Vapore esplosivo penitenziario di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 29 ottobre 2025 È preoccupante quanto accade, da qualche tempo, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove tra gli operatori penitenziari e tra gli stessi dirigenti-direttori degli istituti, facenti parte di questa organizzazione sindacale rappresentativa della dirigenza, si constata l’approssimativa conoscenza che i “grands commis” dell’amministrazione dell’esecuzione penale hanno del mondo italiano delle carceri. Nelle migliori delle ipotesi, gli interlocutori precitati, quantomeno malinformati (forse perché rifuggono dalla pratica del confronto dialettico con quanti operino per davvero nelle carceri), dall’interno della loro caverna ministeriale ove si ritengono al sicuro, riescono a intravedere solo le ombre di ciò che sembra provenire dal mondo delle carceri, immaginando orde di mostri che potrebbero aggredirli, ma non di orrende creature si tratta, bensì di una massa di umanità dolente prigioniera in galere orribili, di una teoria di persone piegate, spesso umiliate, annichilite. Questa carne umana è costituita prevalentemente da detenuti tossicodipendenti, spesso spacciatori oppure ladri, ci sono poi tanti stranieri che mai riusciranno a rientrare nei loro Paesi, perché sono soggetti che nessuno vuole e lì dove nelle loro nazioni abbiano la ventura di avere dei Governi o pseudo tali, quest’ultimi non ne vogliono la restituzione e non ne riconoscono la cittadinanza, spesso poi sono Paesi senza Stato, oppure dove ce ne sono fin troppi: Stati e realtà territoriali che si formano non poche volte attorno dei gruppi clanici, oppure famiglie o tribù che si fanno ordinamento, dove non esistono servizi pubblici anagrafici, estratti di nascita, uffici passaporti. È dal 1998, con la Legge Turco-Napolitano, che si cerca di dare una risposta che non perviene al fenomeno dell’immigrazione illegale e, nonostante l’avvicendarsi dei Governi e le loro novità normative, le cose d’allora non sono cambiate, fatta esclusione dell’aumento della durata della detenzione amministrativa nei Cpr, che oggi può arrivare fino a 21 mesi. Lo sanno tutti, lo sanno e vivono le stesse contraddizioni anche gli altri Stati europei e non solo quelli; il fenomeno, infatti, non si è mai arrestato, né in Italia né da loro, tant’è, che seppure con acronimi diversi, i Centri per il rimpatrio li troverete in tutta Europa. Nelle carceri, però, il numero di questi sciagurati stranieri che affinano le loro capacità criminali, per inevitabile contaminazione e promiscuità dei contesti, diventa massa critica e può, in assenza di risposte lungimiranti dello Stato, ribollire improvvisamente. Ad essi occorre poi aggiungere i diseredati “indigeni”, made in Italy, gente italiana che spesso non ha casa, riferimenti alcuni, famiglie strutturate, aspettative di speranza modeste, di sopravvivenza, attraverso il lavoro anche umile: si tratta di una zavorra sociale troppo pesante per quanti abbiano dello Stato una visione smart, di finto e urlato efficientismo; cosicché detenuti stranieri e italiani, diventano, inevitabilmente, il miglior brodo di coltura delle criminalità organizzate o che tali vogliano diventare: a quanti non hanno nulla, già offrire una potenziale appartenenza ad una cosca appare essere un regalo, una possibilità. Cosa fare, quindi? e come evitare che si arrivi a forme irreversibili di criticità violenta all’interno delle nostre scassate carceri? La risposta, a parere di questa sigla, non può essere nel serrare ancora di più la pentola a pressione penitenziaria, ma in quella che si sforzi di trovare forme di sfogo controllato del vapore carcerario, prima che essa esploda davvero, disordinatamente o addirittura tutto insieme. Finora i direttori penitenziari, la cui maggior parte è costituta da donne dirigenti, ci sono riusciti in qualche modo, soprattutto aprendo le carceri al territorio, al volontariato sociale, alle ong, rosse, bianche o nere che fossero non importava, perché altro non potevano impiegare come risorse in house. Pensate un po’ la vergogna del sistema che pochi vi raccontano: esso non è nemmeno in grado di assicurare con le proprie risorse un “primo” ricambio di indumenti intimi “di stato” ai prigionieri, se non ricorrendo alla generosità della Caritas, della Sant’Egidio, della San Vincenzo o di quel volontariato parrocchiale che si avvicini per porgere un aiuto alle nostre carceri, ventilatori compresi nell’immancabile ciclica estate fino a quando esisteranno le stagioni (ora forse sorgerà il problema del freddo invernale e dell’acqua calda che manca in diversi istituti penitenziari, pure quelli di “montagna”). Sembra paradossale, ma le carceri da anni vivono sulle risorse “altrui”; esse infatti usufruiscono di quanto perviene da fondazioni bancarie, da fondazioni religiose, dagli enti locali, in primo luogo le regioni, dal mondo del volontariato diffuso che porta nei luoghi della pena il teatro, il cinema, lo sport, la cultura; ma questo avviene pure perché proprio i direttori si fanno ponte con la società esterna, insieme ai loro operatori tutti. Ebbene, ora pare che così non vada più bene, che nulla più si possa fare se non attraverso il passaggio obbligato con il centro di sorveglianza amministrativa romana, che nulla più possa essere delegato al mondo del privato sociale, non essendo bastevole il controllo ed il monitoraggio delle direzioni penitenziarie sotto la vigilanza della magistratura di sorveglianza: tutto, infatti, dovrà da oggi in poi essere realizzato direttamente dalla mano pubblica (in verità un orrendo moncherino) e tutto deve essere autorizzato dal Dap, dalla direzione generale dei detenuti; si ritorna perciò ad una burocrazia ottocentesca, dell’adempimento formale, rispetto a quella del risultato concreto, oppure ad una visione della migliore scuola statalista dei Paesi che una volta si sarebbero detti di “oltre Cortina”. L’intenzione sarebbe quella di fare maggiore sicurezza: viene da ridere, è come se si dicesse che si fa maggiore sicurezza accendendo una fiamma in un deposito di benzina. Addirittura si proclama solennemente che i detenuti dei circuiti del 41 bis e dell’alta sicurezza debbano essere gestiti direttamente dal ministero il quale non si limiterebbe più a fornire istruzioni di massima alle direzioni ma agirebbe di proprio, sì, come quando qualche anno fa a Roma decisero che per rendere più sicura la gestione dei 41 bis (Totò Riina, Leolouca Bagarella, i fratelli Graviano) si dovesse regolamentare l’acquisto del numero dei peperoni e delle melenzane contingentandone il numero, forse perché “esplodenti di sapore” così come furono decise misure strampalate che irridevano alla intelligenza comune e criminale; oggi, perfino acquistare un chilo di farina potrebbe essere pericoloso per la capacità esplodente dei farinacei, quasi come se ne acquistassero a pallet e stivassero le polveri nei loro depositi dentro le celle senza che gli agenti, addirittura quelli specializzati del Gom (Gruppo operativo mobile) se ne accorgano nei loro continui controlli e perquisizioni locali. A proposito, perché si comprendano i termini del problema, occorrerebbe ricordare che su 62.723, alla data del 29 maggio 2025, i detenuti del circuito del 41 bis erano 733, mentre quelli dell’Alta sicurezza 9.425; praticamente tutto il resto, circa 50mila persone, era (è) costituito da humus penitenziario, da fango criminale, da disagio delinquenziale, da psichiatria abbandonata dalle aziende sanitarie e per questo indirizzata verso le carceri, dove invece, i folli violenti non dovrebbero stare, ma a chi in fondo interessa!? Ebbene, ma davvero si ritiene che comprimendo questa teoria di persone, che preme già essa stessa sulle mura stanche e malmesse di tante carceri italiane, umiliando tra l’altro il lavoro di promozione dei direttori penitenziari sui territori, si faccia sicurezza, si faccia buona sicurezza? I direttori della mia sigla non vogliono che si eserciti una pericolosa pressione su del materiale umano già esplosivo di per sé, ma chiedono ormai da anni risorse umane effettive; essi esigono condizioni di vita per gli stessi operatori penitenziari dignitose, vorrebbero delle carceri che siano per davvero a norma, invocando le stesse prescrizioni che si chiederebbero ad una scuola, ad un albergo, per un refettorio scolastico, per un modesto ostello della gioventù, per un’autorimessa, per un teatro parrocchiale, un pronto soccorso, una palestra. Spiace che queste cose banali non siano ancora comprese al Dap, spiace che esse non siano puntualmente rappresentate dai massimi livelli amministrativi, spesso formati esclusivamente da magistrati che da sempre gestiscono quella importante articolazione ministeriale, al ministro e ai sottosegretari, inducendo questi ultimi a probabili errori di valutazione che si aggiungeranno a quelli di quanti, sotto altre bandiere e con altri Governi, li hanno preceduti. La nostra speranza è che per davvero ci si svegli, che finalmente a Roma si prenda coscienza che la verità delle cose è tutt’altra, prima che non solo l’antico carcere di Regina Coeli collassi completamente, ma con esso pure tutto il sistema penitenziario ove continui a poggiarsi sulle bugie di Stato. Confidiamo, pertanto, che il ministro Carlo Nordio, il viceministro Francesco Paolo Sisto, i sottosegretari Andrea Delmastro Delle Vedove e Andrea Ostellari, si spiazzino da quanti, quantomeno inconsapevoli, li stiano indirizzando verso il baratro; ci spiacerebbe, infatti, dover affermare che: “Ve lo avevamo detto”, perché è nostra volontà quella di costruire e rassicurare, non certamente quella di fare la conta delle rovine. *Coordinatore nazionale della Dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae “Il Dap vuole commissariare la sanità penitenziaria” di Raffaele Sardo La Repubblica, 29 ottobre 2025 La denuncia del Garante campano. Samuele Ciambriello, il Garante campano dei detenuti, e Portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti, critica duramente una circolare inviata il 10 ottobre scorso dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), Stefano Carmine De Michele, ai direttori delle carceri. Si tratta di una circolare sulle misure di coordinamento tra le aree per l’efficienza operativa, la prevenzione di eventi critici negli istituti penitenziari. Il documento, rivolto ai medici penitenziari, invita a limitare i trasferimenti dei detenuti verso ospedali esterni, autorizzandoli solo in presenza di una “reale necessità”. Ma ciò che ha suscitato maggiore indignazione è l’uso del termine “pendolarismo ospedaliero”, che secondo Ciambriello rappresenta una grave offesa alla dignità delle persone detenute e al lavoro degli operatori sanitari. “La sanità penitenziaria non può essere subordinata a logiche di contenimento o sospetto,” ha dichiarato Ciambriello. “Parlare di pendolarismo ospedaliero significa ridurre il diritto alla cura a un fastidio logistico, ignorando il valore umano e professionale di chi ogni giorno lavora in condizioni difficili per garantire assistenza e sicurezza”. Il garante ha sottolineato come il linguaggio utilizzato nella circolare sia non solo inappropriato, ma anche pericoloso, perché rischia di influenzare negativamente la percezione del diritto alla salute all’interno delle carceri. Secondo Ciambriello, la circolare del Dap rappresenta un passo indietro rispetto ai principi costituzionali e alle normative che regolano l’assistenza sanitaria in ambito penitenziario. “Il diritto alla salute è inviolabile, anche per chi è detenuto. Non può essere limitato da circolari che sembrano voler scoraggiare l’accesso alle cure esterne”. Il garante ha anche evidenziato come la decisione di un trasferimento ospedaliero debba restare in capo ai medici, e non essere condizionata da direttive amministrative che rischiano di compromettere l’autonomia professionale. La denuncia di Ciambriello si inserisce in un contesto già critico: le carceri italiane soffrono da tempo di sovraffollamento, carenza di personale sanitario, e strutture inadeguate. In molte realtà, l’accesso alle cure specialistiche è possibile solo attraverso il trasferimento in ospedali esterni. “Limitare questi trasferimenti significa negare cure essenziali” ha aggiunto il garante, “e significa anche mettere a rischio la vita di persone che, pur detenute, restano titolari di diritti fondamentali.” Particolarmente forte è stata la difesa degli operatori sanitari e della polizia penitenziaria, che Ciambriello ha definito “in trincea quotidianamente”: “Sono professionisti che lavorano con dedizione e competenza, spesso in condizioni estreme. Meritano rispetto, non sospetti. Equipararli a facilitatori di pendolarismo è ingiusto e offensivo”. Il garante ha concluso la sua nota con un appello al Ministro della Giustizia e alle istituzioni competenti: “Serve un cambio di rotta. Serve un linguaggio rispettoso, una visione inclusiva, e soprattutto serve garantire il diritto alla salute per tutti, anche per chi vive dietro le sbarre. Dietro ogni detenuto c’è una persona, non solo una pena”. La polemica sollevata da Ciambriello non è solo una questione semantica: è una battaglia per la dignità, per il rispetto dei diritti, e per una sanità penitenziaria che non sia subordinata a logiche di controllo, ma orientata alla cura e alla tutela della persona. Tra Escobar e i sogni normali. L’abisso dei ragazzini dentro di Nello Trocchia Il Domani, 29 ottobre 2025 Gli agenti senza formazione, le dipendenze ignorate, detenuti che dormono a terra e abusi quotidiani. Resistono i volontari, che offrono un’alternativa con il lavoro a chi sogna di diventare un “bravo ragazzo”. “Pablo Escobar prendeva ai ricchi e dava ai poveri. Mi è piaciuto e l’ho tatuato”. “Io sono qua dentro perché ho tentato di ammazzare uno, ma è vivo. In coma vegetativo”. “A me la rieducazione non serve, sono già maturo”. “Ora che esco devo sistemare una cosa, anzi uno”. Voci di dentro, voci di detenuti negli istituti minorili d’Italia: Bari, Roma, Milano. Proprio quest’ultimo istituto, il Cesare Beccaria, è scosso da un’indagine giudiziaria che vede coinvolte 52 persone: stanze di tortura, violenze inaudite e silenzi di vertici e perfino cappellani. Accuse tutte da dimostrare. Due anni dopo l’approvazione del decreto Caivano, il modello di giustizia minorile secondo la destra al governo, entriamo dove finiscono nelle carceri dei ragazzi. Quelli che fuori le etichette chiamano anche maranza. Angelo, nome di fantasia come tutti quelli che useremo in questo reportage, è dentro. Non ha ancora 18 anni. Ha picchiato a sangue un uomo: dopo il coma non è morto, è in stato vegetativo. Perché l’ha fatto? “Dava fastidio a dei ragazzi e lo abbiamo picchiato io e altri amici”. Non è così, quell’uomo lo aveva visto per la prima volta, su di lui si sono accaniti senza alcuna ragione, ma Angelo prova a dare un barlume di ragione alla bestialità. Lo strazio diventa insopportabile quando racconta la sua di storia: “A me non viene a trovarmi nessuno, io non so che fine hanno fatto i miei genitori, non l’ho mai saputo. A me è mancato tutto: l’affetto di qualcuno. Ho solo una nonna”. Non c’è alcuna richiesta di compassione nel suo racconto, la sua voce sembra monocorde. Chiude con poche parole: “Vorrei una vita normale”. “Normale” è l’aggettivo più gettonato quando intervistiamo i detenuti. Li incontriamo nelle sale teatro, nelle aule di scuola, nei corridoi che diventano un set per le nostre riprese. Il loro normale si declina in modi diversi. Normale come una passeggiata al mare. Normale come abbracciare un figlio. Normale come fumare una sigaretta con un amico. Qui mare fuori non c’è, la popolare fiction resta solo una caricatura, una finzione, anche se riuscitissima. “Oggi arrivano all’istituto penale minorile non come soggetti nudi e crudi, ma come soggetti che sono già organici alla criminalità comune o, peggio ancora, a quella organizzata. Questa è la prima differenza rispetto agli anni scorsi, ma abbiamo un trend in crescita: i reati di violenza. Un aumento legato a un fenomeno di cui si parla poco che è la tossicodipendenza e l’abuso di sostanze. Non solo le sostanze classiche come la cocaina, il crack, ma anche ketamina così come l’abuso di farmaci”. A parlare è Nicola Petruzzelli, il direttore dell’istituto minorile di Bari. Uno di quelli che servono il paese e la Costituzione. Ha superato i tre decenni alla guida del carcere pugliese, è dentro pure lui in qualche modo. Al Nord i ragazzi sono stranieri minori non accompagnati, reclusi che affrontano la detenzione, l’assenza di riferimenti esterni e la convivenza con gli italiani. Al Sud solitamente ci sono i figli della mala locale o chi ha percorso le strade della violenza che si incrociano con quelle della dipendenza. “Non dimentichi una cosa, noi siamo il paese delle urla manzoniane”, dice. Le grida evocate nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni per raccontare le leggi di cartapesta, enunciate e mai applicate. Uno degli ultimi esempi è la promessa di Carlo Nordio di affrontare il sovraffollamento con la detenzione differita per i tossicodipendenti, ma è una misura già contenuta in leggi pregresse. Leggi a bizzeffe, ma spesso senza fondi e inapplicate. Quando si parla di giustizia minorile, le urla manzoniane sono tante, così come le mancanze. Distrazioni che non risparmiano nessuno, questo governo ha peggiorato il quadro, ma quelli precedenti sceglievano il niente come orizzonte permanente. “Noi applichiamo gran parte dell’ordinamento penitenziario per gli adulti. C’è una legge che prevede strutture dedicate per i colloqui per la