Piano carceri: come svuotare l’oceano con un cucchiaino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2025 L’eterna “promessa” di nuove celle. E nell’attesa, le carceri scoppiano. Martedì scorso, a Palazzo Chigi, si è consumato l’ennesimo atto di un copione ormai logoro: la terza riunione della cabina di regia per l’edilizia penitenziaria. Ministri, sottosegretari, commissario straordinario seduti attorno a un tavolo a snocciolare numeri che sulla carta dovrebbero impressionare: 10.676 nuovi posti detentivi entro dicembre 2027, cantieri che partono, padiglioni che si inaugurano, una macchina organizzativa che teoricamente funziona come un orologio svizzero. Per ora, ci accontenteremo di 506 posti in più a fine dicembre. Peccato che la realtà delle carceri italiane assomigli più a un orologio rotto, dove le lancette girano all’impazzata senza segnare mai l’ora giusta. E mentre Nordio, Salvini, Mantovano e gli altri membri della cabina di regia si congratulano per i progressi del programma triennale, nei penitenziari si continua a morire, a soffocare, a impazzire. I numeri in agenda sono chiari. Il calendario ufficiale prevede 506 posti da rendere disponibili tra settembre e dicembre 2025 (di cui 445 a cura del ministero delle Infrastrutture), 5.739 nel 2026, 4.074 nel 2027. Tra gli interventi citati figurano nuovi padiglioni e lotti in diverse carceri (Sulmona, Cagliari- Uta, Livorno, Fossombrone) e lavori a Milano, Brescia, Bologna, Rebibbia e altri. Sulla carta, una montagna di mattoni e moduli che dovrebbe riassorbire una parte del sovraffollamento. Eppure il problema non è solo contare i posti. È farli diventare reali, sostenibili e dignitosi. Qui si concentra il nodo vero: tempistiche, procedure d’appalto, costi reali, gestione del personale e, soprattutto, l’assenza di misure che riducano la popolazione detenuta - le cosiddette misure “deflattive” - che restano marginali nel progetto governativo. Le voci critiche non mancano: associazioni, garanti e organi di controllo mettono in fila ritardi, appalti fragili, rischi di soluzioni- tampone e la mancata strategia sul versante dei percorsi alternativi alla detenzione. La strategia annunciata dal ministro Nordio punta in parte su moduli prefabbricati - nei fatti container adattati a celle - e su un’accelerazione delle ristrutturazioni. Ma le soluzioni “rapide” hanno già mostrato il loro rovescio. Bandi annullati, aumenti dei prezzi e ricorsi rischiano di rimandare di mesi, se non anni, consegne e risparmi promessi. Per un lotto di prefabbricati previsto per 384 posti la spesa è salita dagli iniziali 32 milioni a oltre 45 milioni: circa 118 mila euro a posto letto. È solo un esempio del fatto che la formula “più posti a costi contenuti” non regge se la procedura è affrettata. La Corte dei conti ha già richiamato l’attenzione: permangono ritardi strutturali nell’attuazione del cosiddetto “Piano Carceri” e criticità nell’organizzazione degli appalti e delle risorse. La cronaca dei dieci anni passati mostra che progetti simili finiscono spesso per incagliarsi su contenziosi, limiti tecnici e carenze di progetto. Se la macchina amministrativa non tiene, i posti restano numeri nei comunicati. Guardiamo i numeri con l’attenzione che meritano. Il calendario prevede 506 posti disponibili tra settembre e dicembre 2025 - di cui 445 a cura del ministero delle Infrastrutture. Cinquecento posti in un sistema che a oggi conta oltre 62mila detenuti per una capienza regolamentare di circa 51mila. È come cercare di svuotare l’oceano con un cucchiaino. Il 2026 promette 5.739 nuovi posti, il 2027 altri 4.074. Totale: 10.319 unità, a cui si aggiungono gli 859 posti consegnati dal 2022 a oggi, per un totale di 11.178 posti nell’intera legislatura. Cifre che sulla carta impressionano, ma che alla prova dei fatti rivelano tutta la loro inadeguatezza. Il sovraffollamento reale, riferito al mese scorso, è di circa 16mila detenuti oltre la capienza. Nel migliore degli scenari, ammesso che tutti i cantieri vengano completati nei tempi previsti, ammesso che non ci siano ritardi, intoppi burocratici, problemi con le imprese appaltatrici, arriveremmo al 2027 con un sistema che a malapena riesce a pareggiare i conti. Ma c’è un problema: la popolazione carceraria non sta ferma ad aspettare che i cantieri finiscano. Cresce, si muove, risponde a logiche che hanno poco a che fare con i programmi triennali e molto con le scelte di politica criminale. Parliamo poi dei tempi di realizzazione. I cantieri che “dovrebbero partire” dall’anno prossimo includono San Vito al Tagliamento, Isili, Forlì, Oristano, Milano Opera, Brescia Verziano, Milano Bollate, Bologna, Roma Rebibbia, Milano San Vittore. Chiunque abbia una minima conoscenza del settore dell’edilizia pubblica in Italia sa che tra il “dovrebbe partire” e l’effettivo inizio dei lavori passa spesso un abisso fatto di gare d’appalto, ricorsi al Tar, varianti progettuali, contenziosi con le imprese. E anche quando i cantieri partono, i tempi si dilatano. Basta guardare la storia recente: quanti progetti sono stati annunciati con grande enfasi e poi si sono impantanati per anni? La casa di reclusione di Sulmona ha visto la luce dopo infinite traversie, i padiglioni di Livorno hanno accumulato ritardi su ritardi. Mentre si discute di padiglioni e moduli prefabbricati, il governo continua imperterrito sulla strada del carcerocentrismo. Nuovi reati, pene inasprite, una concezione della giustizia penale che vede nel carcere l’unica risposta possibile a ogni problema sociale. Il piano di Nordio è nato vecchio proprio perché ignora questo paradosso fondamentale. Non si può affrontare il sovraffollamento carcerario continuando a riempire le celle più velocemente di quanto si riesca a costruirle. Il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa lo ha ribadito più volte: la costruzione di nuove strutture carcerarie non rappresenta una soluzione sostenibile. La vera risposta sta nel ricorso al carcere come extrema ratio, nel privilegiare le misure alternative, nel ripensare radicalmente l’approccio punitivo. Il portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti, Samuele Ciambriello, lo ha scritto e detto chiaramente: nei provvedimenti governativi non si trovano misure deflattive significative capaci di ridurre in modo strutturale il sovraffollamento. L’edilizia penitenziaria non basta se la politica non affronta ciò che il presidente del senato Ignazio La Russa ha provato, invano, a conciliare tutti: le misure deflattive, come la proposta Giachetti di Italia Viva e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Proviamo a immaginare il 2027, l’anno in cui, secondo il piano, i cantieri dovrebbero aver partorito i loro frutti. Nel migliore degli scenari, e sottolineo “migliore”, avremo circa 11mila posti in più. Ma in questi tre anni cosa sarà successo alla popolazione carceraria? Se continuerà a crescere al ritmo attuale, se la politica penale non cambierà rotta, se non si investirà massicciamente sulle alternative alla detenzione, rischiamo di trovarci esattamente al punto di partenza. O peggio. Il piano di Nordio non prevede nessuna vera inversione di tendenza. È un piano che insegue l’emergenza senza mai riuscire a raggiungerla, che costruisce soluzioni temporanee spacciate per definitive, che alimenta l’illusione del fare mentre il sistema continua a implodere su sé stesso. Tra tre anni, quando arriverà il 2027, probabilmente ci si ritroverà a parlare dell’ennesima cabina di regia, l’ennesimo piano edilizio, le ennesime promesse. E nel frattempo, nelle carceri, si continuerà a soffrire, a impazzire, a morire. Perché il vero problema non è quanti posti detentivi riusciamo a costruire. Il vero problema è che continuiamo a riempire le carceri più velocemente di quanto riusciamo a svuotarle. Anche i detenuti senza casa potranno scontare la pena fuori dal carcere di Luca Sofri ilpost.it, 2 ottobre 2025 Il ministero della Giustizia ha istituito per la prima volta un elenco di strutture e ha messo dei soldi, ma non è detto che funzionerà. Martedì 30 settembre è entrato in vigore un decreto del ministero della Giustizia che per la prima volta stabilisce le modalità con cui i detenuti senza dimora potranno scontare la pena fuori dal carcere. Il decreto riguarda una questione importante. Le misure alternative al carcere - come la detenzione domiciliare - sono considerate fondamentali e molto efficaci nel percorso di reinserimento delle persone detenute, ma per chi non ha un domicilio di riferimento in cui scontarle accedervi è quasi impossibile. Spesso, tra l’altro, i detenuti senza dimora vengono condannati per reati minori, anche legati alle condizioni di povertà in cui si trovano: così finiscono per scontare in carcere pene lievi, che in condizioni sociali ed economiche migliori sconterebbero all’esterno. Il decreto non prevede la costruzione di nuove strutture, ma istituisce un elenco a cui possono iscriversi le strutture residenziali già esistenti che sono disponibili a ospitare persone detenute. Al programma verranno destinati sette milioni di euro l’anno. Sulla sua praticabilità ci sono varie incognite: dipenderà dal numero di strutture che si iscriveranno all’elenco e da quanto i fondi riusciranno a coprire le spese. La permanenza dei detenuti nelle strutture sarà infatti a carico del ministero, ma per un massimo di otto mesi, dopo i quali il detenuto dovrà trovare un domicilio autonomo: è un tempo molto limitato, tenendo conto delle condizioni di partenza di molte di queste persone, che rischiano quindi di tornare in carcere. Il decreto stato approvato lo scorso luglio ed era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, la fonte di tutte le leggi italiane, a metà settembre. Stabilisce criteri uniformi sui requisiti necessari per le strutture che vogliono iscriversi all’elenco, su quelli che devono avere i detenuti che facciano richiesta di scontarci la pena, sui tempi, sulle modalità e sulla gestione economica della misura. Possono fare richiesta di iscrizione all’elenco tutte le strutture residenziali o semiresidenziali (cioè attrezzate con camere per il pernottamento e con zone o locali in cui sia possibile svolgere attività diurne) che svolgano già attività in ambito sociale, sanitario, culturale, formativo o lavorativo. Possono essere strutture pubbliche, private, gestite da enti pubblici o da associazioni: i criteri sono piuttosto ampi. In Italia al momento la cosa più simile alle strutture per la detenzione domiciliare che non siano abitazioni private sono le case famiglia protette: sono strutture di accoglienza in cui possono scontare la propria pena fuori dal carcere le detenute madri (che spesso sono di etnia rom, prive di quello che il giudice ritiene un domicilio stabile per valutare praticabile la detenzione domiciliare). Furono istituite nel 2011 ma in Italia ne esistono solo due (a Milano e a Roma) perché non fu prevista nessuna copertura finanziaria da parte dello Stato, e la loro gestione è quindi interamente affidata al cosiddetto terzo settore, cioè organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale. Una volta accolta la persona detenuta, la struttura deve impegnarsi a realizzare programmi di reinserimento sociale e lavorativo non solo all’interno ma anche all’esterno della struttura. Durante la permanenza della persona detenuta verranno inviati agenti di polizia penitenziaria per tutti i controlli e le visite periodiche del caso normalmente previste dalla detenzione domiciliare. Per accedere al programma le persone detenute, oltre ovviamente a dover avere i requisiti per poter accedere alle misure alternative, non devono disporre di un domicilio ritenuto idoneo a stare in detenzione domiciliare, devono essere in condizioni di bisogno economico e non devono essere sottoposti a provvedimenti di espulsione dal territorio nazionale, come nel caso di migranti irregolari a cui sia stata rifiutata la richiesta di asilo. Per poter accedere alla misura la persona deve avere anche alcuni requisiti comportamentali: in carcere non deve aver ricevuto sanzioni disciplinari superiori all’ammonizione (le sanzioni sono di cinque tipi, in ordine di gravità: l’ammonizione è la seconda), non deve aver fatto aggressioni ad altre persone, deve essere in grado di svolgere attività lavorative e in generale aver dimostrato di partecipare attivamente alle attività previste in carcere. La richiesta deve essere fatta dalla persona detenuta al carcere e dev’essere poi esaminata da un ufficio del ministero della Giustizia (lo stesso che gestisce i fondi per questo progetto). Lo stesso ufficio dovrà indicare in quale struttura dovrà andare la persona detenuta e poi il carcere avrà due mesi per mandarcela. Se il numero di richieste accettate sarà superiore ai posti disponibili e alla copertura finanziaria prevista dal decreto, la possibilità di presentare domande verrà temporaneamente interrotta. Per capire se i fondi saranno sufficienti bisognerà vedere quante strutture si renderanno disponibili e quanti detenuti faranno domanda: secondo i dati del Garante nazionale dei detenuti, aggiornati a ottobre del 2024, circa il 30 per cento delle persone detenute in carcere in