Il Dap centralizza tutte le autorizzazioni. “A rischio le attività educative in carcere” di Fulvio Fulvi Avvenire, 30 ottobre 2025 D’ora in poi per poter svolgere all’interno del carcere attività educative, culturali e ricreative destinate ai detenuti, le associazioni, le cooperative, gli enti locali e i gruppi di volontariato che le promuovono dovranno presentare la domanda solo alla direzione del Dap di Roma e non più al direttore del singolo istituto penale. Le procedure sono cambiate. Lo stabilisce una circolare del Direttore generale dei detenuti e del trattamento Ernesto Napolillo, datata 21 ottobre e indirizzata ai provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria e agli stessi direttori delle carceri i quali, fino a ieri avevano il compito di trasmettere l’istanza, con allegato parere, al magistrato di sorveglianza. Dovrà essere dunque l’ufficio del ministero della Giustizia a valutare in via esclusiva tutte le iniziative trattamentali provenienti dall’esterno che riguarderanno i 192 penitenziari italiani. Una centralizzazione che potrebbe creare un “effetto imbuto” bloccando lo svolgimento di eventi (spettacoli e concerti, laboratori, incontri, gare sportive) e progetti educativi, e si rischia un allungamento dei tempi per i nullaosta. Il timore diffuso tra gli addetti ai lavori è che la “polveriera carcere” esploda: la tensione è al massimo, i suicidi aumentano (68 dall’inizio dell’anno), crescono aggressioni e gesti di ribellione. E ci sono troppi tempi morti nella giornata di un detenuto. Per il portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti delle persone detenute, Gabriele Ciambriello, la circolare ministeriale se venisse applicata potrebbe “mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale”. “Per i soli istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta sicurezza, Collaboratori di giustizia, 41 bis) - è scritto nel documento - l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se previsti per i soli detenuti allocati nel medesimo istituto al circuito Media sicurezza, dovrà sempre essere richiesta a questa direzione generale”. È previsto inoltre che l’istanza pervenga “con congruo anticipo e contenga necessariamente i seguenti dati: data, spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, lista dei detenuti da coinvolgere, elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti della comunità esterna, parere della direzione. Per le attività rivolte a soli detenuti di Media sicurezza reclusi in carceri dove non ci sono altri circuiti, le competenze rimangono in capo ai provveditorati regionali”. Un giro di vite che potrebbe avere effetti devastanti sui reclusi e sull’intero sistema. Secondo Nicola Boscoletto, socio fondatore della cooperativa sociale Giotto di Padova, “la circolare parte dalla buona preoccupazione di dare un maggiore ordine e creare un sistema che funzioni bene per tutti gli istituti ma credo che lo svolgimento, soprattutto in questo momento, non sia il più adeguato. Faccio fatica a capire il senso del provvedimento” aggiunge Boscoletto, il quale sottolinea come sia essenziale per chi decide, confrontarsi con chi sta in trincea. “Si rischia di compiere un grave passo indietro per la giustizia, per chi crede nel valore rieducativo della pena e per la dignità delle persone detenute - è l’opinione di Paolo Romano, presidente dell’Associazione Incontro e Presenza Odv - centralizzando a Roma ogni decisione sulle attività educative e culturali, anche per gli istituti di media sicurezza, si rischia di bloccare o rallentare di molto tutti i percorsi riabilitativi faticosamente costruiti nel tempo. E di spegnere il dialogo tra i luoghi di detenzione e la società civile, scoraggiando l’impegno di chi, ogni giorno, costruisce percorsi di inclusione e rinascita dentro le carceri. In un sistema già al collasso e di forte sofferenza, nel quale gli stessi istituti segnalano una quotidianità difficile e priva di alternative reali, limitare la partecipazione della società civile, vuol dire soffocare la possibilità di una speranza in un futuro migliore. Burocratizzare la speranza è un atto che potrebbe essere controproducente, tradisce lo spirito della Costituzione e il senso della pena come occasione di cambiamento, chiudendo ogni possibilità di ripartenza e rinascita di uomini e donne che hanno sbagliato - conclude Romano - ma devono avere la possibilità di non essere solo quello che hanno commesso, anche per il bene della comunità civile”. “La prima doccia gelata è stata il blocco di tutte le attività di confronto tra detenuti di Alta Sicurezza e mondo esterno - sostiene Carla Chiappini giornalista, formatrice, impegnata in diversi istituti di pena e nell’ambito delle misure di comunità -, a Parma da 5 anni la redazione di Ristretti Orizzonti lavorava con un progetto di incontri con studenti e docenti di un liceo cittadino ed è stata improvvisamente interrotta, creando in tutti notevole sconcerto”. “L’ultima circolare - precisa Chiappini - prevede strettoie burocratiche che complicheranno tutto. Qual è il senso di questa sfiducia palese nei confronti della società esterna e del Terzo settore che sostiene le fin troppo scarse attività formative e culturali nelle carceri e a cui in altri contesti, tra cui la maggioranza delle misure di comunità, si chiedono continui sforzi di impegno e collaborazione?”. “Non c’è granché da dire - commenta don David Maria Riboldi, cappellano nella Casa di reclusione di Busto Arsizio - ogni volta che aggiungi un livello autorizzativo, rallenti”. Stretta su salute e iniziative culturali. Due Circolari inaspriscono ancor più la vita in carcere di Chiara Cacciani huffingtonpost.it, 30 ottobre 2025 La prima centralizza e rende più complicato l’ok per ogni richiesta di iniziative culturali, educative e ricreative. La seconda stigmatizza i “pendolarismi ospedalieri”. Due circolari ministeriali firmate a distanza di 11 giorni stanno provocando un’onda di reazioni in quel mondo che si muove dentro e fuori gli istituti penitenziari per renderli più umani e coerenti col dettato costituzionale, sia in riferimento alla finalità rieducativa, sia alla tutela di diritti fondamentali come quello alla salute. Una, quella datata 21 ottobre 2025, se non portasse la firma reale del Direttore Generale Detenuti e Trattamento Ernesto Napolillo potrebbe arrivare da “Brazil”, la pellicola in cui il regista Terry Gilliam racconta di un futuro distopico dominato dal potere opprimente della burocrazia. La novità che introduce è che ogni iniziativa di tipo culturale, educativo e ricreativo destinata alle carceri con reparti di Alta sicurezza debba essere autorizzata dalla Direzione generale a Roma e non più dalle direzioni “di prossimità”. Questo anche nel caso di progetti che nel medesimo istituto coinvolgano soltanto persone ristrette in media sicurezza. Oltre al “congruo anticipo” (manca però la definizione di congruo per luoghi in cui la misura del tempo è tutto), servirà fornire una lunghissima lista di dettagli e informazioni e prepararsi a attendere. Quanto? A oggi moltissimi dei progetti portati avanti da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione, sono fortemente a rischio. Un carcere sempre più blindato, insomma, e in un momento in cui ci si confronta con il tema del sovraffollamento, dell’autolesionismo e dei suicidi, in cui la carenza di personale educativo interno ma anche di agenti di polizia penitenziaria rendono difficile garantire quotidianamente le minime attività previste. “Si rischia di mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale negli istituti - è l’allarme di Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone private della libertà personale e Portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti - e mostra una scarsa contezza reale dei contesti carcerari. Le cooperative e le associazioni non faranno più iniziative dietro le sbarre, dunque? E i Provveditori regionali e i direttori e le direttrici degli istituti penitenziari? Diventano semplici amministratori di condominio? Oggi si entra di più in carcere e se ne esce sempre meno. Quei luoghi, invece, hanno bisogno di speranza”. Secondo Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, il passo indietro attuale rischia di cancellare “la data storica del 1975 con la progressiva sia pur difficile e incerta apertura degli istituti alla società esterna e alla condivisione di esperienze maturate anche fuori dal trattamento”. La sensazione di Petrelli è che “prevalga nelle circolari una idea dell’istituzione carceraria come luogo della segregazione e della privazione sempre più impermeabile e ostile all’azione dei fattori di crescita culturale esterni a favore della cultura e della pratica del controllo. Senza capire che la “compartecipazione” costituisce anche la precondizione della sicurezza ambientale e della tutela della vita e della salute fisica e psichica delle persone ristrette”. Una grande preoccupazione arriva pure da chi si occupa di istruzione universitaria oltre le sbarre: fino allo scorso anno accademico erano molti i laboratori che mettevano insieme studenti detenuti e non. “Apprendere, studiare e formarsi ha a che fare con lo scambio e il confronto - dice Vincenza Pellegrino, delegata per il Pup (Polo universitario penitenziario) di Parma e membro del direttivo del Cnupp, la conferenza nazionale dei Pup. - Se si impedisce l’incontro, anche in forme ristrette e controllate come sono i laboratori, si compromette un percorso già iniziato e capace di realizzare spazi di pensiero dentro il carcere”. Sugli effetti concreti che potrebbe innescare la circolare è molto chiaro anche Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa Giotto, che coi suoi progetti di lavoro in carcere (il panettone Giotto, ad esempio, piace ai reali inglesi e è stato premiato dal New York Times) ha reso la casa di reclusione di Padova un modello virtuoso in questo ambito. “Se oggi nelle carceri qualcosa funziona sono proprio le iniziative del Terzo Settore e della società civile che riempiono vuoti e carenze strutturali. Decisioni frettolose possono causare grossi danni in primis alle persone detenute e indirettamente a tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria quotidianamente in trincea. Con ricaduta negativa su tutta la società civile in ordine a sicurezza sociale e aggravio della spesa”. E poi c’è la seconda circolare: la data stavolta è il 10 ottobre 2025, la firma quella del capo del Dap Stefano Carmine De Michele. Contiene sollecitazioni al coordinamento tra le aree professionali degli istituti penitenziari nell’ottica di una maggiore efficienza amministrativa e per la prevenzione di eventi critici. E se questo è un bene, la stesura è piuttosto interessante. “Dai toni sembra una strigliata per un singolo evento, ma finisce per coinvolgere tutti”, commenta qualcuno. Non solo. “Nella prima parte di fatto riconosce che in nessuno dei 190 istituti italiani viene consegnato all’ingresso un regolamento relativo ai propri diritti” declina Ciambriello. Ma il passaggio più contestato riguarda il tema della salute, quotidianamente al centro di reclami e proteste da parte dei detenuti, in particolare per la difficoltà e il ritardo a accedere alle visite specialistiche. Recita la circolare: “Troppo frequenti risultano i cosiddetti ‘pendolarismi ospedalieri’ per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza. Occorre valorizzare le risorse interne, garantendo continuità delle cure e tempestività delle risposte. Il medico penitenziario deve assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita”. “Credo sia un’invasione di campo dell’amministrazione penitenziaria nei confronti della sanità locale e regionale, oltre a essere un linguaggio offensivo della dignità delle persone detenute e degli operatori sanitari”, incalza il portavoce dei Garanti. “Appellarsi alla “valorizzazione delle risorse interne” ricorrendo al 118 solo nei casi di “effettivo pericolo di vita” - gli fa eco il presidente delle Camere Penali: significa, nelle attuali drammatiche condizioni di sovraffollamento, ignorare la realtà oggettiva delle nostre disastrate strutture, oramai al collasso”. Storie di isolamento e di mancata emancipazione di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 30 ottobre 2025 Il modello penitenziario scelto è quello delle chiusure insensate, scoraggiando il mondo esterno dall’essere protagonista, in senso positivo, della pena. Per ben 5.837 volte nel 2024 c’è stato un giudice di sorveglianza che ha affermato che un detenuto era costretto a vivere in condizioni disumane e degradanti. Per ben 5.837 volte la giustizia italiana ha riconosciuto l’illegalità del sistema penitenziario. Che costringe le persone a vivere sotto la soglia della decenza anche a causa di spazi insufficienti. È inutilmente vessatoria la modalità attraverso cui si esegue oggi la pena in Italia. Dal 2022 i detenuti sono costretti a trascorrere la maggior parte del tempo recluso, anziché negli spazi comuni e in attività socialmente utili, in celle piccole, inadeguate, umide, talvolta inabitabili. Il modello penitenziario scelto è quello delle chiusure insensate, scoraggiando il mondo esterno dall’essere protagonista, in senso positivo, della pena. Così si assiste all’abbrutimento generalizzato. Non è un caso che siamo di fronte a una crescita di tutti gli indicatori di malessere: autolesionismi, tentati suicidi, suicidi realizzati, aggressioni, violenze, proteste. Stanno male tutti, compresi gli operatori, sia nelle carceri per adulti che in quelle per minori. Di fronte alle 5.837 condanne per trattamento disumano e degradante del 2024, la prima cosa da fare è cancellare quelle circolari che negli ultimi tre anni hanno prodotto l’acuirsi delle sofferenze e l’allontanamento dalla dimensione costituzionale della pena. “Io ergastolano, ho trovato la mia libertà sul palco”: così Cosimo Rega, per decenni recluso nelle sezioni di alta sicurezza, raccontava nella sua autobiografia cosa avesse significato il teatro per lui. Insieme a Salvatore Striano fu il protagonista di Cesare deve morire, capolavoro dei fratelli Taviani, film che vinse l’Orso d’Oro a Berlino nel 2012. Oggi Cosimo non c’è più, mentre Salvatore Striano fortunatamente continua a fare brillantemente l’attore. Il film fu girato a Rebibbia quando il direttore di allora, Carmelo Cantone, accolse in carcere un uomo di teatro come Fabio Cavalli, che dirigeva la compagnia teatrale dell’alta sicurezza del carcere. Da qualche giorno è operativa una circolare dell’amministrazione penitenziaria che sostanzialmente blocca tutte le attività culturali - teatro compreso - organizzate da realtà esterne nelle sezioni di alta sicurezza e le rende ben più complicate nelle sezioni di media sicurezza. Quelle storie straordinarie e riuscite di emancipazione sociale, culturale, ma anche professionale oggi non sarebbero più possibili. Se ai tempi di Cesare deve morire quella circolare fosse stata in vigore, avremmo avuto due criminali in più e due bravi attori in meno. E allora il primo passo contro la disumanità del sistema deve consistere nel resistere alla sua progressiva decadenza, prodotta da chi nelle istituzioni ha una idea di pena pre-moderna al punto da ritenere legittimo punire fino a otto anni di carcere il detenuto che disobbedisce in forma nonviolenta agli ordini impartiti, come prevede il nuovo delitto di rivolta penitenziaria. Se volessimo prendere effettivamente sul serio quelle 5.837 condanne dovremmo in sequenza: depenalizzare e decarcerizzare il più possibile, modernizzare e umanizzare la vita dentro a partire dalla possibilità di effettuare telefonate quotidiane con i propri cari e di vedere pienamente riconosciuto il diritto all’affettività; abolire l’isolamento disciplinare e quello diurno per gli ergastolani, affrontare con misure socio-sanitarie il disagio psichico, abbandonare le pratiche violente di contenzione fisica o chimica, liberare il sistema della giustizia minorile dagli eccessi repressivi degli ultimi tempi, riempire di vita le carceri oggi abbandonate nelle mani disperate di chi ci lavora. Celle “inumane”, condanne record e 6mila risarcimenti di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 ottobre 2025 Sovraffollamento e non solo, impennata di ricorsi accolti dai Tribunali di sorveglianza. “Celle da quattro dove viviamo in sette”; “la scuola trasformata in dormitorio”; “finestre senza vetri”; “invasione di ratti in tutti i locali e infestazione di insetti vari”; “vitto insufficiente e scadente”; “mancanza di acqua calda”; “spazio