La Circolare Napolillo contrasta con l’art. 17 legge 354/75: per la gerarchia delle fonti, prevale la legge di Giulio Manfredi ed Emilia Rossi* europaradicale.eu, 31 ottobre 2025 Il 21 ottobre scorso, il Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Ernesto Napolillo, ha inviato una circolare ai Provveditorati Regionali e alle Direzioni degli istituti penitenziari con cui si dispone che “per i soli Istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia, 41-bis) l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se previsti per i soli detenuti allocati nel medesimo istituto al circuito cd. Media Sicurezza, dovrà sempre essere richiesta a questa Direzione Generale”. La “Circolare Napolillo” viola patentemente quanto disposto dall’art. 17 della legge n. 354/1975 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che così recita: “Art. 17 (Partecipazione della comunità esterna dell’azione rieducativa): La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore.”. La legge citata, che chiaramente nella gerarchia delle fonti è superiore a una circolare del DAP, individua il direttore dell’istituto penitenziario come unico soggetto titolato a ricevere le richieste, esprimere il parere e controllare le attività svolte in carcere da soggetti esterni, agendo in sinergia con il magistrato di sorveglianza. Se il DAP o il sottosegretario Delmastro o chiunque intende cambiare le regole in materia, deve presentare e far approvare dal Parlamento una nuova legge. La legge 354/75 ha compiuto cinquant’anni proprio quest’anno; non sono mancate le celebrazioni e i convegni ad hoc; ma oltre a celebrarla, la legge va letta e rispettata. *Europa Radicale Se il dottore di ricerca è un ex-detenuto del 41 bis di Domenico Marino Avvenire, 31 ottobre 2025 Claudio Conte è un laureato premiato per la tesi migliore dell’anno in Italia e adesso anche un dottore di ricerca con lode. Ma da oltre tre decenni Claudio è anzitutto un detenuto che per di più ha trascorso buona parte dei suoi anni dietro le sbarre al 41 bis. Ma né le rigide limitazioni imposte dallo speciale disciplinare detentivo, né il peso di quanto fatto o il pesante stigma del recluso hanno piegato la volontà di quest’uomo simbolo vivente dell’importanza d’avere una seconda occasione. Adesso l’Università della Calabria, confermata come il miglior grande ateneo italiano dalla classifica 2025/2026 del Censis, lo loda come il primo dottore di ricerca detenuto in Italia da quando, nel 2018, è stata istituita la Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari), organismo che coordina e promuove le attività degli Atenei all’interno degli istituti penitenziari. Claudio Conte, laureato in Giurisprudenza all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in “Politica, Cultura e Sviluppo” grazie a una borsa riservata ai candidati privati della libertà personale. L’esame finale si è svolto nei giorni scorsi all’Università di Parma, dove Conte è stato formalmente ospitato per lo svolgimento della prova. La tesi, intitolata “Le interazioni sociali in ambito penitenziario dal punto di vista degli studenti-tenuti: resistenze, reazioni, trasformazioni” (tutor Franca Garreffa, co-tutor Vincenza Pellegrino), esplora la funzione dello studio universitario in carcere come esperienza di rinascita personale e cambiamento sociale. La commissione, composta da Paolo Jedlowski, Andrea Borghini e Chiara Scivoletto, ha giudicato il lavoro “eccellente con lode”. Collegati dai cubi dell’Università della Calabria, il neo rettore eletto Gianluigi Greco e il coordinatore del dottorato Francesco Raniolo. Entrambi hanno espresso grande soddisfazione per un risultato che “trasforma il carcere in un luogo di conoscenza e riflessione critica”. Per il presidente del Cnupp, Giancarlo Monina, l’impresa di Conte è un passaggio storico: “Uno studente detenuto non è più soltanto un recluso, ma anche e soprattutto uno studente universitario”. Lo studio in carcere apre ponti tra dentro e fuori, contribuendo a costruire una società più aperta, solidale e coerente con l’articolo 27 della Costituzione”, ha sottolineato l’accademico. Nella sua ricerca, condotta anche in collaborazione con la redazione di “Ristretti Orizzonti” (coordinata da Ornella Favero e Carla Chiappini), Conte ha mostrato come la formazione possa diventare strumento di riconciliazione e responsabilità, in linea con le esperienze di giustizia riparativa ricordate da Franco Bonisoli, ex militante della lotta armata. Claudio Conte fu condannato all’ergastolo quando aveva meno di vent’anni e in tasca solo la licenza media poiché aveva da tempo abbandonato la scuola per lavorare nell’attività della famiglia che però non era d’accordo con la scelta. Anzi. Quando compì 21 anni venne disposto il carcere duro con tutto ciò che si porta dietro non solo per i rapporti con l’esterno, ma pure per le limitazioni interne. A esempio non potere avere più di tre libri in contemporanea. Nonostante tutto, spinto da una motivazione straordinaria, da brillante autodidatta, riuscì prima a diplomarsi e poi a laurearsi in Giurisprudenza a Catanzaro con 110/110, lode e menzione accademica. Trasferito dal penitenziario del capoluogo calabrese a quello di Parma, assieme ad altri studenti detenuti spinge per l’attivazione d’un Polo universitario penitenziario. Ci riesce, come nel resto, e avvia il percorso di dottorato completato nei giorni scorsi davanti agli sguardi ammirati e pure un po’ commossi dei suoi docenti che lo hanno ascoltato disquisire sul diritto ed in particolare sull’ergastolo. E non è finita. Ora, in semilibertà, è un uomo che sta faticosamente ricostruendosi. Ricorda con dolore e anche rabbia quegli errori che tanta sofferenza hanno provocato. A tutti. Errori e slogan sulla giustizia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 31 ottobre 2025 Una riforma che sembra proporre più problemi che soluzioni. Restano irrisolti i nodi che sono emersi anche all’interno della stessa maggioranza che l’ha votata. Anche al momento dell’approvazione definitiva non sono mancati slogan contrapposti, che c’entrano poco o niente con il merito della riforma costituzionale della magistratura. Evocata da un lato come il toccasana per frenare gli errori giudiziari e la “giustizia politicizzata”, e dall’altro come un pericolo immanente e imminente per la democrazia. Affermazioni quanto meno azzardate, e ci sarebbe da augurarsi che la campagna referendaria che sta per cominciare sfugga alla trappola di richiami fideistici o catastrofici, ancorché infondati. Ma viste le premesse è difficile che accada. Basta dare un’occhiata a temi e nomi scelti per la propaganda dei prossimi mesi. La maggioranza invoca le vittime dei processi sbagliati e ricorda il caso emblematico di Enzo Tortora, nel quale i giudici di primo grado inflissero una condanna dichiarata ingiusta (e quindi ribaltata) da quelli d’Appello e della Cassazione: magistrati che con la riforma rimarrebbero inseriti nella stessa carriera, quindi non si capisce come la separazione varata ora possa influire su un processo simile; a meno di immaginare, per evitare condizionamenti, carriere differenti anche per i giudici di ogni grado di giudizio. A proposito del conflitto tra politica e giustizia, tra i possibili testimonial del Sì alle nuove norme è stato ora inserito l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, lo stesso che - secondo la testimonianza del suo ex procuratore Francesco Saverio Borrelli - disse di Silvio Berlusconi neo-indagato (che in precedenza lo voleva addirittura ministro del suo governo; poi lo fu col centro-sinistra): “Io quello lo sfascio”. Oggi potrà tornare utile allo schieramento di Forza Italia che (giustamente, dal suo punto di vista) rivendica la primazia della riforma, sebbene lo stesso Di Pietro abbia messo le mani avanti: “Chi mi dice che è una riforma che voleva Berlusconi mi fa arrabbiare due volte”. E per restare nel campo dei paradossi che la battaglia referendaria prossima ventura porta con sé, sull’altro fronte c’è il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, pronto a dire No al fianco dell’Associazione nazionale magistrati dopo le freddezze - per così dire - che hanno caratterizzato in passato i suoi rapporti col sindacato delle toghe e con i “laici” di sinistra nel Consiglio superiore della magistratura. Nel centro-destra si fa un gran citare di Giovanni Falcone e alcune sue affermazioni in favore della separazione delle carriere all’indomani dell’approvazione del codice di procedura penale datato 1989, in un contesto totalmente diverso da quello attuale (oggi la differenziazione delle funzioni è talmente radicale che ogni anno meno dello 0,5 di magistrati cambia ruolo), e quando l’allora pubblico ministero Carlo Nordio era contrario. Ma dall’altra parte potrebbero ricordare Paolo Borsellino (figura cara alla destra di allora e di oggi) che nel dicembre 1987 disse, parlando del ruolo del pm con le nuove regole del processo penale: “Le ricorrenti tentazioni del potere politico, quali ne siano le motivazioni, di mortificare obbiettivamente i pm, prefigurandone il distacco dall’ordine giudiziario anche attraverso il primo passo della definitiva separazione delle carriere, non incoraggiano certo i giudici, che tali tutti sentono di essere, a indirizzare verso gli uffici di Procura le loro aspirazioni”. Meglio Falcone o Borsellino? Domanda sciocca che dovrebbe indurre a rinunciare alla sfida a colpi di citazioni ultratrentennali di persone che non possono più parlare. Forse sarebbe stato più utile dare ascolto, ad esempio, ai rilievi contenuti nella relazione di minoranza del consigliere del Csm Felice Giuffrè, mandato lì da Fratelli d’Italia, che nel suo elaborato favorevole alla riforma ipotizzava correzioni per smussare o risolvere alcune delle principali criticità: un Csm unico con due sezioni separate per giudici e pm, anziché due Csm; un sorteggio “temperato” dei componenti togati per “salvaguardare un limitato carattere rappresentativo del Consiglio”; accorgimenti per la nuova giustizia disciplinare sottratta al Csm e affidata a una inedita Alta corte disciplinare, che porta con sé storture e contraddizioni. Non se n’è fatto niente perché bisognava fare tutto in gran fretta, senza che il Parlamento toccasse una virgola dell’unica riforma istituzionale che il governo sarà in grado di varare entro la fine della legislatura. Lasciando irrisolti nodi o contraddizioni che sono emersi anche all’interno della stessa maggioranza che l’ha votata. È stato il senatore Marcello Pera, infatti, a segnalare i pericoli derivanti dalla creazione di una falange di meno di 2.000 pubblici misteri “autonomi, indipendenti, separati dai giudici e domani distaccati dalla democrazia perché non risponderanno a nessuno”. Preoccupazione condivisa dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro che in un’intervista concessa (a sua insaputa) qualche mese fa immaginava pure il rimedio: “O si va fino in fondo e si porta il pm sotto l’esecutivo, come avviene in tanti Paesi, oppure gli si toglie il potere di dare impulso alle indagini”. È l’esito paventato da opposizioni e magistrati che, uniti dietro gli scudi dell’Anm, parteciperanno alla campagna per il No. Provocando il “disastro”, denuncia di nuovo Pera, di diventare “un soggetto politico che si oppone al governo”. L’Anm nega assicurando che la sua contrarietà è indipendente dagli schieramenti di partito, ma la possibilità di essere percepita nell’altro modo esiste ed è reale. Un altro effetto collaterale negativo di una Grande Riforma che sembra proporre più problemi che soluzioni. La riforma giudiziaria e una domanda da porsi: è necessaria e utile? di Danilo Paolini Avvenire, 31 ottobre 2025 Le modifiche dovrebbero servire a migliorare la vita dei cittadini. Ma troppo spesso il clangore prodotto dallo scontro politico e mediatico lo fa dimenticare. Un approccio più razionale alle cose della giustizia, al posto di quello un po’ morboso e quasi isterico che si usa avere nel nostro Paese da oltre 30 anni, consentirebbe di vedere due aspetti della riforma costituzionale approvata in via definitiva dal Parlamento. Il primo è che la separazione delle carriere delle magistrature giudicante e requirente non è un colpo di Stato. Il secondo aspetto - strettamente correlato al primo - è che, a Costituzione vigente (anche così come modificata dalla riforma) non sottomette la funzione del pubblico ministero al potere esecutivo. Insomma, non è una bestemmia nel tempio della giurisdizione, tanto che un piccolo ma qualificato gruppo di rappresentanti della sinistra liberale ha già annunciato il proprio sì al referendum. Detto questo, le riforme (a maggior ragione quando si mette mano alla Costituzione) dovrebbero servire a migliorare la vita dei cittadini, in questo caso a far funzionare meglio il servizio che lo Stato rende. Troppo spesso il clangore prodotto dallo scontro politico e mediatico fa dimenticare, infatti, che l’amministrazione della giustizia è un servizio a tutti i cittadini, non solo ai potenti, le cui vicende giudiziarie (per lo più penali) riempiono le cronache. E che la giustizia che riguarda da vicino la maggior parte dei cittadini è quella civile, settore in cui stiamo rischiando di perdere i fondi del Pnrr perché siamo indietro rispetto agli obiettivi di snellimento da raggiungere entro il prossimo giugno. Ma di questo pochi sembrano curarsi. Meglio magnificare la riforma che darà agli italiani “una giustizia finalmente giusta”, come fanno il Governo e la sua maggioranza. Meglio chiamare alla resistenza referendaria contro la stessa riforma che “scardinerà gli equilibri costituzionali” e la separazione dei poteri, come fanno le opposizioni e l’Associazione nazionale magistrati. In realtà ci sarebbe una sola domanda da porsi, cioè se davvero questa riforma sia necessaria e utile. Se sia necessaria, visto che ormai le funzioni requirenti e giudicanti dei magistrati sono distinte in maniera rigida, con un solo passaggio possibile in carriera da una all’altra entro 10 anni dalla prima assegnazione. Se sia utile, dato che i più grandi mali della giustizia italiana sono la lentezza dei processi, la farraginosità delle procedure, la carenza di personale e di sedi. Non si vede come questa riforma andrà a migliorare la situazione. Senza contare che la creazione di due Consigli superiori della magistratura moltiplicherà costi e consiglieri, così come l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, che è una parte fondamentale dell’impianto e dello spirito della cosiddetta riforma Nordio. Ma, per la verità, è anche l’aspetto più interessante della stessa, perché riprende e realizza una proposta più volte emersa negli anni, anche su iniziativa di autorevoli esponenti del centrosinistra o di giuristi della stessa area, al fine di superare il sistema di giustizia domestica del Csm, che in tanti casi è in effetti parsa fin troppo “domestica”. L’Alta Corte disciplinare sarebbe composta da 15 giudici, tre dei quali nominati dal presidente della Repubblica e tutti gli altri estratti a sorte tra i magistrati e da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune. Ed è proprio questo l’aspetto che più alimenta la contrarietà dei magistrati, almeno a sentire uno che la sa lunga come Antonio Di Pietro: il timore di perdere “il potere vero”, ovvero quello di giudicarsi da soli sotto il profilo disciplinare. Certo, desta perplessità il fatto che l’Associazione magistrati (per la quale è già impropria la definizione di “sindacato”, perché la magistratura non è una categoria del pubblico impiego, bensì un ordine che esercita uno dei tre poteri dello Stato) promuova e guidi il Comitato per il no al referendum che si terrà per confermare o meno la riforma. Ma allo stesso modo desta perplessità la veemenza con cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha accolto il rifiuto del visto di legittimità al Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei conti, brandendo la modifica alla Costituzione con toni che sembrano avvalorare la tesi di chi rimprovera al Governo un intento “vendicativo” nei confronti delle toghe. Ci aspettano mesi di una campagna referendaria che si annuncia aspra come poche altre ma, quale che sia l’esito delle urne in primavera, c’è da augurarsi che si torni poi a discutere sul serio dei problemi, enormi, del sistema giustizia. Possibilmente in Parlamento. Possibilmente senza preclusioni ideologiche. Perché, malgrado il trionfalismo di bandiera e i festeggiamenti in strada con cui il centrodestra ha accolto il via libera alla riforma, non saranno le carriere separate a risolverli. Il dialogo che non c’è fra destra e sinistra sulla riforma della Giustizia. Un’occasione persa di Giorgio Tonini Il Foglio, 31 ottobre 2025 Sin dall’inizio il confronto parlamentare ha assunto i toni di una precoce campagna referendaria, in patente contraddizione non solo