convivenza con i familiari, ma è una norma a costo zero. Nelle carceri minorili si dovrebbero dividere i ragazzi dai 14 ai 18 anni, che sono minori veri e propri, e i maggiorenni che vanno dai 19 ai 25 anni, i giovani adulti. Li dovremmo separare, ma non si può”, dice Petruzzelli. Specializzazione mai - Poi c’è un altro deficit evidente che è diventato strutturale: la mancanza di specializzazione degli agenti. Un requisito contenuto nelle norme europee, ma ignorato. L’ultimo corso di specializzazione c’è stato nel 2015, il novanta per cento degli agenti non lo ha svolto, e così si mutua il personale dal contingente ordinario, quello delle carceri per adulti. Manca la specializzazione, e anche la formazione, il governo ha ridotto anche i mesi previsti. Al Beccaria di Milano ci sono venti detenuti in più rispetto al numero previsto. “In cella siamo quattro, uno di noi dorme a terra”, racconta un ragazzo recluso. E gli agenti? “Qui la stragrande maggioranza degli agenti non è formata, l’80 per cento ha meno di due anni di esperienza”, dice la nuova comandante della polizia penitenziaria, Iolanda Tortu, arrivata dopo l’indagine che ha travolto agenti, funzionari, dirigenti. Alcuni poliziotti penitenziari lavorano ancora nell’istituto, ma non a contatto con i ragazzi. La ragione è legata all’organico insufficiente. Qui a Milano mancano almeno venti agenti. A Bari ne mancano 17. A Roma, Casal del Marmo, servirebbero altri venti poliziotti penitenziari. “Abbiamo fatto un calcolo sullo straordinario annuale, siamo nell’ordine di 12mila ore in dodici mesi, questo abbassa il livello di attenzione, non posso negarlo”, dice Linda De Maio, da pochi mesi comandante della polizia penitenziaria all’istituto minorile romano. Specializzazione e formazione pari a zero, carenza di personale e adeguamento strutturale solo sulla carta. Manca anche tutto il resto, come, ad esempio, le strutture sanitarie per certificare la dipendenza patologica. Nella Puglia, a guida centrosinistra, non c’è la possibilità di fare l’analisi tossicologica accurata a carico della fiscalità generale. “Io ho portato i ragazzi in laboratori privati per certificare la dipendenza, l’esame costa 450 euro. Un esame tossicologico accurato consente di accertare la reale dipendenza ed evitare falsi positivi”, dice Petruzzelli. Abusi - Camminare tra blindo e cucine, tra celle e formazione, in un carcere minorile è distopico. A volte sembra di guardare un quadro disperante, invece è incredibilmente complesso, ci sono storie di riscatto dentro sentieri segnati, vite che sembrano già scritte in un disarmante trionfo del determinismo sociale. Il governo ha previsto la visita obbligatoria per i futuri magistrati in un istituto di pena, dovrebbero introdurla anche per i politici che raccattano voti sulla disperazione e il disagio. Ma non tutto è segnato. “Ho imparato a cucinare. Non sai quante ne ho combinate, ora sono stanco a soli 21 anni. Cambio vita, dipenderà solo da me”, dice uno dei ragazzi. Poi c’è Antonio con quell’orrore che porta addosso: “Vorrei diventare un bravo ragazzo”. Giustizia, sale la febbre referendaria. Comitati a caccia di testimonial di Paolo Comi L’Unità, 29 ottobre 2025 Domani al Senato l’ultimo ok alla riforma, poi il via alla campagna per il voto popolare in primavera. La maggioranza punta sulla società civile, Cassese sogno proibito dei comitati per il sì. Per il No c’è già il comitato dell’Anm, front runner Sigfrido Ranucci. “Partiremo subito, senza perdere tempo, con la raccolta delle firme per il referendum. Vogliamo essere i primi e non abbiamo paura che i cittadini si confrontino su un tema così delicato”. Ostenta dunque sicurezza Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia, che insieme al collega alla Camera Enrico Costa, è stato incaricato da Antonio Tajani di creare i comitati per il Sì alla riforma. “I comitati - prosegue Zanettin - saranno aperti alla società civile, con avvocati, professori, anche magistrati, ma soprattutto vittime di mala giustizia”. Dopo il voto finale sulla riforma, previsto per domani mattina a Palazzo Madama e dall’esito scontato, inizia quindi ufficialmente la campagna referendaria per il ddl costituzionale di riforma della giustizia che ha come fulcro la separazione delle carriere dei pm e dei giudici. L’unica riforma che il centrodestra, a dispetto dei roboanti annunci di inizio legislatura a proposito del premierato e dell’autonomia differenziata, ha portato a conclusione in Parlamento. Non essendoci stata però, nel corso del voto, la maggioranza assoluta, ecco allora la necessità del referendum confermativo, previsto in primavera, affinché la riforma diventi legge. L’ultima campagna referendaria sulla giustizia risale al 2022 quando vennero proposti quesiti abrogativi della legge Severino, delle norme sull’incandidabilità, sulle misure cautelari, sulla valutazione dei magistrati, e sul sistema di elezione del Csm. I quesiti erano stati proposti dal Partito radicale e dalla Lega, con il sostegno di nove Consigli regionali. Tuttavia, nessuno dei quesiti ottenne il quorum richiesto (il 50 percento + 1 degli aventi diritto) per essere valido. L’affluenza si fermò infatti attorno al 20 percento. Questa volta lo scenario è diverso, in quanto nel referendum confermativo non è necessario raggiungere il quorum. Il compito dei comitati sarà fondamentale: tradurre i temi complessi della riforma in messaggi semplici. Il rischio che la maggioranza non vuole correre è però quello della “polarizzazione politica”, facendo diventare i comitati espressione dei partiti di riferimento. E questo la premier Giorgia Meloni lo sa bene ed a tal proposito fino ad oggi si è tenuta alla larga dalla questione, avendo fatto tesoro dell’esperienza di Matteo Renzi che si dimise il giorno stesso del fallimento del referendum che modificava l’assetto dello Stato, con l’abolizione del Senato. Altro aspetto da considerare sarà la disaffezione degli italiani al voto. Nel caso dei referendum una costante degli ultimi anni, forse anche per la difficoltà dei recenti quesiti che ha reso ostico per molti elettori comprenderne pienamente le implicazioni. Il fatto che i temi fossero percepiti come tecnici o specialistici, non “sentiti” come immediatamente rilevanti dalla larga opinione pubblica, unito ad una “stanchezza da referendum” o scarsa visibilità dei comitati nelle campagne locali, ha fatto il resto. Il margine di coinvolgimento questa volta - probabilmente - sarà maggiore proprio perché la riforma riguarda ambiti centrali del sistema giudiziario, l’indipendenza dei magistrati, la separazione delle carriere. La sfida sarà evitare che la consultazione diventi semplicemente uno scontro politico tra schieramenti: le ragioni giuridiche e civili dovranno essere ben articolate, anche da parte dei comitati, per non generare disaffezione o astensionismo. I comitati referendari saranno dunque fondamentali per la fase della campagna: sia quelli che sosterranno la riforma sia quelli che saranno contrari. La riforma della giustizia, inoltre, non è stata affrontata in questi allo stesso modo all’interno della maggioranza. Non è un mistero che Forza Italia voglia metterci il cappello, scalzando FdI e Lega. Ad oggi, comunque, l’Associazione nazionale magistrati è in “vantaggio” avendo già dato già vita ad un comitato per il no ed avendo scelto come front runner il conduttore di Report Sigfrido Ranucci e Nicola Gratteri. Il procuratore di Napoli, in particolare, ha iniziato a girare tutte le trasmissioni televisive (ieri sera era ad Otto e mezzo su La7), riempendo i giornali delle sue dichiarazioni. Il sogno “proibito” dei comitati per il Si è invece Sabino Cassese, il decano dei giuristi italiani, 90 anni la scorsa settimana, già giudice della Corte costituzione e ministro della Funzione pubblica durante il governo Ciampi. In attesa di capire le prossime mosse, dalla maggioranza hanno fatto sapere che domani, dopo il voto in Senato, è in programma una “festa” a piazza Navona. È scontro sulla riforma. Nordio: “Toghe, non cadete nell’abbraccio mortale con l’opposizione” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 29 ottobre 2025 Il ministro: basta con l’aggressività. Un caso le parole su Garlasco. Medita di prendere la parola oggi in Aula il ministro Carlo Nordio. Per difendere la sua riforma costituzionale sulla separazione delle carriere che domani vedrà il via libera definitivo dagli ultimi attacchi piovuti ieri in Senato. Scuoteva la testa il titolare della Giustizia ieri, dai banchi del governo di Palazzo Madama, mentre il dem Alfieri accusava: “Umilia la magistratura”. L’M5S Elisa Pirro rincarava: “È un cavallo di Troia per riorganizzare il potere giudiziario e assoggettare il pm al potere esecutivo”. E l’Avs Ilaria Cucchi chiosava: “Il governo sta piegando la Costituzione a una democratura”. Un poco sollevato solo dalla difesa di Carlo Calenda: “La riforma libera la magistratura dalla dipendenza dalle correnti”. E rivolto al Pd: “Questa riforma era nelle tesi dell’Ulivo. Avete cambiato idea su tutto per seguire l’M5S”. Rumori, proteste in un’aula semivuota. Nordio in mattinata, al Salone della giustizia, aveva auspicato che “la polemica venga mantenuta in termini razionali” e che “cessi l’aggressività verbale, soprattutto della magistratura”. E che le toghe non “cadano nell’abbraccio mortale” con l’opposizione. Già ritiene “ai margini della costituzionalità” che i magistrati si costituiscano in comitati per il no alla riforma. Se passassero alla “coesione politica con i partiti d’opposizione sarebbe un disastro per entrambi”. Concorda il sottosegretario FI alla giustizia Sisto che lo reputa “un gesto politico non consono”. E valuta le critiche dell’Anm un “falso ideologico”. A margine del dibattito in aula, Nordio riparla di referendum: “Si terrà a fine marzo, inizio aprile. Mi auguro non diventi un “Meloni sì, Meloni no”, come hanno fatto con Renzi” perché “comporterebbe un’umiliazione della magistratura. Al contrario, se vincesse l’opposizione probabilmente la vittoria se la intitolerebbe la magistratura e avremmo di nuovo una politica condizionata dalle procure”. Il leader M5S Conte annuncia “una campagna per spiegare i pericoli di una riforma che è il disegno di Licio Gelli”. Per il presidente del Senato La Russa “è giusta la separazione delle carriere, ma forse il gioco non valeva la candela. Invece l’aspetto dei due Csm è un tentativo di ridurre il peso delle correnti. Non so se riesce”. Polemica sulle parole del Guardasigilli su Garlasco: “A un certo punto bisognerebbe avere il coraggio di arrendersi, è difficilissimo dopo 20-30 ricostruire una verità giudiziaria, ma se sorgono dubbi sulla colpevolezza è giusto indagare”. Per Matteo Renzi “parole sconcertanti”. La prudenza del Pd sul referendum sulla giustizia di Mario Lavia linkiesta.it, 29 ottobre 2025 Toni sobri e niente invettive, così il No alla separazione delle carriere diventa un atto di buon senso più che di battaglia politica. Schlein evita lo scontro frontale con Meloni e archivia, per ora, le parole incendiarie di Amsterdam. A un certo punto nella sala Koch del Senato, un’aula grande che era mezza vuota dove ieri mattina si è riunita l’assemblea dei gruppi parlamentari del Partito democratico, è risuonata una frase un po’ sinistra: “Si prega i signori passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza”. Non era un messaggio politico, che peraltro sarebbe risultato consono alla situazione, ma la voce uscita dal collegamento da remoto della senatrice Tatjana Rojc che si trovava in volo. Risate per stemperare un clima descritto come abbastanza preoccupato. Già, che fare di fronte al referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati? Scontata l’indicazione per il No. Ma come darla? Con quale messaggio politico? Perché come al solito non la pensano esattamente tutti allo stesso modo. Laura Boldrini, musa dello schleinismo all’ennesima potenza, ha definito la riforma Meloni-Nordio “un attacco alla Costituzione”: bisogna stare attenti ai toni perché se si alzasse troppo il tiro bisognerebbe fare le brigate Garibaldi, altro che i comitati per il No. Ma la linea del Partito democratico è un’altra. Toni più cauti. Non quelli dell’Anm, per intenderci. I giuristi come Andrea Giorgis e Alfredo Bazoli, ma anche altri, sono apparsi molto più sobri e, come si dice, sono rimasti sul merito: si tratta di una riforma che non è affatto a favore dei cittadini, dato che concretamente non agisce sul vero problema, che è quello della lentezza dei processi, e al tempo stesso tende a colpire l’indipendenza dei pubblici ministeri creando per esempio due Csm distinti. Questa di Nordio è una riforma - questa la sintesi - che cade in un contesto in cui il governo sta indebolendo alcuni presidi democratici. Ma niente toni da “Fischia il vento”. È chiaro che la questione vera è la politicizzazione del referendum. La presidente del Consiglio non se la giocherà alla Matteo Renzi, vittima della personalizzazione che egli stesso diede alla consultazione del referendum costituzionale del 2016. Meloni ha capito la lezione gratuitamente offerta dall’allora premier. Ieri ha colpito l’alert di Ignazio La Russa che in questo senso ha smorzato l’enfasi sul referendum, un indizio significativo. Ma al tempo stesso la presidente del Consiglio sa bene che se prevalesse il Sì per il governo sarebbe un lasciapassare fino alla fine della legislatura che, dice qualcuno, a quel punto potrebbe anche interrompersi in autunno con la premier con il vento forte a favore e il campo largo magari ancora lì con il teschio in mano come Amleto a chiedersi chi è il leader. Di qui la relativa cautela di Elly Schlein, il cui intervento era molto atteso per capire il grado di “amsterdamizzazione” della sua linea, se cioè la segretaria avesse intenzione di giocare il referendum come giudizio di Dio sul governo. Ebbene, no. “Teniamo toni moderati e misurati”, ha detto Schlein in un discorso ovviamente molto duro verso un esecutivo che a suo dire si è inventato questa riforma per distrarre gli italiani dai veri problemi, la sanità, il lavoro eccetera. Contrariamente all’invettiva di Amsterdam sull’”allarme democratico quando l’estrema destra è al governo” che le ha causato una violentissima polemica da parte della premier, ieri la leader del Pd è parsa dunque fare un passo indietro. La separazione delle carriere dei magistrati è una pessima idea, ma non mette in gioco la democrazia: è già qualcosa per evitare di farsi del male. Quindi il Pd chiederà un No di merito pur sapendo, come qualcuno ha detto ieri mattina, che nel Paese “c’è un effetto Garlasco” che può determinare una diffusa ostilità verso la magistratura, tale da fare del referendum un’occasione per punirla. La speranza del Nazareno è che i suoi elettori corrano alle urne e i sostenitori del centrodestra ci vadano di meno: non essendoci il quorum conterà la capacità di mobilitare i propri seguaci. Tuttavia Schlein non intende politicizzare il referendum - nel senso di non farne un giudizio elettorale su Meloni - ma al tempo stesso sa bene che un effetto politico da quelle urne inevitabilmente scaturirà. Se per scelta dello stesso Pd non è in questione il governo, se prevalessero i No per Meloni non sarebbe più di tanto un problema. Se vincesse il Sì il problema invece sarebbe tutto di Elly Schlein che, dopo il Jobs act, avrebbe perso un referendum per la seconda volta su due. E stavolta in un match diretto contro Giorgia Meloni. Per cui, toni sobri. Ciao Amsterdam. Riforma della giustizia, i dubbi di La Russa: “Non so se vale la pena” di Conchita Sannino La Repubblica, 29 ottobre 2025 Nordio: “Il referendum non sia su Meloni. Intercettazioni porcheria, farò la riforma”. Parodi (Anm): “Se perdo lascio”. C’è il Nordio uno che picchia sui magistrati e riapre il fronte delle intercettazioni, e c’è il Nordio due che “supplica” gli ex colleghi di “non essere aggressivi” e di non trasformare il referendum “in un Meloni sì-Meloni no”. Ma a pesare politicamente sulla giornata è invece un pacatissimo La Russa che fa spallucce rispetto alla riforma della giustizia che spaccherà il Paese, fino al referendum. “Io ero per questa legge, ma in fondo già oggi è difficile il passaggio tra pm e giudici”. Insomma: “Non so se il gioco valeva la candela”, esita la seconda carica dello Stato. Un colpo indigesto, per via Arenula. E per non pochi alleati. Meno 24 ore alla definitiva approvazione, in quarta lettura al Senato, del ddl di revisione costituzionale che separa le due magistrature, istituisce la Corte disciplinare e i due distinti Csm (con membri eletti, per la prima volta, a sorteggio). Domani, la destra è pronta a festeggiare in strada la data storica, prima di gettarsi nella campagna per il referendum confermativo che il Guardasigilli prevede possa svolgersi “tra fine marzo e metà aprile”. E su cui stavolta la destra non ostenta più certezze. Infatti c’è il Nordio uno che avvisa: “In Italia è una porcheria, la prossima riforma sarà sulle intercettazioni. I magistrati sono responsabili” per le “veline, con le conversazioni captate nelle inchieste. Non dico che le distribuiscono, ma molto spesso ne consentono la diffusione, difatti non indagano sulle fughe di notizie”. Ma ecco il Nordio due che, pochi istanti dopo, unisce le mani: “Supplico che cessi l’aggressività, soprattutto delle toghe”, in più teme che “se vincesse il no, la vittoria se la intitolerebbero i magistrati, non le opposizioni, e avremmo una politica condizionata di nuovo dalle Procure”. Dal suo canto, è il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, a replicare a nome delle toghe: “Siamo svincolati dai