per cucinare vicino alla latrina”; “file mostruose per andare in bagno”; “mancanza di lavoro”; “clima di paura”; “repressione di qualsiasi tentativo di lamentarsi o di denunciare”. E ancora, definitivo: “Non tutti si possono permettere di avere una vita da detenuto. È come essere un senza tetto”. Tutte diverse eppure tutte simili, le condizioni di vita dei detenuti descritte nei ricorsi che a migliaia ogni anno arrivano a sentenza nei Tribunali di sorveglianza. Più di diecimila nel solo 2024, il 23,4% in più rispetto all’anno precedente. Di questi, quasi 6 mila sono stati accolti con una condanna dello Stato italiano e permettendo così al detenuto ricorrente di ottenere uno sconto di pena o, nel caso in cui abbia già riacquistato la libertà, un rimborso per le “condizioni inumane e degradanti” nelle quali è stato costretto a vivere. Ricorsi che l’associazione Antigone ha raccolto in un dossier a supporto di una nuova campagna “per una riforma ampia del sistema penitenziario”, lanciata con una petizione rivolta al Parlamento e al governo sottoscrivibile sul loro sito. Si tratta dell’ormai unica forma risarcitoria, introdotta nel 2014, a disposizione di quanti nelle patrie galere hanno subìto il sovraffollamento e un trattamento in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea. Lo stesso tipo di infrazione che nel 2013 è costata all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) con la famosa sentenza pilota “Torreggiani”. Al tempo, per evitare di pagare ulteriori somme di “equa soddisfazione” (da 10 mila a oltre 25 mila per ciascun detenuto) lo Stato italiano si vide costretto ad adottare entro un anno misure generali e strutturali per risolvere il sovraffollamento, e a introdurre alcuni rimedi compensatori. Venne quindi istituito il Garante nazionale dei detenuti, una forma di scarcerazione anticipata speciale (la stessa contenuta nella proposta Giachetti oggi osteggiata dalla maggioranza) e, appunto, la possibilità di proporre ricorso agli Uffici di sorveglianza. Nei casi di accoglimento, il recluso ha diritto ad una riduzione di pena detentiva pari a un giorno per ogni dieci giorni di violazione. Oppure, per pene inferiori a quindici giorni o per chi non è più recluso, i Tribunali civili che gestiscono questo tipo di casi potranno riconoscere al ricorrente un risarcimento di 8 euro per ogni giorno di carcere. Attualmente, fa il conto Antigone, il tasso di sovraffollamento ha superato il 135%, con oltre 63.000 persone detenute per meno di 47.000 posti realmente disponibili. La popolazione detenuta è cresciuta di 917 unità in sei mesi, di 1.336 in un anno. “Nel 2024 sono arrivate agli Uffici di Sorveglianza italiani 11.440 istanze per la riduzione di pena. Ne sono state decise 10.097 e di queste 5.837, il 57,8%, sono state accolte. Sono il 23,4% in più dell’anno precedente. Gli accoglimenti erano stati infatti 3.115 nel 2018, 4.347 nel 2019, 3.382 nel 2020, 4.212 nel 2021, 4.514 nel 2022 e 4.731 nel 2023, per arrivare appunto a 5.837 del 2024”. Come si vede, “l’Italia viene sistematicamente condannata, sempre di più e dai suoi stessi Tribunali, per violazione dell’art. 3 della Cedu, più che ai tempi della sentenza Torreggiani - si legge nella relazione di Antigone - In quel caso si è parlato in totale di circa 4.000 ricorsi pendenti, con potenziale esito positivo; oggi siamo a quasi 6.000 condanne l’anno”. EPPURE, come fa notare il dossier, non tutti coloro che hanno subìto trattamenti inumani e degradanti presentano ricorso, anche per via delle “note condizioni di estrema fragilità di molti tra i detenuti, in particolare stranieri”. Ma se le condizioni di reclusione descritte nei ricorsi, da nord a sud del Paese, si assomigliano un po’ tutte, si registra invece una “enorme disomogeneità” nel tasso di accoglimento tra i diversi uffici: “Se la media nazionale dal 2022 è superiore al 57%, guardando al dato per ufficio si va da situazioni come Salerno (86,7%), Trento (83,4%) o Brescia (75,3%) in cui l’accoglimento appare un esito abbastanza probabile, a situazioni come Cagliari (29,2%), Bologna (28,4%) o Catanzaro (27,8%), in cui lo è decisamente meno. Ovviamente questo non significa che a Salerno, Brescia o Trento le condizioni di detenzione siano peggiori che a Cagliari, Bologna o Catanzaro”. E allora perché accade? Le tradizionali chiavi di lettura non forniscono risposte: sostanzialmente ogni Tribunale decide a modo suo. Ma, e questo è il punto, nella completa indifferenza di tutti: governo, parlamento, opinione pubblica. Per dirla con Antigone: “Guai se l’Europa definisce le condizioni di detenzione in Italia indegne di un paese civile. Poco male se a farlo sono i nostri giudici”. Antigone lancia una petizione per riportare il carcere nei confini della Costituzione di Franco Pigna La Notizia, 30 ottobre 2025 Antigone lancia una campagna e una petizione per fermare il sovraffollamento carceri in Italia, oggi al 135%. “Condizioni inumane”. Antigone lancia una petizione per riportare il carcere nei confini della Costituzione. Il sovraffollamento nelle carceri italiane ha superato il 135%. Oltre 63.000 detenuti per meno di 47.000 posti realmente disponibili. È in questo quadro che l’associazione Antigone ha lanciato una nuova campagna, accompagnata da una petizione pubblica, per chiedere al Parlamento e al Governo di riportare la detenzione “entro i confini della Costituzione”. “Il carcere italiano è fuori dalla legalità costituzionale”, si legge nel titolo della campagna, che punta a garantire condizioni di vita dignitose e rispettose dei diritti umani. Nel 2024 gli Uffici di Sorveglianza hanno accolto 5.837 reclami per trattamenti inumani o degradanti, un dato cresciuto del 23,4% rispetto all’anno precedente e superiore persino a quello che portò alla condanna europea del 2013, la sentenza Torreggiani, quando Strasburgo sanzionò l’Italia per le condizioni di vita dietro le sbarre. “Oggi assistiamo a quelle stesse violazioni - e in misura ancora maggiore - ma nella generale indifferenza”, denuncia Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Guai se a condannarci è l’Europa, poco male se a farlo sono i nostri stessi giudici. Eppure ogni condanna per trattamenti inumani è un richiamo alla nostra legalità costituzionale.” La petizione, disponibile sul sito di Antigone, chiede una serie di interventi concreti: zero sovraffollamento con misure deflattive immediate e un maggiore ricorso alle misure alternative; connessione e affetti attraverso telefonate quotidiane e il pieno riconoscimento del diritto all’affettività sancito dalla Corte costituzionale; celle aperte e stop all’isolamento, per promuovere attività sociali e culturali e ridurre il rischio di suicidi; modernizzazione e trasparenza, con l’approvazione del nuovo regolamento penitenziario, l’installazione di telecamere negli spazi comuni e una comunicazione ufficiale su morti e suicidi. Antigone chiede anche più personale qualificato e un piano straordinario per la salute mentale, oltre all’abrogazione di norme considerate repressive, come il reato di “rivolta penitenziaria” e alcune disposizioni del cosiddetto decreto Caivano, che secondo l’associazione hanno indebolito il sistema minorile. “Il carcere deve tornare a essere un luogo di legalità, non un luogo inutilmente vessatorio”, conclude Gonnella. “Le 5.837 condanne pronunciate dai nostri tribunali nel 2024 non sono solo numeri, ma storie di violazioni quotidiane. Bisogna riportare la detenzione nei confini della Costituzione.” Riforma della giustizia: cosa cambia con l’ok definitivo della legge di Francesco Grignetti La Stampa, 30 ottobre 2025 La riforma sancisce la separazione delle carriere tra magistrati e pubblici ministeri. La novità sostanziale sarà l’Alta Corte disciplinare. Ultimi passi per la riforma della Costituzione che sancisce la separazione delle carriere tra magistrati e pubblici ministeri. La legge, “Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”, è forse l’unico caso di proposta che finisce il suo iter parlamentare nell’esatta formulazione con cui è uscita dal consiglio dei ministri e così depositata in Parlamento il 13 giugno 2024. Consta di 8 articoli, ma rivoluzionari per l’ordinamento giudiziario. La magistratura penale sarà dunque spaccata in due carriere distinte. Da una parte la verticale di chi giudica (tribunali, corti di appello, Cassazione); dall’altra quella di chi indaga (procure, procure generali, procura generale presso la Cassazione). Finora erano stati frenati i passaggi di funzione da una area all’altra, e con la riforma Cartabia. E si prefigurano anche concorsi separati, e scuole di formazione differenziate, oltre a due Consigli superiori della magistratura. Resterà unica per entrambe le carriere solo la nuovissima Alta corte disciplinare, che sottrae all’autogoverno dei magistrati una funzione cruciale quale l’esame e le eventuali sanzioni degli errori nell’esercizio della giustizia. Con la separazione delle carriere, il governo Meloni sostiene di avere chiuso un vecchio conto aperto nel 1989, quando Giuliano Vassalli trasformò il procedimento penale, da inquisitorio ad accusatorio. I contrari ci vedono solo un accanimento contro l’indipendenza della magistratura. La legge di riforma ribadisce che la magistratura costituisce comunque un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere e specifica che “è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Ovvero da magistrati e da pubblici ministeri. Resta fermo, come è oggi, che “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per la diversità delle funzioni”, ma si introduce il principio delle “distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Tutto il resto è rinviato a legge ordinaria. Sia la disciplina del concorso (di qui il primo interrogativo: si terrà un unico concorso o due diversi?) sia la formazione dei magistrati (ci sarà un’unica Scuola Superiore della Magistratura o ne serviranno due?). Seguendo la logica della riforma, probabilmente tutto si sdoppierà perché sennò sarebbe vanificata la separazione così rigida delle carriere. Si prevede una sola deroga alla separazione delle carriere: il Csm della carriera giudicante potrà nominare per meriti insigni quali consiglieri di Cassazione (e, quindi, giudici) anche magistrati appartenenti alla magistratura requirente, cioè pubblici ministeri, con almeno quindici anni di esercizio delle funzioni. Sopravvive anche la possibilità, già prevista oggi, di nominare consiglieri di Cassazione per meriti insigni anche professori universitari in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esercizio. Sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura - Allo sdoppiamento delle carriere segue uno sdoppiamento dei Consigli superiori della magistratura: nascerà un Consiglio superiore della magistratura giudicante e uno della magistratura requirente, presieduti entrambi dal Presidente della Repubblica. Del primo farà parte di diritto il primo presidente della Cassazione; del secondo il procuratore generale della Cassazione. Assai macchinosa sarà la scelta dei membri dei due Csm. Un terzo saranno membri laici estratti a sorte da un elenco predisposto dal Parlamento in seduta comune (professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esercizio). L’elenco dovrà essere predisposto entro sei mesi dall’insediamento del Parlamento e sarà compilato mediante elezione. Due terzi saranno membri togati, estratti a sorte tra tutti i magistrati. Per il Csm giudicante, saranno scelti tra gli oltre 7.000 giudici civili e penali. Per il Csm requirente, tra i 2.000 pubblici ministeri. Le modalità del sorteggio sono rinviate a una successiva legge ordinaria. Il vicepresidente di ciascun Csm dovrà essere eletto dall’organo stesso, scegliendo fra i componenti laici designati mediante sorteggio dall’elenco compilato dal Parlamento in seduta comune. I componenti designati mediante sorteggio, ossia i magistrati, durano in carica quattro anni e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva. I suoi componenti non possono, finché sono in carica, essere iscritti in albi professionali né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale. Spetteranno a ciascun Consiglio superiore della magistratura le scelte su assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, valutazioni di professionalità e infine l’importantissimo conferimento di funzioni, ossia incarichi direttivi e semidirettivi. Alta corte disciplinare - Novità sostanziale è la nuova Alta Corte disciplinare, che assorbe le funzioni disciplinari svolte dal Consiglio superiore della magistratura e dalla Corte di Cassazione (dove attualmente si può ricorrere). Composizione dell’Alta Corte disciplinare: 15 giudici, di cui 3 laici nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio; 3 laici estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti, che il Parlamento stila in seduta comune entro sei mesi dall’insediamento; 6 magistrati giudicanti e 3 requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio. Il presidente è eletto dall’Alta Corte tra i laici. I membri dell’Alta Corte durano in carica quattro anni e l’incarico non può essere rinnovato. La carica di giudice dell’Alta Corte è incompatibile con l’elezione al Parlamento, Parlamento europeo, un Consiglio regionale, e la partecipazione al Governo, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge. Impugnazione delle decisioni dell’Alta Corte: contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata. Illeciti disciplinari e aspetti procedurali: la legge determina gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte e assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio. Carriere separate, sì definitivo in Senato poi il referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 30 ottobre 2025 Oggi ultimo passaggio parlamentare prima del voto La maggioranza festeggia, le opposizioni protestano. Intorno alle 12 il Senato darà il via libera finale alla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Subito dopo, le forze di maggioranza si riuniranno tutte a piazza Navona per un flash mob, pioggia permettendo. Ma intanto ieri a tenere banco ancora le dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa e quelle del Ministro Nordio contro l’opposizione. “Valeva un candelabro” ha risposto il Guardasigilli ai giornalisti che gli chiedevano un commento sulle dichiarazioni del vertice di Palazzo Madama per cui la separazione è giusta ma “forse il gioco non valeva la candela”. Anche il presidente della Commissione affari costituzionali e relatore del provvedimento, Alberto Balboni, nelle sue repliche in Aula, pur se diretto alle opposizioni, è sembrato voler replicare anche al suo collega di partito La Russa: “Il punto non è quanti magistrati passino da una funzione all’altra o se passino o non passino da una funzione all’altra. Il punto è che non esiste, non può esistere processo accusatorio, che non può esistere vera terzietà del giudice, se poi i giudici e i pubblici ministeri stanno nello stesso organo di autogoverno”. Su questa questione ha parlato anche Giovanni Zaccaro, Segretario della corrente dell’Anm, AreaDg: “La giustizia annaspa fra tagli al bilancio ed informatica che non funziona e Nordio pensa ad una riforma che non risolve nessun problema, forse ha ragione chi pensa non valga la pena”. E ancora: “A noi non interessa la polemica fra i partiti; ci limitiamo a raccontare ai cittadini, con il sorriso sul volto e la Costituzione in tasca, i nostri dubbi e le nostre perplessità”, ha concluso il magistrato. Ma a suscitare i veri contrasti di giornata sono state le parole del responsabile di Via Arenula verso le minoranze in Parlamento, commentando la sua decisione di non replicare: “Aspettiamo domani (oggi, ndr) le dichiarazioni di voto e la conclusione. Avevo già dato risposte preventive in varie interviste, visto che le osservazioni di oggi sono state la solita litania petulante” . “Siamo di fronte ad un ministro della Giustizia irrispettoso del Parlamento e della nostra Costituzione” ha subito detto il presidente dei senatori del Partito democratico Francesco Boccia. “È questa la considerazione che il ministro della giustizia ha del ruolo del Parlamento? È gravissimo che un ministro mostri così tanto disprezzo verso le istituzioni e la democrazia parlamentare” ha aggiunto Raffaella Paita, presidente del gruppo Italia Viva in Senato. Non è passata inosservata neanche la dichiarazione del senatore di Fd’I Marcello Pera per il quale l’Anm starebbe compiendo un disastro “minando la fiducia” dei cittadini nella giustizia