con la retorica della centralità del Parlamento, ma anche con lo spirito dell’articolo 138, che suggerisce al Parlamento la via maestra dell’approvazione condivisa delle revisioni costituzionali. Dunque ormai è deciso. La riforma costituzionale delle carriere dei magistrati e del Csm, approvata dal Parlamento in un contesto di scontro frontale, sarà confermata o invece respinta dal popolo sovrano attraverso un referendum che assumerà di nuovo le sembianze di un’ordalia. I cittadini-elettori saranno chiamati a schierarsi: a destra con il governo e contro i magistrati, a sinistra con i magistrati e contro il governo. Due opposte tifoserie, asserragliate sulle curve, avvolte dai fumogeni e intente a scambiarsi slogan minacciosi, in uno stadio che vede invece svuotarsi le tribune, abbandonate dai tanti che avrebbero voluto semplicemente prendere sul serio la Costituzione. E avrebbero voluto affrontare, con spirito costruttivo e dialogico, il delicato tema oggetto della riforma: quello del rapporto tra le due sezioni del Titolo IV e in particolare tra l’articolo 111 (giusto processo) e la disciplina dell’ordinamento giurisdizionale. E’ innegabile, per chiunque voglia affrontare il tema con onestà intellettuale, che porsi il problema fosse necessario. L’articolo 111, miracolosamente approvato con voto bipartisan nel 1999, in piena seconda Repubblica, introduce infatti nel nostro ordinamento il principio del “giusto processo”, inteso come “contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale”. Domandarsi come questa radicale discontinuità nel sistema dei princìpi costituzionali in materia di giurisdizione debba armonizzarsi con l’organizzazione dell’ordine giudiziario è semplicemente un’esigenza ineludibile. A meno che non si intenda dare per scontato, come spesso succede nella patria del Gattopardo, che i princìpi affermati in sede di riforma debbano essere svuotati, se non ribaltati, quando si tratti di porre mano alla loro concreta applicazione. Incontrarsi e confrontarsi in modo serio e aperto su questo terreno, originariamente, costitutivamente comune, sarebbe stato il compito di un Parlamento degno delle sue prerogative costituzionali e di forze politiche in grado di svolgere la loro funzione dirigente. E invece, sin dall’inizio, il confronto parlamentare ha assunto i toni di una precoce campagna referendaria, in patente contraddizione non solo con la retorica della centralità del Parlamento, ma anche e soprattutto con lo spirito, se non la lettera, dell’articolo 138, che suggerisce al Parlamento stesso la via maestra dell’approvazione condivisa delle revisioni costituzionali. La maggioranza ha presentato la riforma come una rappresaglia nei confronti di una magistratura invadente, scommettendo sulla crescente impopolarità di toghe ed ermellini. Ma così facendo, ha legittimato con la sua stessa retorica la propaganda opposta dell’opposizione, che punta a mobilitare l’elettorato a difesa delle libertà democratiche, descritte come insidiate da una destra in preda ad allarmanti tentazioni e pulsioni autoritarie, e scommette sulla possibilità di ribaltare per questa via i rapporti di forza nella contesa sul consenso elettorale nel paese. A ben guardare, in realtà, è proprio questa crescente, faziosa incomunicabilità, tanto più radicalizzata nelle opposte retoriche, quanto meno distanti appaiono in effetti le posizioni di partenza sul piano degli stessi princìpi fondamentali (nel caso di specie, magistralmente delineati dal condiviso articolo 111), a porsi come l’insidia più grave e preoccupante alla tenuta qualitativa della democrazia. A questa insidia si deve reagire. E si può farlo solo respingendo serenamente al mittente il ricatto di schieramento gridato dalle curve e chiamando invece le tribune a riempirsi, di cittadini-elettori interessati al merito della questione: la riorganizzazione dell’ordinamento giurisdizionale alla luce del principio del giusto processo. Personalmente è con questo intendimento che andrò a votare al referendum confermativo e voterò sì alla riforma. Per decidere chi debba governare l’Italia nei prossimi anni, ci saranno, nel 2027, le elezioni politiche. E adesso finalmente un “giusto processo” di Vittorio Minervini* Il Dubbio, 31 ottobre 2025 Giunge a termine il percorso parlamentare per la modifica dell’art. 102 Cost., che prevede l’introduzione della separazione delle carriere dei magistrati, nella distinzione formale tra giudicanti e requirenti. Una riforma attesa trentasei anni: per ogni ordinamento arriva, prima o poi, il momento in cui deve rivolgere lo sguardo verso se stesso, nella continua evoluzione come soggetto vivente, necessaria se non vuole trasformarsi in un corpo asfittico. Per la giustizia italiana oggi quel momento è giunto, in attesa dell’esito del referendum confermativo della riforma. La politica attuale, sempre più immersa in un presente infinito, dovrà essere in grado di interpretare il prossimo passaggio per il suo effettivo significato, perché il quesito referendario sia compreso nel suo autentico valore, oltre ogni contrapposizione partitica. Terminate le contrapposizioni parlamentari, il voto referendario non dovrà essere interpretato come una tema divisivo, di destra o di sinistra, ma per ciò che effettivamente è: una questione di forma dello Stato, dello Stato di diritto, la cui qualità si misura nella distanza che sa porre tra il potere che accusa e quello che giudica. L’attuale codice di procedura penale nacque nell’ultima stagione di autentico riformismo, e ne rappresenta l’atto più coraggioso. Passare da un modello inquisitorio, opaco e burocratico, consegnatoci dagli anni bui del ventennio, a uno accusatorio, fondato sul contraddittorio, sulla parità delle armi e sulla centralità del giudice terzo, era un passo culturale, rivoluzionario, prima ancora che tecnico. Ma la forma mutò senza che la sostanza la seguisse del tutto. Giudici e pubblici ministeri rimasero figli dello stesso corpo, con percorsi formativi comuni, carriere interscambiabili e un medesimo Consiglio Superiore. Un’unità di ordine che mal si concilia con la distinzione di funzioni su cui si regge l’idea stessa di giusto processo, in un’asimmetria strutturale data, appunto, dall’appartenenza al medesimo alveo ordinamentale. Nel processo accusatorio, il pubblico ministero è una parte forte, autorevole, ma pur sempre una parte, e il giudice deve essere autenticamente terzo. Quando entrambi provengono dallo stesso alveo ordinamentale, la simmetria si spezza, la cultura del corpo tende a prevalere sulla cultura del ruolo. È questione di armonia e di architettura istituzionale: un edificio costruito su linee che si incrociano, inevitabilmente genera tensioni, in particolare quando il progetto prevede corpi distinti. Ci sono voluti trentasei anni per giungere al momento del compimento della riforma del 1989, un lungo periodo preconizzato dal suo primo autore, Giuliano Vassalli, consapevole che la separazione ordinamentale, indispensabile corollario della separazione funzionale, sarebbe stata fortemente avversata dalla magistratura. “Perché non sarà possibile cambiare l’ordinamento giudiziario attuale? Non sarà possibile perché ormai, quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più, non lo abbandona più. La magistratura ha un potere enorme… ma non solo enorme in linea di fatto, lo ha sul potere legislativo…”. Un lungo periodo dato da motivazioni che nascondono l’autentica volontà della magistratura: il timore di vedere il proprio potere spezzato in un dualismo, timore radicato nonostante la consapevolezza che un sistema accusatorio non può esser definito tale laddove il pubblico ministero appartiene al medesimo ordine del giudice. Così il chiaro pensiero di Giovanni Falcone espresso nei primi anni di applicazione del nuovo codice: “Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi “. E ora, terminata la discussione parlamentare, i partiti politici si trovano davanti allo specchio. Ora la politica deve ritrovare se stessa, allontanarsi da visioni giustificate da ragioni elettorali di brevissimo periodo, che per alcuni, se non abbandonate, rappresenteranno un insulto alla propria storia, al proprio essere. Ogni volta che la separazione delle carriere è tornata nel dibattito pubblico, è stata risucchiata nel vortice della contrapposizione: destra contro sinistra, giustizialismo contro garantismo, nell’incapacità di cogliere che il vero nodo da sciogliere è solo e unicamente quell’interesse peculiare della magistratura, che in una sorta di superfetazione dell’ego non ha alcuna volontà di migliorare l’ordinamento, se ciò altera i propri equilibri interni. Ma il nodo può e deve esser risolto, se solo lo si considera nella sua autentica essenza: l’equilibrio tra poteri, la percezione di imparzialità, la fiducia dei cittadini in chi amministra la giustizia, questione che non può esser ridotta e sminuita all’ambito della contrapposizione partitica, sempre priva di alcuna autentica responsabilità politica e di considerazione del bene comune. Confondere un principio di civiltà istituzionale con una bandiera di parte è il peggior modo di interpretare il ruolo di attore della politica, in particolare da parte di coloro per i quali la tutela dei principi di libertà, dignità e uguaglianza rappresenta il punto centrale del proprio essere. Il rischio è che, ancora una volta, si resti sospesi tra l’enunciazione dei principi e il timore di applicarli, e questa volta per una occasionale consonanza di intenti con i propri avversari. I Padri Costituenti, all’indomani del crollo del regime totalitario, ci hanno consegnato una Carta Costituzionale di straordinaria attualità, che continua a indicare il percorso da seguire per il lungo cammino nell’attuazione dei suoi principi. La Carta trovò la sua scrittura nell’attenzione dei suoi autori al nostro futuro, uno sguardo in cui la contrapposizione partitica non ebbe mai spazio: esempio, questo, da tenere sempre in evidenza, quando si mette mano al contenuto di quella Carta. Ora che il legislatore, dopo il passaggio parlamentare, consegna al referendum l’ultima parola, dobbiamo tutti essere consapevoli che, come cittadini, saremo chiamati a dare piena attuazione all’ art. 111 Cost., nella nuova formulazione introdotta nel novembre 1999, con la riscrittura del suo primo comma, in cui ora si stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge “. Una affermazione che richiama il concetto ideale di Giustizia, preesistente rispetto alla legge e direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel giusto processo che lo Stato, nei principi dell’art. 2 Cost., si impegna a riconoscere. L’Italia resta una delle poche grandi democrazie occidentali con una evidente anomalia storica, che la nuova scrittura dell’art. 102 Cost. vuole risolvere, con la rimozione di un reliquato ordinamentale di quel periodo che la nostra Carta ha voluto cancellare. Il riformismo autentico deve essere alieno dalle contrapposizioni partitiche, e soprattutto non può privilegiare gli interessi corporativi di alcuni a discapito di tutto il corpo sociale. Come è stato scritto e sottoscritto, “il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. Ora il tempo è giunto: separare le carriere significa affermare che il tempo delle ambiguità deve finire, per consentire, finalmente, alla giustizia italiana di essere un potere rispettato perché trasparente, e non temuto perché opaco. L’essenza della democrazia non è nell’unità dei poteri, ma nel loro equilibrio, e ogni equilibrio, per durare, ha bisogno di confini chiari. *Consigliere del Consiglio Nazionale Forense Un Governo allergico al controllo di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 31 ottobre 2025 Il disegno di legge sull’ordinamento della giustizia è stato approvato violando lo spirito, ma anche la lettera della nostra Costituzione. Per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, infatti, i quattro passaggi parlamentari non sono serviti assolutamente a nulla: non hanno permesso alcuna discussione autonoma dei parlamentari. I parlamentari hanno votato infatti per disciplina di partito e vincolo di maggioranza senza poter esercitare il loro libero mandato. Il testo approvato in via definitiva è esattamente lo stesso approvato dal Consiglio dei ministri nel maggio del 2024, nei quattro passaggi in Parlamento non ha subito alcuna modifica. L’andamento della discussione (si fa per dire) è stato paradossale. Vista la negazione di ogni possibilità di emendare il testo l’opposizione si è limitata a fare ostruzionismo, iscrivendo tutti i suoi parlamentari a parlare pur se consapevole che - visti i numeri - a nulla sarebbero potute valere le proprie ragioni. Mentre la maggioranza non ha ritenuto neppure utile discutere del suo testo per dare conto del proprio operato. Nemmeno le poche proposte migliorative - o ritenute tali - che alcuni parlamentari di maggioranza avevano in mente e che avrebbero potuto ben essere accolte senza stravolgere l’impianto originariamente definito sono state considerate e i proponenti hanno ritirato o comunque non discusso i loro stessi emendamenti. Tant’è che solo alcune dichiarazioni ai giornali ci hanno fatto conoscere le opinioni concorrenti di alcuni senatori o deputati. Tra questi autorevoli componenti che hanno espresso fuori dai denti - ovvero fuori dalla sede parlamentare - la propria opinione. Così apprendiamo che il senatore Pera ha votato a favore della riforma “per ammirazione” della presidente del Consiglio. L’ammirazione è certamente un nobile sentimento, ma non rientra tra le ragioni che dovrebbero indurre un parlamentare a far valere la sua responsabilità politica. Poi leggiamo che persino il presidente del Senato ritiene che si stia giocando una partita che “non vale la candela”. Anziché alla buvette si poteva utilizzare l’aula per dichiarazione così impegnative e perplesse. Insomma, una riforma costituzionale decisiva per il futuro della nostra democrazia approvata a bocche cucite. Ormai per cambiare la costituzione si utilizzano maniere ben più spicce e decisioniste che non per l’ordinaria attività legislativa. Almeno i disegni di legge sono discussi in commissione, poi in assemblea, e qualche modifica è permessa. Persino nei casi sempre più frequenti in cui è il governo a proporre il decreto-legge (dunque ponendo il parlamento difronte ad un dato di fatto e limitando il suo potere a quello di conversione), l’emendabilità è assicurata. Tant’è che, eventualmente, ci si lamenta della non omogeneità delle modifiche introdotte. Ora, invece il testo diventa intoccabile. E non c’è neppure bisogno di porre la questione di fiducia tant’è ferrea la disciplina imposta ai parlamentari di maggioranza. Ciò è tanto più grave se si pensa alla ratio che è propria delle norme che la costituzione espressamente prevede in materia di sua revisione. L’articolo 138 prevede una doppia lettura dei due rami del parlamento, una maggioranza qualificata in seconda lettura e un referendum eventuale di natura oppositiva qualora, pur se superata la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, non si sia però raggiunto il consenso dei due terzi dei nostri rappresentanti. Al di là di ogni tecnicismo mi sembra del tutto chiara la ragione di fondo che sostiene questo procedimento. Se una legge ordinaria può essere il frutto di una maggioranza contingente, quando si discute e si vuole cambiare la costituzione di tutti è necessario pensarci bene, ricercare il consenso più ampio (le maggioranze qualificate), permettere ai nostri rappresentanti di tornare sui propri passi (la doppia lettura), non adottare procedure semplificate (lo ribadisce anche l’articolo 72). Un modo di pensare alla legge suprema e alla sua revisione oramai stravolto. Pietro Calamandrei, com’è noto, enfatizzava questa prospettiva sostenendo che il governo non dovesse metter bocca, anzi uscire dall’aula quando si discute di costituzione (“i banchi del governo devono rimanere vuoti”), ora invece a uscire dall’aula sono i parlamentari. Ci rimane un’ultima possibilità, l’ultima garanzia che la costituzione ha previsto e che il governo non ha potuto violare, ma sta comunque cercando di stravolgerne il senso. Il referendum che nel sistema costituzionale è indicato come lo strumento attraverso il quale una minoranza (un quinto dei membri di una camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali) può opporsi alla decisione della maggioranza parlamentare. Ora invece lo si vuole costringere entro la logica plebiscitaria di un governo che tende a sterilizzare ogni possibile messa in discussione. Non più indetto da chi vuole salvaguardare l’assetto costituzionale vigente, ma da chi lo vuole cambiare. La natura oppositiva, si trasforma demagogicamente in una approvativa: la richiesta di un plebiscito, un’ulteriore richiesta di consenso passivo da parte di una moltitudine plaudente. Chi ha