Italia (quindi quasi 20mila persone) avrebbero diritto a scontare la pena fuori dal carcere (tra questi ci sono anche, ma non solo, detenuti senza casa, su cui non ci sono però dati specifici). La salute mentale nelle carceri è un dato non quantificabile di Alessandro Villari Il Foglio, 2 ottobre 2025 L’ultimo rapporto della Società della ragione mette in luce la situazione negli istituti dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, evidenziando come la mancanza di criteri condivisi impedisca una comparazione sistematica. Non è possibile avere dei numeri precisi sul problema della salute mentale nelle carceri italiane. Si conclude così l’ultimo rapporto curato dalla Società della ragione chiamato “La salute mentale in carcere dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari”. Lo studio, da cui è nato anche un podcast disponibile su tutte le piattaforme, “Fratture”, ha dimostrato che esistono dati non quantificabili, e tra questi c’è proprio il livello di benessere delle persone private della libertà. La mancanza di criteri condivisi da tutte le istituzioni non permette di realizzare una comparazione sistematica: in alcuni casi infatti la scelta di classificare i detenuti all’interno di una categoria piuttosto che un’altra, evidenza il rapporto, “è influenzata da valutazioni di natura gestionale o discrezionale. La disomogeneità dei criteri adottati dagli istituti coinvolti per identificare e certificare la ‘presa in carico’, la ‘presa in cura’ e le ‘attività consulenziali’ dei detenuti con disturbi psichiatrici, ha restituito l’immagine della salute mentale in carcere come qualcosa di non quantificabile”. Lo studio, condotto da due ricercatori, Katia Poneti, esperta giuridica del Garante regionale dei detenuti della Toscana, e da Riccardo Girolimetto, sociologo della Società della ragione, è stato realizzato attraverso seminari e visite in tre realtà territoriali: Prato, Udine e la sezione femminile del carcere di Rebibbia. Nell’istituto romano però dopo i primi incontri, un cambio dell’amministrazione ha impedito che l’indagine proseguisse. Lo scopo del progetto è quello di conoscere il livello di tutela della salute mentale in carcere e di assistenza alle persone condannate con disturbi psichiatrici gravi da quando la gestione dei detenuti è passata dall’amministrazione carceraria al Servizio sanitario nazionale, nel 2008. E ha indagato su cosa sia successo con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) nel 2014 e la loro sostituzione con le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie che accolgono gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Se prendiamo in considerazione la serie storica di suicidi avvenuti in carcere negli ultimi dieci anni - nel 2024 ce ne sono stati 91 - viene fuori che il numero di suicidi nei contesti detentivi è venti volte superiore rispetto a quello della popolazione generale. Anche perché, secondo il Department of Mental Health and Substance Abuse dell’Organizzazione mondiale della sanità, molti episodi continuano “a manifestarsi anche dopo la scarcerazione”. La condizione di benessere dipende da diversi fattori. Alcuni possono essere facilmente identificabili: la quantità di ore d’aria, la frequenza dei provvedimenti di isolamento e le sanzioni disciplinari. Ma ci sono anche elementi meno visibili, come gli episodi di bullismo, i conflitti con altri detenuti che sfuggono agli occhi di chi dovrebbe vigilare e la possibilità che chi sia in prigione riceva brutte notizie dall’esterno. Si deve aggiungere che i ragazzi più giovani, entrando in carcere, devono recidere il legame con la famiglia e gli amici. Tutti questi elementi possono spingere la persona a provare “sentimenti di disperazione, perdita di prospettive e incapacità di agire” e in questo contesto il suicidio viene percepito come unica via di uscita da una situazione insostenibile. Purtroppo la fragilità emotiva è difficile da vedere e il contesto è reso ancora più difficile dalla mancanza di psichiatri in molti istituti. Anche per questo, gli agenti dovrebbero ricevere “un addestramento specifico e una lista di domande guida” per fare lo screening. Ma molto spesso è la stessa polizia penitenziaria che, come nel caso del carcere di Prato, vive male nell’ambiente carcerario e lo studio della Società della ragione è riuscito a raccogliere la testimonianza del comandante: “Ci sono in sezione ragazzi di 20 anni mandati qui dopo quattro mesi di corso e hanno paura di entrare dentro. Molti poi si licenziano. Di personale più vecchio di esperienza ce n’è rimasto pochissimo, i giovani non sono affiancati”. Nel carcere di Prato per esempio, i posti regolamentari sono 589, ma di fatto sono ospitati 649 detenuti di cui il 60 per cento stranieri. Secondo i dati raccolti dalla Società della ragione, circa duecento di loro non hanno la residenza e questo “comporta difficoltà e anche impossibilità sia delle persone con problematiche psichiatriche sia dei detenuti tossicodipendenti ad avviare percorsi alternativi. Le problematiche si sovrappongono: stranieri, tossicodipendenti, psichiatrici, senza residenza”. L’elevato numero di persone fa sorgere dei dubbi sulla vivibilità delle celle e, come sottolinea il rapporto, “non è sicuro che effettivamente siano garantiti i 3x3 metri quadri calpestabili per ciascun detenuto”. Un altro problema riguarda invece l’accesso ai servizi psicologici. “Qui si perdono le domandine, io voglio andare dallo psicologo ma non ci riesco”. Le telefonate (1 euro per 10 minuti, secondo quanto racconta una persona detenuta) sono percepite come un beneficio, ma la carenza di personale limita la possibilità di concessioni aggiuntive: “Se chiedi una telefonata in più ti dicono di no perché bisogna scendere”. La sfida delle Rems, dieci anni dopo: “Il nostro obiettivo è riabilitare il detenuto” di Valentina Carosini La Stampa, 2 ottobre 2025 A Genova un convegno sulle strutture sanitarie che ospitano persone autrici di reato affette da disturbi mentali. Norberto Miletto, presidente dei giovani della Società italiana di psichiatria: “Il segreto? Lavorare con i pazienti al di là del reato commesso”. Il cambiamento sociale e storico dei pazienti in entrata, il risultato delle esperienze positive in dimissione. Come a Genova dove, a fronte di 122 ingressi censiti dall’8 febbraio 2017 ad oggi, sono state 102 le dimissioni dalla Rems di Villa Caterina a Pra’, destinata alla presa in carico e alla gestione di autori di reato, pazienti con patologie psichiatriche per questo incompatibili con i regimi detentivi. La prima esperienza aperta in Liguria, nel ponente del capoluogo ligure, una tra le 30 strutture esistenti in Italia per l’esecuzione delle misure di sicurezza. “Il nostro tentativo è riabilitare”, premette Norberto Miletto, psichiatra, consulente e presidente dei giovani della Sip, Società italiana di psichiatria, tra gli organizzatori del Congresso nazionale che si terrà a Genova il 3 e 4 ottobre all’Auditorium dell’Acquario. E che riunirà un network nazionale di professionisti del settore, dalla salute mentale agli operatori delle Rems passando per magistrati, giuristi e accademici. “Azioni e resistenza nell’epoca della complessità: ripensare l’imputabilità proposte di riforma e futuro delle Rems”, il titolo della due giorni, che si pone l’obiettivo di una riflessione ampia tra giustizia, sanità e politica sul futuro delle Rems e sul loro ruolo, passato il giro di boa dei 10 anni dalla loro costituzione dopo la chiusura nel 2014 degli ospedali psichiatrici giudiziari. Riflessione che arriva in un momento cruciale. Tempo di bilanci e costruzione del futuro tra cura e riabilitazione, all’ombra di cambiamenti e riforme che incombono, per discutere di orizzonti, rischio di passi indietro e soprattutto di reinserimento, il fine ultimo previsto dalle Rems, ma anche il doppio binario nel rapporto tra giustizia e psichiatria in Italia. Partendo da esperienze virtuose che prendono forma spesso dopo l’esperienza carceraria, che per numeri ed emergenza costante allontana l’obiettivo di agganciare percorsi di riabilitazione e ritorno nella società. Si parte dai risultati positivi che per la struttura di Genova Pra’ significano essere una tra le residenze con il maggior numero di dimissioni e turnover in Italia. Nate in un contesto quasi emergenziale caratterizzato da mancanza di strutture a disposizione le Rems hanno assolto ad esigenze di cambio di paradigma, dalle politiche di contenimento a quelle di riabilitazione, nell’ottica della risposta al diritto alla cura. Ora è il momento dei bilanci, e delle valutazioni sulla necessità di eventuali correttivi sui percorsi intrapresi. Compresa l’analisi dei rapporti con il territorio e con le esigenze mutevoli della giustizia. Villa Caterina di Genova Pra’, che ospita tra gli altri Luca Delfino - condannato a 16 anni per il delitto della ex fidanzata Antonella Multari e arrivato qui nel 2023 per trascorrere non meno di sei anni - sarà una delle esperienze sul campo che arriveranno al cuore del convegno, con lei lo sforzo di chi lavora all’interno di una struttura per sua stessa definizione, “terapeutico-riabilitativa e socio-riabilitativa e con permanenza transitoria ed eccezionale” e si rapporta con i pazienti, il loro diritto alla cura e al reinserimento. “Uno dei temi che emergerà è proprio la nostra esperienza - sottolinea Miletto - noi siamo una Rems gestita da un gruppo privato che si è sempre occupato di comunità terapeutiche e questo è l’approccio, quello che è stato fatto nel corso degli anni è stato lavorare con i pazienti a prescindere dal reato commesso. Il risultato è che siamo una delle Rems in Italia con il maggior numero di dimissioni e turnover”. Nelle Rems entrano “pazienti e soggetti ritenuti incapaci di intendere e di volere - sottolinea - e che non possono stare in un regime detentivo. E qui si apre il tema delle modifiche dell’imputabilità, un altro degli oggetti di riflessione del convegno. La legge prevede territorialità, il fatto di sorgere all’interno del territorio permette al paziente di potersi reinserire a livello sociale e non soltanto, al di là dei rapporti con i curanti. È una misura di sicurezza temporanea e non definitiva. E non mancano gli esempi di dimissioni e reintroduzione, anche in percorsi partiti dal carcere, passati dalla Rems e poi da diverse modalità come le licenze territoriali di inserimento”. Verso una riconquista dell’autonomia. Lo sforzo organizzativo del confronto sarà quello di allargare il più possibile la platea e la discussione sul futuro delle strutture e “su quello che succede dal punto vista storico, le spinte ad una trasformazione ‘custodialistica’ e di controllo sociale, prevalenti rispetto alla parte sanitario-riabilitativa, che segnano quasi un ritorno alle realtà degli ospedali psichiatrici giudiziari”. Un passo indietro su “un tema complesso - conclude Miletto - che richiede riflessioni di competenze diverse e un lavoro congiunto fondato su un principio irrinunciabile: il rispetto della dignità e della libertà delle persone, all’interno di un mandato di cura e giustizia coerente e autentico”. Carriere separate, parlano i sondaggisti: “Chi urla troppo perderà il referendum” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 2 ottobre 2025 Il voto sulla riforma diventerà un voto sul governo? E quale strategia funzionerà meglio per il fronte del Sì e No? Uno sguardo sugli elettori. Il referendum sulla separazione delle carriere si trasformerà in un voto pro o contro il governo? E lo stesso governo, che sembra intenzionato a impostare la campagna elettorale contro “la casta” dei magistrati, trarrà vantaggio da tale strategia comunicativa? E il fronte del no, invece, con la discesa in campo di pm dal forte peso mediatico come Nicola Gratteri avrà una spinta maggiore o al contrario tale esposizione potrebbe costituire un autogol? In attesa della data in cui il Senato approverà definitivamente la riforma della Giustizia targata Carlo Nordio, dando così il via all’iter referendario, sono tante le domande che aleggiano nei corridoi dei palazzi romani, e che noi abbiamo girato ai più esperti sondaggisti del Paese. “Vedendo la storia degli altri referendum, molto spesso accade che non si vota sul merito ma sul governo e quindi dal mio punto di vista la maggioranza già da ora dovrebbe far comprendere che non è un giudizio sul governo ma su una legge, certo voluta dal governo - spiega Antonio Noto, dell’omonimo istituto demoscopico - Generalmente agli italiani piace più la moderazione che il conflitto quindi a livello comunicativo più che fare campagna contro la casta bisognerebbe spiegare i benefici in caso di vittoria dei sì”. Dunque inutile “parlare alle curve” perché secondo Noto “gli italiani rifuggono la conflittualità preferendo invece la moderazione”. Di conseguenza la presenza di pm “star” come Gratteri “aumenta la conflittualità e quindi finirebbe per aggregare i tifosi, soprattutto quelli più giustizialisti” e anche il fronte dal no dal canto suo “dovrebbe spiegare quali sono i vantaggi di votare no, piuttosto che metterla sul conflitto tra magistratura e governo”. Un conflitto che tuttavia va avanti da tempo e che divide