partiti, e faremo una battaglia nel merito contro questa riforma che danneggia cittadini e giustizia”. Anche lui si confronta con l’idea di un esito infausto: “Se perdiamo, magari male, per colpa mia, mi dimetto”. In Senato, intanto, corre la discussione generale sulla riforma, il Pd schiera tutti i senatori a parlare, solo un segnale, “c’è ormai un’erosione del pluralismo parlamentare che spaventa”, dice il capogruppo dem Francesco Boccia. Per la leader Schlein: “Può votare sì a questa riforma solo chi pensa che un giudice debba obbedire a chi governa. Ma i cittadini devono sapere che la separazione esiste già: oggi solo 20 persone in totale su 9mila magistrati passano da una carriera all’altra”. È la stessa valutazione cui arriva, a sorpresa, persino il presidente del Senato. Che in serata, dalla buvette, non dissimula le sue perplessità. “Ero tra gli artefici della separazione, quella che rendeva difficile il passaggio da una carriera all’altra, come in fondo è tuttora”, dopo l’intervento della riforma Cartabia, riconosce La Russa. Dopodiché, si guarda intorno, a un metro c’è anche Nordio, “è giusta la separazione, ma forse il gioco non valeva la candela”. E i due Csm? “L’aspetto dei due Consigli è un tentativo, vediamo se riesce, di ridurre il peso delle correnti. Non so se riesce”. Dubbi che autorizzano la stoccata del dem Federico Gianassi, secondo cui “le parole di La Russa segnano una netta presa di distanza e confermano quanto sia profondo il disagio anche all’interno della maggioranza di fronte a questa riforma”. Giustizia, il rischio di un Paese illiberale di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 29 ottobre 2025 Con il voto al Senato il Ddl Meloni/Nordio “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte Disciplinare” viene approvato nel testo depositato il 13 giugno 2024, senza che ne sia mutata una virgola. Dopo un momento di disponibilità verso modifiche, si è andati alla “blindatura”. Il percorso di riflessione che il Costituente aveva proposto la revisione è stato di fatto vanificato. La legge sarà pubblicata in Gazzetta Ufficiale, ma l’entrata in vigore, non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi, rimane sospesa all’esito del referendum che si preannuncia. I cittadini italiani si pronunceranno. Non certo pro o contro il governo (e sarebbe uno stravolgimento della procedura una impostazione di questo tipo). Neppure sul quesito proposto un anno fa dal Ministro Nordio: “La comunicazione politica verrà affidata ad una sola domanda: siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete votate Sì”. Come nei precedenti referendum la scheda riporterà il quesito: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte Disciplinare”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n...?” Secondo rumors negli uffici legislativi del Ministero della giustizia si starebbe studiando un quesito più smart. Questi rumors meritano secca smentita dal Guardasigilli. Si voterà sull’ “ordinamento giurisdizionale”, cioè sul sistema costituzionale della magistratura, e non sulla “separazione delle carriere”. Le proposte dell’inizio legislatura con questa titolazione sono state cestinate, dopo la presentazione del Disegno di legge governativo dall’oggetto molto più ampio. Vi sono buone ragioni di principio a favore della separazione, senza bisogno però di proporre automatismi, per nulla scontati, a seguito della introduzione a livello costituzionale, con la modifica dell’art. 111 Cost., del principio di assunzione della prova in contraddittorio; nulla di meno, nulla di più. Il garantismo penale si costruisce con le regole del processo, sempre migliorabili, piuttosto che con l’assetto istituzionale degli attori, giudici e Pm. Le ragioni contrarie alla separazione, non in astratto, ma qui e oggi, sono ad avviso di molti largamente prevalenti. Quando dilagano trasmissioni su ristoranti e chef potremmo dire che la separazione, originariamente proposta come “piatto unico” di un light lunch, è ora un piccolo contorno nel menu di un “cenone” che ha il piatto forte nel “riequilibrio dei poteri tra esecutivo e giudiziario”. Continuare a definire la legge come “separazione delle carriere” è una manomissione delle parole, per usare la felice espressione di un libro di Gianrico Carofiglio. E non riesco a capire come per gustare quello che è ormai solo un contorno si sia disposti ad ingoiare l’indigeribile piatto forte. “Riequilibrio” si dice, ma si deve leggere riscrittura delle garanzie del giudiziario attraverso la radicale riduzione dei meccanismi posti a tutela dell’indipendenza della magistratura nel suo complesso, giudici e pm. A nulla vale proclamare la formale indipendenza, se non sono apprestati istituti che ne garantiscano la effettività. La Costituzione del 1948 aveva costruito per questo scopo il Csm. Non è stato esente da limiti, da ombre e luci, ma lo si riduce all’irrilevanza senza sostituirvi nulla. La democrazia italiana, nata dalla Resistenza contro il nazifascismo, è solida, ma le norme costituzionali sono barriere preventive di fronte a possibili future involuzioni. In mancanza di robusti baluardi cadono le difese contro il rischio di democrazie illiberali, che è, purtroppo, tema molto attuale. L’Ungheria è vicina e per una singolare coincidenza, mentre il Senato su appresta a votare, il presidente Orban in visita in Italia ci ha tenuto a ribadire” Bruxelles non conta nulla”. E infatti l’Ungheria ha ignorato le risoluzioni dell’Unione europea che denunciavano le violazioni dello Stato di diritto proprio per interventi sulla indipendenza della magistratura. Gli Stati Uniti di Trump, ove giudici e pm non graditi vengono” licenziati”, sono ancor più vicini. L’indipendenza della magistratura, presidiata da solide barriere costituzionali, è garanzia dei diritti delle persone, è la condizione per assicurare che davvero la legge sia eguale per tutti. Di Pietro vota sì al referendum sulla separazione delle carriere di Luca Sablone Il Riformista, 29 ottobre 2025 “Alta Corte e sorteggio terrorizzano le toghe, basta strapotere”. L’ex pm di Mani Pulite: “Il Csm non giudicherà più sé stesso” ma “la maggioranza non commetta errori di comunicazione o la riforma rischia di saltare per sempre”. Affluenza? “Dobbiamo spiegarlo ai cittadini. Anche io l’ho spiegato a mia sorella di 90 anni, che ha fatto la terza elementare”. Sì alla separazione delle carriere, no alla “giustizia domestica” e allo strapotere del Consiglio superiore della magistratura. Il voto favorevole al referendum arriva da chi meno te lo aspetti: Antonio Di Pietro. L’ex pm simbolo di Mani Pulite sostiene la riforma che sta agitando il mondo togato. La sua voce arriva come una scossa nel pieno del dibattito infuocato dall’Associazione nazionale magistrati: il testo del governo non è una bestemmia, ma un sacrosanto tentativo per far sì che ci sia davvero un giudice terzo. Una posizione che spiazza chi pensava di trovarlo nel fronte del “no”: d’altronde, separare le carriere significa dare piena concretezza all’articolo 111 della Costituzione. Per Di Pietro, paventare il rischio di una sottomissione del pm al governo è pura fuffa. È un’operazione di facciata che nasconde il vero motivo per cui le toghe sono terrorizzate dalla consultazione popolare: l’Alta Corte di Giustizia toglierebbe al Csm il potere di giudicare sé stesso. Ma il fondatore dell’Italia dei Valori avverte il centrodestra: “Se viene messo il cappello di Berlusconi sopra il provvedimento, la riforma rischia di non andare in porto”. In primavera gli italiani saranno chiamati alle urne per il referendum sulla separazione delle carriere. Lei cosa voterà? “Voterò sì. Io sono sempre stato favorevole, fin dal 1989 con la riforma del sistema inquisitorio e del sistema accusatorio. Non c’era ancora Berlusconi e non ci aveva messo il cappello. L’articolo 111 della Costituzione dice testualmente che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. In italiano, per logica, se il giudice è terzo ma fa parte della stessa famiglia di uno dei due, c’è una contraddizione. Se poi andiamo a vedere l’articolo 104 della Costituzione, io vorrei che si mettessero i cittadini in condizione di vedere l’articolo 104 come è adesso e come diventerà dopo”. Cosa cambierà? “Nulla. C’è scritto che i magistrati costituiscono un ordine autonomo e indipendente, che è una sacralità che nessuno deve mettere in discussione e che a mio avviso è un pilastro cardine della nostra Costituzione. Bene. Con la riforma, l’articolo 104 resta scritto così. I magistrati del pubblico ministero e giudicanti costituiscono un ordine autonomo e indipendente. Quindi vorrei capire cosa cambia rispetto ad ora”. L’Anm, però, sta già infuocando il dibattito e aizzando il fronte del “no”… “Accusare questa riforma di voler intaccare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura è una critica costruita appositamente per indurre il cittadino a votare “no”. L’Anm sposta l’attenzione su un paventato rischio di subordinazione del potere indipendente al potere esecutivo che non esiste. Per poter modificare l’articolo 104 della Costituzione servirebbe un’altra riforma costituzionale, che non è alle porte. Tra l’altro, non sarebbe neanche possibile farla perché il popolo si ribellerebbe”. Allora perché le toghe sono già sulle barricate? “La vera ragione per cui l’Associazione nazionale magistrati si oppone è una: la riforma prevede la costituzione dell’Alta Corte di Giustizia e il sorteggio. Se ne parla poco, ma è la motivazione di fondo per cui l’Anm si oppone. L’Alta Corte toglierebbe il potere all’interno del Consiglio superiore della magistratura di fare una propria giustizia disciplinare interna: oggi sul piano disciplinare e delle promozioni - quindi sul piano della carriera - decide il Csm. Con l’istituzione dell’Alta Corte, si toglie al Consiglio superiore della magistratura il potere vero: quello di giudicare per sé stessi, per gli stessi magistrati”. Così si direbbe addio alla “giustizia domestica”… “Esatto. Io sono contro la giustizia fatta in casa per quanto riguarda i provvedimenti disciplinari. Sono contro il fatto che gli avvocati sul piano disciplinare vengano giudicati da Consigli distrettuali, cioè dagli stessi avvocati; i geometri dallo stesso Ordine dei geometri; gli ingegneri dallo stesso Ordine degli ingegneri; i giornalisti dallo stesso Ordine dei giornalisti. Nella giustizia domestica non c’è certezza di terzietà. Noi abbiamo discusso del “modo clientelare” del caso Palamara. Lo ricorda?”. Certo, come no... “Ma noi di quale Palamara parliamo? Del Palamara le cui frasi sono state intercettate o di tanti altri Palamara che non sono stati intercettati? Questo è il tema. Allora, per estirpare la radice, dobbiamo togliere il potere di governare allo stesso Ordine”. Però c’è chi teme che il pm finisca per essere subalterno al governo… “Adesso ci sono magistrati - che sono la stragrande maggioranza - che fanno il loro dovere, e magistrati che invece si appecoronano al potere esecutivo o ad altri poteri. Il magistrato che vuole fare il proprio dovere in modo coerente, determinato, rispettato, non lo fermerà nessuno in alcuna maniera, se non in due modi: un quintale di tritolo o un altro magistrato. Non c’è altro potere”. Negli anni 90 lei è stato un simbolo di fiducia nella magistratura da parte del popolo. Oggi, sostenendo la separazione delle carriere, come si comunica al cittadino che non si tratta di attaccare i magistrati ma di rafforzare la giustizia? “Innanzitutto c’è un grave errore di comunicazione che sta facendo il centrodestra, soprattutto Forza Italia. Mettendoci il cappello sopra, dividono i cittadini tra quelli che votano per partito opposto e quelli che non votano per partito opposto. Anche io devo sforzarmi per mantenermi coerente con i pensieri che avevo nell’89. La riforma non è una rivendicazione di Berlusconi, ma riguarda un tema più grande, più generale, più qualificante. Invece in questo modo si divide, e c’è una buona probabilità che questa riforma non vada in porto. E se non dovesse andare in porto, la colpa essenziale sarebbe di chi ha voluto mettere il cappello sopra non avendo né titolo né diritto. Chi mi dice che questa è una riforma che voleva Berlusconi, mi fa arrabbiare due volte. Le maggioranze cambiano, ma la Costituzione resta. E a me dà fastidio dover votare un “sì” con il cappello messo sopra dai berlusconiani”. Come si spiega un tema così tecnico ai cittadini? “Basta un esempio concreto, molto semplice. Si dice che non c’è bisogno della separazione delle carriere per avere un giudice terzo. Si dice che in questo modo non cambia niente perché nessuno cambia carriera. E allora, se davvero non cambia niente, perché non lasciare sereno chi entra in un’aula di giustizia, qualunque sia la sua giacchetta? Perché non lasciarlo sereno di avere un giudice che non fa parte della stessa famiglia del pubblico ministero? “Terzo” vuol dire che abbiamo fatto il concorso insieme, che il Csm ci valuta tutti e due allo stesso modo, che entrambi possiamo far parte di tutte e due le carriere, che sul piano disciplinare posso essere giudicato da quello che oggi sta lì, che fa il pubblico ministero e che domani all’interno del Csm sarà il mio giudice che giudicherà il mio lavoro. Questo va spiegato al cittadino. Ma mi sembra che non tutti abbiano capito una cosa”. Quale? “Questa è una riforma fisiologica e consequenziale a quel che fu deciso nell’89. E rischia di saltare non per una questione di merito, ma per l’errore di comunicazione che sta commettendo una parte politica per un interesse politico”. Perché un idraulico, un contadino, un operaio dovrebbero uscire di casa e andare a votare per la separazione delle carriere? Lo sentono distante come tema… “Qui entra in gioco la comunicazione. Tutti coloro che hanno una funzione pubblica devono far capire ai cittadini che è una riforma costituzionale, una riforma che attiene alla propria realtà, alla libertà di un Paese democratico. Perché la Costituzione è la madre della democrazia. Noi ce l’abbiamo scritta lì. Se andiamo a modificare la Carta, dobbiamo spiegarlo ai cittadini. Anche io l’ho spiegato a mia sorella di 90 anni, che ha fatto la terza elementare. Mi ha chiesto: “Ma io come mi devo comportare?”. E le ho detto che deve scegliere come vuole. A mio avviso è bene che ci vada; poi può credere a me per quel che le ho detto o può credere a chi dice che questa riforma peggiorerà la giustizia. L’importante è andare a votare”. Andrea Mirenda: “Sono stato il primo sorteggiato nella storia del CSM, mai sentito a disagio” di Alberto de Sanctis Il Riformista, 29 ottobre 2025 Abbiamo chiesto ad Andrea Mirenda, componente del CSM, cosa ne pensa della riforma costituzionale nella parte in cui prevede il sorteggio dei membri togati. La magistratura associata è indignata all’idea che i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura siano sorteggiati. Prima di conoscere la sua opinione, le chiedo un po’ provocatoriamente di raccontarci la sua esperienza. Per quale ragione è stato sorteggiato, visto che oggi i componenti sono di regola eletti? Nel mio collegio non era stato raggiunto il numero minimo di candidati contemplato da Cartabia. Si dovette, quindi, procedere al completamento mediante estrazione a sorte di tre magistrati. Venni estratto dall’Ufficio Elettorale della Cassazione, era il 29 luglio 2022; accettai la candidatura e venni, quindi, eletto. In breve, sono stato il primo sorteggiato ex lege, poi eletto, nella storia del CSM. Spero di non restare l’ultimo. E si sente in grado di svolgere le funzioni anche se non è stato designato dai suoi colleghi? Se mi sento a disagio nei confronti dei miei colleghi designati dalle correnti? Francamente no, non avverto alcuna sudditanza: faccio il magistrato da oramai quarant’anni e tanto basta per confrontarmi serenamente e rispettosamente con loro sui temi di Alta Amministrazione propri dell’attività consiliare. Faccio notare che il numero dei miei interventi in plenum, anche quando non sono relatore, non è certo inferiore a quello di molti altri consiglieri “designati”. Altro discorso, invece, è quello del non toccare palla nelle varie articolazioni interne al Consiglio. Se non fai parte del Sistema, non c’è storia. Date un occhio, giusto per stare all’attualità, all’ultimo rinnovo delle Commissioni consiliari. Tutto saldamente in mano ai soliti noti, secondo il consueto oliatissimo meccanismo spartitorio. Insomma, nihil novi. Del resto, come poteva essere diversamente in un Consiglio dove 17 consiglieri su 20 sono membri di corrente? Sente la mancanza di una legittimazione “popolare”? E perché mai? Non esercito una funzione politica e non devo, quindi, rappresentare alcun centro di interessi se non - sul piano squisitamente tecnico - la categoria giudicante a cui appartengo. Lo dico una volta per tutte ex professo: per svolgere i compiti di Alta Amministrazione assegnati al CSM è necessario e sufficiente possedere elevata cultura giuridica (il proprium di ogni magistrato), elevata professionalità nell’applicazione delle regole primarie e secondarie, equilibrio, terzietà, indipendenza interna (e ce n’è davvero bisogno…) ed esterna. C’è chi sostiene che un organo di rilevanza costituzionale non possa essere composto da magistrati estratti a sorte come in una tombola di Natale. Eppure sono tutti magistrati che hanno passato lo stesso concorso e, come recita l’art. 107 della Costituzione, si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni... Ogni cittadino è soggetto alla Legge ma solo i magistrati sono soggetti “soltanto” alla Legge. Essi, inoltre, per volontà del Costituente, hanno tra loro