avuto la maggioranza in parlamento non ha nessuna ragione di chiedere al popolo se acconsente: dopo tre mesi, in assenza di richiesta di referendum che è solo “eventuale”, la legge costituzionale approvata - seppure nel modo indecente di cui s’è detto - entra in vigore. Spetta allora a chi si oppone alla riforma non solo attivarsi per far valere le proprie ragioni, ma anche per ristabilire gli equilibri violati della procedura della revisione costituzionale, ricordano che anche la forma è sostanza. È venuto il momento - ora o mai più - di cominciare a discutere seriamente e nel merito di una riforma che opera contro la giustizia, ma anche contro la ratio della costituzione, mettendo da parte la prosopopea della attuale maggioranza di governo, che ha annunciato per bocca di Giorgia Meloni di ritenere intollerabile il controllo dei giudici e di voler utilizzare la riforma costituzionale della giustizia, ma anche la prossima sulla corte dei conti, per impedire che dei giudici nell’esercizio delle loro funzioni possano fermare l’azione che si vuole senza freni del governo. È necessario tornare a riflettere criticamente sui dati reali per recuperare l’equilibrio costituzionale tra i poteri. Contro i pieni poteri dei pm. Ragioni per un sì convinto alla riforma della giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 31 ottobre 2025 Giudici con più indipendenza, magistratura meno politicizzata, democrazia più tutelata, Costituzione più rispettata. Si può dire di no? Come ribaltare le tesi più serie dei nemici della separazione dei poteri e del sorteggio al Csm. Gli avversari più acerrimi della riforma della giustizia, riforma che come sapete prevede la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice, l’indebolimento delle correnti attraverso il sorteggio dei membri del Csm e l’introduzione di un’alta corte cui è attribuita in via esclusiva la giurisdizione disciplinare tanto nei confronti dei magistrati giudicanti quanto dei magistrati requirenti, sostengono da mesi tre tesi precise per provare a dimostrare che il testo approvato ieri in via definitiva al Senato sia un pericolo per il futuro del nostro paese. Tre punti, tre idee, tre battaglie. Tesi numero uno, secca: la riforma della giustizia è una grave minaccia per la nostra democrazia. Tesi numero due, dirompente: la riforma della giustizia è uno stravolgimento inaccettabile della Costituzione. Tesi numero tre, devastante: la riforma della giustizia ha come fine ultimo quello di indebolire il potere giudiziario per permettere a chi governa di avere a disposizione i fascistissimi pieni poteri. Se scegliessimo di mettere da parte per un istante le ragioni strumentali che muovono buona parte dell’opposizione contro la riforma Nordio e Meloni (colpire il governo, quando si dice entrare nel merito delle cose) potremmo tentare di spiegare la bontà della riforma della giustizia partendo proprio dagli argomenti principali dei suoi detrattori. E attraverso questi argomenti non è difficile dire che se i nemici di Meloni e Nordio avessero davvero così a cuore (a) la difesa della democrazia, (b) la tutela della Costituzione, (c) la lotta contro i pieni poteri dovrebbero cambiare urgentemente idea e sostenere senza indugi e con coraggio proprio la riforma della giustizia che hanno iniziato a combattere. Un paradosso? Mica tanto. Partiamo dalla prima tesi: la minaccia alla democrazia. Se si sceglie di spostare appena di un centimetro dagli occhi le fette di prosciutto che ostruiscono la visuale sul mondo, ai professionisti della gnagnera, detto con il massimo rispetto, si potrà far notare un dettaglio forse sfuggito. Negli ultimi vent’anni, anche i più distratti avranno avuto l’occasione di notare che l’Italia ha dovuto fare i conti, in diverse occasioni, con un’emergenza democratica vera, che ha portato il nostro paese ad accettare senza fiatare il consolidamento di una Costituzione immateriale fondata non più sul lavoro ma sullo strapotere delle procure. Anche qui, se non si vuole negare la realtà, non si dovrebbe far fatica ad ammettere che una Repubblica in cui si possono celebrare processi senza prove, in cui vi sono inchieste costruite sulla base dei teoremi, in cui un indagato diventa colpevole fino a sentenza definitiva, in cui l’imbarbarimento giudiziario ha messo più volte a rischio il funzionamento della democrazia, avere a disposizione una riforma che permetta di indebolire le correnti politicizzate della magistratura può essere un incentivo per avere magistrati meno tentati di costruire carriere veloci facendo leva sull’appartenenza politica e dunque sull’ideologia. E un sistema che metta un po’ più al riparo gli eletti dalle esondazioni della magistratura è indubbiamente un sistema che tutela, oltre che gli eletti, anche gli elettori, e dunque la democrazia. Il secondo capo di imputazione mosso dagli avversari della riforma riguarda la presunta aggressione della legge alla Costituzione. Si potrebbe chiedere ai difensori della Costituzione più bella del mondo così preoccupati per la possibile aggressione alla Costituzione via riforma della giustizia in quale corso di judo sono stati trattenuti in questi anni, in tutte le occasioni in cui i magistrati politicizzati e i loro giornalisti velinari al guinzaglio hanno sputacchiato sulla Costituzione calpestando l’articolo 27 e l’articolo 111 della Carta (ogni indagato è innocente fino a prova contraria e ogni imputato ha diritto a una durata ragionevole del processo). Ma forse, senza fare i saputelli, è sufficiente provare a spiegare ai nemici della riforma, così preoccupati per gli effetti della riforma sulla Costituzione (oggi niente judo), che la riforma della giustizia non è affatto un pericolo per la Costituzione perché separando le carriere si rafforza la terzietà del giudice e si ottempera così proprio a un articolo della Carta che i difensori della Costituzione più bella del mondo spesso si dimenticano di citare. Parliamo, naturalmente, dell’articolo 111, secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. E dunque: se alle vestali della Carta sta così a cuore la terzietà del giudice, dovrebbero senza indugi elogiare una riforma che, separando le carriere, tutela ancora più di oggi la terzietà del giudice. Il terzo argomento, quello destinato a diventare più virale, è quello secondo cui la riforma della giustizia renderebbe il potere giudiziario molto più debole e il potere esecutivo molto più forte. Avete presente (vai con l’hashtag) i pieni poteri? Ecco. Se l’attenzione degli avversari sul tema dei pieni poteri (vai con l’hashtag) è davvero genuina, e non ci sono motivi per non crederlo, bisognerebbe forse riconoscere che non solo la riforma non dà alla politica alcun potere in più sull’operato dei magistrati ma che al contrario interviene per porre un piccolo, anche se non esaustivo, argine all’unico vero pieno potere che esiste in Italia: quello dei pubblici ministeri. Può essere che anche su questi temi i critici della riforma fossero impegnati in una lezione di judo. Ma in ogni caso non dovrebbe forse sfuggire che in un paese in cui i pm possono far arrestare un cittadino senza prove, in un paese in cui i pm possono decidere i destini di un ministro sulla base di sospetti, in un paese in cui i pm possono mandare in galera innocenti senza essere puniti, in un paese in cui i magistrati possono utilizzare il proprio ruolo per definire non solo ciò che è reato da ciò che non lo è ma anche ciò che è morale da ciò che non lo è. Ecco, in un paese in cui succede tutto questo, e tutto questo succede ogni giorno, delimitare i poteri nella magistratura, renderli reciprocamente responsabili e dare più garanzie al cittadino di avere un giudice più terzo e più imparziale offrendo criteri di valutazione più trasparenti sull’operato dei magistrati può limitare le esondazioni, le spettacolarizzazioni, le gogne e le irresponsabilità dei pm, può dunque limitare i pieni poteri dell’unico soggetto dello stato che ne è davvero dotato, a meno che naturalmente non si voglia sostenere che l’unico modo per garantire ai pm maggiore indipendenza sia quello di garantire loro maggiore irresponsabilità. Ci sarebbero molti spunti di riflessione che si potrebbero aggiungere a questi che vi abbiamo appena offerto, per spiegare perché la riforma della giustizia, aiutando a superare lo status quo, aiuta a superare una giustizia che spesso, agli occhi dei cittadini, è un veicolo più di ingiustizia che di giustizia. Ma al fondo la questione è molto più semplice. Per chi pensa che l’Italia abbia il diritto ad avere correnti con meno poteri, giudici con più indipendenza, una magistratura meno politicizzata, una democrazia più tutelata, una Costituzione più rispettata, combattere i nemici della riforma è l’unico modo per essere coerenti con le proprie idee e per difendere dalle menzogne, dalla gnagnera, dagli impostori del diritto ciò che si ha più a cuore: semplicemente, la famosa Costituzione più bella del mondo. La strategia del Governo per convocare il referendum sulla giustizia al più presto di Ermes Antonucci Il Foglio, 31 ottobre 2025 Meloni e Nordio vogliono tagliare i tempi di indizione del referendum confermativo, seguendo un’interpretazione diversa, rispetto ai governi precedenti, delle norme che regolano la materia. L’obiettivo è andare alle urne agli inizi di marzo, evitando la concomitanza con altri appuntamenti elettorali o che si aggiungano divisioni interne. Correre, correre, correre. È la parola d’ordine che circola tra Palazzo Chigi e Via Arenula sul referendum confermativo della giustizia, dopo l’approvazione in via definitiva del provvedimento al Senato (112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astensioni). “Un traguardo storico”, esulta Meloni: “Ora la parola passerà ai cittadini”. “Credo che tra marzo e aprile arriveremo al referendum”, dice Nordio. L’intenzione del governo è infatti quella di tagliare i tempi di indizione del referendum confermativo, seguendo un’interpretazione diversa, rispetto ai governi precedenti, delle norme che regolano la materia. L’obiettivo è andare alle urne agli inizi di marzo, evitando il periodo “caldo” di maggio-giugno, in cui potrebbero aggiungersi altri appuntamenti elettorali o divisioni interne. L’articolo 138 della Costituzione prevede che se una legge di riforma costituzionale non viene approvata con la maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera, ma solo con la maggioranza dei voti, come è avvenuto in questo caso, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge possa essere avanzata richiesta di referendum confermativo da parte di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. La legge di attuazione (la n. 352 del 1970) non fornisce specificazioni sul periodo dei tre mesi ed è qui che il governo Meloni sarebbe intenzionato a mettere in campo la sua strategia. Il piano consiste nel raccogliere subito le firme di almeno un quinto dei membri del Parlamento (come confermato in Aula anche dal senatore forzista Pierantonio Zanettin), passare dalla Cassazione per il via libera, e fissare la data dal referendum senza aspettare necessariamente che trascorrano tre mesi e che giunga l’iniziativa di altri soggetti, come la raccolta firme da parte di un comitato per il “no”. Si tratterebbe di una novità rispetto ai precedenti (governo Amato nel 2001 e governo Renzi nel 2016): in quei casi, nonostante le firme dei parlamentari per avanzare la domanda di referendum fossero state raccolte nel giro di pochi giorni, Palazzo Chigi preferì aspettare comunque la scadenza del trimestre, ritenendo che in caso contrario sarebbe stato leso il diritto di iniziativa referendaria da parte di soggetti diversi dai parlamentari. Ma questa interpretazione delle norme non è ritenuta intangibile tra i giuristi, inclusi quelli che assistono il governo Meloni: nulla infatti vieta al governo di indire il referendum nel giro di poco tempo e poi consentire comunque ai vari comitati (o ai consigli regionali) di aggregarsi alla richiesta del referendum confermativo. Procedendo in questo modo, il governo non sarebbe tenuto ad aspettare il 30 gennaio prima di decidere la data del referendum (che dovrà essere fissata in una domenica compresa tra il cinquantesimo e il settantesimo giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione). Risultato: sarebbe possibile fissare il referendum agli inizi di marzo. Un modo, spiegano fonti qualificate di Via Arenula, per evitare di incrociare altri appuntamenti elettorali che potrebbero sopraggiungere a maggio o a giugno. Ma soprattutto un modo per ottenere il via libera dei cittadini il prima possibile, perché - questo è il mantra - “nel frattempo qualsiasi cosa può succedere”. A partire da fratture interne alla maggioranza su questioni che riguardano altri ambiti, come la manovra (a preoccupare è in particolare l’insofferenza intermittente di Salvini). Dall’altra parte, in questa maniera verrebbe limitata anche la durata della campagna referendaria, che si teme possa trasformarsi in uno scontro frontale sul piano politico e ideologico tra governo e magistratura (subito dopo l’approvazione definitiva della riforma, l’Associazione nazionale magistrati è tornata ad attaccare a testa bassa: “Questa riforma altera l’assetto dei poteri disegnato dai costituenti e mette in pericolo la piena realizzazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”). Al momento le “grane” maggiori per il governo sono rappresentate paradossalmente dai guai giudiziari della capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi. Nelle prossime settimane, il centrodestra formalizzerà, tramite una votazione all’Aula della Camera, la richiesta di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale contro il Tribunale dei ministri e la procura di Roma, per l’indagine per false dichiarazioni aperta contro Bartolozzi nell’ambito del caso Almasri. La decisione genererà prevedibilmente nuove polemiche da parte dell’opposizione sulla vicenda della liberazione del generale libico. Come se non bastasse, Bartolozzi rischia di essere indagata per peculato per aver usato indebitamente una motovedetta della Guardia di Finanza per recarsi a Capri, insieme al marito, per assistere a un convegno sulla digitalizzazione della giustizia lo scorso 4 ottobre. Dopo la pubblicazione della notizia, la procura di Napoli avrebbe aperto un fascicolo, al momento ancora senza ipotesi di reato né indagati, per verificare quanto accaduto. Nel caso in cui Bartolozzi venisse indagata, il ministero della Giustizia finirebbe di nuovo nel mirino delle opposizioni. Schlein: “No ai pieni poteri, è Meloni a politicizzare il referendum” di Daniela Preziosi Il Domani, 31 ottobre 2025 Dopo l’ultimo sì del senato alla riforma della magistratura, la segretaria dem: “L’obiettivo è indebolire l’indipendenza della magistratura e permettere a chi comanda di scegliersi i propri giudici”. Sul Ponte di Messina: “Si fermino”. Pd e M5s, conferenze separate. Dietro le spalle le campeggia il cartello che Pd, M5s e Avs hanno esposto nell’aula del Senato al momento del sì finale della riforma della magistratura. Dice “No ai pieni poteri” e già dà l’idea della campagna referendaria. Elly Schlein, fra i presidenti dei gruppi Francesco Boccia e Chiara Braga, inizia a snocciolare le ragioni del No: è “una falsa riforma che non tocca i nodi veri della giustizia, come la durata dei processi o il sovraffollamento carcerario. L’obiettivo è indebolire l’indipendenza della magistratura e permettere a chi comanda di scegliersi i propri giudici”. Il Pd ha convocato una conferenza stampa al Senato per dire che se non siamo un golpe, poco ci manca: “La democrazia non è un assegno in bianco per cinque anni a chi ha preso un voto in più alle elezioni, ma un principio secondo cui a ogni potere va posto un limite in un equilibrio di pesi e contrappesi previsti dalla Costituzione a tutela dei cittadini che non hanno potere né i soldi o l’arroganza di criticare giudici per decisioni che non condividono”. Dunque conferma le contestatissime frasi pronunciate ad Amsterdam, quelle sulla “libertà e la democrazia a rischio quando l’estrema destra è al governo”. Perché, ragiona, il commento della premier contro i magistrati contabili dopo il no della Corte dei Conti al Ponte sullo Stretto di Messina (“ennesimo atto di invasione sulle scelte di governo e Parlamento”) “mi dà sostegno e ragione. E spero di leggere qualche editoriale sulla gravità delle parole della Meloni”. Schlein lamenta il doppio standard dei media, su di lei e Meloni: “Delegittimare la Corte dei conti significa disconoscere il principio che la legge è uguale per tutti, a maggior ragione per coloro che gestiscono il potere, perché la Corte è lì per verificare che si amministrino correttamente i soldi dei cittadini italiani”, “Ora ci aspettiamo che accanto alle nostre voci si alzino anche quelle di tanti altri a difesa