l’elettorato anche al di là degli schieramenti politici, come illustra Carlo Buttaroni dell’istituto Techné. “Anche se le posizioni rispetto al referendum dividono maggioranza e opposizione in modo molto netto, la questione della separazione delle carriere è sul tavolo da molti anni e va oltre le divisioni e le appartenenze politiche”, spiega Buttaroni aggiungendo poi che la presenza di Gratteri e altri in campagna elettorale “può essere una presa di posizione che contribuisce a chiarire anche il punto di vista dei magistrati ma bisogna vedere poi come una figura autorevole e con giudizi positivi come Gratteri possa incidere nella valutazione del sistema giudiziario nel suo complesso”. Buttaroni invita anche a non politicizzare la campagna, perché “una mobilitazione eccessiva politica non fa bene né in un senso né in un altro” sottolineando tuttavia che “la maggioranza di centrodestra che sostiene il referendum al momento è ampia e forte nel Paese ma bisogna vedere se avrà capacità di mobilitazione”. Ma è probabile che alla fine tutti cerchino la mobilitazione, anche andando al di là del merito per un motivo molto semplice. “Alcune forze cercheranno di concentrare l’attenzione sul merito ma come spesso succede è possibile che tutto poi si sposti sul piano politico anche perché è materia abbastanza complessa e quindi non facilmente comunicabile ai cittadini - dice Rado Fonda di Swg - In questo momento però non c’è una divisione netta tra elettori di maggioranza favorevole e quelli delle opposizioni contrari”. E Fonda si dice anche d’accordo sul fatto che sia il ruolo di magistrati in servizio o in pensione sia la scelta del governo di fare campagna contro “la casta” può polarizzare gli schieramenti, senza tuttavia portare vantaggi consistenti. Sorpresa Csm: le nomine affidate al centrodestra di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 2 ottobre 2025 La Quinta commissione che seleziona i capi di Procure e Tribunali sarà guidata dal laico di Fratelli d’Italia Felice Giuffré: una novità per Palazzo Bachelet. Dopo discussioni interminabili, sono state finalmente rinnovate le Commissioni del Consiglio superiore della magistratura. La novità più importante, e per molti versi inaspettata, è la presidenza della Quinta commissione, competente sulle nomine degli incarichi direttivi e semi-direttivi, al laico di FdI Felice Giuffrè. Ordinario di diritto costituzionale all’Università di Catania, componente del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana costituzionalisti di cui ha ricoperto anche il ruolo di direttore della rivista, Giuffrè da giovane è stato ai vertici del Fronte della Gioventù e di Alleanza nazionale. È quindi la prima volta nella storia del Csm che l’incarico di presidente della Quinta viene assegnato ad un componente laico con un orientamento culturale così caratterizzato. In passato, infatti, l’unico laico a capo di questa Commissione che poteva essere etichettato di centrodestra era stato, peraltro solo per pochi mesi durante la consiliatura presieduta dal dem David Ermini, l’avvocato napoletano Michele Cerabona, il cui nome venne segnalato da Forza Italia. “L’impegno della Commissione che mi accingo a presiedere sarà nel solco di chi mi ha preceduto e sarà finalizzato ad accelerare i tempi di definizione dei procedimenti e dello smaltimento dell’arretrato, già sensibilmente abbattuto, e di garantire equilibrio e rigore nella individuazione di direttivi e semidirettivi secondo gli indirizzi che ha volto imprimere il vice presidente a questo Consiglio”, ha commentato a caldo con Il Dubbio, senza nascondere l’emozione, il professore siciliano. “Penso che tutti laici espressione dell’attuale maggioranza di governo abbiamo dimostrato fino a questo momento di esercitare le proprie funzioni di consigliere del Csm con equilibrio e senso delle Istituzioni”, ha poi aggiunto Giuffrè, stoppando così sul nascere eventuali polemiche da parte delle opposizioni, proprio per il suo orientamento culturale, riguardo la nomina. Tornando invece alle Commissioni, il nuovo presidente della Prima, che si occupa delle inchieste riguardanti magistrati e di eventuali proposte di trasferimento d’ufficio per incompatibilità, sarà Michele Forziati, togato di Unicost, la corrente centrista dell’Anm. E ancora: in Terza Commissione, competente sui trasferimenti, il nuovo presidente sarà Marcello Basilico (Area), mentre la Quarta, che si occupa delle valutazioni di professionalità, sarà presieduta da un’altra togata progressista, la giudice Maria Francesca Abenavoli. Anche la Sesta Commissione, quella che si occupa di formulare pareri al ministro sui provvedimenti legislativi in materia di giustizia. sarà presieduta da un togato di Area, il consigliere di Cassazione Antonello Cosentino. A presiedere la Settima Commissione, competente sull’organizzazione degli uffici giudiziari, sarà la laica, eletta in quota Lega, Claudia Eccher, mentre alla presidenza dell’Ottava - che si occupa della magistratura onoraria - ci sarà il togato di Magistratura indipendente Eligio Paolini. Infine, il nuovo presidente della Nona - alla quale spettano le competenze in materia internazionale - sarà Edoardo Cilenti, anch’egli togato di Mi. Invariate le composizioni della Commissione Bilancio e della Seconda Commissione, che sono quadriennali e che, dunque, non vengono rinnovate. Alla fine il bilancio segna tre Commissioni alla sinistra giudiziaria, due a Magistratura indipendente, ed una ad Unicost. A Mi, il gruppo moderato, andrà però anche la direzione dell’Ufficio studi con la togata Paola D’Ovidio. Ufficio molto importante perché fornisce i pareri alle varie Commissioni e che, fino all’ultimo momento, doveva essere assegnato a Michele Papa, professore eletto in quota M5s. La scelta dei nuovi componenti rappresenta un passaggio del lavoro di scorrentizzazione del Consiglio avviato dal vice presidente Fabio Pinelli, soprattutto in relazione alla nomina del vertice della Quinta, frutto di una complessa tessitura con il Comitato di Presidenza e con il Quirinale. Di diverso avviso l’indipendente Andrea Mirenda. “Siamo alle solite: continua la lottizzazione del Csm da parte delle correnti, dove chi non ha una casacca è destinato a non toccare palla”, è stato il laconico commento del togato che, anche in questo terzo ed ultimo giro, non ha avuto alcuna presidenza di Commissione. “Mi complimento con i colleghi di Area che, con un Csm a “trazione centrodestra”, sono riusciti ad ottenere, dopo la Quinta, la presidenza delle tre Commissioni più importanti”, ha aggiunto Mirenda. Le nuove Commissioni partiranno il 10 ottobre e rimarranno fino al 23 gennaio del 2027, quando è prevista la scadenza dell’attuale consiliatura. La prossima, in caso di successo del referendum sulla separazione delle carriere, in calendario per la prossima primavera, si caratterizzerà dal sistema del sorteggio per l’elezione dei componenti. Sistema che dovrebbe metter fine a queste estenuanti trattative che hanno costretto Pinelli ad una dura attività di mediazione. Da “Bravi ragazzi” a “El loco”: i titoli delle indagini che violano la presunzione di innocenza (e la legge) di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 ottobre 2025 Secondo una norma approvata nel 2021 alle inchieste giudiziarie non possono essere assegnate denominazioni lesive della presunzione di innocenza. Ma Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia e procure continuano a farlo. Nel 2021 l’Italia ha recepito la direttiva europea sulla presunzione di innocenza, approvando un decreto legislativo (il n. 188) che, tra le tante cose, stabilisce che nei comunicati ufficiali e nelle conferenze stampa non devono essere “assegnati ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza”. Un modo, nell’intenzione dell’allora ministra Marta Cartabia, per fermare la prassi che vede pm e polizia giudiziaria affibbiare alle inchieste nomi allusivi e dal tono inquisitorio (da “Mondo di Mezzo” a “Terminator 3”). Nonostante la norma sia entrata in vigore da quasi quattro anni, però, le forze dell’ordine e i magistrati continuano imperterriti ad assegnare alle indagini titoli dal taglio mediatico, cinematografico o mitologico, spesso palesemente lesivi della presunzione di innocenza delle persone coinvolte. A mostrare più fantasia sono senza dubbio i Carabinieri. Sono degni dei migliori sceneggiatori i nomi assegnati dai Carabinieri ad alcune inchieste incentrate sul contrasto al traffico di droga, come “The Parcel Game”, “Operazione Trinità”, “Tom & Jerry”, “Samba”, “Operazione Cuore di ghiaccio”, “Boss rent”, “Operazione Molosso”, “Fumo del Vesuvio”, “Messa a fuoco”. Un’altra passione dei Carabinieri riguarda la mitologia, con le operazioni “Athena”, “Aristeo”, “Flegetonte”, “Cerbero”, “Demetra”. In altri casi, invece, i Carabinieri non vanno giù per il sottile, come con l’”Operazione Al Qaeda e Stato islamico”, incentrata proprio sul contrasto al terrorismo internazionale. I comunicati hanno tutti la stessa struttura: una lunga parte in cui alle persone arrestate o indagate viene addebitata una serie di reati, con ricostruzione del contesto in cui sono stati commessi, e poi una parte conclusiva, molto breve, in cui si sottolinea che “il procedimento si trova nella fase delle indagini preliminari” e che quindi la colpevolezza dei soggetti coinvolti “dovrà essere accertata in sede di processo nel contraddittorio tra le parti”. È questo il risultato della riforma del 2021. Una postilla grottesca al termine di un comunicato che non lascia spazio a dubbi sulla colpevolezza delle persone. Non è da meno la Polizia di stato, con le sue operazioni “Piazza pulita” (contro lo spaccio), “Chinese shuttles”, “Turkish shuttles” ed “El Rais” (contro il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina), “Bravi ragazzi” (nei confronti di 24 giovani accusati di propaganda e istigazione dell’odio razziale, minaccia e vilipendio delle forze armate), “Fake Loan” (contrasto alle richieste di finanziamento illecite), “Easy Money”, “Save the baby”, “Viper 2”, “The Family”, “Back in time” (contro la pedopornografia). In molti casi, la postilla sulla colpevolezza degli indagati ancora tutta da verificare in sede giudiziaria non è neanche riportata. Anche la Guardia di Finanza tende ad attribuire alle sue operazioni nomi che lasciano poco spazi a dubbi sulla responsabilità delle persone coinvolte: “Free job”, contro il lavoro nero e irregolare; “Drug market”, contro lo spaccio di hashish; “Fake flag”, per un’inchiesta incentrata su controlli antievasione sulla nautica; “Ghost credits”, per un’indagine su un giro internazionale di fatture false. A volte i finanzieri usano maggiore fantasia, come con l’operazione “Mattone di carta”, contro un (presunto?) giro di fatture false, o “El loco”, contro l’approvvigionamento di marijuana dalla Spagna, fino ad affidarsi a Tolkien con l’”Operazione Ombromanto”, ispirato al cavallo di Gandalf del “Signore degli Anelli”. Insomma, chi pensa che le storie raccontate ieri su queste pagine (quella dell’ex sindaco di Priolo, Antonello Rizza, assolto dopo tredici anni in un processo denominato “Qualunquemente”, e quella di Marco Sorbara, eletto al Consiglio regionale della Valle d’Aosta dopo aver attraversato un calvario giudiziario fatto di 909 giorni di arresti nell’ambito di un’inchiesta chiamata “Geenna”) appartengano al passato deve ricredersi. La prassi del tritacarne mediatico-giudiziario continua come se nel 2021 non ci fosse stata alcuna riforma. A stupire, più di ogni altra cosa, è che i primi a violare le norme sono proprio le forze dell’ordine chiamate ogni giorno a contrastare l’illegalità. Che ne penserà Nordio? La storia del Sindaco assolto dopo 13 anni nel processo chiamato “Qualunquemente” di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 ottobre 2025 Antonello Rizza, primo cittadino del comune di Priolo, assolto dopo essere stato accostato per 13 anni dagli inquirenti alla figura di Cetto La Qualunque: “La fine di un calvario”. “Qualunquemente”. È questo il nome che la polizia giudiziaria e la procura di Siracusa diedero nel 2012 a un’inchiesta avviata nei confronti di amministratori e funzionari del comune di Priolo, tra cui l’allora sindaco Antonello Rizza, accusati a vario titolo di gravi reati come concussione, voto di scambio, truffa aggravata, abuso d’ufficio. Il nome si ispirava al film in cui Antonio Albanese impersonifica il celebre personaggio di Cetto La Qualunque, simbolo del politico dedito alla delinquenza, corrotto, volgare e senza alcun briciolo di principio morale. Gli indagati vennero accostati a questo contesto aberrante, lasciando intendere all’opinione pubblica che ne facessero parte, a dispetto del principio di presunzione di non colpevolezza che dovrebbe ispirare ogni iniziativa giudiziaria. A distanza di tredici anni, la Corte d’appello di Catania ha assolto Rizza e altri dieci imputati da ogni accusa. Le accuse più gravi erano cadute già in primo grado, dove Rizza era stato condannato a tre anni, contro una richiesta di condanna di addirittura 15 anni. In appello, invece, l’inchiesta cinematografica “Qualunquemente” si è sciolta come neve al sole. Tutti assolti, a partire proprio