pari dignità, distinguendosi espressamente “solo per funzioni”. Chiaro, allora, è l’altissimo rango che l’ordinamento riconosce ad ogni singolo componente dell’Ordine Giudiziario, tanto da poter dire che - almeno in seno a questa élite - “uno è uguale a uno”. Conclusione a tal punto vera da divenire fondamento logico del principio del giudice naturale precostituito, in guisa del quale il cittadino non è ammesso a scegliersi il giudice più gradito per bravura, visione culturale o chissà cos’altro. Non è chi non veda, allora, come il sorteggio, contrariamente al mantra ossessivo di ANM, finisca per essere la formula più inclusiva, quella maggiormente idonea ad assicurare ad ogni magistrato - capace “per definizione” - l’astratta possibilità di contribuire al governo autonomo senza previa genuflessione ai vari Capi-corrente locali e nazionali. Insomma, un bel recupero di dignità e legalità, finalmente in linea con il Codice Etico dei Consigli di Giustizia Europei e capace di portare in Consiglio magistrati liberi e liberati… Il CSM non dovrebbe avere un ruolo di rappresentanza della magistratura ma di governo “amministrativo”. Eppure sempre di più ha assunto un ruolo politico, per esempio esprimendo pareri - anche non richiesti - su leggi e disegni di legge. È forse questa trasfigurazione che oggi rende apparentemente incoerente la nomina dei suoi membri togati tramite sorteggio? La deriva politica variamente assunta nel tempo dal CSM - quasi una Terza camera della Repubblica chiamata ad esprimere le oscillanti visioni culturali legate alle maggioranze di turno - rappresenta, a mio sommesso avviso, la prima minaccia all’indipendenza del singolo magistrato, sottoposto alle temperie di una discrezionalità tecnica che - quando emancipata dalle regole - sfocia puntualmente negli arbitri evidenziati dal Giudice Amministrativo (il nostro Giudice a Berlino…). Escluso, peraltro, che al CSM competano compiti di rappresentanza politica (ce lo ha detto, più volte, anche la Corte Costituzionale…), credo davvero che non si possano costruire argomenti contro il sorteggio, muovendo da premesse infondate. Secondo lei, quale funzione ha oggi l’Associazione Nazionale Magistrati e le numerose correnti che svolgono attività “politica” al suo interno? Garantiscono un’adeguata selezione dei “migliori” per svolgere le funzioni direttive degli uffici giudiziari? Beh, qui la risposta è davvero agevole. Forse che l’incontestabile crollo di prestigio del CSM è dipeso da cattivi consiglieri “sorteggiati”? Chiunque abbia avuto la pazienza (tanta ce ne vuole) di leggere le c.d. chat di Palamara, apprende subito che il collega - ora radiato ma già prestigioso ed acclamatissimo Presidente dell’ANM nonché, a seguire, potentissimo e amatissimo consigliere del CSM, ivi “eletto” grazie a una caterva di voti assicuratagli dalla corrente - fece scientifico mercato delle nomine, in allegra compagnia con larga parte della compagine consiliare, togata e laica, come pure con molti influencer, sia togati che politici, esterni al Consiglio. Era forse un sorteggiato? E gli altri compari? C’è poi qualcuno che, oggi, ai massimi livelli, dichiara con malcelata soddisfazione che questo sarebbe il CSM della rinascita etica, del correntismo a bassa intensità. Bah, mia Zia Cesarina, che ci vede lungo, direbbe che se non cambi gli ingredienti, quella resta sempre la torta. E allora, facendo salutare esercizio di memoria, a beneficio dei distratti, non è forse questo il CSM che - al netto della soave spartizione cencelliana delle Commissioni secondo l’ottimo criterio del “3 a me, 2 a te, 1 a loro” - ha incassato bei ceffoni dal Giudice Amministrativo per le travagliatissime nomine della Scuola Superiore della Magistratura, della Procura Nazionale Antimafia, delle molte Procure di primaria rilevanza nazionale? La riforma mira ad azzerare la capacità delle correnti di influire in modo decisivo sulle nomine e gli avanzamenti di carriera. Ma i componenti “sorteggiati” potrebbero non accettare, anche su pressioni esterne, in modo da consentire ad altri in graduatoria di entrare e potrebbero comunque essere avvicinati e “arruolati” dalle correnti. Siamo sicuri che le correnti torneranno a svolgere solo una funzione di elaborazione culturale e “metapolitica”? Quale scenario vede all’orizzonte? Che dire? Nella migliore delle ipotesi i sorteggiati vengono dipinti come ingenui viandanti, incapaci di affrontare il periglioso percorso consiliare senza l’ausilio del robusto bastone correntizio al quale affidare il piede incerto. Costoro - si chiede la correntocrazia - sapranno resistere ai tentativi di condizionamento interni ed esterni? Sapranno sottrarsi alle sirene dei laici, descritti come temibili cinghie di trasmissione dei poteri forti che li hanno espressi? Non può sfuggire la gravità dell’argomento. Ma si tratta di argomentazione che, prima di tutto, desta profonda preoccupazione, lì dove rivela ora, candidamente, quanto da sempre negato, vale a dire l’esistenza di un sottobosco affaristico interno ed esterno all’istituzione consiliare; un ambiente tossico con il quale i consiglieri “eletti” hanno dovuto confrontarsi (con quali esiti, lo abbiamo visto bene). In secondo luogo, è rivelatore di una profonda sfiducia dell’ANM verso il magistrato “cane sciolto”, trattato alla stregua di un soggetto debole in balia del suo destino. Ma non parliamo, forse, di quello stesso magistrato capace di gestire con imparzialità, indipendenza e prestigio delicatissimi processi di criminalità organizzata? Contro apparati deviati dello Stato? Contro i colletti bianchi? Contro la criminalità finanziaria e i relativi potentati? Chissà perché questo magistrato, giunto al CSM per selezione stocastica, dovrà fatalmente perdere una sperimentata capacità di resilienza, tanto più quando liberato dal “debituccio” di riconoscenza verso chi, un tempo, ne avrebbe curato la designazione. Ed ancora, perché mai costui dovrebbe rispondere, sol perché tale, alle sirene consiliari della politica, quando già sul campo aveva mostrato di esserne immune? Ed infine, anche quando mai pensasse di cedere ai “suggerimenti” di un’allegra brigata di briganti, che vantaggio ne trarrebbe? Forse una futura nomina una volta tornato sulla scrivania? E chi mai potrebbe garantirgliela? Nulla assicura che i nuovi sorteggiati saranno della medesima fazione da lui favorita. Sovviene De Tocqueville: venuti meno gli inconfessabili motivi secondari, quelli che “non si dicono” ancorché ragione determinante dell’agire umano, non sarà più conveniente sporcarsi le mani. E amen. Si dice, infine, che in un CSM di sorteggiati potrebbero giungere magistrati incapaci o peggio. Si perdoni il sarcasmo: al CSM costoro faranno meno danni che nella giurisdizione. Il minimo etico impone, difatti, di risolvere i problemi a monte, assicurando ai cittadini - prima di ogni altra cosa - una magistratura sempre di altissimo profilo professionale e deontologico. Preoccuparsi di cosa arriverà al CSM mi pare, dunque, questione minore e, addirittura, di dubbio valore etico… Quel che è certo, invece, è che il sorteggio reciterà il de profundis del correntismo e agevolerà la riemersione del lato nobile del nostro associazionismo: essere motore di idealità, non più Ufficio di Collocamento. L’Anm ha lasciato Gratteri indisturbato, altro che isolato di Coordinamento camere panali calabresi Il Dubbio, 29 ottobre 2025 Non è vero che l’Anm ha lasciato solo Gratteri: lo ha lasciato indisturbato. Abbiamo ascoltato con attenzione le dichiarazioni del Procuratore di Napoli Nicola Gratteri, che ha invitato ANM alla compattezza contro la separazione delle carriere, paventando il rischio che dietro la riforma vi sia il disegno di “controllare il pubblico ministero” e di “normalizzare la magistratura”. Riteniamo doveroso, tuttavia, osservare che le parole del Procuratore non dialogano con la realtà dei fatti. Egli stesso ha ricordato di non essere mai intervenuto a una riunione dell’ANM, accusando l’associazione dei magistrati di non aver sostenuto la Procura di Catanzaro quando, a suo dire, avrebbe condotto indagini, non più sui “soliti noti”, ma “alzando il livello”. Aggiunge di essere rimasto solo, di aver “lottato a mani nude” e di esserne uscito comunque “bene”, vantando un tasso di ingiuste detenzioni inferiore alla media nazionale. Ebbene, non sappiamo a quali dati ideali il Procuratore faccia riferimento. Quelli reali raccontano una storia drammaticamente diversa: molte delle indagini della Procura di Catanzaro negli anni della sua direzione si sono concluse con numerose scarcerazioni e assoluzioni, anche di grande rilievo, con un tasso di ingiuste detenzioni che, in Calabria, risulta essere di gran lunga superiore alla media nazionale. Se guardiamo alle statistiche pubblicate dal Ministero della giustizia, quelle ufficiali, rimbalzate da un quotidiano nazionale non “schierato”, leggiamo che “negli ultimi sette anni lo stato ha sborsato 220 milioni di euro per indennizzare i cittadini vittime di ingiusta detenzione, cioè che sono stati arrestati per poi essere prosciolti o assolti. Ben 78 milioni (il 35 per cento dei casi) in Calabria, terra di maxi operazioni con decine di arresti, poi finite in un flop. In altre parole, una regione che ospita soltanto 1,8 milioni di abitanti ha assorbito negli ultimi sette anni il 35 per cento dell’intera spesa destinata a risarcire le vittime di ingiusta detenzione. Un record, confermato anche nel 2024: su 26,9 milioni complessivi, 8,8 milioni (il 33 per cento) sono stati versati per risarcire chi è stato incarcerato ingiustamente in Calabria”. Non sappiamo a quale Calabria si riferisca Gratteri, nel suo mondo immaginario. In quello reale delle molte vittime delle sue maxi- operazioni, i numeri sono impietosi. Ma la questione è un’altra, più profonda. Occorre chiedersi se, in quegli anni, la magistratura calabrese sia stata davvero “libera, indipendente e serena”, come oggi invoca Gratteri, o se piuttosto lo squilibrio di potere interno, determinato da un ruolo dominante della Procura, non abbia tolto serenità, soprattutto alla magistratura giudicante. È lecito domandarsi se un GIP che non accoglieva una sua richiesta cautelare non avvertisse il timore di essere equivocato o esposto, e se molti magistrati di quell’Ufficio così delicato (dove si decide la libertà del cittadino) non abbiano preferito lasciare il ruolo di giudice, trasferendosi in altri Uffici, pur di mantenere la loro autonomia e indipendenza rispetto a una pressione ambientale alta, legata anche alla forte figura del Procuratore e al suo metodo operativo. Occorre interrogarsi, ancora, se la responsabilità dell’ANM non sia stata piuttosto un’altra: non già nell’”averlo lasciato solo”, come egli sostiene (e che non ci risulta), ma nell’averlo lasciato “indisturbato”. Il silenzio della magistratura associata di fronte al modo di operare - a quel tempo - della Procura di Catanzaro è stato davvero assordante. Senza ipocrisie: tutti sapevano, molti (anche tra i magistrati, specie quelli più attrezzati) non condividevano, ma nessuno aveva il coraggio di parlare (basta leggere le intercettazioni di Salerno - il grande fratello abbattutosi sul nostro distretto, in una stagione di sospetti e di veleni), per rendersene conto. Una Procura che ha adottato un approccio spettacolare all’amministrazione della giustizia, seguendo un modello operativo “spinto”, a “trazione anteriore”, senza porsi il problema se tale metodo violasse i diritti e le garanzie degli indagati - in primis la presunzione di innocenza - e travalicasse la funzione di un sistema penale concepito come “limite” alla pretesa punitiva dello Stato. Così, a Catanzaro, si è aperta la strada a un diritto penale simbolico e onnivoro, spesso ispirato alla logica del sospetto, concepito più come strumento di lotta al male che come autentico mezzo di garanzia dei cittadini. Ecco perché la separazione delle carriere non è, come qualcuno sostiene, un rischio per l’indipendenza, ma al contrario lo strumento autentico per garantirla davvero: per assicurare al giudice di essere libero, indipendente e soprattutto sereno rispetto al pubblico ministero, e per affermare una reale indipendenza interna tra funzioni requirenti e giudicanti. È bene ricordare che la riforma costituzionale assicura che entrambe le magistrature - requirente e giudicante - resteranno autonome e indipendenti da ogni altro potere dello Stato, senza ingerenze del potere esecutivo o della politica. La verità è che mantenere unite le carriere serve solo a conservare un assetto di potere che, pro prio a Catanzaro, ha mostrato la sua pericolosità. In nome di una lotta al male condotta spesso con la logica della “pesca a strascico”, sono stati travolti cittadini, famiglie e imprese, risucchiati in procedimenti che si sono poi sgonfiati nel tempo, ma non prima di aver lasciato dietro di sé macerie umane e sociali. Non è stata la Calabria ad essere smontata come un Lego, ma la vita di tante vittime innocenti, risucchiata dalla logica del sospetto e finita nel mirino del gigantismo processuale. Per questo invitiamo il Procuratore Gratteri a riflettere quando parla di “false narrazioni”. Forse sarebbe opportuno chiedersi se la falsa narrazione non consista proprio nel sostenere che quelle indagini abbiano retto al vaglio del contraddittorio e del giusto processo. La giustizia, per molti imputati, dopo anni di arresti e di sofferenza alla fine è arrivata, ma, quando arriva troppo tardi, non ripara: lascia solo rovine e vite spezzate. Peccato che, su questa rilevante quota di dolore, il Procuratore non abbia mai sentito il dovere di esprimersi e la responsabilità di chiedere scusa. Continueremo a batterci per una magistratura davvero libera, indipendente e serena, non in apparenza, ma nei fatti. E questa libertà passa - oggi più che mai - dalla separazione delle carriere. Milano. Detenuto muore nel carcere di Bollate, la procura apre un’indagine di Giulia Ghirardi fanpage.it, 29 ottobre 2025 Un detenuto è stato trovato senza vita nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. “Il detenuto ha inalato del gas. È un metodo che viene utilizzato con un doppio scopo: sballarsi o togliersi la vita. Ma ancora non si sa quale fosse l’intento”, spiega Luigi Pagano, Garante dei detenuti di Milano. La procura di Milano ha aperto un’indagine per ricostruire l’esatta dinamica dell’accaduto. All’alba di ieri mattina, martedì 28 ottobre, un detenuto di 43 anni è stato trovato senza vita nel carcere di Bollate, alle porte di Milano. “Il detenuto ha inalato del gas. È un metodo che solitamente viene utilizzato con un doppio scopo: sballarsi o togliersi la vita”, ha spiegato a Fanpage.it Luigi Pagano, Garante dei detenuti di Milano. Sul caso la procura di Milano ha aperto un’indagine per ricostruire l’esatta dinamica dell’accaduto e così accertare la ratio alla base del gesto. Secondo le informazioni disponibili sino a questo momento, l’uomo “non sembrava a rischio suicidio” ed era considerato un detenuto “tranquillo”. Il 43enne aveva ancora un paio di anni da scontare per via di un cumulo di condanne definitive per reati contro il patrimonio. Ad accorgersi di quanto è accaduto è stato il personale dell’Istituto che ha rinvenuto il corpo dell’uomo con un sacchetto avvolto intorno alla testa. In più, pare che l’uomo abbia inalato il camping gas, generalmente utilizzato per cucinare in cella, “un metodo che solitamente viene utilizzato con un doppio scopo: sballarsi o togliersi la vita”, ha riferito il Garante dei detenuti di Milano a Fanpage.it. Per accertare se sia stato così o se si sia trattato di suicidio (sarebbe il 69esimo dall’inizio dell’anno), la procura di Milano, non appena arriveranno gli atti, aprirà un fascicolo e disporrà l’autopsia. “In questo momento delle indagini, però, non si sa ancora quale fosse l’intento del detenuto”, ha continuato a spiegare Pagano. In generale, la situazione suicidi in carcere “non è positiva”. “La disperazione è sempre di più. Questo perché diminuiscono le attività e c’è sempre più chiusura, diminuiscono gli spazi e la possibilità di reintegrazione, ma aumenta il sovraffollamento”, ha concluso il Garante a Fanpage.it. “In queste condizioni è evidente che il carcere diventa qualcosa che poco ha a che fare con il rispetto e la dignità”. Milano. Youssef, 3 anni di pena ancora da scontare e il gas forse sniffato per “stordirsi” di Nicola Palma Il Giorno, 29 ottobre 2025 Si chiamava Youssef, era nato in Marocco, aveva 43 anni e gliene mancavano meno di 3 da scontare per tornare in libertà. Era detenuto a Bollate dal 2022 per un cumulo di condanne pari a 6 anni per furti e rapine. Fine pena: 2028. È morto ieri notte sull’ambulanza che lo stava trasportando in ospedale, a circa un’ora dall’allarme lanciato dai compagni di cella attorno alle 23.30. Gli agenti della penitenziaria lo hanno immediatamente soccorso, ma purtroppo i tentativi di rianimarlo si sono rivelati vani. Il fortissimo odore di gas percepito dalle guardie all’interno della stanza ha fatto immediatamente sospettare che l’uomo abbia inalato gas dal fornelletto da campeggio utilizzato dai reclusi per cucinare. Due le alternative al vaglio degli inquirenti, le uniche possibili. La prima, al momento ritenuta la più verosimile, ipotizza che Youssef si sia messo un sacchetto sulla testa e abbia sniffato la sostanza per “farsi” o per “stordirsi”, arrivando a darsi la morte con una dose eccessiva. La seconda porta invece a un tentativo riuscito di togliersi la vita, sebbene pare che il quarantatreenne non abbia mai mostrato alcun segnale che potesse far pensare a intenti suicidi, in una struttura