e quelli del Pd sarebbero gregari perché “trascinati ieri da Landini e oggi da Parodi” ma senza “una politica propria” e dunque “a rimorchio”. O “l’Anm perde il referendum e allora diventa un piccolo e irrilevante soggetto che si aggiungerà al Campo largo. Oppure vince e che cosa diviene? Diventa soggetto politico egemone nella lotta di liberazione contro la dittatura del governo Meloni” ha concluso Pera. A replicargli in maniera velenosa sempre Boccia: “Il Pd difende la Costituzione nel solco dei partiti della Resistenza, non della nostalgia. Per galateo istituzionale evitiamo di ricordare alla destra le sue origini: certe radici non si celebrano, si superano. Quanto a lei Presidente Pera, sarebbe perfino ingeneroso parlare di origini politiche, ne hate tante tante che rischieremmo di perderci nel suo labirinto”. Intanto si scaldano i motori in vista del voto plebiscitario della prossima primavera. “Noi saremo i primi a promuovere il referendum” sulla riforma della giustizia, “perché vogliamo che i cittadini si pronuncino” ha annunciato il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri che ha altresì spiegato: “La Costituzione prevede che il referendum costituzionale possa essere richiesto da un quinto dei parlamentari ed è quello che faremo come centrodestra”. Dal Pd non restano a guardare. È stata la presidente dei deputati del Partito democratico, Chiara Braga, a disegnare la strada: “Insieme alle altre opposizioni saremo impegnati anche noi nell’uso dello strumento del referendum per fermare questo stravolgimento della Costituzione” . Mentre per il Ministro della Difesa Guido Crosetto, intervistato a Skytg24, “questa riforma è un vantaggio della magistratura e si è sviluppato uno scontro politico che mi è incomprensibile. Nessuno limita i poteri - ha aggiunto - dividere le carriere è una cosa che succede in tantissimi Paesi democratici nel mondo e non è nulla di sconvolgente, e neanche l’idea del sorteggio del Csm”. Nel frattempo ieri pomeriggio piccolo giallo sul flash mob. Per ore si sono rincorse diverse notizie con Forza Italia intenta a preparare il suo a Piazza Navona e gli altri partiti di maggioranza indecisi se prendere pure loro uno spazio o marciare insieme. Alla fine ha prevalso l’unità. Quindi a ora di pranzo tutti a piazza Navona mentre alle 13: 30 anche Pd - strategicamente non si sa - terrà un incontro aperto ai giornalisti nell’aula convegni del Senato durante il quale interverranno la segretaria del Pd Elly Schlein e i presidenti dei gruppi parlamentari dem Francesco Boccia e Chiara Braga. I dubbi di La Russa e i complessi della destra italiana nei confronti della magistratura di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 30 ottobre 2025 C’è qualcosa di familiare, quasi di storico, nello scetticismo con cui Ignazio La Russa ha commentato la riforma della giustizia e, in particolare, la separazione delle carriere. Non è la prima volta che il presidente del Senato lascia trapelare la sua perplessità su un progetto che, per larga parte del centrodestra, rappresenta la bandiera simbolica della stagione garantista. Ma le sue parole di martedì risuonano con un’eco più profonda: quella del vecchio riflesso identitario della destra italiana, che davanti al traguardo della riforma della giustizia si scopre ogni volta impacciata, quasi restia a varcare la soglia. Un’antica cautela che affonda le radici nella storia del Msi e poi di Alleanza Nazionale, dove la diffidenza verso la magistratura si è sempre accompagnata a un rispetto quasi timoroso per le istituzioni giudiziarie. Il risultato è stato un garantismo a metà, spesso invocato più contro l’uso politico delle procure che in nome di una reale modernizzazione del sistema. Lo stesso Silvio Berlusconi, nei momenti più duri della sua personale battaglia contro i giudici, non mancò di rimproverare ai suoi alleati di destra quella che definiva una ambiguità di fondo. E la memoria corre inevitabilmente ai giorni dello scontro frontale con Gianfranco Fini, quando il Cavaliere, in un messaggio ai Promotori della libertà, lanciava invettive contro “alcuni magistrati che si intromettono illegittimamente nella vita dei cittadini” e accusava l’ex alleato di aver “tradito il voto degli elettori consegnandosi alla sinistra”. Fini rispose a tono: “Berlusconi è il regista del teatrino della politica, e sarebbe meglio se andassimo tutti oltre di lui”. Ma dietro lo scontro personale si nascondeva un conflitto politico più profondo, quello sulla giustizia. L’allora presidente della Camera rivendicava di aver bloccato una riforma che “nulla aveva a che fare con i diritti del cittadino” e accusava Berlusconi di voler piegare le leggi ai propri processi. È in quella frattura, mai del tutto ricomposta, che affonda l’attuale esitazione della destra. Quando Giorgia Meloni, all’inizio della legislatura, negò a Forza Italia il ministero della Giustizia preferendo Carlo Nordio ad Elisabetta Casellati, si capì che il tema sarebbe rimasto una mina interna. Nordio, ex magistrato e simbolo del garantismo liberale, ha trovato in Fratelli d’Italia un consenso formale, ma non sempre una convinta adesione di sostanza. Le parole di La Russa lo dimostrano: “La separazione delle carriere può essere un obiettivo nobile - ha detto - ma va trattata con cautela, perché non può trasformarsi in uno scontro con la magistratura”. Ma prima c’era stata anche la voce dal sen fuggita del sottosegretario Delmastro sulla riforma, che aveva destato clamore perché accoglieva molte delle critiche che le toghe organizzate stanno muovendo al testo Nordio. Parole che, lette tra le righe, rivelano la sindrome di sempre: quella di una destra che diffida dei giudici organizzati ma non osa sfidarli fino in fondo. Come se temesse che il passo definitivo - quello della riforma strutturale - possa spezzare un equilibrio istituzionale di cui in fondo si fida. La stessa prudenza che aveva spinto Fini, nel pieno del duello con Berlusconi, a parlare di “processo breve” come di una misura utile solo a “cancellare i contenziosi del premier”, e che oggi riemerge nei distinguo tra le varie anime del centrodestra. Niente di clamoroso, beninteso: la riforma Nordio è il terreno su cui, dall’inizio della legislatura, si è registrata la maggiore sintonia nella maggioranza, ma da domani si entrerà in una fase - quella della campagna referendaria - in cui ogni tentennamento potrebbe essere recepito dagli elettori come una concessione alle argomentazioni del fronte del no. D’altra parte, non sarebbe la prima volta che la destra arriva a un passo dalla svolta e si ferma. “Braccino”, direbbero nel linguaggio sportivo. Ma in politica, il braccino è spesso sinonimo di volontà inconfessabile. E la storia insegna che sul terreno della giustizia, più che altrove, la destra italiana ha sempre preferito evitare l’ultimo miglio, quello che la trasformerebbe da forza di protesta a forza di sistema. Oggi la sfida è tutta lì: dimostrare che quel passo, finalmente, è pronta a compierlo davvero. Ragioni solide, e di sinistra, per dire di “sì” alla separazione delle carriere di Enrico Morando Il Foglio, 30 ottobre 2025 La sinistra non ha soltanto consentito, ma ha anche guidato, il processo di riforma che oggi può trovare compimento con la separazione delle carriere. Nel 1999 fu il centrosinistra a promuovere il lavoro politico-parlamentare sul principio del giusto processo. La campagna per il referendum sulla riforma costituzionale per la separazione delle carriere dei magistrati requirenti da quelle dei magistrati giudicanti è partita sotto i peggiori auspici. Il primo ad imbrogliare le carte è stato il Ministro Nordio (Il Dubbio-16-11-24): “Siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete, votate sì al referendum confermativo”. Subito seguito da Giovanni Donzelli (FdI): “Il referendum sulla separazione delle carriere lo vincerà il popolo di Garlasco”. A sua volta superato da Francesco Boccia (PD), secondo il quale il vero oggetto del referendum sarebbe addirittura “impedire a Meloni di assumere i pieni poteri… Fermare la riforma per fermare Meloni”. Nessuno dei principali protagonisti della politica italiana sembra mettere nel conto la possibilità di condurre il confronto sul merito della riforma e del quesito referendario: la separazione è necessaria? È coerente con il dettato costituzionale o lo stravolge? La riforma accresce le garanzie per i cittadini o le minaccia? Già vedo i sorrisini di compatimento: veramente pensate che sia possibile l’approccio contrario? Cioè che il voto - su di una questione così complessa - possa essere il risultato di un’attenta valutazione delle soluzioni di riforma adottate, e non di una scelta di collocazione politica più generale: pro o contro il governo; destra o sinistra; Meloni o Schlein? Non sono ingenuo: che il referendum si inserisca come un fattore importante nel contesto del conflitto governo-opposizione è, in una certa misura, inevitabile. Ciò che mi pare inaccettabile è che la lunga esperienza di elaborazione, lotta e proposta politica compiuta - in tema di cura per il nostro malato sistema giustizia - dalla sinistra di governo nel corso di decenni venga completamente obliterata, vittima di un conflitto che traduce tutto in un eterno “o noi o loro”. Perché non solo non è conveniente (occhio ai sondaggi sulle intenzioni di voto per i partiti). Non solo non riconosce i cittadini come adulti capaci di giudicare, ma costituisce un’aperta rottura di continuità con l’atteggiamento politico tradizionale della sinistra in materia di equilibrio del rapporto tra i poteri e, più in generale, di assetto delle istituzioni repubblicane. Ecco perché noi di Libertàeguale - un’associazione di cultura politica che ha i piedi ben piantati nel centrosinistra italiano e gli occhi puntati sulla realtà del paese, che soffre del cattivo funzionamento del sistema giustizia - ci siamo dati il compito di condurre una campagna per il sì alla riforma che stia al quesito e sia coerente col contributo di iniziativa riformatrice che, su questa materia, ha fornito la sinistra. Un compito difficile, ma non impossibile: in tema di giusto processo e di separazione delle carriere siamo seduti sulle spalle di giganti della cultura del riformismo liberalsocialista come Giuliano Vassalli ed Emanuele Macaluso. Il primo è da tutti considerato il padre del rito accusatorio, introdotto in Italia alla fine degli anni 80. Con un’onestà culturale cristallina e una coerenza teorica ferrea fu proprio lui, in una memorabile intervista al Financial Times del 19-2-87, a prevedere che, senza la separazione delle carriere, il “suo” rito accusatorio non avrebbe funzionato: “è assolutamente incompatibile con molti altri dei principi destinati a restare in vigore nel nostro diritto e in particolare con il nostro ordinamento giudiziario. In particolare… ho detto che parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice, che ha… che non avrà più gli stessi poteri del giudice come li ha oggi, ma che continuerà a far parte della stessa carriera, degli stessi ruoli… essere colleghi eccetera, è uno degli elementi che non renderanno molto leale parlare di sistema accusatorio”. Il secondo, Emanuele Macaluso, ha dedicato i suoi sforzi a combattere - nella sinistra italiana - il germe devastante del giustizialismo, che considerava la più importante manifestazione/conseguenza della crisi della politica: le riforme, non il tentativo di sottomettere gli organi di controllo agli ordini della politica stessa, sono la risposta giusta al tentativo della magistratura requirente di esondare dal suo alveo, come dimostra il suo continuo ricorso alla categoria del consenso popolare, propria della politica democratica e non degli organi di controllo. Sì al giusto processo - accusa e difesa su di un piede di parità di fronte al giudice terzo -, perché la Costituzione presume l’innocenza e non la colpevolezza; riforme per reagire al cancro del populismo giustizialista: fu alla luce di questi due principi ispiratori che il centrosinistra, nella seconda metà degli anni 90 (a proposito di conflitto tra Governo e opposizione: difficile dire che, allora, la contrapposizione non fosse almeno altrettanto aspra dell’attuale), guidò il lavoro politico-parlamentare che condusse - nel 1999 - all’introduzione in Costituzione, con voto quasi unanime, del nuovo articolo 111, col principio del giusto processo. Era la premessa necessaria per giungere a superare l’impedimento strutturale di cui parlava Vassalli più di 10 anni prima. Non fu un caso che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 62 del 2000, ammettendo il primo tentativo di referendum sulla separazione delle carriere, potesse apertamente sostenere che né la distinzione delle funzioni, né la separazione delle carriere violassero alcun principio costituzionale. Si può dunque, a buon diritto, sostenere che la sinistra non ha soltanto consentito, ma in larga misura guidato il processo di riforma che può oggi trovare compimento con la separazione delle carriere. La riforma che in queste ore viene approvata dal Parlamento - in un clima di reciproca, pregiudiziale chiusura - è perfetta? Tutt’altro: il pasticcio del sorteggio per la nomina dei togati dei due CSM, per quanto motivato dall’esigenza di fare i conti con un problema reale, la degenerazione correntizia, resta tale e appare più figlio dell’approccio “uno vale uno” che di una destra liberale. C’erano e sono state proposte (Ceccanti) alternative più equilibrate. Sarebbe stato possibile tentare una soluzione concordata (il Pd vota sì alla separazione, mentre la maggioranza toglie di mezzo il sorteggio). Ora però il referendum impone la scelta tra il sì e il no. Per me, la separazione delle carriere vale più, in positivo, del negativo sorteggio per il CSM. Gratteri, Di Pietro e Garlasco. Ecco la campagna per procura di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 ottobre 2025 Verso il referendum. Il procuratore di Napoli già capeggia il fronte del no. Dall’altra parte c’è l’ex eroe di Mani pulite. Tra fine febbraio e inizio marzo uscirà Portobello, la serie di Bellocchio sul caso Tortora, il più grave errore giudiziario della storia della Repubblica. La destra userà anche quello. “Il popolo di Garlasco” contro “il partito della magistratura”. Lo schema è facile, la campagna è partita. Trasmissioni televisive che tengono accesa la brace sotto al calderone del cold case. Podcast di cronaca nera specializzati nella conta delle macchie di sangue. Post, reel, meme. Giovanni Donzelli l’ha detto chiaramente che a vincere il referendum sarà “quel popolo silenzioso di italiani che sono rimasti sconvolti dalle sviste, dalle indagini condotte male”. Il popolo di Garlasco, appunto: gli spettatori pigramente scandalizzati da un caso di cronaca nera che non riesce a trovare una soluzione accettabile da diciotto anni (in realtà una sentenza definitiva esiste pure, ma ha il difetto di non piacere a nessuno). E la procura di Pavia, titolare dell’inchiesta, sta facendo di tutto per peggiorare le cose nella sua realizzazione dell’antica profezia di Bettino Craxi: “Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro”. Per ora si limitano a iscriversi a vicenda nel registro degli indagati, ma la strada è quella. Le toghe, insomma, quando ci si mettono sono ben capaci di delegittimarsi da sole e la destra, per vincere il referendum, ha l’intenzione di puntare tutto sulla supposta antipatia popolare nei confronti dei giudici. La campagna mediatica, nelle previsioni dei dirigenti della destra italiana, si farà da sola. E non mancherà nemmeno un tocco artistico: tra fine febbraio e inizio marzo uscirà Portobello, la serie diretta da Marco Bellocchio sul caso di Enzo Tortora, il più grave - o quantomeno il più famoso - scandalo giudiziario dell’era repubblicana, la storia di un popolare conduttore fatto a pezzi dalla giustizia anche se era del tutto innocente. Andrà in onda su Hbo Max, il servizio streaming della Warner Bros che farà il suo esordio in Italia all’inizio dell’anno prossimo. Probabile che se ne parlerà parecchio, la destra lo userà e la magistratura non ne uscirà affatto bene. Tanto di guadagnato per Giorgia Meloni, che al momento non appare intenzionata ad affrontare la campagna referendaria come fece Matteo Renzi nel 2016. Nessuna personalizzazione, meglio metterci il cappello senza sprecare la faccia. Perché vero è che vincere significherebbe trionfare, ma perdere aprirebbe nel muro del consenso una colossale breccia a pochi mesi dalle prossime elezioni politiche. Il gioco vale la