dall’ormai ex sindaco Rizza, difeso dagli avvocati Domenico Mignosa e Tommaso Tamburino. Nel corso del processo a Rizza erano stati contestati quattordici capi di imputazione. Tra questi, ben quattro concussioni, uno dei reati più infamanti per un amministratore pubblico, visto che consiste nell’approfittare del proprio ruolo di potere per imporre a qualcuno la propria volontà. Ma Rizza, che ora parla di “fine di un calvario”, negli ultimi anni non è stato coinvolto solo nel processo “Qualunquemente”. Nei suoi confronti, anzi, sembra emergere ciò che l’avvocato Mignosa definisce al Foglio una sorta di “accanimento giudiziario” da parte degli inquirenti siracusani. Rizza è infatti stato imputato in un altro processo dal titolo emblematico, “Tutto pagato”, con l’accusa di aver partecipato gratuitamente ad alcuni viaggi organizzati dal comune in favore di gruppi di anziani. Anche in questo caso è stato assolto. Rizza è poi stato accusato nell’ambito dell’inchiesta “Gettonopoli”, relativa all’aumento del gettone di presenza dei consiglieri comunali, finendo per essere assolto sia in sede penale che di fronte alla Corte dei conti. È poi persino finito otto mesi agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Res Publica” con l’accusa di concussione, truffa e turbativa d’asta. La montagna ha partorito un topolino: una condanna nell’aprile 2021 in primo grado a un anno e due mesi per reati minori, che, oggi, secondo i calcoli dei difensori, sono finiti in prescrizione e quindi porteranno all’ennesima assoluzione per Rizza. Le numerose inchieste giudiziarie hanno ammazzato la carriera politica di Rizza, oltre ad aver devastato la sua vita personale e famigliare. La vicenda costituisce l’ennesimo spunto di riflessione, per i partiti come per le toghe, sui danni provocati da una giustizia dai tempi interminabili e fondata su inchieste più propense ad alimentare il circo mediatico che basate su accuse solide. Campania. Al via il primo progetto di prevenzione oncologica per i detenuti di Elisa Manacorda La Repubblica, 2 ottobre 2025 Una popolazione fragile e trascurata anche dal punto di vista sanitario. Che oggi è al centro di un accordo triennale tra Regione, Istituto Pascale, Aiom e Fondazione Aiom. Per portare screening, formazione e informazione negli istituti penitenziari. È una popolazione imponente: oltre 63 mila persone, di cui circa il 4 % donne e il 31% stranieri. Sono le persone che vivono un periodo della loro vita dietro le sbarre di un carcere italiano. Con infiniti problemi, a cominciare dal sovraffollamento (nel nostro paese la capienza ufficiale è pari a poco più di 51 mila posti). Ma anche la salute è un tema importante, se è vero che la condizione di non libertà incide profondamente sulla psiche e sul fisico, incentivando comportamenti non salutari come il fumo, l’abuso di alcol, la dieta scorretta o la sedentarietà. E poiché, secondo l’articolo 32 della Costituzione, questa va protetta come diritto fondamentale dell’individuo, è fondamentale che la collettività se ne faccia carico. “I cittadini detenuti rappresentano una popolazione fragile anche dal punto di vista sanitario”, sottolinea infatti Francesco Perrone, Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom). In particolare, sia uomini che donne sono particolarmente esposti al pericolo d’insorgenza di neoplasie. Per questo, continua Perrone, abbiamo deciso di promuovere un progetto innovativo per accendere i riflettori su un aspetto poco considerato dell’assistenza e prevenzione oncologica. Si tratta di un accordo triennale in tema di prevenzione oncologica in ambito penitenziario fra la Regione Campania, l’Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale, Aiom e Fondazione Aaiom, che prevede eventi d’informazione rivolti alla popolazione carceraria (ma anche al personale penitenziario), corsi di formazione e progetti di ricerca. Una popolazione fragile - Oltre il 70% dei detenuti maschi fuma regolarmente e la metà di loro vorrebbe però smettere. Il 40% è invece sedentario e solo il 13% mangia regolarmente le cinque porzioni di frutta e verdura raccomandate. E se già nella popolazione generale l’adesione ai programmi di screening per la diagnosi precoce di alcuni tumori è largamente insufficiente, nella popolazione carceraria gli screening sono promossi in modo saltuario, per mancanza di personale, problemi burocratici e organizzativi, e una frammentazione a livello regionale. Per questo l’adesione da parte dei detenuti non è sempre ottimale. E invece gli esami come la mammografia, la ricerca di sangue occulto nelle feci o l’Hpv test dovrebbero essere garantiti anche ai detenuti. Agire sui fattori di rischio - Ecco allora il senso del progetto che parte in Campania. Contrastare il cancro anche nelle carceri italiane. A partire dalla prevenzione. “Oltre il 45% di tutti i decessi di tumore in Italia potrebbe essere evitato intervenendo sui principali fattori di rischio”, ricorda Maurizio di Mauro, Direttore Generale Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale e coordinatore campano della Federazione Italiana delle Aziende sanitarie e ospedaliere-Fiaso. Questo progetto - aggiunge di Mauro - rappresenta un vero e proprio laboratorio per una sanità sempre più efficiente e vicina ai più deboli. E potrebbe diventare un modello da esportare su scala nazionale. Il valore della collaborazione - Per raggiungere questo obiettivo serve però la collaborazione tra Istituzioni Sanitarie locali e l’Amministrazione Penitenziaria, aggiunge Giuseppe Nese, Coordinatore responsabile del Laboratorio territoriale di sanità penitenziaria “Eleonora Amato”. Per affrontare il cancro anche negli istituti di detenzione è assolutamente necessario il supporto qualificato di medici specialisti oncologi. Per questo il progetto prevede il supporto, oltre che di Aiom, anche dei principali centri di ricerca e cura del territorio, come l’Istituto Nazionale Tumori Irccs Fondazione Pascale. “Il nostro istituto - spiega il direttore scientifico Alfredo Budillon - si impegna a fornire personale, adeguatamente formato, che andrà nelle carceri della Campania per promuovere attività di sensibilizzazione”. Tra i nostri obiettivi, conclude Budillon, c’è sempre stata la comunicazione medico-scientifica, per far capire a tutta la popolazione l’importanza di evitare gravi malattie come i tumori. Oggi questa deve coinvolgere anche chi possiede meno strumenti culturali, come la popolazione carceraria”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Arresto, sedativi e collasso in cella: così si muore in carcere di Valeria Casolaro L’Indipendente, 2 ottobre 2025 Il 26 settembre scorso, a 24 ore dal suo arresto, Sylla Mamadou Khadialy moriva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. 35 anni, senegalese, l’uomo era stato fermato il 25 settembre perchè accusato di due aggressioni. Attivista, sarto, autista Piedibus e calciatore dilettante, Mamadou era era conosciuto e stimato all’interno della comunità. Il garante dei detenuti della Campania e quello di Caserta chiedono chiarezza, sottolineando che l’uomo avrebbe avuto bisogno di cure psichiatriche urgenti in ospedale. I familiari denunciano l’uso ravvicinato di sedativi senza adeguata documentazione, somministrati tra pronto soccorso, Polfer e carcere. Numerose associazioni locali hanno organizzato una mobilitazione a Caserta per chiedere verità e giustizia per la sua morte. Dopo il fermo per presunti reati di aggressione, Mamamdou si trovava al momento dell’arresto in un forte stato di agitazione, tanto da essere trasferito all’ospedale di Caserta, dove avrebbe ricevuto una terapia farmacologica - probabilmente un sedativo -, per essere poi trasferito al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il garante dei diritti dei detenuti della provincia di Caserta, Salvatore Saggiomo, ha riferito che “al momento dell’ingresso in carcere, Sylla Mamadou presentava uno stato di dissociazione dalla realtà, manifestando una forte agitazione e atteggiamenti aggressivi verso chiunque si avvicinasse”, motivo per il quale “è stato posto in isolamento nella cella di matricola”, dove avrebbe risposto con violenza ai tentativi di avvicinamento del personale sanitario. Secondo quanto riferito da Saggiomo, le condizioni di Mamadou erano tali per cui il medico psichiatra avrebbe ritenuto opportuno “un trasferimento in una struttura ospedaliera specializzata in emergenze psichiatriche acute”. A quel punto è stato richiesto l’intervento del 118, ma il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) non sarebbe mai stato effettuato. “Il personale sanitario ha somministrato farmaci, ma il medico penitenziario non è stato informato né sulla tipologia né sul dosaggio, e rimane poco chiaro come il detenuto sia stato dimesso dall’ospedale nonostante fosse ancora in stato di alterazione e aggressività”. Poche ore dopo, la morte. Organizzazione e collettivi attivi sul territorio campano si sono immediatamente mobilitati per chiedere verità su quanto accaduto a Mamadou. “Non si può morire così, nei luoghi che dovrebbero tutelare le persone, dove invece si trova opacità e disumanizzazione” hanno commentato in una nota l’ex OPG occupato Je So Pazzo, Movimento Migranti e Rifugiati Napoli e altre realtà locali. “Conoscevamo Sylla da oltre 7 anni, siamo diventati amici e compagni condividendo momenti di divertimento durante le assemblee e le manifestaizoni; e poi durante le battaglie per portare alla luce, grazie anche alla sua determinazione, la realtà malata dei centri di accoglienza nel casertano. Grazie a quella lotta riuscimmo a ottenere il suo trasferimento ed entrò a far parte della comunità dello Sprar di Caserta”. Nella giornata di ieri, 30 settembre, proprio a Caserta si è svolto un presidio, con le persone che si sono mosse da piazza Dante fin sotto alla Prefettura per chiedere alle istituzioni di dare una risposta su quanto accaduto. Negli ultimi anni, il carcere di Santa Maria Capua Vetere è salito più volte agli onori della cronaca per le violenze portate a termine contro i detenuti. Nel 2022, 105 tra funzionari e poliziotti finirono a processo per tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine, 28 anni, posto in isolamento dopo un pestaggio e ritrovato poi morto. I fatti avevano avuto luogo nel 2020, in pieno lockdown per la pandemia da Covid 19, quando nel carcere si sollevò una protesta dei detenuti alimentata dal terrore del contagio e dall’alto tasso di sovraffollamento. Gli agenti avevano risposto con immane violenza, come dimostrato dalle stesse immagini delle videocamere del carcere. Negli anni successivi, una trentina tra coloro che erano coinvolti nei fatti sono stati reintegrati. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Nell’inchiesta su Sylla indagati tre medici per omicidio colposo di Carmine Di Niro L’Unità, 2 ottobre 2025 L’inchiesta per la morte di Sylla Mamodou Khadialy, il 35enne di origini senegalesi morto nella sua cella del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) venerdì scorso, all’indomani del suo arresto operato dalla polizia ferroviaria presso la stazione di Caserta, vede tre persone iscritte nel registro degli indagati. Si tratta di medici, due in servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e uno al 118, accusati di omicidio colposo. L’inchiesta, in mano al pubblico ministero di Santa Maria Capua Vetere Alessandra Pinto, vedrà un punto chiave con l’autopsia che si terrà mercoledì pomeriggio all’istituto di medicina legale di Caserta. Sylla era finito in manette la mattina di giovedì dopo aver aggredito un uomo, peraltro suo amico, sottraendogli il cellulare, per poi assalire un’anziana: per fermarlo, mentre era in stato di evidente agitazione, erano intervenuti tre agenti della polizia ferroviaria che aveva anche riportato delle lesioni. Aggressione inspiegabile per chi conosceva il 35enne: giunto a Caserta ormai 7 anni fa dal Senegal, si era ben integrato nella comunità. Lavorava come sarto presso un’azienda a Casalnuovo, era volontario nell’iniziativa del Piedibus oltre ad essere fidanzato con una ragazza italiana con cui conviveva a Casagiove, senza mai incappare in alcun problema con la giustizia. A chiedere chiarezza è l’avvocato Clara Niola, che si occupa della vicenda su mandato della fidanzata del 35enne. In particolare su cosa sia stato somministrato a Sylla dopo il fermo. Il 35enne, per il forte stato di agitazione, era stato condotto in ospedale a Caserta per essere sottoposte a cure, poi trasportato all’ufficio della polizia ferroviaria, dove è stato nuovamente assistito dal 118, intervenuto su segnalazione degli agenti, sempre perché agitato. Da lì il trasferimento nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove Sylla è stato trovato morto in cella venerdì mattina. Su quanto accaduto a Sylla era intervenuto anche il Garante dei detenuti di Caserta, don Salvatore Saggiomo, che aveva effettuato una visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per verificare quanto accaduto e raccogliere informazioni. “È emerso che al momento dell’ingresso in carcere Sylla Mamadou presentava uno stato di dissociazione dalla realtà, manifestando una forte agitazione e