all’avanguardia in Italia nella gestione dei reclusi; se venisse confermato questo scenario, si tratterebbe del sessantanovesimo caso in Italia dall’inizio dell’anno. In ogni caso, non appena riceverà gli atti dal penitenziario alle porte di Milano, il pm di turno Francesco Cajani aprirà un fascicolo d’indagine e disporrà l’esame autoptico sul corpo di Youssef per chiarire con esattezza le cause della morte. Gli accertamenti investigativi, che con ogni probabilità verranno delegati agli agenti del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, si concentreranno anche sulle testimonianze dei detenuti che condividevano la cella con il marocchino per capire se con loro avesse manifestato disagi particolari o se in passato abbia inalato camping gas. Solo una ventina di giorni fa, altre due tragedie avevano colpito San Vittore, casa circondariale con livelli di sovraffollamento e condizioni detentive imparagonabili a quelle di Bollate. Il peruviano Raul Alfonso Oruna Vasquez è morto la sera del 9 ottobre, alla vigilia del suo trentaseiesimo compleanno, vittima di una crisi respiratoria. Dodici ore dopo, nella mattinata del 10, era toccato al quarantottenne marocchino Mohammed Vezian. Una morte dietro l’altra, con altri tre malori tra i detenuti ad alimentare i sospetti su decessi legati all’abuso di stupefacenti “tagliati male”. Il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria aveva fatto sapere che le prime informazioni facevano pensare a una morte collegata “alla presunta assunzione di oppiacei” e a una “probabilmente avvenuta per altre cause (emorragia gastrica)”. Firenze. Detenuto “prigioniero” del braccialetto elettronico di Stefano Brogioni La Nazione, 29 ottobre 2025 Da quasi un mese il giudice ha disposto la scarcerazione dal carcere di Sollicciano, tramutando la sua detenzione in arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. Ma da quel 1 ottobre, giorno in cui la corte d’appello ha accordato la trasformazione della misura cautelare, non è ancora arrivata la disponibilità da parte della Fastweb per l’applicazione del dispositivo. Il risultato è che il detenuto, un 41enne di origini albanesi, è ancora nella sua cella a Sollicciano. “Illegittimamente”, sottolinea il suo legale, l’avvocato Sabrina Del Fio, che nella sua ultima istanza ai giudici della corte d’appello di Firenze (con cui chiede che il 41enne possa aspettare il braccialetto al domicilio e non più dietro le sbarre), ha rimarcato l’assoluta mancanza di informazioni sulla tempistica e l’inefficienza dell’appalto. C’è anche l’aspetto sociale: Sollicciano è noto per le “gravi carenze strutturali e sociosanitarie” nonché per il “perenne sovraffollamento”: “condizioni - denuncia il legale - che potrebbero essere almeno attenuate con l’esecuzione di misure sostitutive come quella disposta dall’autorità giudiziaria”. Già, perché il paradosso che non sfugge agli avvocati che si occupano di “cautelare” è proprio questo: si susseguono appelli e denunce affinché s’intervenga sul carcere “disumano”, ma poi quando un detenuto ottiene dalla magistratura di scontare la propria detenzione lontano dalla cella, il meccanismo s’inceppa davanti alla mancanza di braccialetti elettronici. In questo caso, infatti, la corte d’appello aveva valutato positivamente “il comportamento processuale dell’imputato” e, dopo più di un anno e mezzo di custodia, aveva dato il via libera affinché potesse trasferirsi ai domiciliari, ma “vigilati” da un dispositivo. Che non arriva. Firenze. Un convegno per fare il punto sulla salute mentale in carcere di Paola Scuffi inconsiglio.it, 29 ottobre 2025 Presentata la ricerca dopo il superamento degli Opg. Il Garante regionale dei diritti dei detenuti Giuseppe Fanfani: “Urgente intervenire sul sovraffollamento e sull’isolamento esterno, per rendere possibile immaginare un futuro fuori dal carcere, attraverso un supporto sociale precedente e successivo”. “La mente incarcerata” questo il titolo del convegno, svoltosi a palazzo Bastogi, per presentare la ricerca sulla salute mentale in carcere dopo il superamento degli Opg, promossa dalla Società della Ragione e dall’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, con il sostegno dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese. Come sottolineato dal Garante dei diritti dei detenuti della Regione, Giuseppe Fanfani, che ha presieduto i lavori, “spesso chi entra in carcere con problemi psichiatrici difficilmente esce dall’Istituto penitenziario, oppresso dal sovraffollamento, dall’isolamento esterno, da condizioni precarie che rendono impossibile immaginare un futuro”. “Chi ha la ventura di guardare dentro le celle si imbatte inevitabilmente in volti che raccontano un desiderio di umanità deluso - ha continuato - cercare di dare loro una risposta ci chiama a offrire un supporto sociale precedente e successivo, perché il carcere non può supplire alla carenza del sociale”. Da qui la necessità di investire nell’assistenza, nella riabilitazione, nel contatto con il mondo che sta fuori, come emerge dalla ricerca, che indaga le condizioni della salute mentale nelle carceri a dieci anni dalla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), restituendo testimonianze e criticità di un sistema che fatica ancora a garantire presa in carico, continuità terapeutica e diritti delle persone detenute con disturbi psichici. Dopo la chiusura degli Opg, che funzionavano come una sorta di “discarica carceraria”, è urgente ripensare la tutela della salute mentale e l’assistenza psichiatrica in carcere, offrendo un quadro di conoscenza a livello nazionale circa l’organizzazione delle attività preventive e curative in carcere in carico ai dipartimenti di Salute mentale; la ricerca ha focalizzato l’attenzione su tre carceri - Prato, Udine, Rebibbia - scelti per le diverse caratteristiche, guardando in particolare ad una rete di attori istituzionali chiave (Magistratura, dipartimento di Salute mentale, comunità terapeutiche, ufficio esecuzione penale esterna, Asl e servizi sociali territoriali) e di rappresentanti delle comunità territoriali, per evitare che l’assistenza non pesi unicamente sul nucleo familiare di origine, ma anche sul sostegno delle agenzie territoriali socioassistenziali. La realtà carceraria è caratterizzata da sovraffollamento, da inoccupazione come fattore di rischio della salute, da risorse carenti, sia finanziarie che di organico, da una emergenza psichiatrica percepita, che è maggiore di quella effettiva. In tale contesto che cos’è la salute mentale in carcere? Per le persone straniere, non regolari, il carcere assume i connotati di un centro per il rimpatrio, mentre per gli altri, sul fronte della sinergia con il territorio, l’ottica educativa e il reinserimento territoriale sono promossi e sostenuti dal comparto volontariato e terzo settore, e dall’area salute. Il convegno è iniziato con i saluti di Giulia Melani, presidente della Società della Ragione, mentre la ricerca è stata presentata da Riccardo Girolimetto, ricercatore per la Società della Ragione; Katia Poneti, ricercatrice per l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana e Camillo Donati, psicologo di Comunità per LabCom. Come ribadito da Girolimetto, “i diritti della salute mentale non sempre sono garantiti, soprattutto per le persone straniere, e la traiettoria carceraria per i detenuti è relativa: ad Udine è attiva una equipe di salute mentale multidisciplinare, in Toscana il sovraffollamento e la carenza di organico si traduce anche in spazi contesi tra professionisti”. Per Poneti “il quadro è complesso e la salute mentale finisce per scontrarsi anche con la mancanza di dati a livello nazionale e di indicatori condivisi: non sempre coincidono le definizioni di ‘cura’ e ‘presa in carico’; il malessere all’interno delle carceri finisce per esprimersi in atti di autolesionismo”. Come intervenire? Sicuramente partendo da interventi strutturali, ma anche prendendo in carico i singoli “per rendere reale la speranza di una vita fuori dal carcere”. Nel corso dei lavori sono intervenuti Luca Cicerelli, direttore della Casa circondariale di Prato; Elisabetta Marasco, responsabile salute mentale in carcere; Margherita Michelini, Garante del Comune di Prato; Franco Corleone, presidente onorario Società della Ragione (in collegamento); Emilio Santoro, professore ordinario Filosofia del diritto, UniFi; Maria Elisabetta Pioli, Giudice dell’Ufficio di sorveglianza di Firenze. Mantova. “Spazio Extra”: un progetto educativo e creativo per i giovani detenuti del carcere mantovauno.it, 29 ottobre 2025 Nel carcere di Mantova prende il via “Spazio Extra”, un nuovo progetto nato con l’obiettivo di offrire ai giovani detenuti percorsi educativi, formativi e creativi capaci di favorire la crescita personale e il reinserimento sociale. L’iniziativa è promossa dall’istituto penitenziario in collaborazione con una rete di realtà del territorio: Cooperativa Sociale Alce Nero, Teatro Magro, Pantacon, Collettivo Landesì, Strongvilla, Il Piccolo Campo e il graphic designer Andrea Pilati. Il progetto nasce da un’esigenza concreta espressa dalla direzione del carcere, che ha scelto di avvalersi della Cooperativa Alce Nero per il coordinamento e la conduzione educativa delle attività. “A fronte di una sempre più ampia presenza di detenuti in giovane età - ha spiegato la Direttrice della Casa Circondariale Metella Romana Pasquini Peruzzi - è emersa la necessità di ideare progettualità specifiche, capaci di rispondere alle caratteristiche peculiari di questi giovani. L’obiettivo è favorire il loro reinserimento sociale, avviando percorsi già all’interno del carcere e promuovendo così un sano sviluppo della personalità”. “Spazio Extra” nasce dunque come progetto sperimentale dedicato esclusivamente ai detenuti più giovani, sulla base dell’esperienza maturata con i laboratori già attivi da anni, come quelli di teatro, scrittura e canto rap. La novità è la creazione di uno spazio permanente, aperto più pomeriggi alla settimana, in cui i partecipanti potranno prendere parte a un’unica attività integrata che riunisce diversi laboratori. Il cuore dell’iniziativa è la relazione educativa, intesa come strumento di cambiamento, inclusione e crescita. Gli educatori professionali della Cooperativa Alce Nero lavorano in sinergia con artisti, operatori culturali e funzionari dell’Area Trattamentale del carcere per costruire un contesto di fiducia e ascolto, dove i giovani possano riscoprire sé stessi, le proprie capacità e potenzialità. Le attività proposte - tra cui teatro, produzione musicale, fotografia, grafica, storytelling, sport e pet therapy - offrono ai detenuti l’opportunità di sperimentare nuovi linguaggi e di sviluppare competenze fondamentali in ambito relazionale, comunicativo e collaborativo. Il percorso aiuta anche a riconoscere le proprie risorse interiori e ad acquisire strumenti utili per la vita quotidiana, come la cooperazione, la gestione dei conflitti e il rispetto delle regole condivise. “Coinvolgere attivamente i giovani con percorsi formativi più personalizzati e vicini ai loro desideri può determinare una più alta percentuale di successo e una maggiore tenuta da parte dei partecipanti, abbassando il senso di frustrazione e inadeguatezza”, ha spiegato Lorenzo Cattalani, educatore e coordinatore del progetto. Uno degli aspetti più significativi di “Spazio Extra” è la volontà di costruire un ponte tra l’interno dell’istituto penitenziario e la comunità esterna. I risultati dei laboratori saranno infatti valorizzati attraverso mostre, eventi e festival cittadini, creando occasioni di dialogo e partecipazione pubblica. In questo modo, l’esperienza dei giovani detenuti potrà diventare un racconto collettivo di riscatto, condiviso con operatori, istituzioni e cittadini, a testimonianza di come l’arte e l’educazione possano aprire nuove prospettive anche nei contesti più difficili. Bologna. La pallavolo in carcere: per vincere al di là del muro di Roberto Brambilla Avvenire, 29 ottobre 2025 Grazie alla passione di una giovane emiliana oggi è realtà “Mani & Fuori”, la squadra di volley della sezione femminile del carcere “Dozza” di Bologna. La squadra di pallavolo “Mani & Fuori” nata all’interno della sezione femminile del carcere “Dozza” di Bologna / foto Valentina Finarelli. “Un giorno in un questionario una delle ragazze alla domanda come ti senti quando sei in campo mi ha risposto letteralmente: ‘na favola. Mi ha spiegato che lei in campo si divertiva e dimenticava in quel momento le difficoltà e i problemi. È questa una delle vittorie più belle”. Valentina Finarelli, 30 anni, emiliana, è una delle allenatrici di “Mani & Fuori”, squadra di pallavolo nata all’interno della sezione femminile del carcere “Dozza” di Bologna. “Nella primavera del 2017 - ricorda Valentina - nell’ambito del mio percorso di studi, in particolare durante la laurea magistrale in criminologia ho svolto l’attività di tirocinio all’interno del “Dozza”. Tra le altre cose che facevo c’era l’assistere ai colloqui”. “In questo contesto - aggiunge l’allenatrice - mi ero accorta come per le ragazze, a differenza che per gli uomini, al Dozza non ci fossero proposte di attività sportive”. Una mancanza che Valentina ha cercato di colmare, impegnandosi in prima persona. “La pallavolo era ed è la mia passione - dice - giocavo da più di dieci anni a buon livello così ho proposto di iniziare come volontaria, con due sedute a settimana. Non avevo mai allenato prima”. Un’idea che ha suscitato l’interesse delle ragazze, con una quindicina di detenute coinvolte e che ha portato Valentina a chiedere un supporto. “Mi sono rivolta all’Unione italiana sport per tutti (Uisp) - spiega la 31enne - ho parlato con Valentina Angioni, responsabile a Bologna per i progetti sul calcio e ho chiesto se fossero interessati a sostenere la mia idea”. “Ci hanno donato il materiale tecnico- aggiunge - abbiamo avuto i palloni e con loro siamo riusciti anche ad avere le divise”. Gli inizi sono stati particolari. “Avevo 22 anni ed ero la più piccola di tutte - ricorda Valentina - l’età però non è mai stata un problema. Mi sono sempre sentita rispettata e io ho sempre dato a loro considerazione, anche perché fin dall’inizio abbiamo stabilito delle regole chiare”. Sono rimaste le due sedute alla settimana, il martedì e il sabato, sono aumentate le educatrici sportive (“ora siamo tre-quattro persone che stanno in campo, prima se io non potevo esserci saltava l’allenamento” dice Finarelli), sono cambiate le ragazze, tra i 25 e i 55 anni (“in carcere a Bologna c’è un ricambio molto alto, perché qualcuno esce o viene trasferito, ma anche perché qualcuno abbandona perché non gli piace o non fa per lei”), ma per Valentina la voglia è la stessa. “Credo che la cosa più bella - spiega- sia la possibilità di portare lo sport che amo e i suoi valori all’interno di un carcere. E poi trasmettere la passione per qualcosa”. “Essendo uno sport di squadra - aggiunge l’allenatrice - è fondamentale la collaborazione. A pallavolo non si può giocare da soli. Noi per coltivare questo aspetto, ad esempio durante l’allenamento, nei momenti di gioco abbiamo stabilito che per fare punto sia necessario fare almeno due tocchi prima di lanciarla alla squadra avversaria, altrimenti è punto per gli altri”. Un lavoro lungo, che ha dato soddisfazioni. “Le ragazze mano a mano si aprono - spiega Finarelli - arrivano a raccontarti cose molto personali, anche perché quando ci conosciamo io non chiedo mai niente a loro, se non il loro nome e non vado mai a vedere i loro fascicoli. Loro in ogni caso ti considerano perché gli permetti di fare cose che le fanno stare bene e anche perché in quello spazio si sentono considerate e ascoltate”. Non mancano però le difficoltà. “Al di là degli aspetti burocratici, ad esempio il numero di permessi da richiedere per l’attività e soprattutto per le partite - dice la 30enne - la cosa più complicata è confrontarsi con persone adulte che hanno visioni della vita e dei rapporti diversi e a volte opposti rispetto ai tuoi. Si riesce a costruire un dialogo basato sul rispetto dell’altro e sul parlare chiaro”. “In più ci sono le difficoltà pratiche - dice l’allenatrice - noi ci alleniamo solo all’aperto, perché non esiste una palestra nella parte destinata alle ragazze o lo spazio coperto che abbiamo è troppo piccolo e non funzionale per la pallavolo”. Una mancanza di spazi che non consente alla squadra di partecipare a un campionato ma che non ha fermato la voglia di Valentina e delle ragazze di “Mani & Fuori”. “Da marzo fino a ottobre, tempo permettendo - dice Valentina - organizziamo delle amichevoli con squadre locali, cercando quelle di pari livello o di livello simile o con gruppi di volontari che lavorano ad altri progetti nel carcere e che si prestano a giocare con noi”. “Facciamo due set con le squadre divise - spiega - poi mischiamo per fare una sorta di terzo tempo. È bello perché consente di conoscere altre persone, di collaborare con loro. Per le ragazze la partita è un momento importante, perché giocano insieme, indossano una maglia e poi perché vedono una porzione di mondo che altrimenti non vedrebbero. Si ca pisce che piace perché spesso anche dopo essere uscite le ragazze mi chiedono le immagini da inviare alle famiglie”. E spesso capita che l’esperienza sotto rete rimanga nel cuore delle ragazze. “Una volta - dice Valentina - mi è capitato di incontrare una delle ragazze che avevo allenato in carcere. Io facevo l’educatrice e stavo facendo giocare i ragazzi della comunità per minori in cui lavoravo. Ho visto questa ragazza giocare con degli amici in un campo da beach