Confederazione Cobas, non si applicano le disposizioni sul preavviso minimo e di indicazione della durata di uno sciopero. Tutto questo, ha ricordato Vincenzo Migliucci, rientra nella legge vigente e risponde a un precedente: lo sciopero dei sindacati di base nel 1990 contro la guerra del Golfo che fu ritenuto “legittimo”. Le violazioni costituzionali sono semmai del governo Meloni che non ha protetto gli italiani sulla Global Sumud Flotilla. Lo ha ricordato Landini che si è detto pronto sia a “impugnare la delibera della Commissione, sia le sue eventuali sanzioni. Guido Lutrario di Usb ha precisato che tali sanzioni non riguardano i lavoratori che incroceranno le braccia. “L’assenza di intervento del governo Meloni nei confronti di un genocidio si configura come una complicità”. Dello stesso tenore è stata la risposta di Massimo Betti (Sgb) e Antonio Amoroso (Cub). Ecco chi ha voluto lo sciopero e come ha intercettato un “popolo” trasversale di Diego Motta Avvenire, 3 ottobre 2025 L’Usb e le sigle di base hanno compattato in questi mesi lavoratori portuali, studenti, dipendenti pubblici. Il tema trainante della “causa palestinese” e la formula del collettivo hanno funzionato. Chi c’è dietro alla mobilitazione delle piazze per Gaza? E quale “popolo” rappresenta? La domanda non è peregrina, se soltanto si pensa alla capacità dimostrata dagli organizzatori nell’ultimo mese di coinvolgere, soprattutto nelle grandi città, mondi diversi alle varie manifestazioni. Dietro alla sigla Usb, l’Unione sindacale di base, che ha proclamato lo sciopero generale, c’è una forza sociale che conta “qualche centinaio di migliaia di iscritti di tutte le categorie, pubbliche e private” spiegano i lavoratori. Lo “zoccolo duro” in questa fase si è formato con i picchetti dei lavoratori portuali, i primi a dare un segnale di rottura con lo stop alle spedizioni di materiale bellico destinate a Israele. Da Genova a Trieste, passando per Taranto e Ravenna, i “duri e puri” impegnati sulle banchine e nella logistica hanno iniziato così a muoversi, recuperando lo spirito che in anni passati (non da oggi, dunque) avevano già mostrato fermando carichi militari destinati allo Yemen, ad esempio. Questa volta, però, le motivazioni erano molto più forti, a partire dallo storico rapporto che lega la sinistra radicale (una volta si sarebbe detto così) alla causa palestinese. “Lo sciopero generale ha una portata politica senza precedenti” dicono oggi dall’Usb, ben sapendo di essere riusciti nelle scorse settimane a fare quello che ad altre organizzazioni più grandi e strutturate (come la Cgil, che non a caso si trova a rincorrere) non è riuscito: essere orizzontali. La trasversalità dei mondi sociali presenti ai cortei è il vero dato di novità: nei cortei ci sono operai e tute blu scomparse dai radar della politica, insieme a studenti dei licei, lavoratori delle scuole e della pubblica amministrazione e delegati delle grandi fabbriche, migrati qui dalle grandi sigle confederali. Ciò che sta pesando in questa fase, soprattutto da parte delle nuove generazioni, è l’ondata di indignazione collettiva vissuta prima lungo tutta l’estate, poi con la ripresa delle attività autunnali, da parte di chi vede nella vicenda mediorientale l’eterno conflitto tra Davide e Golia. Esserci nelle piazze, insomma, è una specie di imperativo morale per chi fa riferimento all’universo di base, “perché la Palestina è il nostro Vietnam”. Non va poi dimenticato che l’ossatura di questo movimento si è rafforzata con battaglie sindacali e rivendicazioni di frontiera, che hanno verosimilmente fruttato consensi. Se le fabbriche pesano di meno nella creazione di una filiera di contestazione efficace, è perché questa parte del sindacato si è concentrata di più nell’ultimo decennio sul settore dei servizi, del pubblico impiego, della scuola ovviamente. “Abbiamo visto tante richieste d’iscrizione negli ultimi tempi” spiegano dagli uffici dell’Usb. Le ragioni sono anche nel fatto che in queste organizzazioni non esiste una vera e propria struttura gerarchica, non c’è la figura