candela? Per il presidente del senato Ignazio La Russa assolutamente no, come ha confessato martedì sera ai cronisti. E poi, in fondo, la guerra alla magistratura è un chiodo fisso solo di Forza Italia, che ha già dedicato l’impresa costituzionale alla memoria di Silvio Berlusconi. Meloni, come del resto il suo partito, viene da un’altra cultura politica. Infatti i pur numerosi affondi contro i magistrati degli ultimi due anni non sono mai stati sulla stessa linea dei “classici” del centrodestra italiano, ma si sono concentrati su un argomento specifico: l’immigrazione. Dalla disapplicazione del protocollo per i centri in Albania ad Almasri, il punto non è mai stato nello scontro in sé con le toghe, ma solo con quelle che hanno preso decisioni sgradite sul tema più delicato di tutti, il cavallo di battaglia di tutte le destre del mondo: la promessa che non passa lo straniero. Restare del tutto fuori dal dibattito, ad ogni modo, sarà impossibile per Meloni, anche perché quella della giustizia è l’unica tra le riforme previste a inizio legislatura che ha la possibilità di vedere la luce. Un bel dilemma per lei. Ma anche un problema per le opposizioni. Soprattutto per il Pd, che non vuole diventare “il partito della magistratura” ma, almeno in questi primissimi scampoli, sta subendo l’attivissima concorrenza del Movimento 5 Stelle. Niente mezze misure da queste parti, Giuseppe Conte ha già tirato in ballo Licio Gelli e la P2 come reali ispiratori della riforma, niente meno. Il volto che già incarna questa linea, fuori dalle forze politiche, è Nicola Gratteri, che, con share clamorosi, va in televisione un giorno sì e l’altro pure a ribadire che non si risparmierà in questa lotta all’ultimo sangue per l’autonomia e l’indipendenza della giurisdizione dal potere politico. Ci sarebbe da discutere, ma che l’argomento faccia presa è un dato di fatto: il frontman del no al referendum sarà lui. Con tutti i problemi del caso. Sabato, all’assemblea in Cassazione dell’Anm, il procuratore di Napoli ha fatto capire ai colleghi che sul palco referendario c’è spazio per uno solo. Lui. “Mi avete cercato per un mese e mi fate parlare solo sette minuti”, ha detto quando gli hanno chiesto di tagliare il suo fluviale intervento. Il bello è che aveva ragione, perché a destra è lui l’unico ad essere davvero temuto. Per questo sarebbe allo studio una contromossa. L’arruolamento del padre di tutte le demagogie giudiziarie (e non solo), l’uomo che trent’anni fa nei sondaggi aveva superato la fatidica soglia dell’eroe con l’80% dei consensi: Antonio Di Pietro, che già si è detto più volte favorevole alla separazione delle carriere. E ieri all’Ansa ha dichiarato di volersi impegnare, “a livello personale, a senza che alcun partito ci debba mettere il cappello sopra”. Al governo andrà bene lo stesso. “Chi sostiene la riforma della giustizia non è un nemico della Costituzione” huffingtonpost.it, 30 ottobre 2025 L’appello di un gruppo di avvocati progressisti favorevoli alla separazione delle carriere: “Ma respingiamo ogni identificazione con l’attuale maggioranza politica e questo governo”. Il Senato sta per approvare in quarta lettura la riforma costituzionale della separazione delle carriere dei magistrati, aprendo così le porte all’eventuale - ma scontato - Referendum confermativo. Già da tempo i partiti di opposizione e larghi settori della magistratura hanno cominciato a manifestare apertamente la propria ferma avversione alla Riforma, iscrivendo tutti i suoi fautori tra i nemici della magistratura e della Costituzione e facendone - per ciò solo - strenui sostenitori del Governo Meloni e delle sue politiche. Abbiamo deciso di esprimere il nostro disagio di fronte a questa identificazione: siamo dichiaratamente a favore della separazione delle carriere ma allo stesso tempo respingiamo ogni identificazione con l’attuale maggioranza politica e questo Governo, contro i cui provvedimenti in tema di giustizia (dal decreto sicurezza al disegno di legge sul femminicidio, passando per il carcere) abbiamo sempre manifestato la nostra più ferma contrarietà. Per questo rivolgiamo un appello alla politica e, in particolare, a tutte le forze di opposizione, affinché non alimentino ulteriormente questo equivoco che inquina un serio e costruttivo dibattito sui temi della Riforma, che nessuno di noi intende invocare contro la magistratura. Conosciamo bene le obiezioni che vengono mosse alla separazione delle carriere, ma rispondiamo semplicemente e convintamente che non temiamo che dalla stessa possa derivare alcun pregiudizio all’autonomia e all’indipendenza della magistratura o addirittura un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo. Non vi è alcun passaggio in questa legge che alimenti questa ipotesi; anzi: la creazione di un doppio Consiglio Superiore costituisce esattamente la tutela più forte contro gli scenari apocalittici che vengono prospettati dai suoi avversari. Né si può contrapporre alla Riforma l’idea di immaginifici scenari futuri per cui “oggi non c’è scritto ma domani chissà?” senza articolare alcuna seria e puntuale obiezione a riguardo (che sarebbe difficilmente sostenibile dato il testo delle norme). Sosteniamo questa Riforma perché crediamo che nell’ambito del processo penale chi svolge le indagini e conduce l’accusa (il pubblico ministero e la magistratura inquirente) debba essere un soggetto che non può compartecipare alla medesima organizzazione di chi è chiamato a decidere della fondatezza di quell’accusa (il giudice e la magistratura giudicante). Siamo convinti che l’unitarietà della carriera dei magistrati - al di là di ogni valutazione o considerazione sul correntismo che ha inquinato il Consiglio Superiore della Magistratura - abbia come inevitabile effetto quello di assegnare al pubblico ministero una posizione istituzionalmente (e anche moralmente) sovraordinata rispetto a quella della difesa; con l’ulteriore effetto che le indagini - proprio perché condotte da un magistrato che, come il giudice, tutela un interesse pubblico - finiscono per essere esse stesse giudizio, sovrapponendo e confondendo così l’ipotesi accusatoria con l’esito del processo. La separazione delle carriere non è, per noi, una riforma “contro” qualcosa o qualcuno, ma è una riforma per princìpi ben precisi: la garanzia di terzietà del giudice e la centralità del processo quale luogo costituzionalmente preordinato a valutare eventuali responsabilità penali. Con queste convinzioni ci apprestiamo a partecipare al dibattito pubblico sulla Riforma, con spirito di dialogo e di rispetto. Invitiamo tutti - magistratura inclusa - a non trasformare la campagna referendaria in uno scontro tra chi si autoproclama tutore della Carta costituzionale e chi, sostenendo la Riforma, viene invece additato come un avversario della Costituzione. Far scivolare la campagna referendaria su questo crinale sarebbe innanzitutto mistificatorio perché non si può negare che la Riforma abbia regolarmente seguito l’iter previsto dall’art. 138 della Costituzione. Così come non si può negare - perché è stata la stessa Corte costituzionale ad affermarlo (sentenza n. 58 del 2022) - che la Costituzione “non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti o a quelle requirenti”. Siamo alle porte di una campagna referendaria che - anziché confrontarsi serenamente sul merito di una Riforma che incide sul testo costituzionale - mira a dividere l’opinione pubblica tra buoni e cattivi, tra chi difende la Costituzione e chi la vuole demolire, tra chi tutela la magistratura e chi la vuole indebolita. Una campagna che rischia di trasformare questo referendum in un pericolosissimo scontro finale tra magistratura e politica. Contro questa fortissima contrapposizione - tanto semplicistica quanto strumentale - auspichiamo da parte di tutti un abbassamento dei toni: nessuno si erga a paladino della Costituzione contro gli altri; nessuno usi il referendum costituzionale come forma di legittimazione politica. Non è sostenendo la separazione delle carriere che si fa un torto alla Costituzione Repubblicana, ma trasformando la campagna referendaria in una sterile battaglia tra contrapposte tifoserie e negando pari dignità alle diverse posizioni che si fronteggeranno. Per questo auspichiamo che il dibattito assuma ora - prima che sia troppo tardi - toni più pacati e che finalmente si moltiplichino le occasioni di vero e sereno confronto sul merito della Riforma. Sottoscrivono: Dario Lunardon - Vicenza; Aurora Matteucci - Livorno; Michele Passione - Firenze; Stefania Amato - Brescia; Monica Gambirasio - Milano; Valentina Tuccari - Parma; Annamaria Alborghetti - Padova; Maurizio Basile - Torino; Rino Battocletti - Udine; Enrico Bordignon - Vicenza; Renato Borzone - Roma; Maria Brucale - Roma; Alessandro Brùstia - Novara; Roberto Capra - Torino; Federico Celano - Novara; Candido Ferrara - Roma; Giusi Ferro - Roma; Federico Fischer - Bologna; Alessandro Gamberini - Bologna; Cinzia Gauttieri - Roma; Sergio Genovesi - Mantova; Luana Granozio - Roma; Ettore Grenci - Bologna; Aldo Luchi - Cagliari; Laura Marchingiglio - Trapani; Mirko Mazzali - Milano; Barbara Mercuri - Prato; Andrea Mitresi - Pistoia; Laura Negri - Cremona; Andrea Niccolai - Pistoia; Emanuele Olcese - Genova; Sara Palandri - Firenze; Massimiliano Palena - Firenze; Cosimo Palumbo - Torino; Alice Poeta - Roma; Paola Ponte - Milano; Andrea Sandra - Udine; Giovanni Sarteschi - Pistoia; Carlo Serbelloni - Udine; Fabio Sommovigo - La Spezia; Maria Teresa Pintus - Sassari; Gabriele Terranova - Prato; Nicola Tria - Reggio Emilia; Cecilia Turco - Pistoia; Rosa Ugolini - Bologna; Attilio Villa – Monza. “Curiamo i violenti: contro i femminicidi le norme non bastano” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 30 ottobre 2025 Parla Alberto Liguori, procuratore di Civitavecchia: “Le misure cautelari più frequenti non impediscono di uccidere, bisogna puntare sulla prevenzione, con un approccio culturale che preveda la frequentazione dei centri per uomini maltrattanti”. “Nonostante il ricorso a quasi 5.000 braccialetti elettronici, le statistiche dei reati in materia di violenza domestica e di genere ci dicono che qualcosa non ha funzionato”, afferma Alberto Liguori, procuratore della Repubblica di Civitavecchia e fra i maggiori esperti nel contrasto a queste condotte criminali particolarmente intollerabili. Procuratore Liguori, questa settimana si è verificato un nuovo caso di femminicidio. Può spiegarci quali sono attualmente gli strumenti a disposizione degli inquirenti? Il legislatore, nel tempo, ha reagito rafforzando gli strumenti di contrasto alla violenza contro le donne con l’adozione di misure di tutela della vittima per sterilizzare al massimo le occasioni di contatto tra la vittima e l’indagato. La strategia ha un comune denominatore: la tempestività dell’intervento giudiziario sia attraverso l’esame della vittima nei tre giorni successivi all’iscrizione della notizia di reato sia con la successiva valutazione del quadro cautelare nei trenta giorni dalla medesima iscrizione, con opzione, nei casi più gravi, di misure cautelari personali o coercitive sulla base delle informazioni richieste all’organo di polizia giudiziaria procedente. Se però questo genere di reati, pur a fronte delle previste segnalazioni, non calano, è evidente che qualcosa, senza voler accusare la polizia giudiziaria o i pm, non torna... Bisogna essere chiari. L’applicazione delle misure cautelari più frequenti, quali l’allontanamento dalla casa familiare o e il divieto di avvicinamento in luoghi frequentati dalla persona offesa dell’autore del reato con l’aggiunta del braccialetto elettronico, non impediscono al violento di uccidere allontanandolo a 500 metri di distanza. E allora cosa servirebbe? Servirebbe, invece, che allorquando il giudice si determina per l’applicazione di una misura cautelare personale o coercitiva per il reo, nella parte dedicata alle prescrizioni, accanto all’implementazione del braccialetto elettronico, preveda anche la frequentazione di un programma di prevenzione della violenza presso uno dei Centri regionali di ascolto uomini maltrattanti e che, come accade per il braccialetto elettronico, in caso di rifiuto di sottoposizione deve scattare automaticamente l’applicazione di una misura più grave. Come si potrebbe attuare? Basterebbe intervenire sull’attuale assetto normativo delle misure coercitive più diffuse dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis cpp) e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282 ter cpp). Tocca al Parlamento intervenire? Per la verità, il nostro legislatore, anche perché sollecitato da organismi sovranazionali, se da una parte ha previsto percorsi di trattamento per gli autori di reato dall’altra li ha inseriti in una fase avanzata delle indagini preliminari e in un’ottica premiante e non di prevenzione vera e propria. Infatti, la sottoposizione ad un programma di prevenzione della violenza dell’autore è facoltativa, essendo a questi rimessa la scelta di beneficiare di regimi cautelari meno afflittivi (art. 299, comma 2 bis cpp), se non per ottenere la sospensione condizionale della pena (art. 165, comma 5, cp). Lei parla di approccio “culturale”? Già. Tenendo conto che è in gioco la libertà di autodeterminazione della donna, è una scelta di campo innanzitutto culturale che precede quella normativa. Gli interventi premianti e convenienti per il reo - sottoponiti ad un programma di prevenzione della violenza presso i Centri per uomini autori di violenza (Cuav) e ti scarcero o non ti faccio entrare in carcere - devono essere affiancati da strumenti di autentica prevenzione convenienti per tutti, reo, vittima e intera collettività, con la presa in carico dell’autore di violenza da parte dei Cuav entro il perimetro temporale assegnato al pubblico ministero dei 30 giorni dall’iscrizione della notizia di reato per decidere sulla libertà del reo. E poi? Portando a regime l’attuale sistema processuale potremmo incidere in maniera efficace mettendo in sicurezza la vittima e il reo, al quale comunque deve essere garantito anche il diritto alle cure, alzando l’asticella e anticipando alla fase che precede l’adozione della misura cautelare il momento della diagnosi e della terapia. La visione di coniugare “sicurezza, libertà e salute” è ambiziosa e necessaria. Mettere in sicurezza la vittima è prioritario, ma parallelamente, lavorare sulla “salute” dell’autore (intesa come superamento del disagio psicologico e delle dinamiche violente) non solo previene la recidiva, ma contribuisce anche a un obiettivo di giustizia più ampio, che include la rieducazione e il reinserimento. Il diritto alle cure per l’autore del reato, in questo contesto, assume il duplice significato di diritto individuale e di strumento di prevenzione sociale. Secondo lei sarebbe la soluzione più appropriata? Serve questo tipo di intervento mirato sull’autore del reato per ricostruire il contesto di appartenenza e agire in termini preventivi perché la violenza, ricordiamolo, è il risultato di un’interazione complessa di fattori biologici, psicologici, familiari e sociali. Campobasso. Detenuto trovato senza vita in carcere ansa.it, 30 ottobre 2025 È un cittadino straniero di 35 anni recluso a Campobasso. Disposta l’autopsia. Ieri mattina, nel carcere di Campobasso un detenuto di origine straniera di 35 anni è stato trovato senza vita all’interno della sua cella. Era arrivato da poco nel carcere del capoluogo e stava scontando una pena per reati legati alla droga. Al momento del ritrovamento era nel suo letto. Potrebbe trattarsi di morte naturale, ma è stata disposta l’autopsia per accertare le cause del decesso. Milano. Carcere di Opera, 135 grida dal silenzio. La lettera dei detenuti arriva in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2025 Acqua fredda, muffa, campanelli spenti e non solo. Una lettera collettiva dalla casa circondariale milanese innesca una denuncia in procura e un’interrogazione parlamentare. Mancanza di acqua calda, docce rotte, muffa sulle pareti, infiltrazioni d’acqua dalle finestre, assenza di riscaldamenti, campanelli d’emergenza disattivati. Sono quarantatré le criticità specifiche documentate in una lettera collettiva firmata da 135 detenuti del quarto piano del primo blocco della Casa di Reclusione di Milano Opera. La loro denuncia ha innescato delle iniziative: prima la Procura della Repubblica di Milano, dove l’Associazione “Quei Bravi Ragazzi Family - ONLUS” ha presentato un esposto, poi il Parlamento. Lunedì 27 ottobre la deputata del