della separazione dei poteri”. Si appella invece al governo sul Ponte: “Si fermino”. La destra festeggia separatamente il sì alla riforma. Dopo l’aula, i senatori sciamano da Palazzo Madama, ma infilano due uscite diverse. Forza Italia ha convocato un drappello di giovani azzurri a piazza Navona, a fare da sfondo alle interviste dei big (Maurizio Gasparri, Paolo Barelli, Francesco Paolo Sisto). I ragazzi non scandiscono slogan, non hanno neanche portato la musica, e finiscono per farsi foto ricordo sotto il manifesto con la foto di Silvio Berlusconi. Fratelli d’Italia improvvisa un flash mob nella adiacente piazza di San Luigi dei Francesi. La Lega marca visita. La verità è che non festeggia: Matteo Salvini è furibondo per il no della Corte dei conti al “suo” ponte e non pensa ad altro. E la riforma della magistratura è quella che voleva Fi, mentre invece l’autonomia differenziata, quella che la Lega aveva preteso nell’accordo di governo, è stata bocciata dalla Corte costituzionale. Ai senatori leghisti non resta che prendere il trolley e tornare al Nord. A onor del vero però anche le opposizioni organizzano conferenze stampa separate. Giuseppe Conte chiama i cronisti a San Luigi dei Francesi subito dopo che Fdi ha lasciato libera la piazza. Si presenta con i magistrati di riferimento del M5s: Cafiero De Raho, ex Procuratore nazionale antimafia oggi deputato, e Roberto Scarpinato, ex procuratore capo ed ora senatore. Schlein poco dopo invece parla dall’aula convegni del piano terra. “Non abbiamo ancora coordinato le iniziative, ma presto lo faremo”, dice. Ma l’ex ministro Stefano Patuanelli, intercettato dai cronisti nei corridoi mentre si allontana con Conte, ammette che un primo tentativo di coordinamento non è andato in buca. “Ieri (mercoledì, ndr) per ore ha ballato un comunicato congiunto. Ma poi abbiamo appreso della loro conferenza stampa”. In realtà la conferenza stampa Pd era convocata da giorni, ma appunto, come appuntamento di partito. A sinistra, per ora, c’è no e no. M5s attacca la riforma “che voleva Licio Gelli”, i dem puntano “a stare sul merito” del testo approvato. C’è tempo per alzare i toni. Schlein aspettano la premier al varco: è convinta che finirà per chiamare un referendum su di sé. Il Nazareno ricorda il voto sulla riforma Renzi-Boschi del 2016 e spera la personalizzazione sia di nuovo una trappola: “Meloni ha detto che non vuole politicizzare il referendum. Però ieri ha detto che la riforma della giustizia e quella della Corte dei Conti sono la risposta alla decisione della Corte”, dunque “è lei quella che vuole politicizzare”. La battaglia referendaria non sarà semplice. Primo, perché si tratta di mobilitare il proprio elettorato per non consegnare alla destra i “pieni poteri”. Secondo, perché al momento le forze in campo non sono molto ampie: il campo largo è ridotto al nucleo Pd-M5s-Avs. Gli alleati centristi si chiamano fuori. Non solo Azione, che in aula ha votato sì. Il fatto è che Italia viva si è astenuta. E Matteo Renzi ha scandito la sua equidistanza dagli schieramenti: “Sbaglia la destra a parlare di riforma epocale e sbaglia la sinistra a dire “aiuto arrivano i pieni poteri”. Non arrivano né l’una né l’altro. Questa riforma non è drammatica, è l’ennesima arma di distrazione di massa”. Terzo: il Pd potrebbe scoprire di avere anche un problema di compattezza interna. Per il momento Schlein nega con forza: “Il Pd è stato compattamente, in tutti i passaggi, in commissione e in aula al Senato e alla Camera, contro questa riforma. La linea del Pd è questa, è compatta e ci impegnerà nella direzione del referendum”. Vero. Infatti l’elenco dei garantisti dem che hanno messo a verbale il loro sì alla riforma è breve, almeno per ora: Goffredo Bettini, Vincenzo De Luca, e l’area di LibertaEguale, quella di Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Giorgio Tonini e Claudia Mancina. Il punto è che per mobilitare tutto l’elettorato bisognerà mobilitare anche l’ala riformista e garantista del gruppo dirigente. Sul tema, per ora, resta tiepida. Giachetti ci dice perché il Governo sta già auto sabotando una riforma giusta di Luca Roberto Il Foglio, 31 ottobre 2025 Il deputato di Italia viva ed ex radicale: “Al referendum spero vinca il sì, ma credo anche che chi ha a cuore questi principi garantisti abbia iniziato con il piede sbagliato. Usare la clava non serve”. “Sono quarant’anni che facciamo battaglia su questi temi”, dice Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, voce storica dei radicali e da sempre tra i più convinti sostenitori della separazione delle carriere. “Io mi batto per questo obiettivo dai tempi di Pannella e Bonino, quando nei nostri congressi si parlava di giustizia come di un diritto da difendere, non come di un campo di battaglia per le correnti o per i governi”. Giachetti, che ha sottoscritto la proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione delle Camere penali da cui è nato l’attuale dibattito parlamentare, ricorda che “non è certo in questa legislatura che abbiamo scoperto il valore di una giustizia ordinata e responsabile. Quando i radicali e poi i consigli regionali presentarono il referendum sulla separazione delle funzioni, noi di Italia Viva lo sottoscrivemmo. E’ nel nostro Dna politico e anche nel programma elettorale”. Ma il sì convinto di Giachetti al referendum non si traduce in un’adesione acritica alla linea del governo. “Sono contrario al fatto che abbiano tolto l’obbligatorietà dell’azione penale”, spiega. “E spero che nel referendum vinca il sì, ma credo anche che chi ha a cuore questi principi garantisti abbia iniziato con il piede sbagliato. Usare la clava non serve. E la cosa più demenziale che si possa fare”. Il riferimento è al clima politico in cui la riforma è stata inserita, più che al merito. “Usare il tema della separazione delle carriere per coprire i problemi che ha il governo - dal ponte al caso Almasri - significa volerla buttare in caciara”, dice Giachetti. “Ed è un peccato, perché così si rischia di compromettere una battaglia giusta. Se la riforma diventa un espediente, un’arma di distrazione, si crea il terreno perfetto per far fallire il referendum”. Nel suo intervento alla Camera del 16 settembre, Giachetti aveva già ricordato che “sul principio e sul tema della responsabilità e della separazione delle carriere è difficile trovare qualcuno più convinto di me. Ne siamo convintissimi, e abbiamo agito in tutte le istanze possibili affinché questo percorso potesse andare avanti”. Ma ha anche rimarcato un punto dolente: “Avete tolto l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale”. La coerenza radicale di Giachetti non lo porta però a indulgere in semplificazioni. “Questa non è una battaglia di destra. È una battaglia di civiltà. È la riforma che serve a uno Stato liberale, dove il giudice sia terzo e il pm non abbia il potere di orientare la carriera e la vita degli altri magistrati”. Ma per riuscirci, insiste, serve un clima serio, non propagandistico. “Non si difendono i principi garantisti usandoli come clave. Non si rafforza la giustizia se la si trasforma in un terreno di scontro quotidiano. Si rischia, invece, di renderla meno credibile. E chi ha passato una vita a battersi per la giustizia, come noi radicali, non può accettarlo”. La sua, in fondo, è una doppia fedeltà: alla tradizione garantista e al metodo della riforma. “Io voglio che vinca il sì. Ma voglio anche che vinca per le ragioni giuste. Non per convenienza politica, non per calcolo. Perché la separazione delle carriere non è un favore a qualcuno: è un favore alla democrazia”. Il Governo vuole toghe intimidite e che non disturbino di Marcello Basilico Il Domani, 31 ottobre 2025 Il disegno dietro la riforma è quello di cambiare la collocazione della magistratura nella Carta, dividendola in due e sorteggiando chi deve garantirne l’autonomia. L’approvazione definitiva della riforma costituzionale è avvenuta a tempo di record, come previsto e annunciato. Si apre dunque la stagione del referendum, reso necessario dal fatto che la maggioranza parlamentare è stata inferiore ai due terzi. Più che dei contenuti della legge, peraltro, la maggioranza è sembrata preoccuparsi finora della celerità e del messaggio politico della riforma. Il che già di per sé dovrebbe allarmare qualunque cittadino, visto che parliamo di modificare la Costituzione. Lascia sbigottiti il solo fatto che si concepisca di rivedere la Carta dopo poche ore di discussione, con norme che sono state blindate contro ogni possibile emendamento, accettando il rischio - l’ha detto il ministro Nordio e l’hanno ripetuto altri esponenti della sua maggioranza - di alcune “imperfezioni”, come se il sorteggio integrale dei magistrati che dovrebbero andare a comporre i due nuovi Consigli superiori fosse un dettaglio e se un dettaglio sbagliato potesse restare nel nostro testo costituzionale. Nella relazione illustrativa della riforma sta scritto che una delle sue ragioni fondanti è data dal miglioramento della qualità della giustizia che essa apporterà. Il ministro della giustizia stesso di recente ha confermato ciò che da sempre i magistrati vanno affermando, cioè che la modifica costituzionale non c’entra nulla con l’efficienza del servizio. Nel dibattito pubblico la riforma viene definita “sulla separazione delle carriere”. Tutte le attenzioni della politica (e dell’Unione camere penali italiane) sono focalizzate su questo aspetto. Ora finalmente il presidente del Senato Ignazio La Russa, che è anche avvocato, ha confermato ciò che da sempre i magistrati dicono, cioè che non può essere questo l’obiettivo, visto che i passaggi dei giudici al ruolo dei pubblici ministeri o dei pubblici ministeri al ruolo dei giudici sono ormai una percentuale infinitesimale, grazie alla riforma Cartabia. Quindi, se l’amministrazione della giustizia non ne avrà benefici e l’obiettivo principale della riforma annunciato ai quattro venti è in realtà già raggiunto, perché modificare un’intera sezione della Costituzione? Al cittadino comune sfuggono - anche perché chi ha proposto la riforma si guarda bene dal spiegarli - i tecnicismi che celano le vere, grandi novità del doppio Csm e dell’Alta corte disciplinare. Basta forse un’osservazione a svelare il disegno che vi sta dietro. La chiave di lettura è fornita ancora una volta dal ministro Nordio che, poco meno di un anno fa, interpretò così la filosofia della proposta politica rivolta ora ai cittadini: “Siete contenti della magistratura di oggi? Se non lo siete, votate Sì”. Eccola qua la ragione della riforma: ridisegnare la collocazione costituzionale della magistratura dividendola in due; sorteggiando coloro che nel Consiglio superiore della magistratura dovrebbero meglio garantirne l’indipendenza e l’autonomia dal potere esecutivo; ponendo lei sola - non anche le altre magistrature del nostro Paese! - sotto la scure disciplinare di un nuovo organo (l’Alta Corte), nella quale la percentuale di rappresentanti della politica sarà superiore e le cui decisioni neppure saranno impugnabili in Cassazione, sebbene ciò sarebbe dovuto per Costituzione stessa. Il disegno enunciato nel programma della P2, la campagna di delegittimazione iniziata trentacinque anni fa, contro le “toghe rosse” o i “giudici antropologicamente diversi dalla razza umana”, arrivano insomma alla soluzione finale: non più una magistratura libera di indagare e giudicare qualunque cittadino, il potente come l’uomo qualunque, il funzionario pubblico (magistrato incluso) come l’imprenditore privato, secondo il modello voluto dai padri costituenti, quando era ancora viva l’esperienza della magistratura fascista, asservita al potere. Si torni a un ordine giudiziario burocratico e intimidito, che non disturbi il manovratore al governo. Ma questo davvero vogliono i cittadini? La magistratura fa pulizia delle sue mele bacate di Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 31 ottobre 2025 Nell’inchiesta di Palermo sull’omicidio di Piersanti Mattarella, avvenuto 45 anni fa, l’ex prefetto Filippo Piritore (allora funzionario della Squadra mobile) è indagato per depistaggio. L’accusa è di aver fatto scomparire un guanto rimasto nell’autovettura dei killer e che avrebbe potuto essere utile per risalire agli autori dell’omicidio. Il caso del guanto sparito ha riacceso l’attenzione sui molti casi analoghi che si sono verificati in momenti significativi, talora nevralgici, della storia criminale di Cosa nostra. Alcuni articoli scritti da Mauro De Mauro e riposti in un cassetto della sua scrivania furono trafugati dopo la sua morte. Dopo la strage di via Carini, in cui fu ucciso il generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, furono sottratti documenti custoditi nella cassaforte della Prefettura. Dopo l’uccisione di Giovanni Falcone si constatò la manomissione di parte della sua agenda elettronica. L’incredibile sparizione della “agenda rossa” di Paolo Borsellino, recuperata dalla sua auto appena devastata dall’esplosivo mafioso, ha fatto di tale agenda un simbolo tra i più importanti della lotta antimafia, tenacemente condotta da un movimento che fa capo al fratello, Salvatore, del magistrato ucciso. Completa l’elenco la mancata sorveglianza del covo di Riina, che consentì ai mafiosi di far sparire tutto il materiale che il boss vi custodiva. In questo quadro il fatto addebitato a Piritore, per quanto gravissimo, purtroppo non deve stupire oltremodo. Può essere utile, ponendosi su un piano generale, chiedersi “a chi giova?”. La burocrazia costituisce l’ossatura dell’apparato amministrativo e, in quanto tale, è inevitabilmente soggetta al potere esecutivo e alle sue strutture di vertice. Il guaio è che questo legame, di per sé fisiologico, diventa talvolta patologico: ciò avviene quando il potere esecutivo se ne avvale per esercitare sulla burocrazia pressioni indebite. In altre parole, è ben possibile che i depistaggi rientrino in qualche disegno politico o corrispondano agli interessi politici di qualche fazione. Per fortuna gli eventuali legami oscuri fra amministrazione e politica non sussistono invece tra il potere politico e la nostra magistratura. Questa è sempre stata, e continua ad essere, fondamentalmente sana, nel senso che in linea di principio non è permeabile a pressioni di ordine politico e non risulta interessata da fenomeni di corruzione. E se ciò eccezionalmente accade, è la stessa magistratura che - appena si prospetta al suo interno la possibile esistenza di una mela bacata - sa reagire immediatamente e con la dovuta fermezza: come dimostra il caso dell’ex procuratore di Pavia Mario Venditti, indagato per corruzione in atti giudiziari dai colleghi di Brescia, competenti per territorio, nel caso di Andrea Sempio. E in ogni caso Venditti, qualora avesse effettivamente commesso il reato addebitatogli (anche per lui, come per tutti, vale la presunzione di non colpevolezza) è soltanto un magistrato su novemila, quanti sono i magistrati in Italia. Una mela bacata fra molte sane può esistere in qualsiasi professione e non può certo riflettersi sull’intera categoria. Ma ritorniamo al tema dei rapporti fra politica e magistratura. Abbiamo detto che la magistratura è fondamentalmente impermeabile alle pressioni politiche. Dobbiamo però aggiungere che ciò vale oggi, ma potrebbe essere ribaltato domani, se diventasse legge la separazione delle carriere fra Pm e giudici. Per il semplice motivo (che soltanto chi non è in buona fede può negare) che ovunque esista tale separazione il Pm deve ubbidire alle direttive del potere esecutivo, che può indicare ai Pm i soggetti da indagare e quelli da risparmiare. Sarebbe così calpestato il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Un principio fondante della nostra democrazia, che farebbe un rilevante passo indietro sul piano della tutela dei diritti. Riforma Nordio, la parte civile può ancora appellare il proscioglimento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2025 Lo ha chiarito la Cassazione, con l’ordinanza n. 35419 depositata oggi, affermando un principio di diritto. Anche dopo la cd. riforma Nordio che ha sbarrato la strada all’appello del Pm contro le pronunce di proscioglimento, la parte civile rimane legittimata a impugnare con riguardo ovviamente ai soli capi concernenti la responsabilità civile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 35419 depositata oggi, affermando un principio di diritto. Il GUP di Catanzaro aveva assolto l’imputato dall’accusa di violazione di domicilio (art. 614 c.p.), ritenendo che l’ufficio del sindaco non costituisse privata dimora e che gli accessi fossero avvenuti nell’esercizio delle sue funzioni di dirigente. Contro questa decisione, l’ex sindaco, costituitosi parte civile ha proposto ricorso in Cassazione lamentando l’erronea applicazione della legge penale (articolo 614 Cp), e travisamento della prova. Secondo il