del segretario. E l’idea di un collettivo in cui tutti sono alla pari, in questa fase storica, attira molto. Soprattutto i giovani. Per dirla con un tesserato Usb come Giorgio Cremaschi, storico sindacalista con un passato ai vertici della Fiom Cgil e un presente da esponente di Potere al Popolo, “a favorire il nostro recente successo, oltre al lavoro umile e silenzioso di tanti militanti, è anche un sistema sindacale che agevola la frammentazione, visto che in Italia la rappresentanza è decisa da chi firma gli accordi e non da chi, come noi, li contesta”. Così a fianco dell’Usb, ci sono i Sì Cobas, i Sol Cobas e altre sigle che seguono chi i braccianti, chi gli sfruttati del manifatturiero, chi i rider. Resta un ultimo, inevitabile interrogativo: può questa mobilitazione emotiva che da Gaza finisce per spostarsi sui temi di casa nostra, diventare anche un veicolo di malcontento politico? Al momento la risposta è netta: no. Non adesso, perché non ce ne sono le condizioni. Non a breve e medio termine, perché gli effetti delle contestazioni sociali si traducono in appartenenza politica (e in voti) con tempi lunghi. E poi semplicemente, perché alla maggior parte di chi scende in strada per “bloccare tutto” la politica interessa poco o nulla. Partecipare è un dovere, certo, ma la via delle piazze per adesso è più immediata di quella delle urne. Attivisti della Flotilla in carcere, tribunale speciale per chi rifiuta l’espulsione di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 3 ottobre 2025 Dopo l’abbordaggio di mercoledì notte da parte delle forze israeliane, ieri gli attivisti della missione umanitaria sono sbarcati nel porto di Ashdod per poi essere trasferiti nel grande penitenziario di Ketziot. “Udienze sulla deportazione e gli ordini detentivi iniziate senza notifiche agli avvocati, negato consulente legale”, denuncia la Global Sumud Flotilla. Hanno fatto la guerra ad una flottiglia disarmata. Un atto di pirateria di Stato spacciato per diritto di difesa dalle “barche di Hamas”. Gli attivisti a bordo della Global Sumud Flotilla sono stati oggetto di un “rapimento illegale, in violazione diretta del diritto internazionale e dei diritti umani fondamentali” da parte delle forze di Israele. Lo afferma un comunicato della flottiglia, che fa il punto sulla situazione dopo gli abbordaggi della notte proseguiti ieri mattina. “Dopo che le forze navali dell’occupazione israeliana hanno illegalmente intercettato le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla - un convoglio pacifico e non violento che trasportava cibo, latte in polvere per neonati, medicine e volontari provenienti da 47 Paesi verso Gaza - centinaia di partecipanti sono stati rapiti e sarebbero stati portati a bordo della grande nave da guerra MSC Johannesburg”, accusa la GSF. In serata è arrivata la smentita della MSC. “Ciò è avvenuto - prosegue il comunicato della GSF - dopo che sono stati attaccati con cannoni ad acqua, cosparsi di acqua chimica maleodorante (“skunk water”) e sottoposti a un sistematico disturbo delle comunicazioni, in ulteriori atti di aggressione contro civili disarmati”, continua il comunicato. “Inoltre, secondo quanto riferito, diverse barche sarebbero state fermate da una sorta di barriera a catena in acque internazionali, dove Israele non ha alcuna giurisdizione, così come non ha giurisdizione sulle acque e sulla costa di Gaza, aggravando i crimini di guerra e il blocco illegale portato avanti da Israele”, ha accusato ancora la flottiglia. Il team legale organizzato da Adalah, il Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ha dichiarato di aver ottenuto - dopo un iniziale diniego - la possibilità di accedere al porto di Ashdod, dove arrivano gli attivisti della Flotilla e di aver iniziato a fornire consulenza legale. Lo riferisce Haaretz. Gli attivisti della GSF hanno fatto sapere tramite i loro canali social che a seguito “dell’intercettazione illegale da parte di Israele delle barche della Sumud Flotilla, avvenuta mercoledì sera e ieri mattina, l’Adalah ha già ricevuto chiamate da parte