volley. Ci siamo riconosciute subito ed è stato bello vedere come lei si ricordasse di cosa facevo esattamente in carcere, nonostante fosse passato qualche anno, e come mi avesse chiesto se l’attività continuava e se c’erano ancora delle compagne che erano state con lei”. Un percorso quello di “Mani & Fuori” che ogni anno ha bisogno di supporto. “Per ogni edizione abbiamo sempre bisogno di finanziamenti e dove possiamo partecipiamo a dei bandi”. Il futuro però è tracciato. “Andiamo avanti dal 2017 - conclude - mentre io sto lavorando a un progetto di reinserimento lavorativo delle detenute attraverso la sartoria”. Cercando di usare ancora una volta le mani per costruire il proprio futuro. Busto Arsizio. Liberamente Sportivi: presentato il progetto alla Casa circondariale di Michele Lepori csivarese.com, 29 ottobre 2025 “Liberamente Sportivi”, è il nome del progetto presentato il 27 ottobre presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio. Porterà sport e formazione all’interno del carcere grazie a un bando finanziato da Sport e Salute. A dare il via alla conferenza stampa la direttrice del carcere, Dott. Maria Pitaniello “L’interazione con il mondo esterno è vitale per i nostri detenuti, ancora di più se inserita in un contesto di rispetto delle regole e dei compagni di gioco. Ringrazio tutti i miei collaboratori, polizia penitenziaria e educatori per la capacità di creare percorsi che aumentino l’offerta della nostra area trattamentale” A sostenere queste parole anche Francesco Toscano, coordinatore regionale di Sport e Salute, finanziatrice del progetto “Siamo molto contenti di come questo progetto sia stato sfruttato da tante realtà in tutta la Lombardia, con entusiasmo e competenza. L’obbiettivo è creare aggregazione, abbattere le barriere e favorire l’integrazione sociale” Il progetto prevede oltre 100 allenamenti di pallavolo, basket, scacchi e calcio. Proprio quest’ultimo la farà da padrone, con il coinvolgimento delle nostre società (sia partecipando a partite amichevoli che a un vero e proprio torneo con la squadra dei detenuti). Coinvolta anche la formazione, con un corso di arbitri ufficiali che verranno affiancati a quelli provinciali nelle partite “casalinghe” della Casa Circondariale e vedranno spalancate le porte del comitato una volta riottenuta la libertà. Infine il progetto permetterà di aumentare le ore di lavoro della cooperativa Intrecci, che svolgerà un ruolo fondamentale di consulenza e selezione, oltre a creare un percorso di supporto per i ragazzi coinvolti nel progetto. “Il piano è ben strutturato e ci impegnerà molto” ha dichiarato il presidente provinciale Diego Peri “ ma vi assicuro che questo bando cambierà non solo la vita dei detenuti, ma anche quella delle società sportive che ci sosterranno. Oltre alle quattro partner, tutte le altre coinvolte hanno sempre chiesto di ritornare”. “Sono entrato in carcere come volontario la prima volta e non sono più voluto uscire. Credo di essere l’unico” rompe così il ghiaccio Gian Marco Duina, allenatore del progetto “La squadra accoglie soprattutto giovani adulti, tra i 18 e i 26 anni, molti alla prima detenzione. Il carcere stravolge tutto e crea barrire che sono problematiche anche una volta usciti. Con il linguaggio universale dello sport possiamo provare ad abbattere almeno questi muri. Per me è un privilegio allenarli: lo sport ha un impatto educativo enorme e quando un ragazzo, attraverso il calcio, riprende in mano la propria vita, è la vittoria più bella”. Il progetto durerà fino a ottobre 2026 e coinvolgerà un gran numero di ragazzi, anche vista la natura dell’istituto, che impone “rotazioni in rosa”. Chi volesse partecipare al progetto può contattarci ai contatti di segreteria o tramite social di comitato. “Il silenzio di Moussa”, per cambiare la cura della salute mentale nelle carceri associazioneconnect.org, 29 ottobre 2025 Dal 26 ottobre al 15 novembre, l’associazione Connect APS lancia “Il silenzio di Moussa”, sei tappe video di approfondimento che sarà possibile seguire sulle pagine Facebook, Instagram e Linkedin di Connect per raccontare, con un conto alla rovescia, i 21 giorni di detenzione e parziale isolamento di Ben Mahmoud Moussa trascorsi senza terapia curativa della sua malattia e senza una visita di un familiare, tra la cella dell’istituto penitenziario di Genova Marassi e l’ospedale San Martino. Attraverso video divulgativi, testimonianze e contributi, l’iniziativa racconterà i nodi salienti del percorso di Moussa in detenzione e di come il sistema penitenziario fallisca nell’individuare e tutelare le persone fragili. La grave vicenda ripercorsa nel dettaglio dall’inchiesta di IRPI (Investigative Reporting Project Italy), è emblematica e merita di essere conosciuta perché fa emergere con chiarezza cristallina le carenze del percorso del ragazzo all’interno dell’istituzione, cioè come il sistema oggi isoli, invece di soccorrere, chi mostra segni di fragilità mentale. L’evento conclusivo si terrà online il 15 novembre, anniversario della sua morte, in occasione della Giornata Mondiale dei Poveri. Un momento di confronto aperto al pubblico con giornalisti, operatori sociali e familiari. La storia di Moussa - Moussa Ben Mahmoud era un ragazzo tranquillo, nonostante il viaggio traumatico in cui era stato trafficato dalla Tunisia, si era inserito bene, ed era ormai diventato quasi genovese. Era un bravo pizzaiolo che, mentre cercava l’amore, aveva trovato una relazione malata, che lo aveva condotto all’abuso di droghe. Così emergono i primi episodi di problemi di salute mentale che sfociano in casi di aggressività. Così entra in carcere la prima volta. Arriva la diagnosi di disturbo schizotipico, confermata con una seconda diagnosi. Moussa viene posto in libertà vigilata perché è noto che la patologia è incompatibile con il carcere. Intraprende un percorso di terapia con il Centro di Salute Mentale dell’Asl 3 di Genova. Nonostante questo, forse a causa dello stigma, riprende l’uso di droghe e dopo poco viene nuovamente arrestato. Questa volta non uscirà mai dal carcere e si toglierà la vita nel novembre 2024. Oggi i familiari chiedono giustizia ed è in corso un procedimento penale. Il caso di Moussa è di una gravità esemplare e per questo motivo rappresenta una ferita aperta per la regione Liguria. Secondo i documenti ottenuti da IRPI, al nuovo ingresso in carcere le diagnosi di patologia psichiatrica non vengono inserite nella scheda del nuovo giunto, neppure le segnalazioni compiuta da un giudice non viene considerata seriamente. Moussa era in astinenza da droghe e non è mai entrato in un percorso con il SERD. Durante le poche settimane di permanenza nell’istituto di Genova Marassi Moussa non vedrà mai uno psicologo o uno psichiatra. Nemmeno un familiare potrà parlare con lui, a causa della distanza con la Tunisia, a causa dei documenti che vengono richiesti. Moussa non verrà individuato come categoria fragile nonostante il sistema, sulla carta, sia strutturato per evitare proprio i casi come questo. Ilaria Sotis: “Le voci dalle carceri del Mediterraneo” la7.it, 29 ottobre 2025 La giornalista Ilaria Sotis, intervistata da Giovanni Floris a diMartedì, parla del suo podcast “Le loro prigioni. Voci e cronache in presa diretta dalle carceri del Mediterraneo”, ideato insieme alla giornalista Azzurra Meringolo. L’esigenza di raccontare le storie e le vite dei prigionieri, dalle carceri di alcuni Paesi del Mediterraneo (Siria, Israele, Palestina, Egitto, Iran) per capire in che direzione stanno andando questi stessi Paesi. Perché come scriveva Voltaire: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Quello che non vediamo è il sommerso emotivo molto forte, che emerge proprio attraverso le voci dei prigionieri, costretti in condizioni ignobili. Tra gli intervistati anche il Premio Nobel per la Pace 2023, Narges Mohammadi. Politica e clima d’odio, quei brutti segnali di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 29 ottobre 2025 Come un’ombra che si allarga, minimizzando il carico eversivo che porta in sé. Eversivo rispetto all’ordine che i Padri costituenti della nostra Patria hanno voluto per questa Italia, uscita a pezzi proprio dal Ventennio fascista. Nell’anno terzo dell’era Meloni, si avvera una delle promesse che la futura presidente del Consiglio aveva fatto in campagna elettorale. Diceva così: chi fino ad allora aveva dovuto nascondersi o girare a capo chino, col nuovo corso avrebbe potuto finalmente mostrarsi ovunque a testa alta e fiera. Ma chi ha dovuto girare a capo chino durante i quasi 80 anni della nostra Repubblica? La risposta è arrivata un po’ per volta e adesso dovrebbe essere chiara anche ai solutori meno abili e più onesti. Nessuno pensa al ritorno di una dittatura di tipo mussoliniano con gli orpelli che l’hanno caratterizzata: camicie nere, saluto al duce, olio di ricino, botte a chi si oppone, tralasciando il resto e il molto peggio, dall’omicidio degli avversari alle deportazioni nei lager degli ebrei. Però negli ultimi giorni le occasioni per risentire un certo olezzo si sono, certamente per caso, moltiplicate. Basta unire i pezzetti sparsi del puzzle. A Roma, zona Brancaccio, due schiaffoni a un giornalista, colpevole di indossare una felpa antifascista e di non volersela togliere e neppure di girarla al contrario, sotto lo sguardo della compagna con in braccio il loro figlio di sei mesi. A Genova una ventina di ardimentosi multietnici fa visita con spranghe e bastoni a un liceo occupato, sfascia sedie e banchi, lascia una grande svastica sulle pareti, si dilegua nella notte. Il ministro dell’Istruzione Valditara: “Mi auguro che i responsabili di questo grave atto, sembrerebbe di stampo neofascista, siano identificati e condannati”. Gli studenti vittime del raid: “Abbiamo chiamato la Polizia mille volte ma non arrivava mai”. Replica: “Sono in corso accertamenti”. In corso, meno male. Intanto la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Ignazio La Russa, ha spento per l’ennesima volta ogni sussurro sulla permanenza della fiamma nel simbolo di Fratelli d’Italia, rivendicando con tono tonitruante il dovere della memoria, che è poi quella del Movimento sociale italiano (Msi), che a sua volta spunta dalle ceneri della Repubblica sociale italiana (Rsi), ultimo atto di un regime che la Liberazione ha sconfitto e la Costituzione abrogato. “Il compito del nostro partito è pacificare il Paese in questo dopoguerra che non finisce mai”. Pacificare, ecco. Come per altro, nelle stesse ore, si industriavano a fare i 700 “camerati” (definizione loro) che si sono radunati a Predappio in ricordo fervente della Marcia su Roma, 28 ottobre 1922. La famiglia Mussolini aveva pregato, inascoltata, di evitare il saluto romano di gruppo: una selva di braccia tese è scattata come una molla dopo il momento reiterato del “presente”, l’omaggio delle squadracce di allora ai caduti, diventato oggi l’acme di un orgoglio soffocato per troppo tempo, anche da un paio di leggi dello Stato (Scelba e Mancino). Il “me ne frego” è un marchio di fabbrica che sta ritrovando un’insperata attualità, coralità, un trapassato remoto che si traveste da futuro prossimo. A mettere insieme i pezzetti di questo piccolo puzzle, non esce un fascio littorio. Emerge però una maschera, che per una parte copre un’ombra che si allarga, minimizzando il carico eversivo che porta in sé. Eversivo rispetto all’ordine che i Padri costituenti della nostra Patria hanno voluto per questa Italia, uscita a pezzi proprio da quel Ventennio, tempo ormai lontanissimo e come tale più facile da sbiadire, aggiustare, cancellando i partigiani e tenendosi buoni i cattivi. Ma via, stiamo parlando di minoranze, marginalità come Forza Nuova e Casa Pound, chiassose ma in sostanza innocue. Sarà questa roba a mettere a rischio la democrazia? Sicuramente no. Resta il fatto che questa roba cresce, diventa parte di un panorama civile, prima ancora che politico, senza più neanche destare scandalo, anzi trovando legittimità di cittadinanza, autorevoli coperture e accorti silenzi per non entrare in contrasto con una parte cospicua della maggioranza che ora governa. Lo spirito prevalente di questo tempo è quello di alzare le spalle, come se manifestare una esplicita adesione agli ideali propri del fascismo stesse diventando normale, tanto più che è una corrente nera che si salda con un movimento di ultra destra molto più ampio e montante che attraversa l’Europa, alterandone i connotati. Sì però dall’altra parte ci sono i pro Pal che spaccano vetrine, si scontrano con le forze dell’Ordine, usando la tragedia palestinese per sfogare rabbia contro il sistema e soprattutto contro un governo eletto e dunque più che legittimo. Sono quelli che impediscono a Emanuele Fiano, presidente di Sinistra per Israele, di parlare all’Università di Ca’ Foscari a Venezia, come successe a suo padre nel 1938 ma allora per mano dei fascisti, in un cortocircuito con la Storia che diventa benzina nei discorsi dell’eterna campagna elettorale nella quale siamo immersi. Non sembra però questa la strada che porta alla pacificazione. Non è accumulando dichiarazioni bellicose contro l’avversario, e vale anche per l’opposizione, che si stempera il clima d’odio che visibilmente sta lievitando. L’Italia ha un problema strutturale di disagio sociale, per esempio con una crescita dei salari troppo bassa rispetto all’inflazione e una conseguente perdita del potere d’acquisto, come appena spiegato su questo giornale da Milena Gabanelli e Simona Ravizza. Cercare scorciatoie additando al ludibrio i nemici della Nazione, che non esistono, è soltanto propellente per quelle derive estreme che si richiamano a un passato che ci ha portato a perdere una guerra e la libertà. Al di là della sconfitta, quali valori conteneva quel passato risciacquato nella propaganda? Nessuno che sia compatibile con altri e molto diversi valori scritti nella nostra Carta. O ci si adegua a questi ultimi oppure si prova a cambiare la Carta. Ogni indulgenza perdurante verso chi non accetta le fatiche della democrazia non farà del bene al Paese, e alla lunga nemmeno a questo governo, pur lanciato verso record di longevità. La statura di una leadership si misura con i ponti che costruisce ma anche con quelli che si taglia alle spalle. “Una legge per il terzo settore: sostegno a chi opera per il bene comune” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 29 ottobre 2025 Pierfrancesco Majorino, già europarlamentare, è capogruppo PD Regione Lombardia, membro della Segreteria nazionale del Partito democratico con l’incarico di responsabile Politiche migratorie e Diritto alla Casa. Il Partito democratico si è spostato troppo a sinistra. A dirlo, nella convention di Milano dei “riformisti” dem, è Giorgio Gori, già sindaco di Bergamo ed europarlamentare... Giorgio Gori mi ha stupito. È stato un sindaco molto capace e molto amato nella sua città, Bergamo, e son convinto che proprio per questo sappia più di altri che la discussione sull’essere più o meno di sinistra, “radicali” o “moderati” oggi lasci abbondantemente il tempo che trova e sia veramente poco comprensibile. Rispetto a Giorgio faccio un ragionamento molto diverso: credo che il PD con Elly Schlein sia uscito dallo stato di angosciante apatia nella quale c’eravamo cacciati, in anni durante i quali, vorrei rammentarlo, si discuteva della nostra probabile sparizione. Stavamo per celebrare il funerale al Partito Democratico con surreale disinvoltura. Quasi tre anni dopo la situazione è molto cambiata. Ci siamo decisamente ripresi, abbiamo rilanciato la nostra iniziativa politica e peraltro il tutto grazie a una leader che ha coltivato l’unità interna ed esterna, un bene essenziale per essere credibili, e siamo tornati competitivi in svariati luoghi del Paese, inoltre rappresentiamo un punto di riferimento in Europa, nella famiglia del PSE e, soprattutto, lo dico molto preoccupato dalla deriva antidemocratica in corso, senza il PD non esiste alcuna possibilità di costruire un progetto alternativo alla destra. Dunque, il punto non credo sia quello di essere “meno di sinistra”, come sinceramente non mi convincerebbe un ragionamento eguale e contrario. Semmai dobbiamo andare avanti con ancora più decisione su due terreni. Quali? Essere la forza che spinge per il cambiamento e farlo continuando a mettere al centro la questione sociale. Che vuol dire salari, diritto alla salute e alla casa, battaglie contro le diseguaglianze. E ancora: schiena dritta di fronte ai tentativi di mercificare i beni comuni e misure per una transizione ecologica giusta. Occuparsi di questo, come abbiamo cominciato a fare con una certa insistenza, vuol dire “essere troppo di sinistra”? Non credo lo si possa pensare. Per me vuol dire essere chiaramente dalla parte del senso di giustizia. Semmai discutiamo di quali debbano essere i terreni su cui sfidare la destra. Sarò un po’ novecentesco ma ne vedo innanzitutto tre, assolutamente intrecciati. Primo: la crescita, in un Paese che senza PNRR sarebbe in recessione, secondo la lotta alle diseguaglianze, mentre i salari stanno al palo, non si realizzano politiche per il diritto all’abitare e viene mortificata l’azione straordinaria di Tina Anselmi che portò a istituire un Servizio Sanitario Nazionale di carattere universalistico. Terzo, la qualità dello sviluppo, che deve essere sostenibile nel tempo della crisi climatica e capace di far vivere bene persone in grado di sentirsi davvero libere, consapevoli. Su questi terreni non ci vuole più moderazione ma grande determinazione senza timidezze. Il nostro in fondo è un riformismo radicale. Perché siamo pragmatici ma desiderosi