atteggiamenti aggressivi verso chiunque si avvicinasse - le parole di don Salvatore Saggiomo - Per motivi di sicurezza è stato posto in isolamento nella cella di matricola, ma ogni tentativo di avvicinamento da parte del personale sanitario o penitenziario veniva respinto con violenza. Si è tentato anche un approccio mediato da un altro detenuto, ma anche questa iniziativa è risultata infruttuosa a causa dell’eccessiva agitazione del giovane. Secondo il medico psichiatra dell’istituto, le condizioni di Mamadou erano tali da rendere inefficace una sedazione immediata in carcere, e sarebbe stato necessario un trasferimento in una struttura ospedaliera specializzata in emergenze psichiatriche acute. È stato quindi richiesto l’intervento del 118, ma la procedura di Trattamento Sanitario Obbligatorio non è stata attuata. Il personale sanitario ha somministrato farmaci, ma il medico penitenziario non è stato informato né sulla tipologia né sul dosaggio, e rimane poco chiaro come il detenuto sia stato dimesso dall’ospedale, nonostante fosse ancora in stato di alterazione e aggressività; durante il periodo di ricovero, durato circa otto ore, non risultano documentate con chiarezza le modalità di monitoraggio e i trattamenti effettuati”. Il caso Sylla è finito anche in Parlamento, col deputato Aboubakar Soumahoro che ha depositato un’interrogazione parlamentare indirizzata al Ministro della Giustizia Carlo Nordio per fare piena luce sull’accaduto, sottolineando la necessità di chiarire se le condizioni psicofisiche di Sylla fossero compatibili con la detenzione. Viterbo. Detenuto impiccato in cella, Asl e ministero della Giustizia responsabili civili di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 2 ottobre 2025 Morte di Andrea Di Nino, Asl di Viterbo e ministero della Giustizia responsabili civili nel processo per omicidio colposo a un medico e un penitenziario. I due imputati sono difesi dagli avvocati Massimo Pistilli e Lorenzo Lepri, mentre è stato aperto un fascicolo gemello a carico dell’altro dottore, difeso da Andrea Danti, assente anche ieri per motivi di salute, la cui posizione sarà esaminata dal giudice Jacopo Rocchi in un’apposita udienza fissata a gennaio. È ripreso così, il giorno dopo la manifestazione fuori del tribunale contro l’archiviazione dell’inchiesta bis per omicidio volontario, il processo per quello che la procura ritiene essere stato un suicidio per impiccagione, cui i familiari non hanno mai creduto. La tragedia è avvenuta al Nicandro Izzo di Viterbo il 21 maggio 2018. Il detenuto 36enne romano padre di cinque figli si sarebbe tolto la vita in cella d’isolamento, appendendosi a una finestra con un lenzuolo, quando mancava un anno alla fine della pena e sperava, di lì a pochi giorni, di ottenere i domiciliari. Presente in aula il pubblico ministero Michele Adragna, titolare del fascicolo. Tredici le parti civili, i cinque figli e gli otto fratelli della vittima, che ieri hanno chiesto e ottenuto di poter citare quali responsabili civili sia la Asl di Viterbo che il ministero della giustizia. Si tornerà in aula prima di Natale per l’ammissione delle prove. Per la morte di Di Nino è stato assolto in primo e secondo grado l’ex direttore della casa circondariale sulla Teverina, difeso dall’avvocato Marco Russo, l’unico a scegliere il rito abbreviato davanti al gup Giacomo Autizi, mentre hanno scelto il rito ordinario gli altri tre imputati. Terni. Detenuto vince il ricorso: “Sì ai colloqui intimi” La Nazione, 2 ottobre 2025 Il giudice di sorveglianza annulla il diniego della direzione carceraria. Detenuto nel carcere di Sabbione autorizzato dal giudice ai colloqui intimi con la moglie, che erano stati negati dalla direzione del penitenziario per il fatto che la famiglia della consorte sia legata alla criminalità organizzata. Il recluso si era visto negare dalla direzione dell’istituto la possibilità di svolgere colloqui intimi con la moglie nella “stanza dell’affettività” istituita ad aprile. Ha però fatto reclamo all’Ufficio di sorveglianza che ha accolto la sua istanza concedendo i colloqui richiesti in base alla sentenza 10 del 2024 della Corte costituzionale. Il rifiuto del carcere era stato motivato anche perché il detenuto campano ristretto nella sezione alta sicurezza 3, nel 2023 era stato trovato in possesso di un telefono cellulare. E la moglie è risultata figlia di un uomo “inequivocabilmente inserito in vicende di criminalità organizzata, anche insieme al genero”. Incontri che, senza il controllo “visivo e auditivo”, per la direzione della casa circondariale avrebbero potuto rappresentare un elemento di criticità. Contro quella decisione, assistito dall’avvocato Francesco Mattiangeli, il detenuto ha presentato reclamo all’Ufficio di sorveglianza di Spoleto e il magistrato Fabio Gianfilippi lo ha accolto. Oltre a rimarcare la buona condotta del detenuto nei mesi successivi al ritrovamento del telefono, nei quali aveva anche conseguito il diploma di maturità, nella sua ordinanza il magistrato sottolinea come lo stesso intrattenga già colloqui con la moglie, controllati a vista dal personale del carcere. “Se una comunicazione illecita dovesse essere trasmessa all’esterno tramite il familiare - si legge nell’atto - ciò potrebbe accadere già con i colloqui ordinari”. Foggia. Un podcast sulla Costituzione: i detenuti diventano voce di cittadinanza attiva foggiatoday.it, 2 ottobre 2025 La Costituzione italiana come bussola per rileggere la vita, le cadute e le possibilità di riscatto. È questo il cuore di “Parole in ascolto - Storie di carcere, cittadinanza e legalità”, il progetto che prende forma presso la Casa Circondariale di Foggia e che intende rendere i ristretti protagonisti di un dialogo autentico con la comunità. L’iniziativa - promossa dal Csv Foggia, in collaborazione con don Fernando Escobar della Comunità di Sant’Egidio - sarà curata dalla giornalista e volontaria Annalisa Graziano. Il percorso, che interesserà sia i reparti maschili sia quello femminile dell’istituto penitenziario, ha preso avvio con un primo gruppo di dieci detenuti con condanne medio-lunghe, che hanno accolto con motivazione l’opportunità di partecipare. Le attività sono partite da un inquadramento storico sulla nascita della Carta, accompagnato dalla lettura della “Lettera alla Costituzione” del Cardinale Matteo Zuppi e dalla riflessione sul “vangelo laico” di don Lorenzo Milani. L’iniziativa progettuale, partendo dagli articoli della Carta costituzionale, guiderà i partecipanti a confrontarsi sui grandi temi dell’attualità: dignità e uguaglianza, libertà di espressione, lavoro come diritto e opportunità, pena come occasione di rieducazione, cultura e istruzione come strumenti di libertà. Tutto questo confluirà in un ciclo di podcast originali, registrati direttamente in carcere e destinati a circolare all’esterno, attraverso piattaforme digitali e percorsi educativi rivolti in particolare alle scuole e ai giovani. “Il volontariato - spiega Annalisa Graziano - è un atto di cittadinanza che rigenera legami sociali. Portare la Costituzione in carcere e restituire alla società riflessioni autentiche significa riaffermare la dignità di ogni persona e il senso stesso della comunità. Dare voce alle persone detenute non è solo un gesto di apertura, ma un modo concreto per costruire un senso civico più solido e una responsabilità condivisa che riguarda tutti noi. Anche nelle situazioni di maggiore fragilità possono germogliare bellezza, responsabilità e partecipazione civile. I partecipanti sono entusiasti”. Un obiettivo riaffermato dal Csv Foggia, che parteciperà all’iniziativa anche con il direttore Roberto Lavanna. “Il progetto - sottolineano dal Centro di Servizio al Volontariato - nasce dalla convinzione che la giustizia rigenerativa e la cultura della corresponsabilità siano strumenti fondamentali per rafforzare il tessuto sociale. Creare spazi di ascolto, parola e confronto dentro il carcere non è solo un’opportunità per i detenuti, ma un’occasione di crescita per l’intera comunità esterna, chiamata a superare pregiudizi e a riconoscere il valore di percorsi di riparazione e rinascita. Per la riuscita di questa iniziativa desideriamo rivolgere un sincero ringraziamento alla Direzione della Casa Circondariale di Foggia, all’Area trattamentale e alla Polizia Penitenziaria, che hanno accolto il progetto con entusiasmo”. Il percorso progettuale è stato segnalato dalla Casa Circondariale di Foggia al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria come best practice, capace di coniugare legalità, memoria civile e reinserimento sociale. Bologna. In scena “Le nostre prigioni”: così si vive dietro le sbarre Il Resto del Carlino, 2 ottobre 2025 Il testo del magistrato Dino Petralia per cinque personaggi. Diventa un recital a tre voci di Emanuele Montagna. “Le nostre Prigioni. Storie di Pena e di Speranza”: lo spettacolo, scritto dal magistrato Dino Petralia, già direttore delle carceri italiane, va in scena questa sera alle 20,45 in prima nazionale stasera al Teatro Dehon. Il testo è stato prodotto da Cfa-Colli Formazione Attori di Bologna e dall’Ordine Avvocati di Padova e Camera Penale di Padova, dove è già andato in scena con enorme successo in anteprima nazionale lo scorso 25 settembre, con il patrocinio dell’associazione internazionale Nessuno Tocchi Caino e con il plauso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo spettacolo, nella sua replica bolognese, è sostenuto dall’Ordine Avvocati di Bologna, dalla Camera Penale di Bologna, dal Comune di Bologna. Ed è patrocinato dalla Fondazione Itaca Onlus. Sono cinque storie di pena e sofferenza di donne e di uomini, ambientate tutte in contesti penitenziari italiani nei quali la normalità esistenziale è l’eccezione e lo scorrere del tempo spesso fa solo da acceleratore di disagio e malessere. In scena come interprete e regista Emanuele Montagna, già da tempo portatore di tematiche ‘legal’ in teatro, Martina Valentini Marinaz e Asia Galeotti. Dunque, storie di detenuti, ma non solo; l’altra faccia del carcere infatti è rappresentata dalle vite degli agenti, poliziotte e poliziotti, gravati da un impegno non solo materiale (e quasi sempre sotto organico) ma soprattutto psicologico; famiglie intere che vivono in situazioni sempre al limite. Il recital, segue spesso la linea poetica del melologo, sul contrappunto di vari generi musicali contemporanei. L’altra caratteristica portata in scena è la molteplicità di alcuni dialetti italiani dal nord al sud, a voler documentare che il fenomeno dei suicidi e del sovrappopolamento (dall’inizio del 2025 se ne contano quasi settanta) è praticamente diffuso sull’intero territorio nazionale. L’autore del testo Dino Petralia sarà presente al Teatro Dehon. Lo spettacolo terminerà quest’anno il 7 novembre a Trapani per poi continuare in varie città italiane nel corso del 2026. Lecce. “Bellezza mia”, fare teatro nel carcere femminile di Annibale Gagliani Corriere del Mezzogiorno, 2 ottobre 2025 Eduardo De Filippo legava inscindibilmente il proscenio all’esistenza: “Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”. Lo stesso sforzo cesellato dalle detenute della casa circondariale Borgo San Nicola, a Lecce, con un progetto di teatro sociale d’arte: “Bellezza mia - Anatomia tragicomica della vita delle ragazze”. Un percorso di drammaturgia collettiva, interculturale, intergenerazionale, rivolto alla sezione femminile del penitenziario e a donne under 25 interessate alla recitazione. Le attività, costruite dalle attrici Carmen Ines Tarantino e Benedetta Pati (Factory Compagnia Transadriatica, realtà ideatrice del progetto), hanno come obiettivo la decostruzione degli stereotipi e la sensibilizzazione contro le discriminazioni di genere, attraverso la stand-up comedy, il teatro di figura e le clownerie. Un viaggio artistico progettato col sostegno della Regione Puglia, dell’Università del Salento, del Polo Bibliomuseale di Lecce e dell’Associazione Antigone Puglia. Le partecipanti al percorso incontreranno nei prossimi mesi docenti d’eccezione: Simonetta Musitano, attrice e comica transgender, protagonista della queer comedy italiana, arrivata alla ribalta nazionale grazie al programma televisivo Propaganda Live, su La7; Daria Paoletta, attrice e fondatrice della Compagnia Burambò di Foggia, voce autorevole del teatro di figura e narrazione, pluripremiata per le sue attività dal forte impatto sociale; Luca Pastore, attore della Compagnia Factory, talento del teatro di ricerca e delle clownerie. Le lezioni si svilupperanno all’interno del carcere e in spazi significativi della città, con laboratori immersivi e incontri pubblici, che permetteranno un intenso scambio insieme alla comunità salentina. La narrazione dei passaggi chiave avverrà sui profili social di bellezzamialecce e della Compagnia Factory. La struttura del corso prevede l’attraversamento, come nella poetica delle stagioni, delle diverse fasi di vita della donna: dall’infanzia all’anzianità, nell’ottica del rovesciamento dei ruoli sociali imposti, per provare a comprendere i desideri, le pulsioni e i sentimenti umani. Il progetto pone l’attenzione su uno dei concetti più luminosi di Fëdor Dostoevskij, immerso