dei partecipanti che stanno denunciando le autorità perché hanno già iniziato a condurre udienze rispetto alla loro deportazione e rispetto agli ordini detentivi nel porto di Ashdod. Queste procedure - continuano gli attivisti - sono iniziate senza essere notificate ai loro avvocati e negando agli attivisti di usufruire di un consulente legale”. In un comunicato della Global Sumud Flotilla si legge che due navi sono ancora libere: sarebbero la Mikeno, battente bandiera francese, forse in acque palestinesi, ma non contattabile e Marinette, battente bandiera polacca, ancora in contatto via Starlink con 6 passeggeri a bordo. Contrariamente a quanto affermato da alcuni attivisti sulla base di informazioni di tracciamento errate, nessuna delle imbarcazioni della Flottiglia è riuscita a raggiungere le acque controllate da Israele al largo della costa di Gaza. Lo dicono le Idf secondo quanto riporta il Times of Israel. Intanto, quarantacinque imbarcazioni civili sono partire da Arsuz, località nel sud est della Turchia a sud di Iskenderun, per il Mediterraneo orientale con lo scopo di “dare sostegno alla Global Sumud Flotilla”. Lo riporta Sabah, pubblicando un video in cui si vedono decine di piccole imbarcazioni in mare con a bordo attivisti che sventolano bandiere turche e palestinesi. Dice al Corriere della Sera Marina Castellaneta, ordinario di Diritto internazionale all’Università di Bari, esperta di diritti umani.: “La zona di mare in cui si trova la Global Sumud Flotilla è una zona di acque internazionali in cui vale il principio della libertà dei mari e della sovranità dello Stato di cui la nave batte bandiera. Un altro Stato non può fare controlli a bordo se non in casi specifici come il sospetto di pirateria o di tratta di esseri umani”. Tradotto per la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: le barche battenti bandiera italiana sono “territorio italiano” che è stato invaso da forze armate di un altro Stato. Da Tel Aviv, l’esultanza dei “vincitori”. Il ministero degli Esteri israeliano ha sostenuto ieri che l’azione della Global Sumud Flotilla “è terminata”, senza che nessuna imbarcazione della carovana umanitaria si arrivata nelle acque prospicienti Gaza. “La provocazione Hamas-Sumud è terminata. Nessuno degli yacht della provocazione Hamas-Sumud è riuscito nel tentativo di entrare in una zona di combattimento attiva o di violare il blocco navale legittimo”, ha affermato il ministero. “Tutti i passeggeri sono al sicuro e in buona salute. Stanno raggiungendo in sicurezza Israele, da dove saranno deportati in Europa”, ha continuato. “Rimane a distanza - ha affermato ancora il ministero - un’ultima imbarcazione della provocazione. Se si avvicinerà, anche il suo tentativo di entrare in una zona di combattimento attiva e di violare il blocco sarà impedito”. Ad aspettare la Sumud Flotilla non c’era soltanto la marina militare con l’unità di élite Shayetet 13 pronta all’abbordaggio. Attraverso il suo ministero degli Esteri Israele ha messo in campo anche l’esercito, la polizia e lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno. Dany Levi, il capo della polizia, aveva approvato due giorni fa il piano operativo. Agenti previsti: 600, in capo all’unità di frontiera e ad altre sezioni speciali. Otto ambulanze pronte al vicino porto di Ashdod in caso di scontri o incidenti e, per lo stesso motivo, quattro ospedali in allerta: l’Assuta di Ashdod, il Barzilai di Ashkelon, il Kaplan di Rehovot e lo Shamir-Assaf Harofeh di Be’er Yaakov. I precedenti insegnano che Israele non si fa problemi nel ricorrere alla violenza armata al di fuori delle sue acque territoriali. I suoi droni hanno già attaccato le navi dei pacifisti nei pressi di Tunisi e, negli ultimi giorni, delle acque greche. Ma era evidente che il convoglio non si sarebbe fermato. Dunque, si è fatto ricorso ai commando a bordo delle motovedette e di velocissimi gommoni neri, coadiuvati da truppe scelte che dagli elicotteri si sono calate sui ponti delle barche in arrivo. In tarda mattinata-primo pomeriggio, tutti gli attivisti della