ricorrente, infatti, all’epoca l’imputato non era più dirigente, l’ufficio non era aperto al pubblico, né “a tutti i dipendenti comunali”, ed egli aveva comunque la consuetudine di chiuderlo a chiave. La V Sezione penale rileva, per prima cosa, che la parte civile ha proposto ricorso immediato per cassazione contro una decisione di primo grado del marzo 2025, successiva dunque all’entrata in vigore della legge 9 agosto 2024, n. 114. Come è noto, prosegue, la norma è tra l’altro intervenuta, mediante l’art. 1, co. 1, lett. p), sul primo periodo dell’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., che ora stabilisce che: “Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2”. E allora, argomenta la Corte, la scelta processuale del ricorso immediato per cassazione ha come presupposto “la ritenuta operatività della predetta previsione normativa non solo nei confronti del pubblico ministero ma anche della parte civile”. Il potere impugnatorio della parte civile, prosegue la decisione, si radica nell’art. 576 cod. proc. pen. che nel primo periodo del primo comma stabilisce che questa “può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”. Senza dunque porre limiti all’impugnazione se non con “riguardo ai capi risarcitori e condannatori che la riguardano direttamente, ai soli effetti della responsabilità civile”. Su questa linea si sono espresse le S.U. nella sentenza “Lista”, (27614/2007), secondo cui la locuzione “la parte civile può proporre impugnazione...”, non limita detto potere al solo ricorso per cassazione né esclude, espressamente o per implicito, la possibilità dell’appello. E le S.U. sentenza “Cecchini” (n. 23406/2025) la quale ha precisato che le limitazioni all’impugnazione dell’art. 593, co. 3, cod. proc. pen. (nella formulazione, applicabile ratione temporis, anteriore all’intervento, operato anche su detto comma, dalla legge n. 114 del 2024), non si applica all’impugnazione della parte civile. Per i giudici simili ragionamenti operano “a maggior ragione nella fattispecie in esame nella quale, invero, la disposizione espressa dall’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., come novellata dalla legge n. 114 del 2024, a differenza di quanto avviene ancora all’attualità per il comma 3 della stessa disposizione, non contempla un’inappellabilità ‘in ogni caso’, bensì limitata sul piano soggettivo al Pubblico Ministero”. La V Sezione ha così affermato il seguente principio di diritto: “L’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., nella formulazione novellata dall’art. 2, comma 1, lett. p), della legge 9 agosto 2024, n. 114, laddove prevede che il pubblico ministero non può appellare le pronunce di proscioglimento per i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2 del medesimo codice, non trova applicazione per la parte civile, sia in quanto fa espresso riferimento al solo pubblico ministero, sia perché il potere impugnatorio della parte civile è regolato in via esclusiva, in ragione delle differenti finalità dell’azione civile nel processo penale rispetto all’azione penale del Pubblico Ministero, dall’art. 576 cod. proc. pen.”. Favoreggiamento reale, escluse sospensione del processo e messa alla prova Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2025 La Consulta, sentenza numero 157, depositata oggi, ha dichiarato non fondate le questioni in riferimento all’articolo 168-bis, co. 1, del Codice penale. L’esclusione del delitto di favoreggiamento reale dai reati per i quali è consentita la sospensione del processo e la messa alla prova dell’imputato non determina, rispetto ai reati posti in comparazione, la violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione. Lo ha stabilito la sentenza numero 157, depositata oggi, che ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità sollevate dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Taranto, in riferimento all’articolo 168-bis, primo comma, del Codice penale. Il giudice rimettente ha ritenuto che l’articolo 168-bis, primo comma, del Codice penale, violi gli articoli 3 e 27 della Costituzione nella parte in cui non consente all’imputato, anche su proposta del Pubblico Ministero, di accedere alla sospensione del processo con messa alla prova, in relazione al delitto di favoreggiamento reale (art. 379 cod. pen.). Violerebbe, in particolare, l’articolo 3 della Costituzione perché tale esclusione determinerebbe una disparità di trattamento rispetto ai diversi delitti di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.), induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.), per i quali è invece consentito l’accesso alla messa alla prova. Violerebbe altresì l’articolo 3 anche per disparità di trattamento anche rispetto al reato di favoreggiamento personale. Infine, violerebbe l’articolo 27 della Costituzione perché l’impossibilità di addivenire alla messa alla prova non sarebbe razionalmente spiegabile e comporterebbe l’irrogazione di pene percepite come ingiuste. La sentenza, quanto al primo profilo denunciato (violazione dell’art. 3 Cost.), dichiara la non fondatezza delle questioni sollevate poiché i delitti in comparazione non sono equiparabili né per quanto attiene alla loro struttura, né per quanto attiene ai beni giuridici tutelati. Ciò non permette di prenderli in esame come termine di riferimento per verificare la pretesa lesione del principio di eguaglianza. Inammissibile è invece la questione relativa alla comparazione con il reato di favoreggiamento personale per insufficiente motivazione dell’ordinanza di rimessione. Infondata è, infine, la questione relativa alla violazione dell’articolo 27 della Costituzione: l’esclusione del delitto di favoreggiamento reale dall’ambito di applicazione della messa alla prova non frustra le finalità special-preventive di tale istituto: il reato in esame non può infatti considerarsi di limitata offensività, né indice di una ridotta pericolosità. Per questo delitto l’obiettivo della risocializzazione del soggetto può essere raggiunto mediante altri istituti alternativi alla messa alla prova - quali le misure alternative alla detenzione, nonché la sospensione condizionale della pena - parimente volti a evitare una condanna percepita come non proporzionale. Lecce. Suicidio nel carcere, muore detenuto di 25 anni. “Situazione esplosiva, con 1.400 reclusi” di Francesco Oliva La Repubblica, 31 ottobre 2025 Il ragazzo di origini straniere era stato adottato da una famiglia pugliese e aveva problemi di tossicodipendenza. I sindacati puntano il dito contro il sovraffollamento. Detenuto suicida nel carcere di Lecce. La tragedia nelle scorse ore nel reparto Infermeria di Borgo San Nicola. La vittima aveva 25 anni, origini straniere, da tempo adottato da una famiglia del posto. Il giovane, da quel che si apprende, soffriva di problematiche legate alla tossicodipendenza ed era descritto come un ragazzo molto fragile. L’episodio ha riacceso ancora una volta la denuncia del sindacato della polizia penitenziaria per voce del segretario regionale, Ruggero D’Amato, che ha reso noto l’ennesimo suicidio avvenuto in un carcere pugliese. Il sindacato lamenta da tempo le condizioni di insostenibilità nella gestione del controllo e della sicurezza all’interno della struttura penitenziaria a causa del sovraffollamento e della penuria di agenti in organico. “Siamo di fronte ad un’altra sconfitta dello Stato, in quanto quando una persona privata della propria libertà viene affidata al carcere e poi decide di suicidarsi, questo è da considerare come una sconfitta - commenta D’Amato - il sistema è letteralmente alla deriva in quanto 1.400 detenuti sono gestiti da poco più di 550 agenti, con turni fino a 18 ore consecutive e questo rappresenta una violazione sistematica di leggi e norme in materia sia contrattuale che dal punto di vista igienico-sanitario. Umanamente porgiamo sentite condoglianze alla famiglia del giovane che si è tolto la vita - conclude il segretario del sindacato di polizia penitenziaria - e chiediamo un reale interessamento della politica e delle istituzioni al mondo del carcere, e ringraziamo tutte le donne e uomini della polizia penitenziaria per il grande senso di responsabilità e abnegazione che quotidianamente mettono in campo”. “La notizia del suicidio di un giovane recluso oltre a provocare tristezza per una giovane vita che non siamo riusciti a salvare, ci porta a denunciare con ancora più forza il carcere in Italia e la grave condizione che vive l’istituto penitenziario da molti anni, denuncia l’avvocata Maria Spia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia - il sovraffollamento del carcere leccese è noto a tutte le istituzioni del territorio e alla magistratura a cui ci rivolgiamo, perché intervenga per garantire la legalità all’interno. I numeri sono fuori controllo e il reparto infermeria rappresenta plasticamente un luogo di sofferenza e di isolamento dove mancano spazi adeguati per i passeggi, qualunque forma di attività e un isolamento forzato dovuto alla condizione di fragilità. Antigone - conclude l’avvocata - agirà con tutti i mezzi possibili per denunciare alle corti le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti e le detenute”. Teramo. Detenuto di 35 anni pestato in carcere: è grave in ospedale Il Centro, 31 ottobre 2025 Secondo quanto si è appreso, un detenuto italiano di 35 anni è rimasto ferito gravemente nel corso di una violenta zuffa con un altro recluso di nazionalità straniera: ha riportato gravi traumi al bacino e agli arti superiori e diverse ferite da arma da taglio alle gambe. L’uomo è stato soccorso dal personale di polizia penitenziaria e dopo una prima assistenza in infermeria, in considerazione della gravità delle sue condizioni, è stato trasferito con un’ambulanza del 118 all’ospedale di Teramo in codice rosso. Sulla lite, della quale non si conoscono i motivi, la direzione del carcere aprirà una inchiesta interna. Lo scorso 23 ottobre, un detenuto egiziano era stato pestato a sangue da un gruppo di altri detenuti di nazionalità sudamericana nella sezione “comuni”: anche lui era stato ricoverato con numerosi traumi su tutto il corpo. Roma. Costretti a condividere la cella singola perché gay: l’ultima follia a Rebibbia di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 31 ottobre 2025 Prima di scrivere siamo andati a controllare di persona, perché questa è una storia tanto folle che non sembrava vera neanche a noi. E invece è tutto vero, lo abbiamo visto con i nostri occhi: Zoran e Joao Victor stanno realmente insieme nella stessa cella da una sola persona. Non solo, ma non hanno neanche il lavandino, mentre il WC (come in tutte le celle singole, dette “cubicoli”) è a vista senza nessuno schermo per difendere la privacy. Ma andiamo con ordine. Zoran, un rom con cittadinanza italiana che si dichiara gay, molto matto e incontrollabile, arriva il 30 agosto al nostro braccio G8 per essere messo in parziale isolamento in una cella singola del secondo piano, cioè in un normale reparto di persone detenute comuni. Durante una delle sue crisi di follia, Zoran distrugge il lavandino della sua cella e tenta il suicidio tagliandosi le vene con un frammento di questo lavandino. Dopo essere stato medicato, viene lasciato comunque nella cella rimasta senza lavabo e senza sorveglianza. Nel frattempo il 17 ottobre arriva al G8 Joao Victor, un brasiliano immigrato che si dichiara gay e per questo motivo viene recluso in una cella singola del reparto dei trans, nonostante non abbia ancora intrapreso nessun processo di trasformazione sessuale (gli altri trans dicono perché l’endocrinologo non si fa vedere da tempo…). Peccato che la cella in cui viene rinchiuso ha un piccolo problema: non ha i servizi igienici, né lavandino, né wc. Per cui Joao Victor di giorno ha chiesto asilo alle celle vicine, mentre di notte ha dovuto utilizzare il classico secchio (scusate, non è una bella storia, ma è solo la realtà…). Per quattro giorni le cose sono andate avanti così, finché l’Amministrazione, resasi conto dell’insostenibilità della situazione, ha avuto una brillante idea: trasferire Joao Victor nella stessa cella di Zoran. Hanno montato un letto a castello e così, dove c’è posto solo per una persona (in condizioni disagiate) adesso sono rinchiusi in due. Come abbiamo detto il lavandino non è stato ancora ricostruito, mentre c’è solo un wc che, come in tutte le celle singole, non ha nessuna copertura per garantire un minimo di privacy. E così, da cinque giorni, Zoran e Joao Victor convivono in assoluta intimità, di letto e di cesso, nello stesso “cubicolo” dove avranno circa un metro quadro di spazio ciascuno, quando i regolamenti europei impongono che ogni detenuto abbia almeno 3 mq a testa, altrimenti le condizioni di vita sono dichiarate “inumane” e vengono equiparate alla “tortura” (art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Questa intimità è rafforzata dal fatto che entrambi non possono andare all’aria neppure per un’ora, né con le persone detenute comuni, perché sono gay, né con gli altri detenuti transessuali perché questi stanno in un altro reparto al piano terra. Come vogliamo catalogare questa vicenda? Come una storia di ordinaria follia da sovraffollamento, cioè la dimostrazione che a Rebibbia, dopo il blocco di Regina Coeli per il crollo del tetto, non c’è più nessuno spazio e l’amministrazione non sa dove mettere le persone che hanno qualche problema? Questo nonostante negli altri bracci anche le salette per la convivialità siano state trasformate in celle per 12 persone. Oppure si tratta di una brillante idea per garantire il “diritto all’affettività”? Stiamo parlando del diritto ad incontri intimi con il proprio partner sancito da una sentenza del 26 gennaio 2024 della Corte Costituzionale, come avviene in quasi tutti gli altri paesi europei. Dopo più di un anno e mezzo, secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, solo 32 istituti su 189 dispongono di spazi idonei per questi rapporti intimi. Tra questi istituti fortunati ovviamente non c’è Rebibbia. E, allora, vuoi vedere che l’Amministrazione abbia voluto rimediare per almeno 2 delle 1576 persone detenute, mettendole nella stessa cella? Peccato che si tratti di un matrimonio combinato e nessuno ha chiesto a Zordan e a Joao Victor se gradiscono questa soluzione. Come vedete, non si sa se ridere o piangere. Ma sappiate che, a Rebibbia come in tutta Italia, siamo vicini al disastro. Nel frattempo ci auguriamo che qualcuno intervenga per riammettere Zordan e Joao Victor nell’ambito dei diritti elementari appartenenti a tutti gli esseri umani, anche se detenuti. Roma. La giustizia riparativa, per una pena che rieduca di Salvatore Tropea romasette.it, 31 ottobre 2025 L’incontro sul progetto Comunità educante con i carcerati, promosso dalla Pastorale carceraria della diocesi di Roma. Trincia: “Un’alternativa valida al carcere, strada da percorrere con urgenza”. Da una giustizia retributiva a una riparativa, da una pena che è solo condanna a una che rieduca. È la strada indicata dalla Pastorale carceraria della diocesi di Roma, che ha ripreso a pieno regime le attività del nuovo anno pastorale, con l’incontro di ieri, giovedì 30 ottobre, al Pontificio Seminario Romano Maggiore con Giorgio Pieri, coordinatore e ideatore del progetto Comunità educante con i carcerati (Cec) della Comunità Papa Giovanni XXIII. “Non bisogna parlare di pene alternative ma educative - ha esordito - e aprire gli orizzonti al mondo del volontariato, di chi va all’interno delle carceri non per giudicare ma per educare”. Per Pieri, che è anche un diacono, “fare comunità è fondamentale per tendere concretamente la mano a chi è in carcere”. La Cec infatti accoglie i detenuti che hanno meno di quattro anni di condanna da scontare o anche chi è “solo” imputato, come precisa Pieri, “con l’obiettivo di costruire qualcosa al di fuori e non al di dentro del carcere, quindi per il dopo”. Con i suoi oltre 25 anni di esperienza ha portato la sua testimonianza “sul ruolo del singolo volontario: è colui che ama gratuitamente, in modo puro, incondizionato, non chiede nulla”. Insomma, il Vangelo al servizio di chi è in carcere, con lo scopo “di cambiare un sistema oggi malato, quello carcerario italiano - racconta sempre Pieri -, che non riesce ad arginare la piaga di circa il 75% di ex detenuti che finisce per delinquere ancora, spesso con reati ancora più gravi”. Di qui la visione di “Chiesa come ospedale da campo, come diceva Papa Francesco”. A dialogare con gli oltre 60 presenti tra volontari, religiosi, religiose e operatori del settore, anche Giustino Trincia, direttore della Caritas di Roma, a cui fa riferimento la Pastorale carceraria. “Un’alternativa valida al carcere non solo è possibile ma è una strada da percorrere con coraggio e urgenza - ha spiegato -, per rispondere alle sofferenze inutili e alla violazione dei diritti fondamentali. Si tratta