nel suo Delitto e castigo - in merito a una questione sempre attuale: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Napoli. A Secondigliano “Rigiocare il Futuro”: AIA e Sport Senza Frontiere per i giovani detenuti aia-figc.it, 2 ottobre 2025 “Siamo da poco rientrati dal carcere di Secondigliano dopo il primo incontro con i detenuti che seguiranno il Corso Arbitri: è stata un’esperienza forte e significativa, anche per noi”. Con queste parole, Giuliana Guarino, Presidente della Sezione AIA di Frattamaggiore, ha riassunto l’inizio del percorso formativo che l’Associazione Italiana Arbitri (AIA) e l’associazione Sport Senza Frontiere ETS stanno realizzando nell’ambito del progetto “Rigiocare il Futuro”. Il progetto “Rigiocare il Futuro” mira a trasformare il Centro Penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano nel più importante polo sportivo carcerario d’Italia. L’obiettivo è avviare un percorso formativo biennale che offra concrete opportunità di reinserimento sociale e lavorativo ai detenuti, utilizzando lo sport come strumento di riscatto. L’iniziativa nasce dalla visione di Giulia Russo, Direttrice del Centro Penitenziario, che ha dato il via alla prima fase: la costruzione di nuove aree sportive nonchè il recupero e il miglioramento di quelle esistenti. Dopo il completamento delle strutture, è stato avviato un progetto sperimentale con formatori, tecnici e istruttori qualificati. L’offerta formativa è ampia: corsi di calcio e padel, Formazione per arbitri di calcio (a cura dell’AIA), corsi di ginnastica funzionale, posturale e stretching nonché incontri motivazionali e ispirazionali con campioni sportivi e ambassador del progetto. Un aspetto fondamentale è l’apertura del progetto anche ai figli e alle figlie dei detenuti, che potranno essere inseriti nei programmi sportivi, educativi e di prevenzione sanitaria. Alla prima lezione introduttiva al Corso Arbitri, hanno partecipato, oltre alla Presidente Guarino, anche gli associati Fabio Luongo e Antimo Angelino. La loro presenza ha catturato subito l’attenzione di una quindicina di detenuti, che hanno animato la presentazione con numerose domande e curiosità. Per i prossimi appuntamenti, il programma prevede attività di visione di video, studio approfondito del Regolamento e prove pratiche sul campo del carcere. Il culmine del percorso sarà la designazione di un arbitro formato per la finale del torneo di calcio organizzato dai detenuti stessi. L’AIA, grazie al Protocollo d’Intesa sottoscritto con Sport Senza Frontiere ETS, mette a disposizione le proprie competenze e strumenti educativi con un duplice scopo: formare figure professionali e trasmettere i valori cardine dell’arbitraggio: rispetto, responsabilità e senso civico. In un contesto dove ogni opportunità è vitale, l’arbitraggio si afferma come una concreta via di riscatto e reinserimento. L’iniziativa rappresenta un modello innovativo di intervento, replicabile su altri territori, che conferma lo sport come un potente motore di trasformazione sociale. “Questo progetto costituisce un’opportunità di rilievo che l’AIA promuove con grande passione ed entusiasmo consapevole che il rispetto delle regole, dell’avversario e dell’arbitro, l’inclusione, il sostegno e il divertimento, quali valori a fondamento del nostro sport, possono contribuire alla formazione di persone migliori e che cercano una nuova e positiva opportunità di vita. Il nostro obiettivo è di contribuire a promuovere legalità e lealtà quali fari dell’agire quotidiano” ha dichiarato il Presidente dell’AIA Antonio Zappi. “Rigiocare il Futuro” è un progetto promosso da Sport Senza Frontiere, guidata dal Presidente Alessandro Tappa, e dall’Associazione Seconda Chance, fondata da Flavia Filippi. Lo sviluppo e l’attuazione dei corsi specifici è curato dall’AIA. “Fratture”. Il podcast sulla salute mentale in carcere societadellaragione.it, 2 ottobre 2025 Disponibile su tutte le piattaforme il podcast del progetto sulla Salute mentale in carcere dopo la chiusura degli OPG. È online Fratture, il nuovo podcast prodotto da La Società della Ragione e realizzato dal collettivo Cumbre Altre Frequenze, che affronta un tema scomodo e troppo spesso rimosso: la salute mentale in carcere, dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Parlare di salute mentale in carcere significa parlare di un ossimoro. La detenzione è di per sé incompatibile con il benessere psicologico e psichico, eppure migliaia di persone private della libertà devono fare i conti ogni giorno con questa condizione. Fratture apre uno spiraglio su quell’universo nascosto, dando voce a esperti, operatori e testimoni per raccontare cosa succede quando il diritto alla cura si scontra con le logiche custodiali. Il primo episodio ripercorre la “rivoluzione gentile” che ha portato alla chiusura degli OPG e all’istituzione delle Rems, per poi introdurre la situazione attuale della salute mentale dietro le sbarre. La narrazione è affidata a Lisa Boni, che insieme a Giacomo Locci ha curato testi e interviste. Le musiche originali e la post-produzione sono di Luca Sortino, che presta anche la voce ai crediti. Il coordinamento del progetto è stato seguito da Giacomo Locci, mentre tra gli interventi del primo episodio compaiono Giulia Melani, Franco Corleone, Katia Poneti e Riccardo Girolimetto. Il podcast utilizza anche materiale d’archivio prezioso, tra cui le registrazioni effettuate nel 2010 dai membri della Commissione parlamentare d’inchiesta sul SSN presieduta da Ignazio Marino, che documentarono la realtà degli OPG a ridosso della loro chiusura. Fratture nasce all’interno del progetto “Salute mentale in carcere dopo la chiusura degli OPG”, una ricerca-azione realizzata da La Società della Ragione in collaborazione con l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana e sostenuta con i fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese. Il podcast è disponibile su tutte le principali piattaforme di ascolto. Tutte le informazioni sul progetto e sulla ricerca sono reperibili su societadellaragione.it. I giudici e la sfida davanti ai principi che “precedono” il diritto di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 2 ottobre 2025 È frequente, quando sentiamo parlare di “interpretazione giuridica”, sentir menzionati i “principi o i valori fondamentali” dello Stato che svolgono un’importante funzione in quanto spesso riconosciuti dalla Costituzione o da leggi codificate o da norme europee, con la finalità di garantire fra l’altro dignità, uguaglianza e libertà, nonché i diritti sociali come il diritto al lavoro e all’istruzione. Un giudice che operi nell’ambito di un sistema in una data epoca, deve sempre confrontarsi con un insieme di valori fondamentali; rari sono infatti i casi in cui si trovi in un terreno vergine. Ma quali sono i valori fondamentali? Il giudice non è certo libero di inventarli, per quanto gli sembrino adeguati; deve invece utilizzare e svelare quelli celati all’interno del sistema, oppure prendere in considerazione quelli che ancora non ne sono divenuti parte integrante, pur essendo rappresentativi dell’ideologia della società. Questi valori sono concepiti e si sviluppano quali prodotti del pensiero della società. La loro formazione ed evoluzione sono il risultato delle discussioni e riflessioni effettuate in seno ad un’ampia gamma di organi sociali (partiti politici, varie associazioni, organizzazioni professionali, ecc.). Soltanto alla fine di questo processo di consolidamento iniziale, entra in gioco lo Stato con le leggi emanate dal legislatore, i decreti dell’esecutivo e le sentenze delle corti, per riformulare e trasporre questi ideali nel linguaggio del diritto, imprimendo su di essi il sigillo del diritto positivo o del diritto penale. La spiegazione di tale stato di cose sta nel fatto che funzione dello Stato - secondo quanto insegna la teoria democratica - è l’esecuzione della volontà popolare, dotando di efficacia quelle norme e criteri considerati dal popolo essenziali. Da ciò si evince che questi valori fondamentali nascono dalla convinzione, condivisa tra i membri illuminati della società, che tali norme e criteri siano giusti e veri. Sebbene ora i principi fondamentali non siano sempre esplicitamente formulati in un testo di legge, debbono sempre essere richiamati quale soluzione interpretativa da parte dei giudici. Un giudice che operi nell’ambito di un sistema in una determinata società deve sempre confrontarsi con un insieme di principi fondamentali e raramente si trova a dover interpretare e giudicare in una situazione in cui non risultino coinvolti questi ultimi. Tuttavia, a fronte di una società che tende ad evolversi rapidamente, in molti campi del diritto il giudice può imbattersi nella difficile questione di valori in contrasto che possono condurre a soluzioni contrapposte. Quindi sarà necessario da parte del giudice analizzarli e cercare di trovare un punto di equilibrio. Una possibile soluzione può essere data nel considerare in primo luogo come si sia proceduto in casi analoghi, al fine di salvaguardare l’unità dell’ordinamento. Altre volte, il giudice può sconfinare dall’ambito dell’ordinamento e decidere sulla necessità di aggiungere ai valori esistenti, un nuovo valore fondamentale, fatto ormai proprio dall’opinione pubblica. Una possibilità data dal fatto che l’insieme dei valori fondamentali non è delimitato a priori, ma può arricchirsi di altri non ancora riconosciuti dal potere giudiziario o da legislatore. È comunque facile inserirli se questi sono coerenti e compatibili con quelli già espressi dall’ordinamento giuridico. Nel caso in cui siano in contraddizione spetta al giudice decidere se siano sufficientemente rappresentativi da sostituire quelli vecchi. Va intrapreso un confronto e, come quelli esistenti non vanno trascurati, perché datati, così non va impedita l’introduzione di valori nuovi, perché troppo recenti. Tuttavia, questi ultimi non andranno a sostituire quelli vecchi, qualora non siano indiscutibilmente presenti nella società, ed il giudice deve essere attento a non introdurre nel sistema ideali, tradotti in valori fondamentali, non ancora maturi o soggetti a forti controversie. La discrezionalità del giudice dovrà allora essere prevalentemente fondata su di un criterio di ragionevolezza che deve essere spiegato, considerata l’esigenza di adattare il nuovo principio alla struttura del sistema e alla coerenza nell’ordinamento. La verità disarmante dei bambini che con le loro parole ci insegnano la pace, l’accoglienza e la vita di Daniela Piana Il Dubbio, 2 ottobre 2025 Capaci di fare deporre le armi. Ne abbiamo usate così tante di parole. Per quanto vocianti scriventi siamo tutti consapevoli che la parola da sola poco potrà. Potrà poco anche quando tecnica autorevole performativa come quella della lingua del diritto. La parola poco potrà. Forse la abbiamo svuotata. Troppo usata. Insomma, la parola poco potrà. Ma non è una buona ragione per non avvalersene. Solo che non è lì che troveremo la certezza dell’effetto di fare deporre le armi. Stamane su uno dei social network che attraversano in modo più o meno insistente - ed è una insistenza effetto di una diffusa necessità di controllo presenza affermazione - un messaggio invita a dirlo con le loro parole. Dei bambini delle bambine. Dire cosa? Come si fa a fermare la guerra. Fra i tanti pensieri che sono stati condivisi una sola idea comune. Comune alla pizza grande tanto da mettere tutti seduti al tavolo per mangiare. All’abbraccio della mamma che si faccia grande grande in modo da accogliervi dentro qualsiasi essere che voglia arrivare. Alla mensola alta dove mettere i giochi rischiosi in modo che nessuno possa arrivarci. L’eco di una meraviglia apparsa un paio di anni fa dinnanzi al gioco molto serio - perché i bambini giocano sul serio - di costruire la città ideale della accoglienza una voce dinnanzi alla prospettiva di essere invasi dai cattivi esce con lapidaria ed inappellabile - disarmante - risposta. Accogliamoli. Nessuno distrugge il posto dove vive. Banalità? No davvero. Dietro a quell’abbraccio che accoglie dietro alla lucida lineare semplice e senza appello - appunto - risposta che trova nella ovvia creazione di una condizione di mettere tutti nella stessa condizione da evitare che scatti la devastante idea che si possa essere così abbastanza diversi da essere anche diversi per potere e quindi abbastanza diversi da essere diversi per prerogative e arroganti esigenze. Ma loro non è che hanno pensato alle conseguenze e abbiano ponderato cosa accade nell’una o nell’altra opzione. Non si dà alternativa alcuna quando si tratta di immaginarsi la cosa più semplice per metterci nella stessa situazione. Si tratta della visione chiara che siamo parte di uno stesso destino. Una visione così chiara che nemmeno ha bisogno della riflessione. È ovvia. Non ce n’è una diversa. Ci fa bene leggere queste frasi e soprattutto osservare la nostra silente relazione. L’abbraccio della mamma? Mah… un tavolo dove tutti mangiano… s’è visto mai? E poi quella malsana ipotesi di riuscire a fare entrare tutti nella stessa città in modo che sia disarmata - appunto - la intenzione di distruggere. Ma