Pd Silvia Roggiani e altri sette colleghi hanno sottoscritto un’interrogazione al ministro della Giustizia. Nel testo della lettera, i detenuti descrivono il campanello d’emergenza disattivato con una frase che racchiude tutto: “Chi si ammala, spesso deve bussare e urlare per chiedere aiuto”. Quel campanello non è un lusso. Quando non funziona, la dignità cessa di essere una questione di principio e diventa pura sopravvivenza. L’interrogazione a risposta scritta depositata presso la Camera dei Deputati nella seduta di lunedì scorso non usa mezzi termini. La sottoscrivono, oltre a Roggiani, i deputati Cuperlo, Evi, Forattini, Girelli, Guerini, Mauri e Quartapelle. E il loro linguaggio è quello di chi ha rinunciato alla diplomazia. “Presso la casa di reclusione di Milano Opera, i detenuti delle sezioni A, B e C del quarto piano del primo blocco hanno presentato un’istanza di reclamo ai sensi dell’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario, rappresentando una serie di condizioni di grave disagio e deterioramento della qualità della vita detentiva”. Non è un’accusa. È la trascrizione burocratica di un atto di dolore. Le criticità enumerate nel testo parlamentare sono una fedele trasposizione di quello che i 135 detenuti denunciavano: “la mancanza di acqua calda e condizioni di deterioramento nei locali doccia; infiltrazioni d’acqua dalle finestre delle camere in caso di pioggia; insufficiente illuminazione artificiale dovuta a lampadine inadeguate; la disattivazione del campanello di emergenza nelle camere, con conseguente impossibilità di richiedere soccorso tempestivo in caso di malore; la carenza costante di personale sanitario e la discontinuità nella somministrazione delle terapie; la difficoltà per i detenuti delle sezioni interessate di accedere a colloqui con i propri legali, alla biblioteca, alla scuola e alle attività lavorative; tempi di attesa eccessivamente lunghi per i colloqui con i familiari; la mancanza o l’irregolarità nella fornitura di beni essenziali per l’igiene personale; limitazioni nell’acquisto di riviste, libri e beni di consumo; la palestra inutilizzabile a causa del degrado strutturale; le pessime condizioni delle camere detentive; il malfunzionamento della linea telefonica interna e delle cabine telefoniche nelle sezioni”. L’interrogazione non limita l’analisi alla gestione ordinaria. Solleva la questione costituzionale in termini espliciti: “Tali condizioni si pongono in violazione dell’articolo 27, terzo comma e dell’articolo 32 della Costituzione”. L’articolo 27, comma 3 stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Quando lo Stato consente che i campanelli rimangono spenti, che l’acqua calda non scorre, che la muffa cresce sulle pareti e il personale sanitario è cronicamente assente, viola direttamente quella norma. L’articolo 32 garantisce il diritto alla salute. Ma come può esistere quando “la carenza costante di personale sanitario” trasforma il carcere in un ospedale senza medici e le condizioni strutturali - muffa, umidità, freddo - minacciano costantemente la salute? C’è un secondo strato di violazioni che l’interrogazione parlamentare documenta con precisione: il carcere di Opera nega ai detenuti non solo le condizioni materiali minime, ma anche i diritti che dovrebbero essere inalienabili. “La difficoltà per i detenuti delle sezioni interessate di accedere a colloqui con i propri legali” rappresenta una violazione del diritto alla difesa. Non è una questione marginale di procedure: è la negazione di uno dei pilastri dello Stato di diritto. Quando un detenuto non può accedere agevolmente al suo avvocato, quello che viene compromesso non è solo il suo diritto individuale, ma la funzione stessa della giustizia penale. Un processo non può essere equo se l’imputato non può difendersi efficacemente. E se il carcere rende impossibile quella difesa, allora è il carcere stesso a violare il principio costituzionale del diritto a un processo equo. “Tempi di attesa eccessivamente lunghi per i colloqui con i familiari” e il “malfunzionamento della linea telefonica interna e delle cabine telefoniche nelle sezioni” rappresentano un’altra mutilazione: quella del diritto ai legami familiari. Questi non sono privilegi penitenziari. Sono gli ancoraggi che mantengono un uomo legato alla sua umanità quando lo Stato lo priva della libertà. Quando le telefonate diventano rare, quando i colloqui sono ritardati, quello che viene tolto è qualcosa di più della comunicazione: è la memoria della persona che sei fuori. E poi c’è l’istruzione. La “totale assenza di attività scolastiche, culturali e lavorative” rappresenta un abbandono ancora più radicale. Lo Stato privando un uomo della libertà gli sta dicendo: non solo non sei libero, ma nemmeno puoi crescere, imparare, trasformarti. È una negazione della stessa possibilità di redenzione che la pena moderna dovrebbe consentire. L’Associazione “Quei Bravi Ragazzi Family - ONLUS”, con la presidente Nadia Di Rocco, la vice presidente avvocato Guendalina Chiesi e gli avvocati Fabio Costa e Simona Patrone, non si è limitata a fare da megafono ai 135 detenuti. Ha presentato un esposto alla Procura di Milano chiedendo “l’apertura immediata di un’indagine penale su eventuali omissioni e responsabilità”. Non è retorica. Quando le condizioni sono queste, non si parla solo di negligenza amministrativa. L’Associazione richiede anche l’invio urgente di una commissione ispettiva esterna con la presenza dell’ASL per le questioni sanitarie, il NAS (Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma dei Carabinieri) per le questioni igienico- sanitarie e di sicurezza alimentare, il Garante nazionale dei detenuti per la tutela dei diritti fondamentali. L’interrogazione pone due domande concrete al guardasigilli: se abbia già disposto verifiche sulla situazione e “quali iniziative urgenti intenda adottare per ripristinare condizioni di vita conformi ai princìpi costituzionali e al diritto sovranazionale, garantendo l’accesso ai servizi essenziali e la tutela della salute dei detenuti”, se ritenga opportuno “promuovere interventi straordinari di manutenzione e di potenziamento dei servizi interni della struttura, anche attraverso un monitoraggio costante delle condizioni igienico- sanitarie”. Non sono interrogative retoriche. Pretendono risposte concrete: tempistiche, finanziamenti, azioni verificabili. L’interrogazione ricorda che “la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte richiamato gli Stati membri al rispetto degli standard minimi di vivibilità” e che “l’Italia ha già subito condanne in materia di condizioni detentive”. Quello che emerge dalla lettera dei 135 detenuti, dall’esposto e dall’interrogazione parlamentare è un quadro di assenza istituzionale. Il campanello disattivato non è un dettaglio tecnico: è il simbolo di un’istituzione che ha rinunciato al suo compito fondamentale - proteggere coloro che controlla, anche quando li punisce. La parola ora passa al ministro della Giustizia. Bergamo. Carcere, un nuovo picco di affollamento: 610 detenuti per 319 posti di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 30 ottobre 2025 Raggiunto quasi il doppio della capienza. Don Tengattini: “I politici dovrebbero venire a vedere”. Marchesi: “Numeri che non sono degni di un Paese civile”. “Mai cosi? tanti”. Quella frase, ormai ciclica se riferita al carcere di Bergamo, deve essere utilizzata per l’ennesima volta: lunedì?, stando ai dati ufficiali del ministero della Giustizia, in via Gleno si contavano 610 detenuti. E? il nuovo record negativo, toccato al termine di un’escalation che non conosce soste, qui come in gran parte d’Italia. A marzo era stata raggiunta quota 600, asticella sino a quel momento inedita, e a inizio aprile ci si spinse fino a 605. In mezzo c’e? stata un’oscillazione costante, quella che anima la vita di ogni penitenziario, tra nuovi ingressi (persone arrestate o che devono scontare condanne definitive), uscite (per fine pena o misure alternative) e trasferimenti. Il dodicesimo penitenziario piu? sovraffollato d’Italia - Ma la sostanza, basandosi sull’aritmetica, e? che il sistema pare essersi ingolfato, visto che la tendenza e? quella di un costante rialzo: domenica si e? arrivati a 607 presenti, il giorno seguente appunto a 610, prima di una lievissima flessione (martedi? si e? tornati a quota 606). Un anno fa, a fine ottobre 2024, Bergamo accoglieva 576 ristretti, due anni prima erano 549: in dodici mesi l’incremento e? stato di circa il 6%, in ventiquattro mesi +11%. Passo dopo passo, ci si avvicina all’ennesimo aspro traguardo, concreto e simbolico al tempo stesso: quello di ospitare il doppio delle persone rispetto a quanto previsto sulla carta. La capienza regolamentare della struttura e? infatti fissata a 319 posti, lunedi? il tasso di affollamento e? salito al 191%; sempre guardando ai dati del ministero, Bergamo e? il dodicesimo penitenziario piu? sovraffollato del Paese. Anche il personale soffre - “Da questa situazione sembra quasi impossibile venirne fuori - sospira don Luciano Tengattini, cappellano del carcere -. In questo momento, a livello nazionale non riscontro politiche di attenzione sul tema”. La vita quotidiana oltre le mura di cinta racconta le vicissitudini piu? varie, ma il filo comune, spesso, sembra annodarsi attorno ad apparenti paradossi: “Ci sono molte persone vicine al fine pena, oppure che entrano per condanne di pochi mesi, magari a distanza di anni dai fatti - ragiona il sacerdote -. Sarebbe utile, date le condizioni, permettere delle misure alternative a chi ha gia? scontato gran parte della pena e si avvicina al termine. L’atmosfera oggi e? sempre piu? pesante, non solo per i reclusi ma anche per il personale, e in primis per la polizia penitenziaria”. Che e? sottodimensionata nell’organico, con una carenza di una quarantina di agenti: a meta? ottobre il Consiglio comunale di Bergamo, all’unanimita?, ha votato un ordine del giorno per richiamare l’attenzione di governo e ministero sulle criticita? locali, ma al momento nulla e? cambiato. Forte la presenza della Chiesa - “Chi ha responsabilita? di governo dovrebbe entrare nelle carceri, fare un giro tra le sezioni, osservare cosa realmente accade - riflette don Tengattini -. Avere questa sensibilita? non significa spalancare le porte o essere buonisti, ma valutare la realta? dei fatti: lo Stato che vuole dare giustizia e? il primo a contraddirsi di fronte ai numeri, se in un carcere con poco piu? di 300 posti ci sono oltre 600 ristretti. La dignita? va rispettata”. In questi giorni all’interno della Casa circondariale sta prendendo servizio anche un altro cappellano, don Claudio Forlani, gia? parroco di Sforzatica. La presenza della Chiesa e? forte anche per far da ponte verso l’esterno, in cerca di riscatto: “Come Comunità Don Milani - spiega il direttore don Dario Acquaroli, gia? cappellano e che ora opera come volontario nell’ambito dei giovani adulti -, cerchiamo di accogliere in misura alternativa chi ne ha la possibilità. Proprio martedì un ragazzo ha lasciato il carcere per entrare da noi e iniziare un percorso di reinserimento. Certo, parlare di una sola persona puo? sembrare una briciola, ma ogni occasione consente di seguire la missione della rieducazione”. Si torna sempre alle cifre. “La matematica non e? un’opinione - e? il commento di Giulio Marchesi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Bergamo -: di fronte a questo contesto, non vedo altre soluzioni se non modificare la normativa penale o costruire nuove strutture. Forse bisognerebbe far funzionare meglio le misure alternative, o ragionare sui tanti che si trovano in custodia cautelare in attesa di giudizio definitivo. Certo questi numeri non sono degni di una citta? e di un Paese civile”. Terni. “Niente diagnosi né cure per detenuto con un melanoma”. In cinque a giudizio di Fabio Toni umbriaon.it, 30 ottobre 2025 Il gup Chiara Mastracchio ha disposto il processo per i medici della Usl Umbria 2 indagati, operativi presso il carcere di Sabbione. Il gup di Terni, Chiara Mastracchio, ha disposto mercoledì pomeriggio il processo per cinque medici della Usl Umbria 2, operativi nel tempo presso il carcere di Terni, per le ipotesi di reato di ‘lesioni personali’ e ‘omissione di atti d’ufficio’ in relazione a quanto denunciato da un detenuto 38enne campano e sostenuto, nel corso dell’udienza preliminare, dalla procura di Terni. Secondo la ricostruzione dell’accusa - titolare del fascicolo è il pm Elena Neri mentre in aula i rinvii a giudizio sono stati chiesti dal collega Giorgio Panucci - i cinque professionisti, difesi dagli avvocati Folco Trabalza, Marco Geremia, Giuseppe Sforza, Aniello Iozzino, Claudio Esibizione e Natalie Mostarda, non si sarebbero attivati per consentire visite e quindi diagnosi adeguate al detenuto, al quale era stato poi diagnosticato un tumore. In particolare, il 14 giugno del 2018 per il 38enne campano era stata chiesta una consulenza specialistica dermatologia per la presenza di un neo ‘sospetto’, un possibile melanoma, fra la regione lombare e quella dorsale. Nonostante le visite successive da parte del personale medico, per gli inquirenti non si era giunti ad una corretta diagnosi né all’attivazione delle procedure che avrebbero consentito un approfondimento medico tale da rivelare la patologia: il neo era effettivamente un melanoma e solo nell’ottobre del 2020 si era proceduto all’asportazione. Nel frattempo la patologia si era sviluppata in “numerose metastasi cerebrali”. Il detenuto e i suoi familiari sono parti civili attraverso gli avvocati Francesco Mattiangeli, Fabio Ottaviani e Ilario Taddei. La prima udienza del processo si terrà il prossimo 3 marzo di fronte al tribunale di Terni in composizione collegiale. I medici imputati, attraverso i propri legali, si dicono assolutamente convinti di poter dimostrare la propria totale estraneità alle contestazni mosse. Di contro il legale del 38enne campano, l’avvocato Mattiangeli, giudica il rinvio a giudizio “un primo importante passo verso l’accertamento della verità”. Siracusa. “Sta male e nessuno lo visita”: l’appello della moglie di un detenuto di Francesco Nania La Sicilia, 30 ottobre 2025 L’uomo, affetto da una rara patologia spinale, avrebbe bisogno di cure urgenti. Il garante dei diritti dei detenuti conferma le difficoltà: “È costretto a letto per gran parte della giornata”. Le condizioni di salute di un detenuto peggiorano e le richieste di sottoporlo a una visita specialistica finora non hanno dato alcun esito. La vicenda è stata sollevata dalla moglie di un siracusano, detenuto da circa sei mesi nella casa circondariale di Cavadonna. “L’ultima volta che mi sono recata al penitenziario per il colloquio - dice la donna - mio marito faticava anche a stare in piedi. Accusa una patologia rara, la siringomielia, una condizione neurologica caratterizzata dalla formazione di cisti piene di liquido nel midollo spinale. Una circostanza che gli causa dolori e altri sintomi come debolezza e rigidità dei muscoli”. Qualche giorno fa, nel tentativo di spostarsi nella cella, è caduto provocandosi un trauma al capo per il quale è stato curato al pronto soccorso dell’Umberto Primo. “Non comprendo il motivo per il quale tutte le PEC inviate dal nostro legale non abbiano avuto alcun seguito - continua la donna - io vorrei che fosse sottoposto a una visita neurologica per trovare un rimedio a queste sue atroci sofferenze”. Sul caso è intervenuto il garante dei diritti dei detenuti che ha incontrato il detenuto. “Ho notato anch’io la presenza di ematomi lungo la schiena. La maggior parte della giornata è costretto a trascorrerla a letto. L’Asp gli ha prescritto una risonanza magnetica lombo-sacrale e una visita neurologica, che spero siano fatte al più presto perché il detenuto soffre e andrebbe forse operato”. Altri detenuti accusano patologie serie per le quali occorrerebbero interventi con una certa urgenza: “Due di loro - spiega Villari - rischiano di perdere le gambe se non si interviene celermente”. Padova. Inaugurate 24 celle al carcere Due Palazzi e più agenti nel 2026 di Matilde Bicciato Corriere del Veneto, 30 ottobre 2025 La Casa di Reclusione “Due Palazzi” ospita cinquanta posti in più: sono state inaugurate ieri mattina le ventiquattro nuove celle, per un totale di cinquanta posti, che potranno accogliere nuovi detenuti, aumentando la capienza dell’area dedicata alle pene lunghe. Alla presenza della direttrice del carcere, Maria Gabriella Lusi, del prefetto Giuseppe Forlenza, e del procuratore capo di Padova, Angelantonio