di fratelli e sorelle che pagano, giustamente, per i reati commessi ma questo non deve mai far perdere di vista l’umanità”. Per Trincia la strada delle Comunità educanti è quella giusta “perché - ha aggiunto - sta crescendo la sensibilità anche tra i vari attori della giustizia, dai magistrati agli avvocati, ai direttori delle carceri, e tra le forze dell’ordine, anche loro spesso costrette a condizioni pesanti e che si scontrano con i limiti e le contraddizioni dell’attuale sistema detentivo”. Il coordinatore del progetto Cec ha portato all’attenzione dei presenti anche la novità, risalente allo scorso 15 settembre ma passata in sordina, dei decreti attuativi circa le nuove disposizioni in materia di accoglienza e reinserimento dei detenuti, in particolare con la creazione di un albo delle comunità. “Un piccolo ma fondamentale passo nella giusta direzione”, ha commentato, per poi citare la sua esperienza con la Comunità Papa Giovanni XXIII. “Dal 2004 a oggi abbiamo accolto circa 4mila detenuti senza nessun riconoscimento economico, né un contributo. Pensate alle potenzialità avendo molte più risorse a disposizione”. Il tutto, ci tiene a precisare, in un’ottica “di estremo rispetto soprattutto per le vittime o i familiari delle vittime di chi ha commesso un reato. Essere comunità educante infatti - ha concluso - non significa banalmente ridare una vita dopo la detenzione, ma dare a chi ha sbagliato consapevolezza dei propri errori, per diventare una persona nuova e restituire tale rinascita anche a chi ha sofferto per causa sua”. Roma. Famiglie dei detenuti condannate alla prigione dell’abbandono di Ciro Salvucci e Piero Di Domenicantonio L’Osservatore Romano, 31 ottobre 2025 Da che mondo è mondo, la famiglia si riunisce sempre al momento del pasto. Per questo, a Roma, c’è un posto dove la tavola è sempre imbandita e c’è posto per tutti. È il centro dell’associazione Vo.Re.Co. (Volontari Regina Coeli), in via della Lungara, nel cuore di Trastevere. Nato nel 2012 come punto di raccolta di abiti e cibo per i detenuti del carcere che sta proprio lì di fronte, ben presto è diventato la casa di una grande famiglia, aperta tutti i giorni a tutti coloro che hanno bisogno. Chi arriva trova sempre un aiuto, un consiglio, un sostegno, perché Vo.Re.Co. non è solo una mensa, è molto di più. Il merito è dei tanti volontari - come Angela, una vera e propria colonna - che hanno condiviso il sogno di padre Vittorio Trani, il cappellano di Regina Coeli, mettendo a disposizione di chi si trova in difficoltà, dentro e fuori dal carcere, tempo, competenze e, soprattutto, umanità. Chi chiede trova: cibo, abiti, ma anche assistenza medica (oltre all’ambulatorio è attivo, ogni 15 giorni, un servizio di analisi cliniche), consulenza legale e burocratica. Qui, la speranza c’è. La senti. Ti contagia. È mattina presto quando arriviamo davanti alla sede dell’associazione. C’è già una bella fila di persone. Un uomo con la barba lunga e lo zaino sulle spalle è appena uscito dalla chiesetta di San Giacomo a Porta Settimiana che sta lì accanto. La messa è finita da poco e, mentre aspettiamo di incontrare padre Vittorio, il fondatore e l’animatore della Vo.Re.Co., ci scambiamo le nostre prime impressioni. C’è la sorpresa di chi, tante volte, è passato da queste parti chiedendosi perché ci fosse gente in fila per entrare in quello che, all’apparenza, gli era sembrato un negozietto di abiti usati e cianfrusaglie per amanti del vintage. E c’è la commozione di chi, invece, ha trovato un porto sicuro: “Padre Vittorio mi ha sempre incoraggiato ad andare avanti e non tornare più indietro. È riuscito a farmi vedere il bicchiere mezzo pieno anche quando pensavo che fosse completamente vuoto”. Francescano conventuale, padre Vittorio ci accoglie con un sorriso, come fa con tutti, e ci invita a sederci nell’ufficetto del centro che, una volta a settimana, diventa anche caf, farmacia di strada e tutto quello che serve. Siamo arrivati per parlare di una povertà nascosta: quella delle famiglie dei detenuti in gravi difficoltà economiche. Il cappellano di Regina Coeli non si perde in chiacchiere, ma ci racconta subito una storia. “È quella - dice - di un cittadino americano con doppia nazionalità: viveva in Australia dove si era sposato. Era stato arrestato a Fiumicino, mentre aspettava l’aereo per tornare dalla moglie. Aveva con sé della marijuana. Portato a Regina Coeli, è stato processato per direttissima e condannato a tre anni e qualche mese. Informato dell’arresto e della condanna, il consolato australiano ha subito inviato dei funzionari che, dopo aver incontrato l’uomo, hanno immediatamente attivato i servizi sociali del loro Paese perché si accertassero delle possibilità economiche della moglie rimasta da sola. Constatato che la donna aveva un reddito di 700 dollari australiani, insufficiente per condurre una vita dignitosa, hanno riconosciuto alla signora un sussidio di altri 700 dollari australiani perché non fosse anche lei a pagare per il reato commesso dal marito. L’aiuto le è stato concesso fino a quando non è arrivata la notizia che il marito era uscito di prigione e poteva tornare in Australia”. “Questo - spiega padre Vittorio - per dire: io, Stato, ti arresto, perché hai commesso un reato, ma mi preoccupo di chi resta fuori, della tua famiglia. Ho raccontato questa storia a ministri, politici, a chiunque sia capitato qui...”. E come hanno reagito? “Purtroppo, da noi le cose sono ben diverse. Il familiare di un detenuto che si trova in difficoltà economiche può inoltrare una richiesta. Se ci sono i fondi gli viene corrisposto qualcosa, una tantum. Poi si crea il vuoto. Per le famiglie dei carcerati le istituzioni sono latitanti, non ci sono”. Cappellano di Regina Coeli dal 1978, padre Vittorio ci spiega così come il carcere non è solo quello che sta dietro le sbarre di una prigione. C’è un carcere anche per le famiglie dei detenuti, come pure per chi è povero e, una volta scontata la pena, si ritrova senza casa, lavoro e una rete di relazioni. L’associazione Vo.Re.Co. si prende cura di tutti. In particolare, alle famiglie offre beni di prima necessità e assistenza nei complicati iter burocratici per avere notizie dei congiunti in carcere o anche un semplice colloquio. L’associazione ha anche aperto un piccolo centro di accoglienza per persone senza dimora. In tutto, 18 posti letto, alcuni dei quali riservati ai carcerati in permesso premio o a persone appena rimesse in libertà. Possono alloggiare fino a quando non trovano una sistemazione autonoma e un lavoro per mantenersi. Mentre ascoltiamo padre Vittorio, è difficile non ripensare alle esperienze che ciascuno di noi, in modo diverso, ha fatto del carcere. Anche la fitta dovuta a una vertebra lesionata torna a farsi sentire e, ancora di più, il dolore per le umiliazioni subite. Padre Vittorio non si scompone di fronte alle lacrime. Ne ha viste tante e anche le nostre le accoglie con un sorriso buono e lo sguardo di chi sa vedere oltre, oltre le apparenze e il pregiudizio. “La lezione più importante che ho imparato in carcere - ci dice - è questa: essere cauti nei giudizi. Noi vediamo le cose dall’esterno, ma non sappiamo leggere dentro. Quante volte in carcere ho potuto toccare con mano la differenza tra ciò che si diceva di una persona e quella che era veramente. I giornali alimentano la morbosità della gente avventandosi sulle persone come piranha sulla preda. Mai fidarsi delle chiacchiere. Quello che una persona ha veramente dentro tu non lo puoi sapere”. Questa lezione - “la lezione delle lezioni, perché incarna lo spirito cristiano”, dice padre Vittorio - l’hanno imparata bene i tanti volontari che animano le diverse attività del centro e ogni seconda domenica del mese affollano la chiesetta di San Giacomo per partecipare alla messa. “Li chiamo i miei boys - dice il sacerdote - anche se hanno i capelli bianchi come i miei”. Così il centro si è aperto per soccorrere ogni forma di povertà. Una in particolare ci colpisce: è quella dei genitori che da tante parti d’Italia e del mondo portano i figli al vicino ospedale Bambino Gesù per farli curare, ma non hanno risorse economiche per potersi pagare un alloggio a Roma. “Di solito - spiega padre Vittorio - le mamme possono restare in ospedale accanto ai figli. La stessa cosa non è prevista per i papà. Grazie all’aiuto della parrocchia di Santa Dorotea, che ha messo a disposizione delle stanze, dal 2017 diamo un alloggio gratuito anche a loro. Stanno lì per tutto il tempo che il bambino è ricoverato. Fino ad oggi ne abbiamo ospitati 760. Ricordo ancora un papà libico che è stato con noi più di un anno. La figlia ha dovuto subire diverse operazioni e, purtroppo, non ce l’ha fatta a sopravvivere. Ma quei giovani genitori le sono potuti rimanere vicino, insieme, fino all’ultimo”. Prima di salutarci e tornare ai suoi impegni in carcere, padre Vittorio ci invita a prendere un caffè al bancone del centro dove si distribuiscono le colazioni. Il sapore è forte, come piace a noi, ma si avverte pure un aroma speciale che non trovi nell’espresso del bar. Sa di amore e di benedizione, quell’amore e quella benedizione che - racconta uno di noi - “ho sentito tante volte quando mi mettevo in fila per prendere il sacchetto della cena. Non mi vergogno a dirlo, anzi, ne vado orgoglioso”. Busto Arsizio. Dentro il carcere, per riscoprire la voglia di giocare (pulito) di Veronica Rossi vita.it, 31 ottobre 2025 Nella casa circondariale di Busto Arsizio, grazie al Csi l’attività sportiva diventa strumento di inclusione e rinascita col progetto “Liberamente sportivi”. Allenamenti, tornei e un corso per arbitri aiutano i giovani detenuti a ritrovare fiducia e a costruire nuove possibilità, dentro e fuori dal campo. “Il carcere è un mondo che non si conosce per niente, a meno di non aver avuto qualcuno vicino che è o è stato recluso. Se ne sente parlare solo per sentito dire, per quello che si legge sui giornali, per le polemiche dei politici. Quando però entri dentro un penitenziario, cambi completamente atteggiamento. Ti accorgi che molti dei detenuti non sono dei mostri, ti accorgi che tanti sono ragazzi che avrebbero potuto avere un futuro diverso se avessero avuto una persona che, al momento giusto, avesse detto loro: “Ma cosa stai facendo? Fermati, ti do una mano io”“. Michele Lepori, vicepresidente del comitato di Varese del Centro sportivo italiano - Csi, descrive così il suo incontro con la Casa circondariale di Busto Arsizio, in cui l’associazione già entra portando attività legate allo sport sociale e in cui amplierà la propria presenza grazie al progetto “Liberamente sportivi”, finanziato da Sport e salute, che prevede oltre 100 ore di allenamenti di pallavolo basket, scacchi e calcio. “Abbiamo cominciato perché un’associazione che è nostra partner, che si chiama L’Altropallone, ci ha coinvolti”, continua Lepori. “Abbiamo iniziato a portare delle squadre esterne dei nostri campionati a fare delle aichevoli. Così, abbiamo deciso di scrivere questo progetto”. Al momento, sono già iniziati gli allenamenti con un gruppo di giovani adulti fino ai 24 anni, una parte importante della popolazione carceraria di Busto Arsizio. Verrà organizzato anche un vero e proprio torneo, in cui le persone detenute giocheranno sempre in casa, ricevendo altri team. “Il contatto con l’esterno dà a questi ragazzi una boccata d’ossigeno, perché sappiamo bene come può essere la vita all’interno di una casa circondariale”, commenta Lepori. “Da parte di chi entra all’inizio ci sono dei timori e dei pregiudizi, che però vengono presto dimenticati quando si inizia a giocare. Utilizzare lo sport permette di abbattere le sovrastrutture che una persona ha in testa e di creare dei bei rapporti”. Le società che sono entrate a giocare in carcere, infatti, chiedono spesso di tornare. I ragazzi detenuti scendono in campo con la voglia di giocare e basta - dicono -, non ci sono polemiche con l’arbitro o con gli avversari. “Si sente proprio l’importanza per loro delle due ore che passiamo assieme”, commenta il vicepresidente del Csi di Varese. “Dà loro un obiettivo, un momento di sfogo”. Nel progetto sono coinvolte anche altre realtà del Terzo settore, come la cooperativa Intrecci, che aiutano nel processo di selezione dei partecipanti agli allenamenti e alle partite. I giovani, però, non saranno solo coinvolti nel gioco, ma saranno destinatari anche di una formazione: all’interno della casa circondariale partirà un corso arbitri, che li certificherà come arbitri ufficiali di calcio a sette per il Csi. “Una volta usciti, se rimarranno in zona, perché essendo vicini a Malpensa molti sono persone che hanno commesso reati all’aeroporto e che dopo torneranno nel loro Paese, potranno arbitrare le nostre partite”, commenta Lepori. Molte delle società sportive coinvolte dal Csi hanno una vocazione sociale e sono particolarmente sensibili ai contesti sociali svantaggiati e alla mancanza di possibilità che hanno fatto finire i ragazzi - anche molto giovani - dietro le sbarre. “Ci sono alcune società che si sono offerte di ospitare i detenuti una volta usciti, altre sono arrivate con dei palloni da regalare”, conclude Lepori, “perché si accorgono oche si tratta di giovani che se avessero trovato una mano tesa al momento giusto non darebbero finiti in questa situazione”. “Il silenzio dentro” di Francesca Ghezzani: un resoconto lucido all’interno e intorno alle carceri di Rossella Montemurro tuttoh24.info, 31 ottobre 2025 “Oggi le carceri si sono trasformate in grandi caravanserragli: sono piene di folli, di disadattati, di uomini e donne che hanno delinquito perché espunti dal mondo del lavoro, perché scarto delle crisi economiche, della perdita di lavoro, di mancanza di case; oppure di giovani, indigeni o stranieri, che non sono stati correttamente investiti di responsabilità sociali e verso i quali la scuola e le istituzioni formative tradizionali hanno fallito la propria missione, studenti non sintonizzati con il vivere civile che, forse, a essi non è stato mai spiegato o fatto comprendere come ricchezza sociale e non come mera limitazione di diritti”. Dalle parole di Enrico Sbriglia, penitenziarista, Former dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria Italiana, si evince la situazione critica del sistema carcerario. Sbriglia è una delle numerose voci che si alternano nel reportage della giornalista Francesca Ghezzani Il silenzio dentro. Quando raccontare diventa un atto di giustizia (Swanbook edizioni), un lucido resoconto all’interno e intorno alle carceri italiane per raccontare, con sguardo costruttivo, le molteplici realtà che vivono dietro e oltre le sbarre. La Ghezzani ha raccolto testimonianze, analisi e riflessioni intervistando carcerati, ex detenuti reinseriti nella società e figure autorevoli del panorama istituzionale e associativo: esperti di criminologia e psichiatria forense, giornalisti, operatori della comunicazione, esponenti del clero e sociologi. I temi trattati sono trasversali - finanza e imprenditoria sociale, economia carceraria e circolare, upcycling e il rapporto tra giustizia penale e intelligenza artificiale. Accanto a quella di Sbriglia ci sono, tra le altre, le voci di Alessio Scandurra (Coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle carceri), Monica Bizaj (Presidente di Sbarre di Zucchero APS), Claudio Bottan e Mirko Federico (Attivisti), Candida Livatino (Perito grafologo), Carmela Pace (Presidente UNICEF Italia), Don Luigi Ciotti, Pino Cantatore, Kento, Valeria Corciolani. Non mancano numerosi operatori che ogni giorno lavorano per un sistema penitenziario che mette in pratica quanto previsto dall’Art. 27 della Costituzione. Secondo la psicologa Antonella Cortese “Le carceri sono, di fatto, specchi di un sistema che non funziona: gli spazi non adeguati, la mancanza di supporto psicologico, e l’alto numero di detenuti sono fattori che aumentano il rischio di violenza e il senso di abbandono, sia per i detenuti che per chi lavora in queste strutture. Le istituzioni, pur riconoscendo tali criticità, raramente agiscono con la rapidità necessaria per migliorare la situazione”. Per la criminologa Anna Palermo “la prima grande contraddizione che caratterizza il carcere è la sua sostanziale “incompatibilità” con la funzione rieducativa e risocializzante della pena, questo perchè il carcere produce come primo inevitabile effetto quello della desocializzazione, non privando soltanto il detenuto della libertà personale, rompendo drasticamente qualsiasi legame affettivo, relazionale, lavorativo, con la conseguenza che una pena che genera desocializzazione non potrà mai essere in grado di generare risocializzazione, da qui sorge il mito della rieducazione/risocializzazione della pena”. Spicca il ruolo dei magistrati, un lavoro che, precisa Santino Mirabella, deve essere affrontato come una missione perché non ha nulla di personale o egoistico, deve contenere in sé il massimo della attenzione, il massimo dello scrupolo, il massimo della coscienza. E anche il massimo della empatia, in quanto il giudice purtroppo “vive e lavora” nel e sul dolore altrui, o per cercare di ripararlo o, addirittura, per infliggerlo. Anche una condanna “giusta” è una condanna che regala dolore al condannato”. L’idea del libro, per l’Autrice, è nata tempo fa, ma ha trovato piena conferma dopo la sua visita, nel 2023, a una Casa di Reclusione nelle vesti di giornalista: “Da allora mi sono chiesta, senza cedere alla retorica del buonismo e consapevole che non tutti sono pronti o disposti a cambiare, cosa serva davvero perché la giustizia compia il suo percorso e chi ha commesso un reato, ma desidera ricominciare, possa contare su un reale reinserimento che lo tenga lontano dalla recidiva. Come fare in modo che la libertà ritrovata non faccia più paura della prigione stessa? E che la detenzione, se vissuta come un autentico processo di rieducazione, diventi un investimento per chi la attraversa e una garanzia per l’intera società e la sua sicurezza?”