Flotilla sono sbarcati nel porto israeliano di Ashdod dove sono stati consegnati alla polizia: da lì saranno trasferiti con mezzi della polizia e del servizio penitenziario al grande carcere di Ketziot, nel Negev, a sud-ovest di Beer Sheba, dove verranno presi in carico dal personale, secondo il piano messo a punto dalle autorità israeliane. Chi rifiuterà l’espulsione sarà processato da un tribunale speciale di funzionari degli Interni, e non da un tribunale ordinario, per ingresso illegale. Secondo il piano approvato dal capo della polizia Dany Levi, all’operazione prenderanno parte circa 600 agenti. La scena è di quelle che restano impresse: Gli attivisti sono stati fatti scendere e messi in fila di fronte alla caserma militare che si trova dentro al porto. In fila, come nemici neutralizzati. Ma resteranno impressi anche l’equipaggio della nave “Conscience “che intona “Bella Ciao”. Ci vorrà quantomeno la fine della settimana prima che Israele si liberi della presenza di tutti gli attivisti della Flotilla, Ma non basteranno mesi per liberarsi dall’indignazione internazionale e da un movimento globale di protesta che non dimentica e che riempie le piazze, non solo in Italia. Sul fronte diplomatico, il ministro degli Esteri spagnolo, Josè Manuel Albares, ha convocato l’incaricata di affari di Israele, massimo rappresentante dell’ambasciata in Spagna, per protestare contro l’abbordaggio delle imbarcazioni spagnole della Flotilla e dei cittadini spagnoli da parte delle forze dell’esercito israeliano mentre “stavano esercitando un diritto di passaggio innocente in acque internazionali”. Il ministro degli Esteri belga, Maxime Prevot, ha convocato l’ambasciatrice di Israele in Belgio “per ottenere chiarimenti sull’intervento israeliano avvenuto in acque internazionali, definito oggetto di serie contestazioni”. Prevot ha sottolineato che non è accettabile che i cittadini siano paragonati a terroristi. Lo ha scritto il ministro su X. Il loro omologo italiano si è guardato bene da compiere un atto del genere. Per Tajani è già un successo che non ci sia scappato il morto tra i quaranta attivisti italiani della Flotilla. Manca solo che si complimenti con Netanyahu. D’altro canto, per il vicepresidente del Consiglio il “diritto conta ma fino a un certo punto”. Postilla finale: delle 200 tonnellate di aiuti trasportate dalle barche della GSF non si hanno notizia. Gettati in mare? O sequestrati da Israele per fare la fine di biscotti, marmellata e miele: da buttare o far marcire in qualche deposito, perché troppo calorici per gli scheletri umani di Gaza. Venezuela. Giancarlo Spinelli dal carcere: “Non sono un terrorista, aiutatemi” di Annamaria Senni Il Resto del Carlino, 3 ottobre 2025 Il cesenate accusato di far parte di un complotto antigovernativo in Venezuela invoca l’intervento italiano. “Non sono un terrorista, fatemi uscire di prigione. Le armi che hanno trovato nella mia casa le custodivo perché sono un collezionista e le assemblavo solo per passione”. Giancarlo Spinelli, il 59enne cesenate emigrato in Venezuela quando era ancora bambino con la famiglia di Cesena, architetto di professione, si difende dalle accuse di terrorismo, tradimento della patria, traffico d’armi e associazione a delinquere che gli sono state mosse quando è stato arrestato una anno e sette mesi fa e portato al penitenziario Helicoide a Caracas, poi trasferito nel carcere di comunità Yare III e infine a luglio scorso, trasferito al carcere La Planta a Caracas. In passato Spinelli riparava armi anche per l’esercito venezuelano. Il fratello Sergio, che risiede a Miami, è andato a trovarlo in carcere a Caracas per sostenerlo, dato che anche la moglie di Spinelli, Maria Alejandra Portillo, è stata arrestata con le stesse accuse. Spinelli è rimasto solo, senza nessuno che possa più portargli le cure e il cibo di cui ha bisogno in carcere. Le sue condizioni di salute sono sempre più gravi. “In carcere non mi danno medicinali - ha detto Spinelli al fratello - sono arrivato a pesare 52 chili, sono alto 1,87, e ho gravi problemi di salute, ho