quando mai? Certo sono bambini. Ci illuminano il volto di un tenero sorriso con quella benevolenza che si ha per chi si considera più ingenuo di noi e quindi meno attrezzato a muoversi nel selvaggio mondo dove le ancore del diritto e della cultura delle regole mostrano parecchie debolezze. Non dovremmo essere così tanto indulgenti con la nostra tendenza - molto facile - a rubricare queste idee nel pianeta della ingenuità. Se ci andiamo dentro a quelle parole e quelle immagini ci troviamo il solo vero pilastro dello Stato di diritto e del rispetto della persona che regge gli attacchi della storia. La eguaglianza del diritto ad avere accesso ad una eguale dignità del vivere. Vi è un di più. Anche gli ingredienti. Un tavolo. È il momento del nutrirsi insieme. Del recitare ma per davvero il rito bello e dolcissimo di riconoscersi compagni di viaggio di vita. E per vivere ci si nutre. Per ovvie ragioni insieme. Nessuno di noi vive da solo anche se si nutre di cose che sono l’effetto di vite che sono lontano miglia e miglia. Una porta aperta. E infine il sapere che in fondo dai rischi e dalle tentazioni ovvero dalle debolezze degli uomini e donne che non sono angeli - questo dicevano i padri fondatori della democrazia americana così oggi in difficoltà di tenuta dei suoi anticorpi istituzionali - ci vogliono i vincoli di Ulisse dinnanzi alle sirene, così come per evitare di fare danni si mettono le cose in alto, abbastanza in alto che nessuno le possa raggiungere. In un mattino di prima estate una anima bambina mi disse dovresti scrivere che la città ideale è una pagina bianca. E che ognuno possa scriverne un suo pezzetto. Siamo così capaci di umiltà da lasciare pagina bianca? Da fare lo spazio che si necessita per dare rispetto a giganti del disarmo, i bambini, con la loro verità. Perché nulla, nulla davvero, disarma più della verità. Soprattutto quando non è pronunciata per fini laterali. Ma semplicemente messa in parole perché qualcuno lo chiede. Ma prima di vivere nelle parole essa vive nell’unico posto dove resta. Ancorata nell’anima. Sulla Flotilla i fulmini di Meloni. In Aula lo scontro su Gaza di Paolo Delgado Il Dubbio, 2 ottobre 2025 La premier incalza l’opposizione e attacca gli attivisti. Salvini contro la Cgil: “No allo sciopero generale”. La politica italiana è in alto mare, al largo di Gaza, con gli occhi di tutti rivolti alla Flotilla che punta verso Gaza. Ma è un giorno di tensione montante che non esplode perché tutti si muovono al buio, senza sapere nei non secondari particolari cosa succederà ma sapendo già che comunque l’intervento di Israele contro le barche, praticamente certo, si rifletterà in uno scontro frontale tra maggioranza e opposizione anche in Italia. Di sicuro nell’aula della Camera, dove è fissata l’informativa su Gaza del ministro degli Esteri Tajani con annesso voto su risoluzioni che non possono essere davvero definite in attesa degli eventi. Probabilmente anche fuori dall’aula, perché le manifestazioni a sostegno della Flotilla, già numerose, diventeranno più bellicose dopo il blocco delle navi ma anche perché sia la Cgil che la Usb hanno annunciato la decisione di indire lo sciopero generale in caso di intervento di Israele contro la Flotilla. La Usb aveva già annunciato lo sciopero “senza preavviso” ma, non essendo stato annunciato con il regolamentare anticipo di 10 giorni è considerato tale anche lo sciopero di Landini. Salvini fa rullare i tamburi di guerra: “Non tollereremo scioperi senza preavviso”. Di conseguenza anche la reazione del governo all’eventuale, ma in realtà quasi certo, sciopero generale è un’incognita che contribuisce a rendere quella di oggi forse la giornata più tesa dall’insediamento del governo in poi. Tesa come la si era vista molto di rado è di certo la premier. Da Copenaghen, dove si svolge il Consiglio europeo informale senza però avere all’ordine del giorno Gaza Giorgia Meloni, molto tirata e palesemente irritata, è andata giù con l’ascia, ripetendo a viva voce quanto aveva già anticipato sui social la sera prima. Un atto d’accusa senza sconti contro gli attivisti in mare. “In questa fase, in un equilibrio estremamente delicato e di fronte a una possibilità che sarebbe storica, insistere in una iniziativa che ha margini di pericolosità e irresponsabilità, continuo a non capirlo”, attacca. Poi rincara: “Se fosse una questione umanitaria si sarebbero accolte le proposte per consegnare gli aiuti in sicurezza. Mi pare che il tema sia tutt’altro che assume dei contorni incredibili nella fase in cui tutti quanti dovrebbero capire che esercitare la responsabilità è la cosa più utile che si può fare per alleviare le sofferenze del popolo palestinese. Ma forse le sofferenze del popolo palestinese non erano la priorità”. Salvini è anche più brusco: “Speriamo che quelli in barca a vela da settimane non mettano a rischio la pace per una battaglia politica sulla pelle dei bambini di Gaza. Dei bambini non gli importa niente. Vogliono solo creare scontro”. Di fronte ad accuse così pesanti la reazione sdegnata sia della Global Sudum Forum, gli organizzatori della Flotilla, è inevitabile. I più corali e furibondi sono i 5S, capitanati dallo stesso Conte che non la manda a dire: “Meloni, tornata a essere la leader di Colle Oppio, continua a insultare la Flotilla invece di difenderla. A sabotare la pace è chi ha finto di non vedere il genocidio in corso”. Il Pd però evita di alzare troppo i toni e la spiegazione di tanta discrezione è proprio in quelle risoluzioni che si voteranno dopo le comunicazioni di Tajani. La proposta che da Lamezia Terme ha lanciato Meloni, quella di una mozione votata dall’intero Parlamento a favore del Piano Trump-Netanyahu, è insidiosa soprattutto per il Pd, trattandosi di una proposta che ha ricevuto la benedizione sia dell’Europa che del Vaticano che dei Paesi arabi. Il centrosinistra, che punta a una propria mozione unitaria, cercherà di sgusciare dalla trappola accampando l’assenza del “riconoscimento senza condizioni dello Stato palestinese” ma è un ostacolo che la maggioranza potrebbe cercare di aggirare con una risoluzione messa ai voti per punti oppure proponendo come mediazione la calendarizzazione del ddl del Pd sul riconoscimento della Palestina. Solo che la maggioranza non ha ancora deciso se cercare una difficile mediazione oppure andare allo scontro frontale accusando la sinistra di essersi attestata su una posizione estremista al solo fine di danneggiare il governo sulla pelle dei palestinesi. Per questo la risoluzione di maggioranza tarda e tradursi in un testo preciso. La richiesta di voto corale sembrerebbe indicare una volontà d’intesa, i toni adoperati da Meloni e Salvini dicono il contrario, la situazione dell’ordine pubblico e del possibile braccio di ferro sullo sciopero peserà molto. Ma a orientare le scelte del governo, e anche dell’opposizione, sarà soprattutto la carta ancora ignota: l’ultimo atto nella vicenda Global Sumud Flotilla. La Flotilla e la campagna per la Calabria di Marcello Sorgi La Stampa, 2 ottobre 2025 La drammatica svolta avvenuta ieri sera - con il fermo delle barche della Flotilla da parte della Marina israeliana, i probabili arresti dei membri degli equipaggi e sequestri dei mezzi navali - ha provocato un immediato intervento del ministro degli Esteri Tajani sul governo di Tel Aviv per ottenere rassicurazioni sul fatto che non siano praticate violenze sui fermati e siano garantite condizioni di umanità per tutto il periodo del trattenimento. È l’epilogo di una giornata in cui il confronto tra governo e opposizioni aveva spesso raggiunto momenti di durezza, sia in Parlamento, dov’è in discussione la valutazione del piano di pace in Medio Oriente Trump-Netanyahu, sia fuori, dove lo scontro sulla Flotilla era continuato per ore e ore, con Meloni che ripeteva che i membri della Flotilla erano “irresponsabili” e rischiavano di mettere a rischio il piano di pace, e Schlein che si produceva in una difesa non proprio calda della missione, per ragioni che si possono intuire. Mentre infatti 5 stelle e Avs hanno già preso posizione contro il piano, una parte del Pd sarebbe disponibile ad approvare, in almeno alcune parti, la mozione che il governo proporrà alla fine del dibattito in Parlamento. Si tratterebbe quindi, per Schlein, o di andare incontro a una rottura della coalizione, o del suo partito. Non è dato sapere cosa la segretaria del Pd deciderà di fare, considerato che i membri della Flotilla, pur attaccati per “la mancanza di responsabilità” dalla premier, sono stati poi soccorsi sul terreno diplomatico da Tajani. Lo spazio politico che le rimane è stretto. Decidendo di proseguire fino al contatto con la Marina israeliana, uomini e donne della Flotilla si erano messi anche contro la ragionevole proposta di Mattarella di consegnare gli aiuti al Patriarca Pizzaballa. Ed esiste, inoltre, il timore che la piega assunta dai fatti ieri sera possa impressionare l’elettorato di sinistra. Le elezioni in Calabria appartengono a quelle con risultato prestabilito: il governatore Occhiuto è quasi certo di farcela. Ma si sa che la partita si gioca anche sulla mobilitazione degli elettorati contrapposti, e nelle Marche quello di centrosinistra è stato più astensionista. Chissà se la Flotilla servirà allo scopo ed eventualmente in favore di chi, nel “campo largo”. Non si può fermare il vento di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 ottobre 2025 Non si può star fermi di fronte alle atrocità che commette Israele, non senza perdere l’umanità. E ora saranno in tanti a non stare più fermi. Le immagini vanno e vengono. Prima di interrompersi definitivamente mostrano donne e uomini seduti in cerchio sul ponte della barca. Giubbotti di salvataggio indossati, aspettano l’abbordaggio. Che arriva. Un atto di pirateria violenta sotto gli occhi del mondo. Preceduto da un messaggio radio che è un’altra conferma di come Israele debba stravolgere la realtà per mantenere l’impunità: “State violando la legge”. Loro. La Flotilla che è arrivata pacificamente e nel pieno rispetto del diritto internazionale vicina alle coste di Gaza. Cioè vicina a una striscia di terra dove da due anni va avanti un genocidio senza che la comunità internazionale faccia nulla di concreto per fermarlo. Non potevano fermarlo queste donne e questi uomini in ginocchio e con le mani alzate. Ma hanno fatto più loro di tanti, quasi tutti i governi, a cominciare dal nostro. La Flotilla è entrata in profondità, nel mare che Israele considera sua proprietà, dove sequestra, affonda e ammazza. Si sapeva che avrebbe abbordato anche questa volta, che lo avrebbe fatto col buio. Non si sapeva a quante miglia marine dalla costa avrebbe agito perché Israele si prende la libertà di decidere fin dove estendere le sue proprietà. In mare come in terra. Nel frattempo però la missione umanitaria è entrata in profondità anche nei sentimenti dell’opinione pubblica che con crescente attenzione e ammirazione l’ha seguita da lontano. Fino all’ultimo, fino a che il collegamento internet a bordo ha retto, gli equipaggi hanno continuato non solo a informare su quanto stava accadendo, ma anche a ricevere telefonate e messaggi di solidarietà, di gratitudine, di incoraggiamento. La vergogna del governo italiano che ha lasciato aggredire i suoi cittadini, tirando via addirittura con un giorno di anticipo la nave militare per non intralciare Israele, spicca per contrasto con la nobiltà degli attivisti della Flotilla. Ma mentre siamo in apprensione per la loro sorte, il loro messaggio è arrivato forte. Non si può star fermi di fronte alle atrocità che commette Israele, non senza perdere l’umanità. E ora saranno in tanti a non stare più fermi. Non si sono fermati di Valeria Parrella Il Manifesto, 2 ottobre 2025 Poi ogni tanto qualcuno nella storia fa una cosa enorme, e la fa per tutti, perché possa aiutare tutti a “orientarsi”, a “mantenere la rotta”. Poi ogni tanto qualcuno nella storia fa una cosa enorme, e la fa per tutti, perché possa aiutare tutti a “orientarsi”, a “mantenere la rotta”. Lo stanno proprio facendo davvero gli attivisti a bordo della Flottilla: non perdono l’orientamento, tengono la rotta. Ci aiutano a difenderci dalle bussole impazzite. Quanto linguaggio marinaio entra nell’uso comune del nostro linguaggio, e lo fa per un motivo: perché viviamo al centro del Mediterraneo. Così stanotte e ieri quel tracker che ci ha permesso di seguire la Flottilla, ci ha rimandato l’immagine di questo laghetto che è il Mediterraneo, che chi ha studiato in Europa non può che riconoscere come proprio. Quando dico “proprio”, dico che ognuno di noi sa che quello è il mare in cui siamo nati tutti, da Creta, su cui arrivavano egiziani e fenici e minoici, lì dove l’indoeuropeo calò dagli Urali per fondersi con il substrato linguistico autoctono. Un posto che è sempre stato aperto e mai chiuso, ospitale e mai alieno. Lo guardiamo sgomenti ogni volta che un’imbarcazione di migranti lo tenta, o vi affonda. Lo guardiamo oggi riconoscendolo finalmente per quello che è: il luogo in cui nacque il manifesto di Ventotene. Così noi, equipaggio di terra, stiamo lì con gli occhi su quelle piccole frecce che ci dicono dove bisogna essere, e