. Per l’editore Aurelio Armio “questo libro dai contenuti spesso sorprendenti e, se vogliamo inquietanti per gli argomenti che tratta, si può leggere come se fosse un grande romanzo che induce alla riflessione il lettore. Del resto non potevamo aspettarci nulla di diverso da una grande giornalista come Francesca Ghezzani che da oltre un ventennio è autrice e conduttrice di programmi di informazione che affrontano temi sociali a 360°”. Il silenzio dentro ha la prefazione di Assunta Corbo, giornalista, autrice e presidente Constructive Network che lo ha definito “un libro necessario per il momento storico che stiamo vivendo e anche per il nutrimento delle coscienze di ognuno di noi” e la postfazione curata dal critico letterario Claudio Ardigò da anni attivo nel volontariato in carcere che ha trovato nell’opera “il racconto di chi si è messo in gioco, di chi si è confidato, di chi si è perso, di chi si è tolto una maschera”. Il reportage della Ghezzani è una disanima puntuale e precisa che non dimentica nessuna delle voci a vario titolo implicate nel sistema carcerario, diventando così un manifesto di giornalismo costruttivo, dove la narrazione diventa strumento di consapevolezza e cambiamento: un invito ad ascoltare, comprendere e agire, perché raccontare può essere il primo passo verso la giustizia. Biografia autrice - Giornalista, autrice e conduttrice televisiva, si laurea in Scienze Linguistiche e Tecniche dell’Informazione e della Comunicazione e frequenta poi un corso di Specializzazione in Tecniche di Produzione nell’Audiovisivo e nel Multimediale. Alla ultraventennale professione nel giornalismo televisivo affianca collaborazioni radiofoniche e con testate nazionali. Parallelamente, ha collaborato con istituti in qualità di docente di comunicazione ed eventi ed è annoverata tra i contributors di diverse pubblicazioni editoriali dedicate al giornalismo e al sociale. Nel dicembre 2022 all’8^ edizione della kermesse “Storie di Donne. Premio Eccellenze in Rosa” si aggiudica il premio per la Categoria Donna & Informazione TV. Nel maggio 2024 riceve il Premio “Donna Territorio e Cultura 2024” per la sezione Giornalismo d’Approfondimento all’interno del premio artistico e letterario ideato e promosso dall’Associazione Culturale Swanbook. Ad aprile 2025 riceve il “Premio Eccellenza alla Carriera” per volere della Giuria del Premio Letterario Internazionale Omaggio a Pasolini e a maggio dello stesso anno viene premiata a Minori con il riconoscimento “MarediCosta comunicazione”. È tra i soci fondatori dell’Associazione “Constructive Network -APS”. Cordoglio ipocrita di uno Stato forte coi deboli di Franco Corleone L’Espresso, 31 ottobre 2025 Al funerale dei tre carabinieri morti a Castel D’Azzano, in provincia di Verona, alla presenza delle più alte cariche dello Stato, dal presidente Mattarella alla presidente del Consiglio Meloni, il ministro della Difesa Crosetto ha proclamato con commozione che i loro nomi resteranno scolpiti nella roccia della memoria del Paese. È una bella immagine per me che da bambino ho ascoltato Stelutis alpinis, il canto friulano degli alpini, morti eroicamente in montagna, ma obbliga a porsi degli interrogativi rispetto al paragone con i caduti di Nassiriya. A me è venuta in mente invece una strage dimenticata, quella di Peteano avvenuta il 31 maggio del 1972 a opera di un gruppo neofascista, in cui furono uccisi tre carabinieri e due rimasero feriti. Lo Stato cercò di depistare la natura dell’attentato additando come responsabile Lotta Continua; per fortuna Marco Boato svelò un grave momento della strategia della tensione. Che cosa non convince nella rappresentazione offerta dalle istituzioni, dai TG e dalla stampa della strage di Castel D’Azzano? In primo luogo, la dinamica dell’azione per lo sgombero di tre persone conosciute da tempo dal Comune per una condizione di vita emarginata, con le loro vacche nella cascina, senza luce e senza gas. L’operazione è stata condotta di notte con un dispiegamento esorbitante di decine di carabinieri come se si trattasse dell’assalto a una sede di un gruppo terroristico. Chi ha immaginato questa modalità? Non sarebbe stato più sensato andare al mattino, armati di megafono e supportati da psicologi e assistenti sociali per convincere i due fratelli e la sorella a uscire dalle stanze dove erano asserragliati? Per vincere la loro resistenza, legata a una forma di psicosi di persecuzione, si sarebbe potuto semmai agire con idranti e lacrimogeni o altri mezzi non letali. Invece sono stati mandati allo sbaraglio militari esperti (con addirittura tredici feriti, oltre ai tre morti), senza evidentemente valutare i rischi dello scoppio delle bombole di gas predisposte da parte di soggetti disturbati per la difesa del loro mondo minacciato e perduto. Risulta ora troppo comodo e ipocrita avvolgere le bare nelle bandiere e ricordare con parole toccanti le vite stroncate, evitando di affrontare le responsabilità e di farsi le doverose domande. Non solo sulla gestione dello sfratto, ma sulle cause che hanno portato una famiglia di onesti lavoratori a sentirsi perseguitata e trovarsi depredata dei loro averi e della loro vita. Valerio Daprà, Davide Bernardello e Marco Piffaro meritano giustizia e verità. Non credo stravagante pensare che si sia diffuso uno spirito bellico anche nelle funzioni di ordine pubblico. Pensiamo anche ai tanti morti per l’uso del taser. Logiche e leggi di “sicurezza” possono uccidere. Le scelte politiche e legislative che portano all’aumento di sgomberi e sfratti, spesso anche nel caso di morosità incolpevole, provocano conflitti e tragedie, come è accaduto recentemente con un suicidio a Sesto San Giovanni. Non è, allora, consolatorio e sufficiente recitare la litania delle vittime del dovere. In ogni caso non ci si può esimere dal farsi domande e dal ricercare responsabilità. Una lezione appare lampante: le prove di forza verso i deboli e lo spirito di odio verso i diversi producono una società incattivita e disumana. Fermiamoci finché siamo in tempo. Due o tre buone ragioni per scegliere la gentilezza di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 31 ottobre 2025 Sostituire la rabbia con la temperanza equivale a un atto politico che libera l’economia della convivenza. Economia circolare. Non è debolezza, rassegnazione, fragilità. Al contrario: è un altro genere di potere, di forza, di energia. Che senso ha parlare di gentilezza? Metterla al centro delle nostre conversazioni e riflessioni? Farci addirittura un Festival? Che senso può avere guardare con interesse al World Kindness Movement, nato a Tokyo quasi 30 anni fa e celebrato ora con una Giornata internazionale il 13 novembre? Il nostro calendario trabocca di giornate speciali che non servono a nulla. Semmai, ci distraggono. E, nel frattempo, il mondo che conta - e tira le somme, a zero, per tutti - ha virato verso l’autoritarismo, l’esercizio della violenza, la velocità estrema che “semplifica” passando come un ferro da stiro su obiezioni e dubbi sparsi. Mentre le guerre si trascinano, gli asili vengono bombardati, il pullman di una squadra di basket preso a mattonate, le donne private della vita a coltellate in faccia… mentre tutto questo accade, e di più ancora, è chiaro che un appello al buonismo non ci salverà né convincerà. Dobbiamo quindi ragionare sulla gentilezza intesa non come polverina magica o sonnifero, bensì in quanto sistema di relazioni e responsabilità. Chiediamoci, quindi, se la gentilezza funzioni. Conviene alle parti in gioco, a chi riceve e anche a chi dona? Proviamo a rispondere, mettendo tra parentesi il senso di giustizia e la bellezza della cortesia - che comunque meriterebbero più spazio e riconoscimento. Il primo punto risale ai nostri antenati. Nelle loro comunità, ristrette e isolate, si conoscevano tutti. I gruppi fondati su principio & pratica della reciprocità si rivelarono più efficienti. Le tribù solidali al loro interno, ha scritto Anna Meldolesi riallacciandosi a uno studio pubblicato su Nature, risultavano “avvantaggiate rispetto alle tribù dove ognuno pensava per sé”. Potremmo concludere che “la coopetizione”, incrocio tra competizione e cooperazione, ha reso in termini di sopravvivenza. Un secondo punto ci arriva dalle neuroscienze. Lo propone Claudio Mencacci, direttore emerito del Dipartimento Neuroscienze e Salute Mentale del Fatebenefratelli-Sacco di Milano, già presidente della Società italiana di Psichiatria. Secondo il professore, ricerche recenti dimostrano che la gentilezza ha un impatto su depressione e ansia perché attiva un’emozione specifica, che si dice “mossa dall’amore” (dal sanscrito Kama muta). È l’emozione che ci scuote, riscalda e com-muove davanti a un gesto gentile. Capace di includere - fino a superare, al rialzo - la passione e il desiderio individuali. L’effetto finale è che ci sentiamo connessi, uniti, integrati. E il malessere viene così contenuto. Tra tribù primitive e termini in sanscrito, queste potrebbero apparirci però vecchie storie, deposte e calpestate dalle leggi dell’Antropocene che ci vede ormai dominatori aggressivi del Pianeta. E forse, spavaldamente, siamo convinti che “la salute mentale” non sia (né sarà) un nostro problema. Resta allora un terzo passaggio: capovolgiamo i termini. Ci sembra davvero che l’ordine globale fondato sulla brutalità, sul cinismo, sull’invasione reciproca stia funzionando? Guardandoci attorno, dai vertici degli Stati alla base dei social, il sistema pare pieno di falle: faticoso, maldestro, controproducente. In questo contesto, sostituire la rabbia con la temperanza equivale a un atto politico che libera l’economia della convivenza. Economia circolare. Non è debolezza, rassegnazione, fragilità. Al contrario: è un altro genere di potere, di forza, di energia. Conviene dunque scegliere di restare gentili e scommettere su un contagio positivo. Scommettere che abbia ragione Carlo Rovelli quando afferma che la fisica quantistica ci mostra come le proprietà di ogni “cosa” non siano caratteristiche fisse, innate, di ciascuna entità: le “cose” esistono (noi esistiamo) solo nella rete dei rapporti. E se la realtà è trama di relazioni, ecco che la gentilezza diventa la nostra parola-chiave: per non sentirci spaesati, perduti, soli. I processi fantasma dei suicidi assistiti: “Lo Stato ci deve delle risposte” di Valentina Petrini La Stampa, 31 ottobre 2025 Hanno accompagnato un malato a morire in Svizzera e si sono autodenunciati. Ma dopo anni parenti e volontari restano in un limbo. “Mi chiamo Vittorio Parpaglioni, il 31 ottobre di due anni fa ho accompagnato mia madre, Sibilla Barbieri, in Svizzera per accedere al suicidio assistito che in Italia le era stato negato. Subito dopo mi sono autodenunciato perché in Italia è reato aiutare un malato terminale a morire se lo chiede. Da due anni sono sotto indagine e non so nulla”. Nel giorno del secondo anniversario dalla morte di sua madre, Vittorio e l’Associazione Luca Coscioni, lanciano questa denuncia. “Non solo Vittorio. Siamo in attesa anche di altri sei procedimenti giudiziari sospesi - dice Marco Cappato - nemmeno la giustizia italiana se ne vuole occupare?”. Per tutti l’ipotesi di reato più probabile è istigazione e aiuto al suicidio, art. 580 del codice penale, che prevede la detenzione da 5 a 12 anni. Vittorio è stato il primo figlio in Italia ad unirsi alle disobbedienze lanciate, come forma di lotta non violenta, contro l’immobilismo di governi e Parlamento, prima da Cappato e poi, dal 2015 da “Soccorso Civile”, associazione di cittadini nata per fornire aiuto giuridico ma anche economico a chi non riesce a godere delle proprie libertà fondamentali. Sibilla Barbieri era una malata oncologica. Nel 2023 aveva ricevuto una diagnosi infausta a breve termine a causa di metastasi al pancreas, al fegato, ai polmoni, al cervello, allo stomaco. Già consigliera dell’associazione Luca Coscioni, Sibilla è stata anche tra i cittadini che hanno contribuito alla raccolta, nel 2022, di 1 milione e 200 mila firme a favore del referendum sull’eutanasia, nel silenzio dei capi dei grandi partiti. La Corte Costituzionale ha però bocciato quel referendum, dichiarando inammissibile il quesito proposto. La ricorrenza di oggi, 31 ottobre, è l’occasione per dar voce a tutti gli altri che come Vittorio non sanno cosa gli accadrà. “Mi chiamo Cinzia Fornero. A novembre 2023 ho accompagnato in Svizzera la professoressa Margherita Botto”. Anche Fornero si è autodenunciata, assumendosi la responsabilità del suo gesto politico. “Perché contesto che il mio Paese neghi le libertà fondamentali, lo reputo incivile. Ad oggi però non ho ricevuto alcun avviso di garanzia. Reputo l’immobilismo della procura funzionale ad uno Stato che non vuole legiferare in maniera seria sul fine vita”. Due anni nel limbo giudiziario, quindi, anche per Cinzia Fornero, 53 anni guardaparco della provincia di Torino, che ha disobbedito per aiutare Margherita Botto, professoressa universitaria e traduttrice letteraria, affetta da adenocarcinoma al terzo stadio. Anche il fratello di Margherita, Paolo Botto, è in balia della giustizia: si era infatti autodenunciato pure lui per aver agevolato la scelta della sorella occupandosi dei rapporti con la clinica svizzera e dell’organizzazione del viaggio. I video appelli dei disobbedienti in attesa di sapere se saranno rinviati a giudizio, che La Stampa pubblica oggi sul suo sito in anteprima, iniziano tutti con nome e cognome: “Sono Matteo D’Angelo. Il primo luglio 2024 e il primo agosto 2025, ho accompagnato in Svizzera a morire la signora Ines e Martina Oppelli. Ad oggi non so ancora se sono indagato e per quale reato”. Ines, nome di fantasia, era lombarda, 51 anni, affetta da sclerosi multipla secondariamente progressiva, diagnosticata nel 2007. La sua Asl tardava a risponderle in merito alla richiesta di accesso al suicidio assistito che aveva presentato. Nonostante i solleciti degli avvocati, la risposta non arrivava e così Ines, non riuscendo più a sopportare il dolore, è partita. Martina Oppelli, invece, 50 anni, affetta dalla stessa malattia di Ines, aveva voluto denunciare la tortura a cui l’Italia la stava sottoponendo mettendoci la faccia, diffondendo un video in cui chiedeva che le sue ultime volontà fossero rispettate. Così non è stato. Cinzia Crivellari è invece la figlia di Elena Altamira. “A mia madre nel 2022 è stata diagnosticata una malattia terminale con diagnosi di fine vita di pochi mesi. Lei così ha deciso di andare all’estero per scegliere l’eutanasia. Io non ho potuto accompagnarla, sarei stata incriminata e quindi il nostro ultimo saluto è avvenuto il giorno in cui è partita, al telefono, tra le lacrime. Io penso che questo sia molto crudele”. Altamira si è autodeterminata grazie a Marco Cappato. Anche di questo procedimento giudiziario, tre anni dopo, non c’è sentenza. Oggi l’Associazione Luca Coscioni, tramite anche la sua segretaria, Filomena Gallo, avvocata cassazionista, nonché coordinatrice di tutti i collegi di difesa dei sei casi che pendono senza sentenze nei Tribunali, lancia una richiesta precisa, attraverso la voce degli indagati disobbedienti. “Chiediamo un processo pubblico” dice Vittorio Parpaglioni. “Mia madre prima di morire si è rivolta alle istituzioni che però l’hanno ignorata. Non ignorate noi”. E infatti, nel video che La Stampa aveva pubblicato in anteprima nel 2023, Sibilla Barbieri iniziava così: “Egregio presidente del Consiglio, ministri del governo, onorevoli e senatori del Parlamento Italiano. Egregio presidente della Repubblica… Mi rivolgo a voi…”. Non ha ricevuto risposte. Stessa richiesta anche da Matteo D’Angelo: “Non mi sento colpevole di alcun reato, ma sulla mia vita professionale e familiare pende una spada di Damocle perché da un momento all’altro potrebbe arrivare un avviso di garanzia e non si vive bene così. Quindi voglio un processo pubblico a porte aperte”. L’interpretazione politica di quanto sta accadendo la dà Cappato: “Non abbiamo sentenze anche se le chiediamo, forse perché il Parlamento finalmente discute una legge sul fine vita?”