un assoluto bisogno di medicine. Lancio un appello al Governo italiano affinché intervenga per tirarmi fuori da questa situazione in cui mi sono trovato per colpe che non ho. Chiedo l’intervento del Consolato, chiedo aiuto a chiunque possa fare qualcosa per un cittadino italiano arrestato ingiustamente. Mi era stato affidato un avvocato, ma non mi è stato concesso di avere un processo, che è rimasto solo nella fase istruttoria. E questo da 19 mesi”. Le accuse trapelate recentemente dai giornali venezuelani hanno fatto precipitare ancora di più la situazione, tanto che anche la moglie di Spinelli, secondo quanto riportato dai media locali, è stata arrestata alcune settimane fa. Giancarlo Spinelli e la moglie italo venezuelana Maria Alejandra Portillo Resh sono stati accusati dal regime venezuelano di un complotto contro il dittatore Nicolas Maduro. Nella loro casa, Giancarlo e la moglie, avevano ricreato un laboratorio per produrre armi. Qualcuno avrebbe parlato e sarebbero emersi i nomi dei complici e delle basi in cui operavano. In un appartamento vuoto di proprietà di Spinelli è stato trovato un laboratorio dove venivano preparate armi e munizioni. Il ministro dell’interno del Venezuela, Diosdado Cabello, ha confermato che la cattura di Aliannis Araujo Lozada (detto La Negra) e Carlos Lui Arietta Màrquez (El Flaco) nello stato di Sucre, ha portato all’individuazione e al sequestro dell’arsenale di armi mostrato dal regime ai giornali venezuelani. El Flaco e La Negra, secondo i media del luogo, avrebbero partecipato alla fabbricazione della bomba collocata in Plaza de La Victoria, in plaza Venezuela, la cui detonazione è stata sventata dagli agenti in servizio il 2 agosto. Il ministro ha aggiunto che altre sei persone sono state arrestate per il loro presunto coinvolgimento in questi piani. Figura chiave di questa operazione, secondo quanto riferito dal ministro, sarebbe il cesenate 59enne Giancarlo Spinelli, di professione architetto. Cabello ha mostrato una foto di Spinelli con la moglie, incarcerata alcune settimane fa, Maria Alejandra Portillo Resh, anch’essa arrestata nell’ambito della stessa operazione. Il collegamento tra i due e le armi ritrovate indica un possibile piano di aggressione orchestrato da forze straniere. Le autorità venezuelane hanno puntato il dito verso un ex membro dei corpi speciali americani, arrestato nei mesi scorsi e recentemente rilasciato in uno scambio con gli Usa. L’uomo ha rigettato ogni accusa, sostenendo di trovarsi in Venezuela solo per una vacanza. Il castello di accuse contro il cesenate è molto pesante. In una tenuta a casa di Spinelli e della moglie sono state sequestrati 400 fucili, 2.532 cartucce assemblate e materiali per produrne 98.0000. Secondo l’annuncio del ministro Cabello (l’uomo forte del regime venezuelano, braccio destro del presidente Nicolas Maduro), le armi provenivano dagli Stati Uniti. Nella prima fase della vicenda, la moglie di Spinelli affermava che poteva trattarsi di una sorta di ricatto, un arresto di un benestante finalizzato ad estorcergli denaro. Ma con l’arresto della donna e le dichiarazioni del ministro dell’interno venezuelano, la storia è diventata un vero e proprio intrigo internazionale, un capitolo della guerra propagandistica tra Venezuela e il suo grande nemico, gli Stati Uniti. L’ambasciata italiana di Caracas e il Ministero degli Esteri si sono interessati della vicenda e seguono l’evolversi della situazione, non hanno però rilasciato dichiarazioni sul caso, a riprova dell’estrema delicatezza del momento. Ora il cugino di Spinelli, il cesenate Giancarlo Spinelli (omonimo dell’arrestato) ha scritto una lettera al Ministero degli Esteri per chiedere un intervento immediato. “Fino a poche fa - scrive al Ministero - l’unico sostegno per Giancarlo Spinelli in carcere proveniva dalla moglie, che si occupava di fornirgli medicinali e cibi adeguati. Attualmente Spinelli si trova privo di qualsiasi sostegno esterno e in grave rischio per la sua incolumità Confidiamo nella vostra sensibilità e nella prontezza di un intervento”.