che la dignità non è derogabile, solo non fare non serve a niente. “Non accettiamo lezioni di morale” dice la persona che poteva riconoscere lo stato di Palestina. Anche questo fa la Flottilla: mostra che il re è nudo. Alle 19:25 è arrivato l’alt da Israele, ma loro non si sono fermati: Israele non può dire alt a chi si mette disarmato davanti alle armi, chi porta farina e medicine a chi ha fame, a chi rischia la vita per altre vite, a chi mette in difficoltà i governi collusi o tentennanti, a chi si offre come ultima possibilità per sentirci umani e così ci fa sentire umani. E disvela le bugie, i sotterramenti della verità, i confini illegali, in una parola: le piccinerie a cui ricorre chi sta tentando di screditarli. Poi è iniziato il blocco, e l’esercito israeliano è salito sull’Alma. “L’invito a tutti è a sostenere la Flotilla, ma soprattutto il diritto all’esistenza del popolo palestinese. Siamo una flotta autorganizzata e pacifica”, dicono. È esattamente questo, che stanno facendo: spiegano come si agisce secondo morale, a tutti noi, e a quel governo che si fatica a chiamare “nostro”. Flotilla, la rotta è segnata e scuote i governi di Francesca Sforza La Stampa, 2 ottobre 2025 “Se vedete questo video vuol dire che sono stato fermato o arrestato dalle forze israeliane contro la mia volontà”. La stessa frase è stata pronunciata in spagnolo, in polacco, in portoghese, in svedese, in arabo e in inglese da volti diversi, di ragazzi, ragazze, uomini e donne che ieri, alle 10 di sera circa, hanno recapitato a mezzo mondo il messaggio della Global Sumud Flotilla attraverso le piattaforme social. Sono dunque questi i titoli di coda del film a cielo aperto andato in onda nelle ultime settimane e che ha tenuto popoli e governi col fiato sospeso? L’impresa della Flotilla non finisce qui, a giudicare dalla sollevazione delle piazze che ha accompagnato le ore in cui gli equipaggi sono stati intercettati dagli israeliani e condotti verso il porto di Ashdod, 40 chilometri a sud di Tel Aviv. Mai così tanti riflettori sono stati puntati su così poche imbarcazioni, ed essendo la congiuntura particolarmente delicata - con un piano di pace appeso a esili speranze e una cascata di ultimatum pronti a scadere - ogni eccesso e abuso da parte di Israele, anche nei prossimi giorni, potrebbe rivelarsi un boomerang (gli attivisti lo sanno, promettono pace, ma non è escluso che qualche provocazione si allontani dalla linea gandhiana prevista dalle regole di ingaggio). I ministri degli Esteri dei maggiori Paesi europei si sono mobilitati per far sì che non si verificassero incidenti, e si immaginano le argomentazioni portate ai colloqui con le autorità israeliane, dalle richieste di indulgenza verso dei ragazzi quantunque un po’ agée, fino agli avvisi sui danni reputazionali, già per la verità piuttosto avanzati. Inutile negarlo: nella grande crisi mediorientale che si è aperta il 7 ottobre c’è un prima e dopo Flotilla, almeno per ciò che concerne la percezione dell’opinione pubblica su questa guerra. È stata una missione umanitaria o una missione politica? E quale delle due missioni può considerarsi maggiormente fallita? Sembra questo il dibattito, all’alba di quella che sarà ricordata come la più spettacolare azione dimostrativa dei tempi moderni, ma la distinzione è tanto speciosa quanto insufficiente a restituire il senso dell’accaduto. Sì, perché la novità della Flotilla è stata proprio quella di aver saldato le due motivazioni fino a renderle indistinguibili: la tragedia umanitaria di Gaza è un fatto politico e una risposta umanitaria è per ciò stesso politica. Il fatto che nessun governo abbia stabilito un’analoga connessione - “è in corso un disastro umanitario, dunque si attivino delle iniziative volte a fermarlo” - dice purtroppo molto sulla fragilità dei governi, non sulle motivazioni della Flotilla. E allora non è stata solo un’avventura, come vorrebbe chi in questi giorni si è concentrato soprattutto sugli aspetti dannunziani e futuristi dell’impresa (qualcuno ha evocato anche l’operazione Dynamo di Churchill a Dunquerque). Da oggi la prospettiva dell’apertura di un canale umanitario per portare aiuti alla martoriata popolazione di Gaza ha guadagnato punti in termini di realtà: la rotta esiste, un cambiamento è possibile, continuare a tenere gli occhi chiusi da ieri è molto più difficile, oltre che tragicamente imbarazzante. Cacciari: “Flotilla è un’iniziativa giusta. Da Trump un armistizio, non la pace” di Francesca Schianchi La Stampa, 2 ottobre 2025 Il filosofo: “Con l’accordo Usa tra qualche anno in Israele ci sarà un’Intifada permanente”. Nel tardo pomeriggio, quando le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla sono entrate da ore nella zona a rischio, poco prima che vengano intercettate dalla Marina israeliana, il professor Massimo Cacciari prevede “che si fermino, ovviamente. Anche se siamo alla completa destrutturazione di ogni forma di diritto internazionale: non mi risulta che si sia mai stabilito che le acque di fronte a Gaza sono di Israele, quindi non avrebbe il diritto di fermare le barche”. Si aspetta che si fermino per ragioni di sicurezza? “Ma certo! Dal punto di vista della giustizia, è tutta dalla parte di chi sta cercando di portare aiuti per alleviare la condizione dei palestinesi di Gaza. Ammesso che la giustizia esista, sta tutta da una parte”. Che impressione le ha fatto questa operazione umanitaria dal basso? “Sono stati bravi a organizzarla. Non parlo di coraggio, perché è relativo: è evidente che Israele non può rischiare di provocare morti, sarebbe una mossa suicidaria per quel poco di credibilità che resta al governo israeliano. Ma è sicuramente un’iniziativa giusta”. E hanno fatto bene le opposizioni a sostenerla? “Hanno fatto bene, anche se appoggiare una iniziativa come questa e poi sostenere Ursula Von der Leyen in Europa è una evidente contraddizione”. Il governo come si sta comportando in questa vicenda? “Il governo è schierato sulla posizione americana, più di quel che ha fatto non poteva fare. È tutto coerente con la posizione di totale appiattimento alle scelte americane”. Però il governo spagnolo, pur molto più critico con gli Stati Uniti di Trump, sta facendo più o meno lo stesso. “Nessuno Stato europeo potrebbe aprire un confronto su questa questione con Israele. Se ci fossero persone serie al potere in Europa, avrebbero fatto come hanno fatto con la Russia di Putin: avrebbero introdotto sanzioni contro il governo di Netanyahu per quello che sta facendo a Gaza, comunque lo si voglia chiamare”. Preferisce non usare la parola genocidio, sdoganata dall’Onu? “Con quale parola definire quello che sta succedendo mi pare l’ultima cosa di cui preoccuparsi”. La premier Meloni ha usato toni di forte critica contro la Flotilla... “Per forza, la disturba. Dio non voglia che capiti un incidente a un italiano, per il governo sarebbe un disastro”. Ma ha ragione quando dice: è un’iniziativa per mettere in difficoltà il governo? “Ma no, non ha affatto ragione... È un progetto internazionale, ai neozelandesi o agli spagnoli cosa gliene importa del governo Meloni? È la tipica iniziativa pacifica transnazionale, ma certo che a lei dà fastidio, le rende più complicato sostenere la linea Trump”. Da sinistra ieri il leader di Avs Fratoianni diceva: perché il governo chiede alle barche di fermarsi e non a Israele? “Sono d’accordo. Ma è perché nessun Paese occidentale, e tantomeno questo straccio di Europa, può opporsi alla politica americana”. Tutti succubi di Trump e delle sue decisioni? “L’Occidente è diventato tutto americano. Negli anni 60-70 non era così; e ancora fino alla caduta del Muro di Berlino, l’Occidente era americano ed europeo. Da allora un po’ alla volta le cose sono cambiate, e ora chi può decidere, chi ha voce in capitolo, sono solo gli Stati Uniti. È così anche se non lo si vuole ammettere: inutile infiorettarci sopra”. Come le sembra allora il piano di pace di Trump? “È un piano che tutto fa tranne che la pace. Pace significa due popoli che trovano un accordo che possa evitare il proseguimento del conflitto, non un accordo che è il presupposto per la continuazione del conflitto”. Questo fa la proposta di Trump? “Non c’è in quella proposta nessun accordo che possa far finire il conflitto, è un armistizio, ecco”. Perché? “Manca qualsiasi presupposto per uno Stato palestinese, che per anni è stato il perno di qualunque tentativo di accordo di pace. Non se ne parla più”. Ne parla il premier israeliano Netanyahu per promettere che non nascerà mai... “Appunto. Dove andranno i palestinesi? Nessuno li vuole, per cui è impossibile l’emigrazione verso il luogo del non dove. Staranno lì, ma come? Diventeranno cittadini dello stato di Israele? Sa cosa succede? Che nel giro di pochi anni, al tasso di crescita demografica attuale, la maggioranza degli abitanti di Israele diventa palestinese. Pensa che possa andare bene a Netanyahu? E allora qual è la soluzione? Non c’è nessuna strategia per risolvere il conflitto”. Quindi non è una strada da perseguire? “Ma guardi, qualsiasi cosa possa risparmiare anche solo una vita umana va bene. Se può fermare un massacro è una strada che va seguita, ma non è un accordo di pace”. Se dovesse essere adottato questo piano, come immagina quei territori tra qualche anno? “Ci sarà un’Intifada permanente! Se non si trova una soluzione politica, si prefigura una situazione tragica per Israele di terrorismo endemico”. Oggi si voteranno le mozioni su Gaza in Parlamento e la premier chiede un voto unitario alle opposizioni: su un tema così delicato è un appello da cogliere? “Dipende da quale mozione presenterà la maggioranza. Se esalta l’accordo di Trump dicendo: diamogli il premio Nobel per la pace, allora direi di no”. Il presidente americano al Nobel ci punta; dice che Meloni lo sostiene? “Sarebbe la prima ad applaudire se glielo dessero. D’altra parte, di premi Nobel ridicoli ne hanno già dati altri”. Cosa vuole davvero il popolo israeliano di Elena Loewenthal La Stampa, 2 ottobre 2025 Israele, nella persona del suo primo ministro in rappresentanza del governo, ha accettato due giorni fa il piano di pace in 20 punti proposto dagli Stati Uniti. Hamas ancora no. Non è un ultimatum, quello che Trump ha comunicato ai miliziani del movimento che due anni fa ha cominciato questa terribile guerra con i massacri del 7 ottobre. È la concessione di un tempo largo, in un momento così cruciale. Quattro o cinque giorni di tempo per dire sì o no a una proposta se non storica certo fondamentale per quella regione, capace di mutare le sorti dei milioni di persone che ci vivono. Hamas temporeggia, sta presumibilmente valutando anche le opportunità “personali” che il piano propone ai suoi leader ancora in vita - amnistia, “trasbordo” in sicurezza. È in bilico fra un fronte arabo compatto come non lo è mai stato - compresa la Turchia che non è un Paese arabo ma che conta assai e che approva esplicitamente il piano, compresa l’Anp - e l’Iran sul fronte opposto, isolato e interessato primariamente a una destabilizzazione violenta della regione. È un piano buono che va nella direzione di una pace giusta, ha detto Erdogan. È un piano buono che la stragrande maggioranza delle persone che vivono in Israele, a Gaza, in Palestina, vorrebbe fosse attuato da domani, anzi da oggi. Perché non ne può più della guerra, dei morti, del dolore, della paura, della disperazione. È un piano buono che mette sul tavolo un futuro degno per entrambe le parti. Che prova a immaginare un futuro per Gaza, la Palestina, Israele, le umanità che vi abitano. È un piano articolato, preciso. Che comporta un passo avanti coraggioso da entrambe le parti. È un compromesso così come lo è per definizione ogni piano di pace. Ma come diceva sempre Amos Oz: compromesso non è sinonimo di debolezza bensì di vita. Israele lo ha accettato. Magari qualche ministro oltranzista non gradisce, magari qualche oltranzista che non è ministro protesta. Ma Israele ha detto sì. E aspetta che Hamas dica qualcosa. Come mai Hamas aspetta? Chissà. Aspetta perché forse vuole ottenere qualcosa di più. Denaro? Più detenuti liberati? Più lasciapassare/vie di fuga per i suoi leader? La sera di ieri, mercoledì 1° ottobre, è cominciato il tempo più solenne di tutto l’anno per il mondo ebraico, in Israele come in Diaspora. Durante il Kippur tutto si ferma, tutto tace. È il tempo per ripensare al passato e imbastire il futuro. È un digiuno di espiazione ma non di mortificazione, anzi. Il Kippur è l’aspettativa di un tempo nuovo, per se stessi e per il mondo. È la cerniera spirituale che, attraverso il digiuno e il fermarsi di ogni cosa, fa sì che nel ripensamento del tempo trascorso il futuro sia diverso dal passato. Sono queste le ore in cui Israele, inteso come Stato e come popolo, è più vulnerabile che mai, un bersaglio immobile (come è purtroppo successo tragicamente). Però in un certo senso, si abbia o no fede in quel Dio cui sono rivolte le preghiere lungo tutta la giornata, Israele in queste ventisei ore di digiuno e inazione è più solido che mai. Consapevole della strada percorsa e di quella che bisogna scegliere, per vivere. Israele ha detto di sì al piano di pace. Hamas ancora no.