Racanelli, e del sottosegretario di Stato al Ministero della giustizia Andrea Ostellari, è stato tagliato il nastro inaugurale del nuovo spazio. Si tratta in tutto cinquanta posti, per un totale di ventiquattro celle, di cui una anche dedicata a persone con disabilità: un’area nata dalla ristrutturazione e dalla riqualificazione di una sezione già esistente - con un progetto che si somma ad un precedente realizzato a gennaio (quando anche in quel caso furono resi disponibili cinquanta posti). “Ci stiamo impegnando come amministrazione penitenziaria. Oggi inauguriamo un’altra sezione, moderna, che ha adeguate soluzioni per i detenuti e adeguati spazi per ci lavora”, ha detto il sottosegretario Ostellari, prima di commentare anche lo spinoso tema della carenza di personale. “Questo è un istituto che ha la nostra massima attenzione, da tutti i punti di vista. Abbiamo certamente bisogno di continui innesti di agenti, con allargamenti che arriveranno nei primi mesi del 2026 e che riguarderanno anche questo istituto”, ha continuato. Altro tema toccato dall’esponente leghista è la violenza giovanile. “In precedenti legislature, così come in questa, abbiamo proposto nuovi provvedimenti per combattere il fenomeno. Tra questi c’è l’ammonimento, che consente di tirare per le orecchie il ragazzo e la famiglia. Non si porta in carcere nessuno, ma si mappano i primi comportamenti delinquenziali. Penso però che sia necessario porre qualche correzione, per allargarlo ai reati più piccoli. Un giovanissimo che compie un semplice danneggiamento, una rissa o lesione non viene chiamato a rispondere. Io credo che invece si possa aumentare la capacità di questo strumento non da un punto di vista penale ma amministrativo”. Ivrea. Non basta chiamarlo “quartiere della città” se poi ci sono zero iniziative per il carcere di Francesco Curzio rossetorri.it, 30 ottobre 2025 Tra proteste dei detenuti e malcontento degli agenti la Casa Circondariale aumenta le barriere verso l’esterno. Il tema carcere in Italia salta agli onori della cronaca in genere per due motivi. Il primo è dato dalle frequenti notizie di suicidi di detenuti, proteste violente di singoli o rivolte collettive che avvengono negli istituti italiani. Il secondo deriva da sempre nuove richieste di “più carcere” con le quali i partiti di governo sono soliti rispondere a problemi che richiederebbero ben altra risposta, quali l’occupazione di strade, case o scuole, l’opposizione anche non violenta alla polizia penitenziaria e in genere qualunque resistenza a pubblico ufficiale. Il recente decreto sicurezza del 2025 viene indicato espressione di una “linea politico-criminale autoritaria” da importanti associazioni come l’Associazione Nazionale Magistrati, l’Unione Italiana delle Camere Penali, l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale. Il Governo però va avanti perché la via più facile, “più galera”, anche se inutile e ingiusta, è molto meno faticosa di quella più logica e difficile, che cerca di affrontare i problemi e riabilitare chi ha sbagliato. In questa prospettiva il carcere di Ivrea (o Casa Circondariale anche se di casa non ha granché) si trova in buon allineamento. Frequentemente filtrano notizie di rivolte individuali, proteste, suicidi o tentativi di suicidio. L’ultima è di una settimana fa, 19 ottobre, con episodi di aggressione, colluttazioni e diverse emergenze sanitarie. Un processo è in corso per la morte in cella nel dicembre 2023 del detenuto Andrea Pagani a causa della mancata assistenza medica e ricovero in Ospedale. Il caso era stato sollevato proprio dai compagni di detenzione sulle pagine della Fenice. Per il segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci, si tratta dell’ennesima conferma di un sistema che non regge più. “Il carcere di Ivrea è nel caos - ha dichiarato - il personale di Polizia Penitenziaria è lasciato solo di fronte a un’emergenza continua e prevedibile. Da tempo denunciamo una gestione fallimentare da parte dei vertici regionali dell’Amministrazione Penitenziaria, rimasti immobili di fronte a un istituto ormai fuori controllo. Servono interventi immediati: più personale, più sicurezza”. A questo va aggiunta la recente tendenza, nell’ultimo anno sempre più marcata, di chiusura verso la collaborazione di associazioni di volontari che da anni operano all’interno della struttura. Dei due giornali redatti dai detenuti, uno, La Fenice, supplemento di varieventuali, è stato chiuso dalla Direzione senza spiegazioni specifiche da un giorno all’altro a fine 2024, l’altro, L’Alba, curato dai volontari dell’Associazione Volontari penitenziari Tino Beiletti, ha potuto continuare solo dopo uno stretto vincolo di controllo della Direzione stessa. A diversi volontari è stato ritirato il permesso d’entrata, vistato dal Magistrato di sorveglianza, senza alcuna giustificazione, e a nuovi volontari che hanno fatto richiesta non è stato invece assegnato. Nuovi progetti di tipo artistico/letterario sono stati bocciati e altri già avviati sono stati stoppati. A forti disagi dei detenuti che inevitabilmente possono sboccare in rivolta, si aggiungono ormai anche le proteste da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria che, oltre alle frequenti rimostranze per l’organico troppo ridotto (c’è contemporaneamente sovraffollamento di detenuti e sottodimensionamento della Polizia) hanno deciso di inviare una diffida formale alla Direzione della Casa Circondariale, il DAP e il Ministero per la mancata consegna dei buoni pasto fin dal gennaio 2024. Naturalmente, come nel caso delle Associazioni, nessuna risposta. Ma se gli agenti hanno un sindacato che ne raccoglie le istanze, chi raccoglie quelle dei detenuti? Formalmente il Comune di Ivrea si è dotato, in quanto sede di un istituto carcerario, di un Garante delle persone private della libertà che però in questo quadro di progressiva chiusura sembra non avere niente da dire, come non ha niente da ridire l’assessora Gabriella Colosso che del carcere dovrebbe occuparsi, visto che la delega Recupero e sviluppo periferie comprende anche il carcere. Certo, sono state messe due panchine: una all’esterno (rossa per i reati di violenza sulle donne) e una blu (“della gentilezza”, vicino all’ingresso del Bar/spaccio). Entrambe quindi invisibili per i detenuti. Certo, è stato aperto un piccolo gattile all’interno del carcere, di cui sarebbe interessante conoscere il funzionamento. Per il resto iniziative per avvicinare questo “quartiere” alla città: zero. Modena. Il “dentro” è parte viva della città di Matteo Brighenti paneacquaculture.net, 30 ottobre 2025 Intervista a Stefano Tè sull’Accademia delle Arti e dei Mestieri del Teatro in Carcere. “L’investimento sulla cultura in carcere è un beneficio tangibile per l’intera società”. Stefano Tè, Direttore artistico del Teatro dei Venti, parla della nuova Accademia delle Arti e dei Mestieri del Teatro in Carcere a Modena, e lo fa con la convinzione di chi sa di aver progettato un percorso modello per la formazione professionale dei detenuti e per la creazione di un presidio culturale stabile in carcere. “Ciò che rende l’Accademia un modello - precisa - è la sua struttura sinergica. Non è un laboratorio teatrale. È un progetto composto da tre assi, che attraversano un centro: la creazione artistica al centro e, come assi - continua - la formazione della persona (artistica e tecnica), l’innovazione dell’istituzione penitenziaria (coinvolgendo il personale) e l’impatto sulla comunità (il dialogo con il “fuori”)”. 704 ore di lezione nella Sala Teatro della Casa Circondariale di Modena, da ottobre scorso fino a marzo prossimo, per un primo percorso didattico, che si articola con due programmi di studio, artistico e tecnico. “Ed è anche replicabile altrove, perché si basa su una collaborazione stretta tra il Teatro dei Venti, la Direzione dell’Istituto e una rete di sostegno istituzionale e finanziaria solida, a partire dal Ministero della Giustizia”. Stefano, partiamo da qui. L’attività artistica di alto livello, come adesso il Macbeth e prima la vostra produzione di Edipo Re, di cui scrissi con Elena Scolari, come si lega al messaggio di reinserimento e formazione professionale dell’Accademia? Si lega in modo indissolubile. Le attività dell’Accademia comprendono la realizzazione di spettacoli, che sono la dimostrazione pratica di ciò che facciamo. L’arte non è separata dalla formazione, dal passaggio di competenze. I detenuti che si formano come tecnici o artisti non lo fanno in astratto: lavorano su vere produzioni, di alta qualità, che vanno in scena nei teatri, oltre che in carcere, e dialogano con la città. L’arte diventa il laboratorio concreto del reinserimento. Anche se ne è solo uno degli strumenti. Il reinserimento non può passare solo dall’arte, questo deve essere chiaro, ma da una rete di supporto più grande, che spesso, però, purtroppo manca. Qual è lo stato attuale delle carceri? In che mondo carcerario nasce l’Accademia delle Arti e dei Mestieri del Teatro in Carcere? L’Accademia nasce in un contesto che vive di forti criticità, che tutti conosciamo, sovraffollamento, carenza di personale, e che di conseguenza ha un bisogno urgente di trasformazione. Il carcere non può essere solo espiazione; deve essere un luogo dove si agisce un cambiamento. Il ruolo del teatro, in questo contesto, ha un valore se si pone come realtà forte, con le sue regole e le sue dinamiche. Se si costruisce e si afferma con una sua identità. L’Accademia nasce anche per consolidare questo ruolo. L’Accademia vuole essere un presidio culturale in carcere che mira dunque a trasformare la detenzione in un’opportunità di reinserimento. Sembra fantascienza, utopia, e invece è realtà. Come ci siete riusciti? Come siete riusciti a trasformare quella fantascienza, quell’utopia, in realtà? Non è più fantascienza, ma non è ancora realtà, dobbiamo essere sinceri. Noi consideriamo l’Accademia un prototipo. È il risultato di un cammino ostinato, arrivato dopo un percorso ventennale del Teatro dei Venti dentro gli istituti penitenziari. Nasce da quattordici spettacoli prodotti, da centinaia di ore di laboratorio, dalla credibilità che abbiamo costruito con le Direzioni, con il personale e, soprattutto, con i detenuti. È diventata realtà grazie a una rete solida, creata anche grazie al Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, al Comune di Modena, alla Fondazione di Modena, che ha portato al sostegno fondamentale del Ministero della Giustizia e della Cassa delle Ammende. L’utopia si fa realtà quando la visione è condivisa, quando si superano le distanze definite dai ruoli, quando al sogno si affiancano la perseveranza, la professionalità e il sostegno istituzionale. Ma questo è solo l’inizio. È importante però ribadire che reinserimento, opportunità lavorativa, cambiamento, sono tematiche che attraversano il cuore del tema fondante, ma non sono la ragione. Noi nelle carceri cerchiamo di portare il Teatro, il vero motore del nostro agire, con tutte i suoi effetti positivi e tutti i contraccolpi. Stefano Tè alla conferenza stampa di presentazione dell’Accademia delle Arti e dei Mestieri del Teatro in Carcere del 14 ottobre alla Casa Circondariale di Modena. Foto di Teatro dei Venti Dopo il percorso che hai descritto, cosa rappresenta per il Teatro dei Venti l’Accademia? Quale nuova scommessa sulla persona incarna? Dopo tanti anni di lavoro sentivamo l’esigenza di fare un passo ulteriore. Non ci bastava più, per quanto importante, creare spettacoli, ma c’era bisogno di segnalare, di aumentare il livello della presenza del teatro in carcere. L’Accademia è il progetto che può innalzare questo livello. Incarna la volontà di passare dalla presenza del teatro in carcere per la creazione di spettacoli a una permanenza strutturata, certa, come la scuola. Per fare questo, è necessario, prima di tutto, uscire dal contesto teatro carcere, tenere al centro la qualità artistica e la formazione di professionalità riconosciute, con competenza spendibili fuori dal carcere. Quindi, cosa rende l’Accademia il passo giusto in questo momento? È il passo giusto perché è la naturale evoluzione del nostro impegno. Progetti come AHOS - All Hands On Stage, finanziato dall’Europa, ci hanno già spinto verso la professionalizzazione dei detenuti. Ora, grazie al sostegno del Ministero, possiamo strutturare questa intuizione. È il momento giusto per trasformare un’esperienza consolidata in un modello formativo completo, che non si limita all’atto artistico, ma abbraccia i mestieri del palco: fonica, illuminotecnica, sartoria, scenotecnica. Come avete selezione il corpo docente? Vista la particolarità del contesto, per questa prima fase abbiamo scelto professionisti che hanno già operato con noi in carcere, per diversi progetti, come nel caso di Vittorio Continelli, che ha curato la drammaturgia delle nostre ultime produzioni con attori detenuti, stessa cosa per la costumista Nuvia Valestri, per Marcello Marchi che ha condotto il corso di illuminotecnica nel progetto europeo AHOS. Mentre Oliviero Ponte di Pino, che terrà le lezioni di storia del teatro, ci ha scritto il Manuale di AHOS, raccogliendo le esperienze nelle Carceri dei cinque Paesi coinvolti. La collaborazione con Fabrizio Orlandi, storico tecnico di ERT, nasce da un’affinità artistica di lunga data, che affonda le radici nei primi anni del Teatro dei Venti. Sono persone che portano dentro il carcere non solo la loro sapienza, ma la loro esperienza viva del mestiere. Intento del progetto è anche quello di promuovere tirocini presso i teatri della città di Modena. Da sx a dx: Francesca Figini (Attrice del Teatro dei Venti e Responsabile progetti in Carcere), Nicoletta Saporito (Responsabile area trattamentale Carcere di Modena), Oliviero Ponte di Pino (Critico e docente del progetto Accademia), Eleonora De Marco (Vice Presidente Fondazione di Modena), Alessandra Camporota (Assessora alla Sicurezza urbana integrata e Coesione sociale Comune di Modena), Orazio Sorrentini (Direttore Carcere di Modena), Francesca Romana Valenzi (Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento del PRAP Emilia-Romagna), Stefano Tè (Regista e direttore artistico Teatro dei Venti), Davide Filippi (Attore Teatro dei Venti), Salvatore Sofia (Responsabile comunicazione Teatro dei Venti) In che modo la formazione del personale penitenziario, prevista dal progetto, può migliorare il dialogo e il clima in carcere? Questo è un asse fondamentale, perché il personale penitenziario è attore primario della nostra presenza in carcere e della buona riuscita dei progetti. Finora, ci siamo occupati delle relazioni, dell’ascolto, di porci in maniera adeguata, senza dare nulla per scontato. Ma crediamo che anche nella relazione con il personale penitenziario occorra fare un salto di qualità, cercando, per quanto possibile, di renderlo protagonista, al pari degli attori e delle attrici. Prevediamo una formazione specifica per il personale penitenziario, proprio perché crediamo che le pratiche teatrali condivise possano scardinare le dinamiche rigide e favorire un clima di collaborazione e dialogo costruttivo. Vogliamo migliorare la qualità delle relazioni interne, rinnovare la narrazione del carcere, rendendolo un ambiente più inclusivo per tutti coloro che lo vivono, detenuti e operatori. Quanto è importante il sostegno finanziario, lo ricordavi prima, del Ministero della Giustizia e della Cassa delle Ammende per la riconoscibilità e sostenibilità dell’Accademia? Certamente sono finanziamenti fondamentali, decisivi. Il sostegno della Cassa delle Ammende sostiene l’attività ordinaria, monitorata dal Comune di Modena, quello del Ministero della Giustizia è specifico per l’Accademia, che ha ricevuto un riconoscimento importante. Come fai notare, non è solo una questione di sostenibilità economica, che è ovviamente vitale. È una questione di riconoscibilità. Il fatto che il Ministero della Giustizia finanzi direttamente l’Accademia la qualifica come un progetto strategico, un “prototipo di buona pratica” a livello nazionale. Questo sostegno istituzionale ci permette di strutturare un prototipo e dà un peso diverso al lavoro che svolgiamo. Il nostro compito, però, è quello di allargare la rete anche ad altri finanziatori, perché il progetto Accademia non può permettersi di dipendere da un sostenitore unico, per quanto importante e riconoscibile. Quanta “fatica”, quanta abnegazione c’è nel mettere in comunicazione il “dentro” del carcere con il “fuori” della comunità? È un lavoro quotidiano, costante, che non si improvvisa