. E però sottolinea il tesoriere della Coscioni, “questa proposta se passasse cancellerà i pochi diritti ottenuti in vent’anni di disobbedienza”. “Il governo - conclude - vuole addirittura estromettere dal fine vita il servizio sanitario pubblico, il cui ruolo è invece regolamentato dalla Corte Costituzionale”. A garanzia che il diritto al fine vita sia gratuito e accessibile a tutti. Non solo per ricchi. Stranieri e inclusione: “Una nuova Agenda contro l’ingiustizia” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 31 ottobre 2025 Festival della Migrazione, dieci anni di campagne. Il presidente Edoardo Patriarca e le priorità attuali: “Le battaglie per i diritti dei migranti misurano qualità e tenuta della democrazia e dello stato di diritto, di cui oggi assistiamo a una lenta erosione indotta dall’ideologia del “governo forte” che vorrebbe ridurre all’irrilevanza le autorità sovranazionali, avere una magistratura sempre allineata e Parlamenti ridotti a passa carte sotto dettatura”. Primo? “Raccontarla giusta, finiamola con la propaganda e la balla dell’invasione”. E poi? “Cittadinanza. Oltre il 10 per cento dei bambini che oggi vanno a scuola in Italia è formalmente senza una patria: si può accettare?”. E poi? “Lavoro. La Bossi-Fini sui flussi è un bluff da cambiare”. E poi? “Minori non accompagnati: il taglio dei fondi è una follia, per non dir peggio”. Sarebbe ancora lunga la lista dei “poi”. Infatti è stata tradotta - e appena aggiornata - in una “Agenda” vera e propria. Non di critiche ma di cose da fare. E se volete farvene un’idea completa il posto giusto è anche quest’anno il Festival della Migrazione, iniziato sei giorni fa e tuttora in corso fino al 31 ottobre, con un programma che in questa decima edizione abbraccia non solo Modena dove era nato ma una dozzina di città in tre regioni, da Rovigo a Bologna e da Firenze a Milano. Il presidente Edoardo Patriarca, a cui si devono le risposte qui sopra, è lo stesso che ne aveva introdotto i lavori senza girarci intorno: “Le battaglie per i diritti dei migranti misurano qualità e tenuta della democrazia e dello stato di diritto, di cui oggi assistiamo a una lenta erosione indotta dall’ideologia del “governo forte” che vorrebbe ridurre all’irrilevanza le autorità sovranazionali, avere una magistratura sempre allineata e Parlamenti ridotti a passa carte sotto dettatura”. Dieci anni: oggi è peggio? “Che il tema delle migrazioni fosse divisivo lo sapevamo fin dall’inizio. Che sarebbe diventato questione centrale nel mondo lo dicevamo dieci anni fa e la storia dice che avevamo ragione. Per il resto in questo decennio abbiamo visto passare più governi, di colore diverso, e non abbiamo notato grandi differenze di attenzione sul punto. Certo, oggi registriamo un arretramento ulteriore e non solo in Italia, penso alla parola rimpatri divenuta parte del normale lessico europeo. Ma questo è dovuto anche a chi non ha fatto niente prima”. Sul tema del “fare” avete proposto un’Agenda: da dove si comincia? “Intanto ricordo che la nostra Agenda è nata nel 2023. Ora l’abbiamo aggiornata e la presenteremo ufficialmente dopo il Festival, in una sede istituzionale a Roma. Ma il punto di partenza è sempre lo stesso, casomai diventato solo più urgente: dire la verità, ripeto, e uscire dalla falsità della narrazione corrente”. E qual è la verità? “Oggi gli stranieri in Italia sono solo il 5 per cento della popolazione a fronte di una natalità crollata, di un Paese sempre più vecchio, di 100 mila giovani che ogni due anni se ne vanno. L’Italia di una volta è finita: voler trattare questa realtà solo da un punto di vista securitario è non solo un errore ma un inganno”. Altre battaglie? “Continuare quella sulla cittadinanza, nonostante il referendum perduto. Mobilitare associazionismo, sindacati e giovani affinché i migranti possano far parte della vita attiva del Paese. Magari coinvolgendoli nel servizio civile”. E il lavoro? “È un altro tema capitale. I meccanismi attuali di ingresso sono impossibili da mettere in atto e di fatto incentivano l’illegalità. Quindi vanno cambiati. È il mondo imprenditoriale a dirci che presto in Italia mancheranno 7-8 milioni di lavoratori: allora anche le imprese devono essere in prima fila a chiedere che le persone possano arrivare in modo regolare. Dopodiché le persone non sono solo forza-lavoro ma appunto persone: a cui serve una casa, ricongiungimento con le famiglie, libertà religiosa e culturale”. Ma l’identità italiana? “Ci mancherebbe. Ma è nell’incontro e nel confronto, non nella chiusura, che si mantiene il valore di una cultura”. Un motivo di speranza? “I giovani. Le seconde generazioni. Già italiani di fatto. Il punto è che lo Stato dovrebbe pensare soprattutto a quelli appena arrivati, quei 20 mila minori non accompagnati, altro che tagliare fondi a chi li accoglie. Ma avete presente quanta energia deve avere in corpo un dodicenne per sfidare la morte pur di arrivare qui? Come si fa a considerarlo un invasore anziché una risorsa?”. Brasile. Un massacro “populista” che rafforzerà la mafia, ecco perché di Roberto Saviano Corriere della Sera, 31 ottobre 2025 Nelle favelas Complexo do Alemão e Complexo da Penha, a nord di Rio de Janeiro, il Bope (le forze speciali di polizia), con altre polizie locali, ha commesso un massacro senza sapere nemmeno chi abbia davvero ucciso. Volevano smantellare il Comando Vermelho, la mafia che comanda Rio da quasi mezzo secolo. Il principio lo conosco: “Chiunque in quelle fogne è complice, se vuoi colpire i narcos devi colpire tutti”. Così ragionando, hanno sparato a chiunque avesse un’arma, a chiunque scappasse, a chiunque fosse vicino ai depositi di armi e di coca. Risultato? 130 morti (ma saranno molti di più), un centinaio di arrestati e una novantina di armi lunghe sequestrate. Intanto il capo latitante del Comando Vermelho, il gruppo che controlla il crimine a Rio, Edgar Alves de Andrade, detto Doca, è libero, messo al sicuro appena l’operazione è scattata. Un’operazione, quella voluta dal governatore dello Stato di Rio, Cláudio Castro, bolsonarista, che ha un solo obiettivo: dimostrarsi simile a Nayib Bukele, presidente di El Salvador. Arrestare tutta la “feccia”, sbatterla in prigione, ucciderla, ripulire i ghetti. È davvero il metodo per contrastare i cartelli? No. È il metodo per regolare i conti con loro, come in un conflitto tra poteri sullo stesso territorio. Il Brasile è diviso tra due grandi gruppi mafiosi: il Primeiro Comando da Capital (Pcc) e il Comando Vermelho (Cv). Il Pcc è un’organizzazione mafiosa di San Paolo: gerarchie rigide, si ispira esplicitamente alle mafie italiane, da cui ha mutato metodo, rituali e operatività. Negli anni ‘90 i fondatori, in carcere, studiarono i clan italiani e si interfacciarono con gli affiliati italiani per darsi un’organizzazione. Il Comando Vermelho ha invece una struttura da gang, da guerriglia: gruppi che si federano tra loro, bande che sottostanno a regole di volta in volta decise dal capo. Il Pcc governa São Paulo, il Centro-Ovest (Mato Grosso, Mato Grosso do Sul), il Sud del Brasile e parte del Nord Est, controllando le rotte da Bolivia e Paraguay. Il Comando Vermelho domina Rio de Janeiro, l’Amazzonia (Amazonas, Pará, Acre) e parte del Nord Est. Strutture criminali mastodontiche, tra le più grandi del pianeta. Secondo il Fórum Brasileiro de Segurança Pública (Fbsp), i guadagni totali (che vanno dalla gestione del petrolio, ai furti, all’azzardo, alle scommesse e al calcio) sono stimati in 43 miliardi di dollari, di cui 16 per il Comando Vermelho e 27 per il Pcc. Altri studi, basati unicamente sulle movimentazioni bancarie, parlano di circa 27 miliardi di dollari. Cifre paragonabili alla Finanziaria di uno Stato. Le organizzazioni mafiose brasiliane hanno creato una sorta di “Commonwealth lusitano”: il Pcc investe in Portogallo, il Comando Vermelho in Angola e Mozambico, ma via via si stanno allontanando, portando coca in Oceania. Se nel 1500 i portoghesi avviarono la colonizzazione del Brasile, oggi i cartelli brasiliani colonizzano il Portogallo. Ma il Cv non sempre ha seguito la stessa linea. Fernandinho Beira-Mar e Marcinho Vp (quest’ultimo definito il suo “vero re”) sono in carcere, ma il loro carisma, soprattutto quello di Marcinho, li rende ancora capi di fatto. Le prigioni in Brasile sono vere e proprie città (il Brasile ha 835 mila detenuti!): senza negoziare con i cartelli la gestione sarebbe impensabile. Doca, il boss sfuggito al blitz, è fautore della militarizzazione degli abitanti delle favelas. “Dare armi a tutti”, è il suo modo per rendere il Comando temibile, ma ha permesso a Castro di legittimare un’entrata ancora più violenta del solito. Quando il capo era Nem (Antônio Bonfim Lopes), la strategia era diversa: demilitarizzare, lasciando i fucili solo a piccole cellule. E costruire così un sistema in cui la droga, pur restando un segmento importante, non innescasse faide, agendo come un “petrolio” a sostegno della comunità. Nem temeva esattamente i blitz violenti come quello di martedì, sempre accaduti ma mai così annunciati e con così palese brutalità (il Bope ha sempre nascosto le sue violenze), questo è definito il peggiore della storia. La politica non seppe sfruttare la fase gestita da Nem: avrebbe dovuto aggredire il sistema economico-finanziario legato al narcotraffico. Non lo fece allora e non lo fa oggi. Entrare in una favela e sparare a vista comunica “ordine”; entrare nel sistema bancario o edilizio significherebbe sabotare i profitti più veloci dell’economia del Paese, e quindi perdere consenso. Ecco il tema inaffrontato e inaffrontabile. Attaccare il segmento militare, farlo su quello economico è impossibile. Comando Vermelho e Pcc hanno in mano società di agenti di calciatori, petrolifere, minerarie, di trasporti; spostano voti, investono in benzina, hotel e ristoranti. Castro, come Bukele in El Salvador, usa la guerra contro i narcos per creare uno stato d’eccezione permanente e legittimare uno Stato in cui si può sparare e arrestare senza garanzie: una politica di sterminio travestita da sicurezza. È un “autoritarismo carcerario” che neutralizza la violenza visibile, ma crea un sistema di repressione costante. La classe media si sente apparentemente tutelata perché le strade vengono “ripulite”, ma libertà, indagini e diritti vengono compromessi. Più lento da comprendere rispetto alla fila immediata di cadaveri dei presunti “cattivi”. Il massacro è servito? È servito a Castro, in perfetto stile populista, a militarizzare il consenso, mostrando forza contro il narcotraffico ma senza toccarne le reti economiche e politiche. In pratica, ha favorito la riorganizzazione dei cartelli più forti, come il Comando Vermelho, che dopo ogni blitz recuperano territorio e legittimità tra gli abitanti. Nessuna metropoli può essere compresa se non si parte dalle organizzazioni criminali che la gestiscono: sia con un controllo territoriale militare, come a Rio, sia con un controllo economico e solo parzialmente militare, come a Parigi. Ciò che ha fatto Castro può sembrare efficace solo a uno sguardo inesperto ed emotivo. Del resto, il Bope non può risolvere il narcotraffico: può solo arginarlo, quando non peggiora la situazione. Nessuna riforma è in corso. Non c’è nessuna reintegrazione sociale. Anzi, torna una violenza che porterà, come sempre accaduto, all’avvicendamento di nuovi capi. Questo massacro non indebolirà, ma rafforzerà la mafia brasiliana. Tunisia. Le persecuzioni di Saied colpiscono gli oppositori gli avvocati e i giornalisti di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 31 ottobre 2025 Dalla primavera tunisina al lungo inverno dei diritti. Il sogno della Primavera tunisina è annegato in un lungo inverno delle libertà. La nazione che nel 2011 aveva incendiato il mondo arabo, regalando la prima rivoluzione democratica del secolo e in parte riuscendoci, si ritrova oggi immersa in un incubo autoritario. Dalla caduta di Ben Ali, la Tunisia aveva creduto di poter costruire uno Stato fondato sul diritto e la giustizia sociale. Da quasi cinque anni vive nella morsa di un presidente autoritario e feroce. Kaïs Saïed, il professore di diritto costituzionale, il vecchio conservatore che prometteva moralità e rigore, ha trasformato quella promessa in potere assoluto. Dal 25 luglio 2021, data del suo colpo di forza, governa senza contrappesi, concentrando nelle proprie mani l’esecutivo, il legislativo e la magistratura, rieletto con il comico score del 90% con oltre il 75% di astensione. I partiti sono svuotati, i media ridotti al silenzio, i giudici intimiditi, gli avvocati perseguitati. In questo scenario, la chiusura delle ultime due grandi organizzazioni della società civile - l’Associazione tunisina delle donne democratiche (ATFD) e il Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES) - segna un punto di non ritorno. Le autorità hanno ordinato la sospensione delle attività per trenta giorni, accusandole di “infrazioni amministrative” e di “finanziamenti stranieri sospetti”. Accusare le ONG di essere “agenti stranieri” è diventato un modello globale di repressione, un tratto distintivo della nostra epoca illiberale. Dalla Turchia di Erdogan e le sue purghe dopo il tentato golpe del 2016, all’ Ungheria di Viktor Orbán che ha costruito un intero impianto legislativo per ridurre al silenzio le ong finanziate dalla rete di George Soros, trasfor-mandole in nemici interni; dalla Russia, dove la legge contro le influenze straniere è divenuta il pretesto per liquidare ogni forma di dissenso; persino negli Stati Uniti di Donald Trump, le associazioni e i media indipendenti sono stati tacciati di servire “interessi antiamericani” o di minare la sovranità nazionale. Anche Saïed ha fatto di questa strategia un metodo di governo. Le organizzazioni accusate di ricevere fondi stranieri sono proprio quelle che, da anni, garantiscono tutela delle minoranze, lotta alla corruzione e libertà di espressione. “È il grado zero del diritto”, ha scritto Sana Ben Achour, giurista e storica militante femminista. Secondo i media locali, le autorità hanno disposto il congelamento dei conti di 36 ONG e la dissoluzione di 47 associazioni. È un vero e proprio smantellamento del pluralismo associativo, una cancellazione metodica del tessuto sociale che aveva reso la Tunisia un’eccezione nel mondo arabo post- rivoluzionario, portando il principale partito islamista Ennada ad accettare la laicità dello Stato e approvando nel 2014 una costituzione tra le più avanzate poi cancellata da Saied nel 2022. Tra i più colpiti dalla repressione, naturalmente, i difensori dei diritti. Nel maggio 2024 la Casa dell’Avvocato di Tunisi, luogo simbolico della democrazia tunisina, è stata oggetto di un blitz delle forze di sicurezza. L’irruzione, condotta senza preavviso, ha avuto un valore altamente simbolico: nessun luogo è più sacro e inviolabile. Nel corso di quel blitz l’avvocata e commentatrice Sonia Dahmani, nota per il suo coraggio nel criticare il regime, è stata arrestata in diretta televisiva, davanti alle telecamere e agli sguardi attoniti dei colleghi. La sua colpa: aver ironizzato, durante un talk show, sulla propaganda di Stato che descrive la Tunisia come una terra assediata da cospiratori e agenti stranieri. Le sue parole, pronunciate con sarcasmo, sono bastate per scatenare un’ondata di odio e per giustificare un’accusa di “diffusione di notizie false”. Lo scorso luglio è stata condannata da un tribunale di Tunisi a due anni di prigione che si sommano all’anno e mezzo di un precedente condanna sempre per lo stesso capo di imputazione. Da parte sua il sindacato nazionale dei giornalisti tunisini (SNJT) denuncia i “tentativi continui di sottomettere e addomesticare i media”. I metodi di pressione sono molteplici e calibrati. Le autorità negano il rilascio delle carte professionali indispensabili per esercitare il mestiere, bloccano le autorizzazioni ai corrispondenti stranieri, impediscono l’accesso dei cronisti ai tribunali, in particolare ai processi “d’opinione” contro oppositori e militanti. È un sistema di censura invisibile ma efficace: nessun giornalista è esplicitamente bandito, ma molti vengono esclusi, schedati, intimiditi o lasciati senza lavoro. La censura assume anche forme più sottili: l’autocensura. Dopo anni di intimidazioni e processi, molti giornalisti scelgono di tacere per sopravvivere. Alcuni lasciano il Paese; altri si ritirano nel silenzio. Chi resta rischia la carriera, la libertà o peggio. Nel 2024 e nel 2025, decine di cronisti e operatori dei media sono stati arrestati o convocati dalla polizia.