di non assecondare quello che ci offre il tempo in cui viviamo. Aggiungo una nota a margine. Giorni fa incontrando i movimenti popolari che si battono per i diritti sociali Papa Leone XIV definito giuste lotte quelle per la terra, la casa e il lavoro. Ecco, ascolterei con grande attenzione quelle parole. “In Italia c’è un’estrema destra al governo che sta tagliando la spesa pubblica, la sanità, la scuola, sta bloccando le nostre proposte di salario minimo. Stanno producendo solo propaganda, odio e polarizzazione. La settimana scorsa Meloni a Firenze ha detto che l’opposizione è peggio di Hamas. Voglio solidarizzare con Sigfrido Ranucci, vittima di un attentato terribile: la libertà e la democrazia sono a rischio quando l’estrema destra è al governo”. Così Elly Schlein al Congresso del Pse. Apriti cielo! Lezioni di storia, accuse di estremismo. Cosa c’è di “scandaloso” in quanto detto dalla Segretaria PD? Io credo che la nostra segretaria abbia lanciato un allarme sacrosanto. Nel mondo infatti siamo di fronte alla radicalizzazione della destra nazionalista. E l’azione di Giorgia Meloni in questo quadro è spesso sminuita, mentre la Presidente del Consiglio è assolutamente dentro a questo processo. Torno sulla frase su Hamas. Ma ci rendiamo conto? Ha spiegato che siamo peggio dei terroristi. Ci siamo capiti? Il capo del governo che dice una cosa simile. E perché lo fa? Perché non accettiamo la logica oscena del decreto sicurezza, perché ci battiamo per un salario dignitoso, perché mettiamo in luce il fatto, oggettivo, che la spesa sanitaria è inadeguata e che questo porta grandi vantaggi ai businessmen della sanità privata. In altre parole, ci dice che siamo peggio dei terroristi, senza che ciò susciti indignazione, perché ci opponiamo alle sue politiche. E intanto cosa accade? Accade che Telemeloni imperversa e un giornalista serio e indipendente come Ranucci viene, dopo quell’attentato preoccupante, attaccato da settori della destra italiana. Francamente tutto questo è semplicemente terrificante. Per aver schierato il PD nel movimento che ha riempito le piazze di tutta Italia contro il genocidio di Gaza e per il riconoscimento dello Stato di Palestina, Schlein è stata tacciata di vetero-pacifismo, di subalternità a questo o a quello. Siamo al “tiro al Segretario”, sport molto in uso a sinistra? La posizione del PD su Gaza è quella giusta. E le piazze ci hanno visto partecipare con grande determinazione. Gli attacchi a Schlein sono ridicoli. E dovrebbero far riflettere chi se ne fa protagonista. La verità è che siamo stati di fronte ad una gigantesca strage degli innocenti realizzata da un genocida, cioè Netanyahu. Contestare quell’azione sanguinosa è il minimo. Come oggi il minimo sarà stare al fianco dei palestinesi, in una lotta che è una lotta per la dignità e la libertà di un popolo. Invece che surreali dibattiti sul tasso di pacifismo di una forza politica, abbiamo tutti il dovere di comprendere come dalla tregua attuale, perché di altro non si può parlare, si passi ad un progetto di Pace, sicurezza, ovviamente anche di Israele, e ricostruzione. In un quadro simile più che il pacifismo del PD di Schlein, del quale siamo soli orgogliosi, ci si dovrebbe preoccupare della sparizione politica dell’Europa. Una sparizione allarmante. Da ex parlamentare europeo, ha mai creduto ad una conversione europeista di Giorgia Meloni? Giorgia Meloni ha in mente un chiaro progetto politico. Quello di un’Europa debole e dominata dai nazionalismi. In questo quadro, poi, ritiene di poter surfare oltre i confini giocando con Trump di sponda. Mi pare tutto molto molto coerente con la sua filosofia e il suo pensiero. Ciò è terribile su alcuni piani, perché produce per l’appunto, l’assenza di una politica di pace o di cooperazione all’esterno dell’Europa e, inoltre, come insegna la vicenda dei dazi, è una strategia particolarmente dannosa per un Paese come il nostro. Aggiungo che però non sono per nulla stupito, Giorgia Meloni, del resto, non avrebbe nemmeno voluto i fondi di Next Generation EU e la risposta corale europea di fronte al COVID. Grazie al cielo noi siamo quelli di David Sassoli, non quelli che nutrono verso stagioni nelle quali gli europeisti finivano al confino una sorta di “nostalgia inconscia”. Quale lezione trarre dalla prima tornata di elezioni regionali? Le elezioni regionali ci hanno detto che la partita per il futuro del Paese è assolutamente aperta e che sarà, ovviamente, una partita vera e dura. E che qualsiasi ipotesi di alternativa passa da una constatazione semplice: solo uniti si può vincere. Ovviamente ora si deve definire con chiarezza un progetto di governo forte e unitario. Il centrosinistra è assolutamente nelle condizioni di dotarsene a condizioni che prevalgano la generosità e la voglia di evidenziare quel che, per l’appunto, unisce. Cresce ovunque l’astensionismo. È ormai un male endemico, inguaribile delle democrazie liberali o è l’offerta politica a non essere attrattiva? Innanzitutto, credo che non dobbiamo arrenderci. Non possiamo accettare il piano inclinato nel quale siamo. Io credo che molto sia riconducibile alla distanza tra la politica e la vita vera. Tante e tanti che non votano non credono che la politica possa incidere, cambiare, essere utile. Così si indebolisce la democrazia. E qui vedo, senza scoprire per la verità niente di nuovo, il nesso tra questione sociale e questione democratica. Una politica che torna ad essere lo spazio di confronto e pure di lotta per affrontare il tema delle diseguaglianze può essere una politica che torna ad essere mobilitante ed attrattiva. Ma deve dimostrare di poter incidere con concretezza. Altrimenti la logica della partecipazione e della rappresentanza viene sostituita da autoisolamento, rancore e perfino clientelismo. Mi occupo molto di casa, di diritto all’abitare. In alcuni quartieri popolari delle nostre città la cosa è evidente. Ho negli occhi le facce di cittadini che non votano perché pensano che la cosa semplicemente non li riguardi. Ecco: la risposta non può essere solo quella dell’esortazione a non sprecare un diritto straordinario come quello a contare e a dire la propria ma deve essere pure quella di fare politiche, uso questo esempio perché lo ho molto chiaro, per garantire alloggi a costi accessibili a chi altrimenti rischia di rimanere per strada o a dover cambiare città. In altre parole, la politica deve tornare a dimostrare la propria utilità pubblica. E questa è una sfida urgente e pure appassionante. Il PD ha avanzato una proposta di legge volta a valorizzare e sostenere il terzo settore. Qual è il segno politico di questa iniziativa? Abbiamo fatto una cosa per me ovvia. Di fronte alla società che si autorganizza che si mette all’opera per il bene comune, che si dà da fare non girandosi dall’altra parte di fronte a chi ha bisogno di aiuto, di fronte a questa grande ricchezza, rappresentata dall’associazionismo, dalla cooperazione sociale, dal volontariato abbiamo deciso che un’istituzione come la regione Lombardia dovesse muoversi, darsi una svegliata. E per questo abbiamo presentato una proposta di Legge, a prima firma del consigliere regionale Davide Casati, che vuole offrire strumenti effettivi, concreti, affinché questo arcipelago fondamentale per lo sviluppo e il benessere delle nostre comunità, possa essere coinvolto permanentemente sul piano della progettazione delle politiche o possa essere sostenuto attraverso fondi capaci di premiare i progetti maggiormente innovativi che vedono la società capace di offrire risposte e soluzioni in più settori, ovviamente quello del sociale ma non solo - il terzo settore è infatti vitalissimo pure in campo culturale, nella pratica sportiva o nella tutela del territorio e dell’ambiente-. Tutto ciò non per far arretrare il pubblico rispetto alle proprie responsabilità ma esigendo che il pubblico innanzitutto faccia la sua parte. C’è bisogno, infatti, di una nuova stagione di collaborazione tra pubblico e privato sociale. E questo, come ha ricordato Don Vincenzo Barbante, Presidente della Fondazione Don Gnocchi, è proprio un modo per difendere il bene comune. Sedicenne ammanettato a Torino, centoventi famiglie contro la scuola di Chiara Comai La Stampa, 29 ottobre 2025 I genitori scrivono al preside: “Nessuno è intervenuto per evitare gli scontri e proteggerlo”. La replica: fermiamo l’escalation di violenze. Il giorno dopo la pubblicazione del video che lo ritraeva in manette mentre veniva portato via dall’istituto superiore Einstein di Torino, Marco (nome di fantasia), sedici anni, racconta: “Sto abbastanza bene anche se ieri sera mi sono accorto di avere sul corpo altri lividi”. Lunedì è stato portato via dall’istituto dopo a cercato di ostacolare un volantinaggio di Gioventù nazionale, l’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia, “contro la cultura maranza”. Ci sono famiglie, studenti e professori che solidarizzano con lui e con gli altri ragazzi dei collettivi di sinistra che avevano cercato di impedire il volantinaggio. Centoventi genitori scrivono una lettera al dirigente, accusandolo di non essere intervenuto e non aver tutelato gli studenti. “Lo studente è stato trattato come un criminale e mentre gruppi politici che si richiamano a ideologie xenofobe e di esclusione vengono lasciati agire liberamente davanti a un edificio scolastico, compromettendo l’ingresso a scuola. Le forze dell’ordine si sono attivate subito in maniera violenta nei confronti degli studenti” scrivono. Poi l’accusa alla scuola: “Nessuno ha provato a mediare, a proteggere ed evitare che una scena così violenta e umiliante si consumasse davanti agli occhi dei ragazzi, lasciati soli”. Da qui il richiamo alla “responsabilità” dell’istituto: “Rifiutiamo questo silenzio e la mancanza di tutela verso gli studenti. Una scuola che tace smette di essere luogo di formazione e diventa complice dell’ingiustizia. Dovrebbe invece insegnare ai ragazzi a riconoscere ogni forma di sopraffazione e non rivelarsi passiva davanti a chiari abusi di potere”. Il dirigente Marco Chiauzza si era limitato a condannare “ogni forma di violenza”, precisando che “è successo tutto mentre non ero ancora scuola” e per questo non voler rilasciare dichiarazioni. Nel pomeriggio di ieri decide invece di inviare una circolare in risposta. Precisa che i reparti antisommossa “sono intervenuti dopo le tensioni non più solo verbali anche nei confronti dei membri delle forze dell’ordine”. Che “i docenti vigilavano sull’evolversi della situazione” e che la mancata presa di posizione della scuola “non va intesa come atteggiamento passivo”, ma è una scelta per “evitare di fomentare il clima di tensione e di scontro ideologico”. Ecco perché “la scuola si dissocia da ogni tipo di violenza. Se da una parte l’iniziativa di Gioventù nazionale ha i contorni di una provocazione, dall’altra non si può negare che l’escalation dei toni sia stata reciproca”. Sui social intanto solidarizza con Emanuele Fiano, l’esponente di sinistra a cui è stato impedito all’Università di Venezia di parlare perché sionista. Alcuni insegnanti si organizzano per scrivere anche loro un comunicato critico contro la condotta delle forze dell’ordine. “Sicuramente gli studenti hanno sbagliato a cercare di impadronirsi dei volantini, ma mettere le manette davanti a scuola è eccessivo” dice Matteo Sarni, docente di italiano. Qualcuno non fa lezione. Mentre il collettivo studentesco si prepara a nuove mobilitazioni. Dall’altra parte i militanti di Gioventù nazionale annunciano: “Continueremo a distribuire i nostri volantini e torneremo anche all’Einstein, non ci facciamo intimidire” dice Raffaele Marascio, presidente della sezione “D’Annunzio” (quella che ha volantinato all’Einstein) e consigliere comunale di Fratelli d’Italia. Mentre Gioventù nazionale Torino, che si era dissociata dall’accaduto per tensioni interne, ieri mattina distribuiva altri volantini davanti a un altro istituto. Gli studenti dell’Einstein lo vedono sui social. E rilanciano: “Se tornano da noi ci sarà una risposta ancora più forte”. La denuncia della Digos dopo i fatti dell’Einstein è arrivata alla Procura dei minori. Allo studente ammanettato vengono contestati tre reati: resistenza a pubblico ufficiale, lesioni e violenza privata. Secondo fonti della polizia, nel cercare di impedire il volantinaggio, il ragazzo ha colpito con calci e pugni due agenti che si erano frapposti tra i militanti di Gioventù nazionale e gli studenti della scuola. Questo il motivo per cui era stato ammanettato. Il ragazzo era già noto alle forze dell’ordine perché aveva ricevuto altre denunce durante alcune manifestazioni per la Palestina. Ieri altre tensioni sono state segnalate davanti a un altro liceo torinese, l’artistico Primo, geograficamente vicino alla zona dell’Einstein. Istituto da cui ieri sera è partita un appello di settanta insegnanti in solidarietà agli alunni dell’Einstein, ricordando un episodio “con modalità simili e sovrapponibili” accaduto davanti alla loro scuola due settimane fa. “Chiediamo alle istituzioni di attivarsi per garantire che le scuole restino spazi liberi e sicuri”, si legge. Migranti. “Un monumento alla propaganda”: i Centri in Albania sono semideserti di Michele Gambirasi Il Manifesto, 29 ottobre 2025 Albania tragica L’ispezione dei deputati Scarpa, Orfini (Pd) e Magi (+Europa). Nel centro 25 persone trattenute, 220 da aprile. Oltre un anno dopo l’apertura e aver vissuto più fasi, nel Cpr di Gjader in Albania sono transitate all’incirca 220 persone, e attualmente ne sono presenti 25: è quanto è emerso ieri nel corso dell’ispezione al centro effettuata dai deputati Rachele Scarpa e Matteo Orfini del Pd e Riccardo Magi di +Europa. È il segno del continuo sottoutilizzo del centro, che ha disposizione 96 posti disponibili su 144 regolari, sorto inizialmente per procedure accelerate di frontiera e poi tramutato in Cpr con un decreto ad aprile. Rimane inutilizzata la parte del porto di Shengjin, destinata alle procedure di frontiera comprensiva di 880 posti, così come il penitenziario costruito in Albania vicino ai centri. “Un monumento allo spreco e alla propaganda. Pur di non mostrare al mondo un centro che si svuota completamente il governo ha continuato, per tutta l’estate, a trasferire illegittimamente persone dai Cpr italiani a quello albanese” ha affermato Scarpa al termine dell’ispezione. A fine maggio la Cassazione ha sollevato dubbi anche su questa seconda fase del progetto, dopo un momento iniziale in cui era stato pensato come centro per procedure accelerate di frontiera, ipotesi per il momento completamente accantonata dopo la sentenza del primo agosto della Corte di giustizia europea sui “paesi sicuri”. Gli ermellini dubitano ancora che il Cpr di Gjader sia conforme alla Direttiva rimpatri e la Direttiva accoglienza dell’Ue. L’esecutivo, seppur in silenzio, ha continuato a ignorare il provvedimento e i trasferimenti verso l’Albania sono proseguiti in modo lento ma inesorabile. Ad inizio agosto, al momento della visita dei Garanti dei detenuti del Lazio, le persone trattenute erano state complessivamente 140: altre 80 sono passate per Gjader negli ultimi tre mesi. “La sofferenza è enorme: atti di autolesionismo, lamette ingerite, tentativi di suicidio. Ecco perché non sono dispiaciuto che questo centro alle mie spalle sia semideserto: ci sono più agenti di polizia che ospiti detenuti” ha commentato ieri Riccardo Magi. Dal registro degli eventi critici ne sono risultati 95, 20 in più rispetto all’ultima ispezione di luglio: per la maggior parte si tratta di atti di autolesionismo, ma solo due giorni fa, hanno raccontato i deputati, si è concluso uno sciopero della fame da parte di alcuni detenuti. Il tempo medio di trattenimento, a quanto appreso dai deputati, risulta essere breve, appena 15 giorni, e i trasferimenti avvengono da altri Cpr italiani a gruppi di 10 persone a bordo di aerei della Guardia di finanza all’incirca ogni due settimane, stando alla frequenza con cui appaiono nei registri nuovi numeri identificativi. Anche il numero dei rimpatri è irrisorio: all’incirca il 70% dei trattenimenti non è stato convalidato, e da aprile la Corte d’appello di Roma dispone il rientro in Italia di chi fa domanda d’asilo da Gjader. Coloro che vengono rimpatriati in ogni caso devono ripassare per l’Italia: l’ente gestore ieri ha negato categoricamente che ci siano stati ulteriori rimpatri direttamente dall’Albania dopo il trasferimento in Egitto di cinque cittadini avvenuto da Gjader a maggio scorso. “Un bilancio che smentisce ogni narrazione del governo e conferma come l’intera operazione non abbia alcuna utilità concreta, se non quella di alimentare la propaganda” ha concluso Scarpa. Migranti. Il tribunale di Torino dà torto al ministero e ri-condanna la questura di Giulio Cavalli Il Domani, 29 ottobre 2025 La Corte d’Appello ha respinto la richiesta del Viminale di sospendere la sentenza che aveva condannato la questura. Entro l’8 dicembre la questura dovrà riorganizzare i propri uffici e garantire che ogni richiedente asilo possa essere ricevuto tempestivamente, senza file notturne, liste chiuse o richieste di documenti non previste dalla legge. A Torino la giustizia ha messo in mora la burocrazia. Con un’ordinanza depositata il 27 ottobre 2025, la Corte d’Appello ha respinto la richiesta del ministero dell’Interno di sospendere la sentenza che aveva condannato la questura per le cosiddette “code discriminatorie”. Entro l’8 dicembre la questura dovrà quindi riorganizzare i propri uffici e garantire che ogni richiedente asilo possa essere ricevuto tempestivamente, senza file notturne, liste chiuse o