da un giorno all’altro. La “fatica” sta nel superare i muri, che non sono solo quelli fisici. Innanzitutto, perché il carcere in questo momento ha altre priorità, l’ordine, la vivibilità, e poi perché rischia sempre di essere rimosso dall’immaginario collettivo, che nei termini “sovraffollamento” o “carenza di personale” legge qualcosa di astratto, di poco ponderabile. Mentre noi, che operiamo all’interno, sappiamo che si tratta di condizioni di vita reali e di grande difficoltà nel condurre le attività. La nostra sfida, la nostra abnegazione, sta nel generare un dialogo continuo tra questi due mondi, nel trasformare il carcere in un polo culturale che produce valore per le persone prima e poi per la città. Portare la comunità a vedere gli spettacoli, attivare tirocini all’esterno: ogni connessione richiede cura, diplomazia e una fiducia tenace nel fatto che il “dentro” è parte viva della città. L’obiettivo ambizioso è dare diplomi di qualifica professionale riconosciuti. Quale impatto ritieni possano avere sul reinserimento lavorativo dei detenuti? L’impatto che vogliamo ottenere è importante, determinante. Partiamo in questo primo anno rilasciando un attestato di frequenza dopo 704 ore di lezione, e già questo è un riconoscimento importante. Ma l’obiettivo futuro, quello ambizioso, è dare un diploma di qualifica professionale riconosciuto e tirocini strutturati nei teatri della regione. Questo fa tutta la differenza. Significa uscire di qui non solo con un’esperienza personale trasformativa, ma con uno strumento concreto, un titolo spendibile nel mercato del lavoro. È gettare le basi reali per un futuro diverso, per un reinserimento che non sia solo una parola, ma un fatto. Napoli. “Parole in Libertà”: un nuovo anno di articoli negli Istituti di detenzione Il Mattino, 30 ottobre 2025 Il carcere di Poggioreale, il carcere di Secondigliano insieme a Il Mattino, al garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, alla Fondazione Banco di Napoli e a noi, Fondazione Polis della Regione Campania per le vittime innocenti della criminalità e il riuso sociale dei beni confiscati alle mafie, insieme per un nuovo anno di lavoro negli istituti di detenzione, in collaborazione con la popolazione carceraria per scrivere nuove pagine di cultura e di approfondimento, veicolate dal giornale più importante di Napoli e del Sud Italia. Sono tante le parole spese, soprattutto nell’ultima decade, sulla giustizia riparativa. Noi crediamo che questa esperienza condivisa possa rappresentare una nuova stagione di incontri dove le persone ristrette siano rese protagoniste di un cambiamento reale che impatta anche sul mondo esterno: ovvero leggere la cronaca, ciò che accade tra le nostre strade ma anche agli estremi confini del mondo, con il filtro delle sbarre. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). “Ripariamo Vite”, la “Giara” nell’Istituto penitenziario di Valentina Di Salvo radiomilazzo.it, 30 ottobre 2025 Ripariamo Vite è un’officina riabilitativa attraverso l’arte segreta del Kintsugi “messa in scena della “Giara”, con la Libera Compagnia del Teatro per Sognare dei detenuti - attori che frequentano il laboratorio teatrale di D’aRteventi, all’interno dell’Istituto penitenziario “V. Madia” di Barcellona Pozzo di Gotto. Il carcere di Barcellona Pozzo di Gotto ospita un evento culturale virtuoso e molto significativo: la messa in scena della “Giara” di Luigi Pirandello, interpretata dalla Compagnia dei detenuti attori, con la Compagnia delle Signore di Patti e della studentessa dell’Università di Messina di Liberi di Essere Liberi, Adriana Malignaggi e la musica popolare di Pietro Scilipoti, movimento scenico Giovanna Prizzi, trucco e parrucco Giovanna Gaudenzi. L’evento è inserito nel progetto “Ripariamo Vite-un’officina riabilitativa che esplora l’arte segreta del Kintsugi”, l’arte giapponese di riparare le crepe della vita, ideato da D’aRteventi che vede la sinergia tra molti importanti partner come l’Associazione Le Miniere capofila del progetto, parco naturale votato alla promozione di attività per soggetti fragili, la Cooperativa Azione Sociale con un’esperienza quarantennale sui servizi per le persone fragili e svantaggiate, La Zappa e il Lombrico, fattoria immersa in un’Oasi Biologica specializzata nell’agricoltura biologica, l’ Uepe - ufficio di esecuzione penale esterna con le sue antenne operative e l’Orto botanico di Messina, come preziosa consulenza sul mondo delle piante. Nonostante il teatro del carcere non sia ancora pronto, la compagnia dei detenuti attori ha trovato spazi alternativi per portare avanti il progetto sulle arti e mestieri del teatro. La rappresentazione della “Giara” di Pirandello è un momento importante per il carcere di Barcellona, che dimostra, attraverso il laboratorio teatrale portato avanti da tanti anni da D’aRteventi, come l’arte e la cultura possano essere strumenti di rinascita e di crescita personale. Il progetto “Ripariamo Vite” è un’iniziativa che mira a promuovere la riabilitazione e la reintegrazione dei detenuti attraverso l’arte e l’agricoltura attraverso un messaggio che vuole avvicinare alla cultura della vita. L’evento è un esempio che sottolinea come il teatro possa essere un potente strumento di cambiamento e di crescita, anche in contesti difficili come il carcere. La Giara, messa in scena al carcere Vittorio Madia, con la direzione artistica di Daniela Ursino e la regia di Giuseppe Spicuglia e l’aiuto regia Viviana Isgrò è una edizione speciale che vedrà la Giara di Don Lolò sanata con un mastice d’oro secondo la tradizione del Kintusi che vuole che le crepe dei vasi rotti si possano riparare con una lacca particolare e la foglia oro ma rimanendo ben visibili. La messa in scena della Giara, che racchiude in se’ tanti elementi significativi, è un’importante testimonianza di un’appassionata sinergia di D’aRteventi con il Direttore dell’Istituto penitenziario, Romina Taiani che crede fortemente nel valore della cultura come strumento di riscatto, e con l’area trattamentale con il capo area, Rosaria De Luca, con il Comandante della Polizia Penitenziaria, Salvatore Parisi e i suoi agenti e con il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Francesca Arriigo, Il progetto teatrale è sostenuto dalla Curia Arcivescovile di Messina con l’Arcivescovo Mons. Giovanni Accolla guida costante e fondamentale per la crescita del progetto e dall’Università di Messina con gli studenti di Liberi di Essere Liberi che con la Magnifica Rettrice Giovanna Spadari ha voluto rinnovare il protocollo d’intesa con il progetto. “Blindati: viaggio nelle carceri Italia”: nel doc di Luigi Pelazza parlano i ragazzi detenuti di Andrea Florenzano Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2025 “I social hanno reso tutti noi così, distaccati dalla realtà, a vivere di fantasie”. Pelazza non fa troppa retorica, le domande, anche quelle più scomode, le fa ai ragazzini. Le risposte sono sincere e non filtrate, a volte penitenti: “Tornassi indietro non farei truffe o spaccio, il problema è che già dai 12/13 anni vogliamo diventare uomini”. “Le cose che riempiono il ventre non hanno mai saziato il cuore”. Così Don Maurizio Patriciello, sacerdote ‘storico’ della chiesa di San Paolo Apostolo di Caivano impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, ha cercato per anni di dissuadere i ragazzi dal cadere nella strada della criminalità. Poche parole, che vanno dritte al punto. La via della Camorra, per i ragazzi di Napoli che nascono nel centro storico o nelle aree ad alta densità mafiosa (vedi Secondigliano o Caivano), è quella che reputano più semplice per raggiungere una stabilità economica. L’accesso al denaro facile, però, trasforma la cosiddetta paranza in carne da macello per le mafie. Che poi, sottolinea il parroco, rientrare nel solco della legalità è la cosa più complicata di tutte. Nel documentario prodotto da Warner Bros Discovery che andrà in onda in prima tv il 31 ottobre su DMAX (canale 52), Luigi Pelazza racconta cosa c’è dietro le realtà che hanno il compito di riabilitare i ragazzi che hanno sbagliato e che tentano di farli rientrare in quel solco. I luoghi come il carcere minorile di Nisida e il carcere di Bollate fungono da laboratori di legalità. “Blindati: viaggio nelle carceri Italia” è un racconto umano, che punta a un dialogo a tu per tu con gli operatori delle carceri e i protagonisti di questi luoghi, i carcerati. Pelazza non fa troppa retorica, le domande, anche quelle più scomode, le fa ai ragazzini. Le risposte sono sincere e non filtrate, a volte penitenti: “Tornassi indietro non farei truffe o spaccio, il problema è che già dai 12/13 anni vogliamo diventare uomini, per farlo ci servono i soldi. Guardiamo i ricchi e pensiamo ‘anche noi vogliamo esserlo’“, dice Luca. Don Maurizio non dà univocamente la responsabilità dell’attrattiva delle mafie, ai luoghi criminali o all’educazione, ma anche agli input che arrivano da social e serie tv: “I social media sono come una pistola carica che viene data in mano a un bambino, è ovvio che poi rischia di uccidere qualcuno - e sul cinema continua - I film in cui il camorrista appare come forte e potente e al contrario lo Stato come debole e impaurito hanno un’influenza negativa sul ragazzo”. Il parroco di Caivano pare non avere dubbi. Una conferma di alcune sue dichiarazioni arriva da una fonte ben più giovane. Pelazza gira tra i bassi dei quartieri spagnoli nel centro storico di Napoli e si mette a parlare con due ragazzini giovanissimi. Uno dei due ammette: “TikTok ha reso tutti noi così, distaccati dalla realtà. Ognuno vive in un mondo suo e campa di fantasie”. La via del carcere è sempre quella più dura e faticosa da accettare per tutti, criminali, operatori e inquirenti. Per evitarlo, però, serve un grosso lavoro preventivo svolto in particolare dagli organi dello Stato che necessitano una radicalizzazione capillare sul territorio. Controllare un’area così vasta e densamente popolata, fatta di cunicoli e viuzze, è una missione impossibile. A questo serve la sezione Falchi della Polizia dello Stato, fatta di 40 unità, che girano in moto per il centro storico di Napoli e cercano di garantire la sicurezza di passanti e turisti. Pelazza viaggia con loro e osserva il loro operato, tra rapine in casa sventate e controlli di ordinaria routine. “Quando si fa un arresto perdono tutti”, dice un’ex componente dei Falchi. Dialoga proprio con un pizzaiolo del quartiere che aveva arrestato a 17 anni e con cui ora ha stretto un’amicizia. Secondo l’ex guappo la camorra è “una strada che non sfonda - e aggiunge - o suoni di campane o suoni di celle”. Il destino dei mafiosi come ripetuto nel documentario dal Procuratore della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri è sempre e solo uno: “O il camposanto, o il carcere”. Gratteri in chiusura fa un’analisi sulla vita del camorrista, quella vera. “I ragazzi sono destinati a essere carne da macello, ormai vengono reclutati anche sui social. Il mafioso può anche ostentare la ricchezza, la bella macchina, l’orologio costoso, ma la verità è che fa una vita di Stress - e chiude - Sa che ogni giorno per lui può essere l’ultimo, e nel migliore dei casi potrà essere svegliato alle 5 di mattina per un arresto.” Il magistrato, infine, rivolge una riflessione alle carceri, sempre più affollate e distanti da un percorso rieducativo funzionale al reinserimento del detenuto nella società: “Ormai le carceri non sono più tali, ma sono dei contenitori. Un via vai di criminali che entrano nel loop della galera e non ne escono più”. Porte sante nelle carceri: “Omaggio a Francesco, offriamo una speranza” di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 30 ottobre 2025 Era stato Bergoglio a lanciare l’idea dopo averne inaugurata una a Rebibbia. Adesso saranno dieci. Davide Rampello la chiama una “bottega rinascimentale”: architetti, scultori, ingegneri, artigiani, ma c’è anche un regista, un’astrofisica e uno chef, tutti insieme per costruire dieci “porte della speranza” dinanzi ad altrettante carceri. Un’idea promossa dalla Santa Sede che, coinvolgendo la popolazione carceraria, punta a creare un simbolico passaggio tra il dentro e il fuori. “In tutto saranno un centinaio di persone”, racconta Rampello, che cura la realizzazione del progetto, “un cantiere che alla fine realizzerà queste opere d’arte”. Dopo Bergoglio - Tutto nasce da papa Francesco, che dopo avere aperto la porta santa del Giubileo a San Pietro aprì un’altra porta santa, l’ingresso della cappella del carcere romano di Rebibbia. Il Vaticano è ripartito da lì. “La Chiesa avverte come propria missione la responsabilità di andare incontro alle persone in situazioni di detenzione per annunciare loro il Vangelo della speranza”, ha spiegato il cardinale José Tolentino de Mendonça, ministro della Cultura del Papa a sua volta attentissimo alla realtà carceraria (scelse l’istituto femminile della Giudecca per il padiglione della Santa Sede alla Biennale di Venezia). “Vogliamo contribuire per svegliare la coscienza della nostra comune responsabilità di custodi della speranza. Quando ci guardiamo come fratelli, avviene la comune tessitura della speranza”. Non solo artisti - Ora un’eterogenea e prestigiosa rosa di creativi realizzerà, da qui a settembre dell’anno prossimo, otto porte monumentali di fronte ad altrettante carceri italiane: Michele De Lucchi al San Vittore di Milano, Fabio Novembre alla sezione femminile di Borgo San Nicola di Lecce, Gianni Dessì al Regina Coeli a Roma, Stefano Boeri a Canton Mombello di Brescia, Mimmo Paladino a Secondigliano a Napoli, e poi il regista Mario Martone a Santa Maria Maggiore a Venezia, lo chef Massimo Bottura al Pagliarelli di Palermo e l’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta a Reggio Calabria. Un segno di speranza - “Ci siamo rivolti non solo a artisti ma a uomini e donne che nella loro discipline contemplassero la visione della speranza”, spiega Rampello. Accanto a ognuno di loro ci saranno disegnatori, artigiani, scalpellini, falegnami “che daranno forma alla loro narrazione, perché anche chi non ha il linguaggio del disegnare ha il talento di raccontare”. Altre due porte verranno realizzare in Portogallo, paese originario del cardinale de Mendonca. Le porte della speranza “vogliono essere una possibilità per l’opinione pubblica per “entrare” nella realtà del carcere”, ha spiegato monsignor Davide Milani del Vaticano, “comprendendone la necessaria funzione riabilitativa e umana, così che sia sempre più centrale nelle preoccupazioni della politica e della società civile”. Il male nefasto dell’antisemitismo e la reazione necessaria di Danilo Paolini Avvenire, 30 ottobre 2025 Perché non c’è niente di più sbagliato di trasformare in odio verso gli ebrei gli errori e gli orrori di un governo come quello di Netanyahu. Un gruppo di attivisti pro Pal ha impedito lo svolgimento di un incontro-dibattito sulle prospettive di pace in Medioriente nell’Università di ca’ Foscari a Venezia, interrompendo un incontro a cui stava prendendo parte il parlamentare Emanuele Fiano (Pd), con slogan e cartelli contro il sionismo. Dunque in Europa, e nella nostra Italia, torna a farsi vedere (e sentire) il male antico e nefasto dell’antisemitismo, l’odio verso gli ebrei. Le atrocità perpetrate in Medio Oriente sembrano avere pericolosamente ravvivato una fiamma mai, in realtà, del tutto spenta. E quando un simile germe viene all’evidenza nelle università, luoghi preposti alla coltivazione del dialogo e della conoscenza, il livello d’allarme sale. L’ultimo episodio ha coinvolto lunedì scorso a Venezia Emanuele Fiano, esponente di “Sinistra per Israele” ed ex parlamentare del Pd, al quale un gruppo di giovani ha impedito di parlare all’università Ca’ Foscari. Esibivano uno striscione con la falce e il martello, quei ragazzi. E subito il dibattito si è spostato sulle appartenenze: “Un comportamento da fascisti”, si è detto a sinistra, al massimo da “fascisti rossi”; “No, erano chiaramente comunisti”, si è ribattuto a destra. E così si sono perse non una, ma due occasioni: strappare un episodio così grave alla polarizzazione imperante della politica e avviare una riflessione condivisa su un fenomeno che non può e non deve tornare. Una riflessione da portare nelle scuole e, appunto, nelle università. Nelle tante manifestazioni pro-Palestina - insieme alla sacrosanta indignazione per la strage di umanità e di dignità imposta dal governo israeliano - si sono visti e sentiti, purtroppo, cartelli e slogan che inneggiavano alla cancellazione dello Stato di Israele. “Ma se tu neghi che un popolo possa costituirsi in Stato, allora sei antisemita. Se mi neghi il diritto ad avere uno Stato, allora l’antisionismo si trasforma in antisemitismo”, ha osservato Emanuele Fiano, figlio di Nedo, sopravvissuto al campo di concentramento nazista di Auschwitz. Martedì prossimo, 4 novembre, l’ex parlamentare dem sarà di nuovo alla Ca’ Foscari insieme alla ministra dell’Università Anna Maria Bernini. E sarà un bel giorno, se potrà esprimere liberamente il proprio pensiero. Anche perché lunedì era stato invitato lì per parlare sul tema “due popoli, due Stati” e della possibile pace in Medio Oriente. In effetti, anche il popolo palestinese ha diritto a costituirsi in Stato. Ma non c’è niente di più sbagliato di trasformare in odio verso gli ebrei gli errori e gli orrori di un governo come quello di Netanyahu. Lo ha spiegato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 7 ottobre scorso, nel secondo anniversario dell’attacco terroristico di Hamas: “Quanto avviene a Gaza e i diversi sentimenti che suscita non possono confluire in quello ignobile dell’antisemitismo che, particolarmente nel secolo scorso, ha toccato punte di mostruosa atrocità, e che oggi appare talvolta riaffiorare, fondandosi sull’imbecillità e diffondendo odio”. Donne e uomini sono vittime di violenza digitale: riuscirà Meta a sconfiggerla? di Sabina Cuccaro* Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2025 Se nel revenge porn l’80% delle vittime sono donne, nella sextortion il 90% sono uomini. I dati e gli strumenti di Meta per contrastare il fenomeno. Esiste una livella nel mondo della violenza digitale? No. Lo sappiamo tutti: le donne sono le principali vittime (anche qui). Eppure, c’è un contrappasso. Perché, se la violenza digitale colpisce il sesso femminile, sembra poi ‘compensare’ accanendosi sugli uomini in modo speculare e opposto. Prendiamo il revenge porn (la condivisione non consensuale di materiale intimo a scopo vendicativo): l’80% delle vittime sono donne. La situazione, però, si capovolge quando entra in campo la sextortion. È l’estorsione di soldi o favori sessuali con la minaccia di diffondere contenuti intimi. Qui, il 90% delle vittime sono uomini. E, questa volta, ad essere carnefici sono le donne. O le finte donne. Ad adescare i maschi, infatti, spesso sono profili fake, sotto forma di ragazze avvenenti: si presentano come affidabili, comprensive e interessate al benessere della vittima. Piano piano, il rapporto diventa più intimo, fino a scambiarsi materiale erotico. Ed ecco. Pesce abboccato. Ci sono, poi, estorsioni più pittoresche. È il caso delle amanti che ricattano il fedifrago: “Se non lasci tua moglie, le arriveranno delle belle foto”. Tornando seri, va detto che non sono episodi così sporadici come si possa credere. Secondo i dati raccolti dall’associazione Permesso Negato, nel periodo compreso tra il 2020 e il 2024, ci sono stati più di mille casi. Ma il grosso è, ovviamente, il sommerso: la stragrande maggioranza non denuncia per vergogna. Particolarmente sensibile a questo e ad altre violazioni digitali è Meta. Meno male che ci ha pensato Zuckerberg, visto che le iniziative in parlamento languono. Meta ha implementato gli strumenti per la rimozione di contenuti intimi, sia reali che creati dall’AI, e condivisi senza consenso. Instagram, in particolare, ha introdotto una funzione che sfoca automaticamente le immagini di nudità inviate e ricevute attraverso i DM. Se poi le immagini hanno la funzione “Visualizza una volta” o “Consenti di riprodurre di nuovo”, non si potrà fare il vecchio screenshot senza il consenso. C’è, poi, una serie di protezioni per gli account dei nostri pargoli (adolescenti). Riuscirà il nostro supereroe Meta a sconfiggere la cattivissima violenza digitale? *Giornalista e blogger La “linea gialla” di Israele che restringe la Striscia sembra un’annessione di Nello Scavo Avvenire, 30 ottobre 2025 Doveva essere la linea del primo arretramento israeliano, in vista dell’uscita da Gaza. Ma ora la “linea gialla” si candida ad essere un confine stabile. Doveva essere la linea del primo arretramento israeliano, in vista della definitiva uscita dalla Striscia di Gaza. Ma ora la “linea gialla” si candida ad essere un confine stabile. Israele aveva promesso di demarcare con segnali distintivi, ma dopo la posa dei pesanti blocchi di cemento molti hanno cominciato a temere che non fosse un confine temporaneo. A dirlo è il quotidiano “Yedioth Ahronoth”, il più diffuso in Israele, secondo cui la demarcazione attuale potrebbe presto diventare “una barriera alta e sofisticata che ridurrà la Striscia di Gaza, amplierà il Negev occidentale e consentirà la costruzione di insediamenti israeliani in quella zona”. Un piano del tutto simile a quello messo in atto in Cisgiordania, dove l’erosione dello spazio palestinese è sistematico e inesorabile. “Sembra una vera e propria annessione strisciante di Gaza”, sostiene Jeremy Konyndyk, ex funzionario degli aiuti umanitari statunitensi e ora presidente di “Refugees International”. Mentre sul “Guardian” Rohan Talbot, dell’organizzazione “Medical Aid for Palestinians” ha osservato come tutto per il momento sia talmente vago da non sapere esattamente quali saranno in futuro i nuovi confini della Striscia. “Molti attori diversi, tra cui ovviamente il governo israeliano, gli americani, la comunità internazionale e gli attori umanitari - ha aggiunto Konyndyk - stanno cercando di interpretare e influenzare ciò che accadrà in seguito”. Fino ad ora niente fa pensare che si sia appresa la regola corroborata in decenni di occupazione: “Che qualsiasi cosa temporanea nei territori palestinesi occupati - dice Talbot - diventa molto rapidamente permanente”. Un paio di giorni fa alcuni reporter sono stati condotti proprio sulla “linea gialla” sotto la guida dell’esercito israeliano. I resoconti vanno in un’unica direzione. “L’esercito israeliano si sta trincerando lungo la linea del cessate il fuoco all’interno di Gaza - ha raccontato il “Wall Street Journal” -, rafforzando le fortificazioni e realizzando infrastrutture che dividono ulteriormente il territorio in due”. A questo punto la presenza israeliana potrebbe cristallizzarsi sulle posizioni attuali, costringendo anche gli Usa ad accettare la ridefinizione dell’accordo per fermare le armi. In caso contrario la tregua potrebbe saltare e Trump perderebbe la faccia con qualsiasi leader internazionale con cui gli Usa dovranno misurarsi, dalla Cina, alla Russia all’Africa. “Il paradosso di Trump: opporsi all’annessione della Cisgiordania a parole, pur consentendola nella realtà”, ha scritto “Haaretz”, il quotidiano inviso al governo che mette in guardia dalle reali intenzioni di Netanyahu e dell’ultradestra sostenuta dal “partito dei coloni”, che con la loro ideologa Daniela Weiss da mesi dicono di essere pronti insediarsi nel Nord di Gaza. Gli Stati Uniti hanno avvertito, condannato, fatto pressioni e ripetutamente sottolineato che qualsiasi annessione, sia essa tramite legislazione o semplice dichiarazione, avrebbe oltrepassato una linea rossa per Washington. Tuttavia, la vera domanda è: in che misura questa opposizione cambia la realtà sul campo? Prima, però, c’è un problema da affrontare. Nelle ultime settimane, alti funzionari e agenzie di sicurezza israeliane hanno tenuto riunioni a porte chiuse per pianificare la gestione dell’imminente riapertura di Gaza al mondo. Con l’arrivo previsto di forze internazionali nella Striscia, Israele dovrà affrontare un obbligo non più derogabile: aprire ai giornalisti stranieri che potranno vedere la distruzione con i propri occhi e non attraverso il filtro di fonti locali. Le autorità hanno comunicato alla Corte Suprema che ai giornalisti israeliani e stranieri sarà presto consentito di entrare ma sotto la scorta delle Forze di difesa israeliane. Destinazione “linea gialla”. L’annuncio è arrivato durante un’udienza presso l’Alta Corte su una petizione presentata dall’Associazione della stampa estera, che contesta le restrizioni governative alla copertura mediatica dall’interno della Striscia. Brasile. A Rio de Janeiro la retorica della forza a uso politico di Federico Varese La Stampa, 30 ottobre 2025 La chiave per comprendere gli avvenimenti di Rio de Janeiro è duplice. La criminalità organizzata controlla in modo capillare vaste aree della città e del Paese, mentre la politica-divisa tra livello statele e federale--si affida ad operazioni brutali ma di facciata, simili a quelle di Donald Trump. Partiamo dal controllo del territorio. In questo momento a Rio sono attivi tre grandi gruppi in conflitto tra loro: il Comando Vermelho (CV, oggetto dell’operazione di ieri), il più numeroso e influente; il Terceiro Comando Puro (TCP); e le milizie, formate da ex agenti di polizia e paramilitari. Questi tre attori si contendono il dominio territoriale, impongono il pizzo e influenzano il sistema politico e l’economia, controllando la vita quotidiana come l’accesso all’elettricità, al gas, all’acqua, ai trasporti. Negli ultimi quindici anni, lo Stato di Rio de Janeiro (che è responsabile per la sicurezza ed è oggi guidato dal conservatore Cláudio Castro, vicino ai gruppi evangelici e a Bolsonaro) ha in buona misura tollerato l’attività delle milizie. Esse servivano a limitare l’espansione del Comando Vermelho- l’organizzazione fondata alla fine degli anni ‘70 nella prigione di Ilha Grande e che, almeno agli albori, condivideva con i gruppi marxisti un’ideologia di resistenza alla dittatura militare. Circa cinque anni fa, scoppiò uno scontro interno alle milizie che portò all’uccisione di diversi esponenti di spicco. Quella crisi interna provocò la frammentazione dei miliziani e permise al Comando Vermelho di recuperare terreno. Da quel momento, lo Stato ha intensificato l’uso della forza per tentare di fermare l’espansione del Comando Vermelho. L’ultima operazione significativa aveva causato, nel 2021, 28 morti a Jacarezinho. Ma l’azione di ieri è la più letale mai registrata: più di cento persone uccise, fra cui quattro poliziotti, nelle favelas del Complexo do Alemão e del Complexo da Penha. Questa escalation impone una domanda: tali operazioni servono a ridurre il crimine o - come sostengono diversi studiosi brasiliani, tra cui Daniel Hirata, professore di sociologia all’Universidade Federal Fluminense e interpellato da La Stampa - risultano controproducenti? Senza dubbio esse non intaccano il traffico internazionale di droga, che è in gran parte gestito da un quarto attore molto potente, il PCC (Primeiro Comando da Capital), basato a San Paolo e che ha solidi legami con l’`ndrangheta. La guerriglia urbana promossa dallo Stato produce terrore nei quartieri: le scuole chiudono, gli autobus si fermano, le famiglie si nascondono in casa, molti innocenti vengono uccisi. L’Istituto Marielle Franco - fondato in memoria dell’attivista e figura politica uccisa dalle milizie nel 2018 - ha definito quanto accaduto “una politica di sterminio”. Sono operazioni-spettacolo, con effetti devastanti ma effimeri, che non scalfiscono il legame tra gruppi criminali e popolazione. Servono soltanto a logorare la già fragile fiducia dei cittadini nelle istituzioni e ad alimentare la percezione che la repressione sia vendetta, non giustizia. Il sospetto è che l’azione abbia anche finalità politiche e di facciata: essa arriva a pochi giorni da importanti eventi internazionali a Rio - fra cui il vertice dei sindaci C40 e il premio Earthshot, preludio alla COP30. Non a caso, il governatore Castro ha criticato il governo federale di Lula da Silva sostenendo che dovrebbe fare di più contro la criminalità, ricevendo una replica stizzita dall’amministrazione, che ha ricordato la recente offensiva contro il riciclaggio di denaro. Oggi assistiamo, in tutto il mondo, a una militarizzazione sempre più estrema della lotta alla criminalità organizzata: dai politici di Rio a Donald Trump, che schiera la flotta di fronte alle coste del Venezuela. Nel frattempo, chi vive in quei luoghi continua a essere vittima di una doppia violenza - quella criminale e quella statale. Le soluzioni di lungo periodo, ancora una volta, si dissolvono dietro la retorica della forza. Darfur. La missione di Chiara negli ospedali per curare i figli della guerra di Jacopo Storni Corriere della Sera, 30 ottobre 2025 Coordinatrice di due cliniche con Intersos, Fumagalli racconta il conflitto dimenticato. “Oltre due milioni affamati o malnutriti, molti destinati a diventare bambini-soldato”. La sua vita è cambiata in terza elementare. Alla parete della classe c’era un poster del mondo che si abbraccia. “Il senso era che bisognava guardare oltre il nostro limitato orizzonte”. E dentro di lei scattò qualcosa. L’anno dopo, in quarta elementare, nella sua classe si presentarono alcuni cooperanti internazionali a parlare di mine anti-uomo in Afghanistan. “Da quando sono piccola ho sempre pensato che il senso della vita sia aiutare gli altri, quelli più sfortunati”. Ecco perché oggi Chiara Fumagalli, 30 anni, parla al telefono da una clinica sanitaria del Darfur, in Sudan occidentale dove a pochi chilometri imperversa una guerra civile che non fa notizia e dove i morti, soltanto negli ultimi due anni, sono stati decine di migliaia. È il dramma del Sudan: un mix letale di conflitti, cambiamenti climatici e povertà che ha portato 2,3 milioni di bambine e bambini sotto i 5 anni in una condizione di malnutrizione acuta. Chiara è lì con la ong Intersos: si occupa del coordinamento di due cliniche che accolgono gli sfollati di guerra. La struttura più complicata è quella che si trova nel villaggio di Khazan Tunjur, a metà strada tra il fronte della guerra e la città di Tawila, il primo rifugio dopo tre giorni di cammino dalle aree di crisi. Chiara vede arrivare quei bambini emaciati e denutriti, che hanno la stessa età che aveva lei quando una cartina geografica in classe cambiò il suo destino. “I bambini del Sudan non vanno a scuola. Quelli che scappano dalla guerra li vedo arrivare coi vestiti rotti, la pelle sporca e gonfia, gli ematomi, lo sguardo appannato e i polmoni che fanno fatica a respirare, la bocca aperta, affaticata”. Qualcuno muore, come quella bambina che ha visto spegnersi in ospedale per emorragia interna dopo un’anemia falciforme. Un lembo di mondo in cui anche la morte sembra diventata un’abitudine: “Se sei esposto costantemente al rischio non dico che l’idea della morte perda di valore, ma è un’opzione che prendi molto più in considerazione”. E poi quei ragazzini con l’anima flagellata: “Hanno meno di dieci anni eppure lavorano, nei campi, nelle officine, dove capita. Nei loro occhi vedo il vuoto, hanno sguardi persi e non sorridono mai. Anzi no - aggiunge - sorridono quelli che imbracciano un fucile, che ritrovano vigore indossando un’arma e diventando bambini-soldato”. Alla loro età Chiara cominciava a dipingere la sua vita nella tela dei sogni. Loro invece no, loro sembrano non avere neppure un destino. C’è un bambino a cui Chiara si è affezionata tanto, è nato in casa col rumore delle bombe attorno: “I suoi genitori credevano che sarebbe rimasto sordo, invece non lo è e per questo l’hanno chiamato Faris, che in arabo significa forte”. Non è semplice essere bambini in Sudan. E non è semplice viverci nemmeno per Chiara. “Lavoriamo fino a metà pomeriggio, poi in serata scatta il coprifuoco e non possiamo uscire”. Passa il tempo con gli altri cooperanti, oppure al telefono col suo fidanzato, imprenditore in Iraq. Alla domanda “ma chi te l’ha fatto fare?”, lei risponde schietta: “Nessuno me l’ha fatto fare, l’ho sempre voluto fare io, da quando ero piccola”. Dopo la laurea in Scienze politiche a Milano e un master a Londra è partita in missione per l’Iraq con una ong locale, poi è approdata a Intersos, che in Sudan supporta due centri di assistenza sanitaria di base e due ospedali pubblici, dove finora ha assistito 15 mila persone attraverso il lavoro di oltre venti tra medici e cooperanti. Non ci sono solo la guerra, la fame, gli sfollati. C’è anche il colera, un’epidemia tra le peggiori che abbia colpito il Paese. Chiara ondeggia in mezzo a questi scenari tragici. E forse - viene ancora da chiederle - potrebbe deprimersi ogni giorno di più. Invece succede l’opposto: “Perché nei traumi delle violenze, delle bombe, degli stupri, della malnutrizione, trovi anche la bellezza di chi si aiuta a vicenda. Viaggiando nel peggio dell’uomo - dice - ti accorgi anche di quanta umanità si annidi ancora dentro di lui. Noi, ogni giorno, ci aggrappiamo a questa”.