richieste di documenti non previste dalla legge. Il rigetto della sospensiva non è un tecnicismo. I giudici hanno chiarito che l’appello del ministero “non pare manifestamente fondato” e che l’amministrazione non ha dimostrato alcun pregiudizio “grave e irreparabile”, limitandosi a evocare genericamente uno “stravolgimento dell’attività”. In altre parole: l’inefficienza non può più essere una giustificazione per violare un diritto fondamentale. Il caso nasce da una class action promossa da diciotto richiedenti asilo e dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI). La sentenza di primo grado, emessa il 4 agosto 2025, aveva dichiarato discriminatorio il modello organizzativo della questura, basato su accessi contingentati e code fisiche quotidiane. Il tribunale aveva definito “mortificante” il sistema e ordinato la riorganizzazione entro quattro mesi, richiamando come riferimento il “modello Milano”, fondato su prenotazioni online e trasparenza dei flussi. Il principio affermato è chiaro: la formalizzazione della domanda di asilo non è una concessione amministrativa, ma un servizio pubblico dovuto. Il decreto legislativo 25 del 2008, che recepisce la direttiva europea 2013/32/UE, stabilisce che la registrazione debba avvenire entro tre giorni lavorativi, prorogabili fino a dieci solo in casi eccezionali. Eppure in molte città italiane l’attesa supera i limiti di legge: a Milano oltre cinque mesi, secondo i dati raccolti da Naga e ASGI; a Venezia e Vicenza sono in corso ricorsi collettivi per ritardi analoghi. L’ordinanza torinese ha immediato effetto pratico: la sentenza diventa esecutiva e obbliga la questura a riformare il proprio assetto interno. Le questure che adottano prassi simili dovranno quindi adeguarsi in fretta per evitare nuove condanne. È un precedente operativo che impone di superare le “quote”, eliminare i filtri arbitrari e riorganizzare gli sportelli per garantire la presa in carico senza discriminazioni. La decisione della Corte d’Appello si inserisce in una tendenza giurisprudenziale che, di fronte all’inerzia amministrativa, sta riscrivendo l’equilibrio tra cittadini e Stato. Il Consiglio di Stato, con la sentenza numero 2819 del 2025, ha stabilito che i termini procedurali decorrono dal momento in cui il cittadino richiede l’appuntamento, e non dalla data fissata. Un principio che colpisce direttamente la pratica delle “agende chiuse”, spesso utilizzata per sospendere di fatto i diritti. In sintesi, non è più il richiedente a dover aspettare che la pubblica amministrazione decida di agire: è lo Stato a dover rispondere nei tempi previsti dalla legge. La condanna di Torino, confermata in appello, segna inoltre una svolta culturale: i giudici affermano che la scarsità di personale o risorse non può legittimare la compressione di un diritto fondamentale. Quando l’inefficienza diventa sistematica, non è più una questione gestionale ma una discriminazione. L’ordinanza, infine, è anche una prova per la politica. Se le questure non si adegueranno spontaneamente, saranno i tribunali a ordinare le riforme organizzative, imponendo scadenze perentorie e sanzioni economiche. È la giustizia a colmare il vuoto di governo, traducendo in obbligo ciò che la legge prevede da anni. Per le associazioni che operano sul territorio, la decisione è una vittoria simbolica e concreta. “L’accesso alla protezione internazionale è un diritto, non una gentilezza amministrativa” ricorda ASGI, che ha promosso anche le class action in Lombardia e Veneto. Le lunghe attese per un appuntamento - cinque mesi in media - significano mesi di limbo giuridico: senza documenti, senza accoglienza, senza possibilità di lavoro o assistenza sanitaria. Ogni giorno di ritardo si traduce in esclusione. Situazioni simili del resto si riscontrano in diverse aree del Paese. A Roma si segnalano appuntamenti rinviati fino a quattro mesi e richieste di documenti non previsti dalle norme. A Bologna, secondo i dati del progetto “Attendere, prego”, le prenotazioni online restano chiuse per settimane. A Trieste si registrano ritardi medi di due mesi, mentre a Napoli si segnalano casi di accesso subordinato alla disponibilità di interpreti, in violazione del principio di tempestività. Tutte queste prassi - osservano gli operatori legali - producono un effetto identico: impedire a chi fugge da guerre o persecuzioni di esercitare un diritto riconosciuto dalla Costituzione e dal diritto europeo. L’8 dicembre, data fissata per la riorganizzazione della Questura di Torino, è più di una scadenza. È il banco di prova di uno Stato che dovrà dimostrare di saper rispettare la propria legge. Se la riforma sarà attuata, potrà diventare un modello per tutto il Paese: un sistema trasparente, digitale, capace di garantire dignità e legalità a chi chiede asilo. Se resterà lettera morta, toccherà alla magistratura ricordare, ancora una volta, che i diritti non si mettono in fila. Droghe. No alla “war on drugs”, a Roma il 6-8 novembre di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 29 ottobre 2025 Il Governo si prepara a celebrare la propria strategia di “tolleranza zero”, fatta di repressione, stigma e patologizzazione, a Roma un’altra conferenza prende la parola. È la Contro-conferenza nazionale sulle droghe, autoconvocata da associazioni, reti, operatori, persone che usano droghe, studiosi e movimenti sociali per proporre una svolta radicale nelle politiche sulle droghe. Un momento di confronto, analisi e proposta che si terrà dal 6 all’8 novembre tra la Città dell’Altra Economia e il Campidoglio, con l’obiettivo di presentare un Piano costruito dal basso e alternativo alla guerra alla droga. La Contro-conferenza nasce da un lavoro collettivo che ha rimesso in dialogo mondi spesso separati: chi lavora nei servizi, chi fa ricerca, chi costruisce riduzione del danno nei territori, chi si batte per i diritti umani e chi vive in prima persona le conseguenze delle politiche repressive. In un Paese dove la legge sulle droghe resta ancorata a un paradigma punitivo e dove il dibattito pubblico è ancora paralizzato da pregiudizi e paure, la Contro-conferenza vuole restituire voce e legittimità a un sapere dal basso, capace di proporre un’altra idea di salute, giustizia e libertà. La tre giorni si aprirà il 6 novembre con due panel internazionali dedicati al fallimento della war on drugs e alle alternative che stanno prendendo forma nel mondo. Interverranno rappresentanti delle principali agenzie dell’Onu, l’EUDA (l’Agenzia europea sulle droghe), le reti internazionali della società civile che nel mondo stanno sostenendo politiche basate sull’evidenza scientifica, sulla riduzione del danno, sulla giustizia sociale e sul rispetto dei diritti umani. Sarà l’occasione per confrontarsi con un contesto globale in rapido cambiamento, mentre in Italia si continua a inseguire la retorica della punizione e del controllo. A questo si aggiunge un panel dedicato interamente al rinascimento psichedelico, in particolare in ambito terapeutico. Il 7 novembre, ancora alla Città dell’Altra Economia, la discussione entrerà nel vivo con sessioni tematiche su riduzione del danno come politica sociale, decarcerizzazione e deistituzionalizzazione, riforma legislativa e decriminalizzazione, fino alla ridefinizione del ruolo e degli obiettivi dei servizi per le dipendenze. Nel pomeriggio uno spazio di confronto sarà dedicato ai movimenti e alle esperienze territoriali, mentre per tutta la giornata sarà attiva un’area di informazione e dialogo, con offerta di drug checking e la simulazione di una stanza del consumo. La giornata si concluderà al Cinema Troisi con il live podcast di Illuminismo Psichedelico e la proiezione del film All the beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, per ricordare che la cultura e la narrazione sono parte integrante del cambiamento. L’8 novembre la Contro-conferenza si sposterà in Campidoglio, grazie alla collaborazione con ELIDE - Rete delle città per una politica innovativa sulle droghe - per un confronto pubblico fra amministrazioni locali e una sessione dedicata alla legalizzazione della cannabis, tema simbolico ma anche concreto, perché misura la distanza tra l’ideologia che permea le politiche nazionali e la realtà politica e scientifica globale. Nel pomeriggio, per le strade di Roma, si terrà la Million Marijuana March, a testimoniare che la domanda di riforma cresce anche fuori dalle aule istituzionali. La Contro-conferenza è aperta a tutt?. È uno spazio di parola e di ascolto, di costruzione collettiva e di alleanze tra mondi che non vogliono più restare ai margini. Un’occasione per fermare la guerra alla droga e rimettere al centro le persone, la salute pubblica e la dignità umana. Chi vuole partecipare o aderire può farlo su www.conferenzadroghe.it, dove sarà disponibile anche lo streaming delle tre giornate. Medio Oriente. Gaza, quel piano inclinato che porta al disastro di Stefano Stefanini La Stampa, 29 ottobre 2025 Infranta la tregua che nessuno dei due avversari ha mai voluto. Da oggi toccherà alla diplomazie americana e araba provare a ristabilirla. Credevano di essere usciti dall’incubo. Stamane, i gazawi si sono svegliati dopo aver passato, di nuovo, una notte di guerra. Benjamin Netanyahu aveva ordinato una ripresa di raid pesanti (“forceful strikes”) e l’Idf ha prontamente eseguito. La tregua è dunque infranta. Fattore scatenante: Hamas aveva restituito i resti di una salma che non appartengono a nessuno dei 13 ostaggi mancanti; si sarebbero aggiunti, secondo fonti israeliane, attacchi di milizie del Movimento a Rafah. Causa vera: la fragilità del cessate il fuoco. Con avversari che lo vogliono far fallire. La tregua è il risultato di una complessa operazione diplomatica americano-araba-turca, capofila e garante Donald Trump. Le due parti l’hanno subita più che voluta. Hamas sotto le pressioni arabe e turche, specie dei due grandi appartenenti alla stessa famiglia politica, la Fratellanza Musulmana, Qatar e Turchia. Israele sotto quelle americane esercitate anche brutalmente da Trump - vedi telefonata di scuse all’Emiro del Qatar alla quale Netanyahu si è visto costretto nell’Ufficio Ovale. Entrambi, Hamas e Israele, avevano specifici interessi, l’uno a una boccata d’ossigeno militare, l’altro alla liberazione degli ostaggi. Ma nessuno dei due vuole veramente farla finita con la guerra, semplicemente rinviarla alla prossima puntata. Tenerli sotto forte e continua pressione internazionale si è subito rivelato indispensabile, vedi spedizione Witkoff-Rubio-Vance a Gerusalemme. Rara, se non unica, mobilitazione, insieme, di Vicepresidente, Segretario di Stato e negoziatore di fiducia del Presidente. Ma non basta. Non basta perché la fragilità dipende anche dalla situazione sul terreno. Il cessate il fuoco separa un esercito regolare da una milizia, o più milizie, tutt’altro che disarmate. Su un versante Hamas, con la cultura del kalashnikov, vuole mantenere il potere nella Striscia e rinviare sine die il passaggio di mano a una “tecnocratica” amministrazione palestinese sotto supervisione internazionale, con controllo del territorio affidato ad una forza di stabilizzazione nelle cui mani si dovrebbe disarmare. Condizionale d’obbligo: senza Ak47 che fine farebbero i miliziani di Hamas, che hanno trucidato a sangue freddo altri palestinesi? Se Hamas ha molto da perdere dal consolidamento della tregua, in Israele c’è l’ala estremista del governo che l’ha subita recalcitrante e vorrebbe disfarsene alla prima occasione. I Ben Gvir e Smotrich sono andati a nozze con Hamas che violava gli impegni e la ripresa dei raid. Non chiedevano di meglio. Il loro obiettivo, in realtà, è di insabbiare il piano di pace e di affossare la prospettiva, ivi prevista, di statualità palestinese per ritornare all’annessione della Cisgiordania, o meglio Giudea e Samaria nel loro linguaggio. E Netanyahu? Da supremo opportunista il Primo Ministro israeliano non sembra farsi troppo un problema su che parte stare a condizione di rimanere al potere. Dopo il 7 ottobre - tragedia della quale non ha dato alcun segno di accettare la responsabilità - la guerra - contro Hamas, contro Hezbollah, contro l’Iran - è stata il suo asso nella manica. Una settimana fa, incassando le lodi di Trump in una Knesset osannante, era diventato il leader che ridava la pace alla nazione. Ma pronto a riprendere subito la guerra. L’anno prossimo Israele va alle urne. In che veste si presenterà all’elettorato? Qui Netanyahu deve fare i conti con Donald Trump. Il quale lo vuole dalla parte del “suo” piano di pace. Il Presidente americano si è spinto a dire “io deciderò cos’è la cosa giusta da fare” per Israele e Palestina. Anatema per qualsiasi leader israeliano, soprattutto per Netanyahu che si vanta di aver prevalso lui su tutti i Presidenti Usa con i quali ha avuto a che fare (cinque). Trump gli chiede non solo di piegarsi al cessate il fuoco ma di accettare un intero piano che, in teoria, potrebbe portare allo Stato palestinese. Su assist di Hamas, Bibi riprende l’iniziativa e rompe il cessate il fuoco facendo esattamente il contrario di quello che la triade Usa in missione a Gerusalemme gli aveva appena chiesto. Il cessate il fuoco viene così nell’incrocio di bracci di ferro Israele-Hamas e Netanyahu-Trump. Ieri il tenue filo della tregua a Gaza si è spezzato sulle salme non restituite da Hamas. Oggi la diplomazia americana e araba si mobiliterà per riannodarlo. Ci può riuscire. Una tregua violata può essere ristabilita - tanto può essere di nuovo violata. Il Medio Oriente è uso a guerre riprese e interrotte. Non è uso alla pace. Neppure il piano di Trump sfugge a questa tragica ferrea regola. E siamo solo alle battute iniziali di una strada in salita. Sudan. Le Rsf prendono El Fasher: esecuzioni sommarie e pulizia etnica in città di Fabrizio Arena Il Domani, 29 ottobre 2025 Le Forze di supporto rapido hanno conquistato dopo 500 giorni di assedio la capitale del Darfur settentrionale. Il governo denuncia l’uccisione di 2mila civili disarmati solo negli ultimi giorni. La Commissione dell’Unione africana: “Presunti crimini di guerra per motivi etnici”. Dopo 500 giorni di assedio la città sudanese di El Fasher è caduta nelle mani dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf). Le Forze armate sudanesi (Saf) hanno così perso l’ultimo baluardo nel Darfur settentrionale e con questo il controllo dell’intera regione. Il presidente del Consiglio sovrano, Abdel Fattah Al Buhran, ha confermato l’accaduto: “Il Sudan risorgerà grazie alla forza del suo popolo e all’unità delle sue truppe”. Il “suo popolo” viene però affamato e ucciso da più di due anni, anche con il suo contributo e arrivano già notizie da El Fasher che parlano di esecuzioni sommarie e pulizia etnica mirata per le strade. Dal 2023 in Sudan è in corso una guerra civile tra generali rivali, entrambi accusati di crimini di guerra e violazioni dei diritti umani. La faida, finanziata anche da potenze straniere tra cui gli Emirati arabi uniti, ha causato almeno 150mila morti e 14 milioni di sfollati: una delle peggiori crisi umanitarie nel mondo. El Fasher è stata posta sotto assedio nell’aprile 2024 dalle truppe del generale Mohamed Hamdan Dagalo. Tra droni, bombe e mercenari stranieri, le Rsf hanno anche saccheggiato ospedali e bloccato nella città 260mila persone che vivono da mesi senza cibo, acqua e medicine. Alcuni, soprattutto bambini, sono stati costretti a mangiare cibo per animali mentre circa un milione di abitanti sono riusciti invece a fuggire. In uno dei tanti video che stanno circolando online, si vedono membri delle Rsf sparare a bruciapelo a dei civili seduti a terra. Altri filmati mostrano decine di persone morte accanto a veicoli bruciati. Non c’è modo di verificare l’autenticità dei filmati ma in una dichiarazione ufficiale le forze dell’esercito sudanesi hanno accusato le fila dei paramilitari di aver giustiziato oltre 2mila civili disarmati solo negli ultimi giorni. Anche in questo caso è difficile verificare le affermazioni, ma il laboratorio di ricerca umanitaria dell’università di Yale, che monitora il conflitto, ha avuto accesso a immaginari satellitari che proverebbero le accuse. La città “sembra essere coinvolta in un processo sistematico e intenzionale di pulizia etnica delle comunità indigene non arabe Fur, Zaghawa e Berti attraverso sfollamenti forzati ed esecuzioni sommarie”, fanno sapere da Yale. Alcuni vengono uccisi nella città mentre altri vengono intercettati mentre cercano di fuggire. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per le migrazioni da domenica più di 26mila persone sono scappate dai combattimenti, cercando un rifugio sicuro. Al momento è impossibile stimare con esattezza il numero delle vittime. L’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Volker Türk, ha lanciato l’allarme: “Ricordo ai combattenti delle Rsf i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale, garantire la protezione ai civili e il passaggio di rifornimenti essenziali e assistenza umanitaria”. Alle parole di Türk, hanno fatto seguito quelle del presidente della Commissione dell’Unione africana, Mahamoud Ali Youssouf, che si dice “profondamente preoccupato per l’escalation di violenza e le atrocità segnalate a El Fasher” e “condanna con la massima fermezza le gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, inclusi presunti crimini di guerra e uccisioni di civili per motivi etnici”. Le Rsf non sono nuove a questo tipo di azioni. Già nel 2023, quando avevano conquistato Geneina, la capitale del Darfur occidentale, avevano ucciso almeno 15mila civili appartenenti per lo più a gruppi non arabi.