Cambiano le regole: sarà il Dap a decidere su attività culturali e ricreative garantedetenutilazio.it, 28 ottobre 2025 Nelle carceri con sezioni di alta sicurezza non basteranno più il parere del direttore e l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. “Questa cosa è la fine della partecipazione della comunità esterna alle iniziative culturali e ricreative promosse (dalla comunità esterna) nelle carceri. Dalle celle chiuse alle carceri chiuse, è un attimo. Un balzo all’indietro di più di quarant’anni”. Così sul suo profilo Facebook il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, a proposito della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 21 ottobre che cambia le regole per l’organizzazione dall’esterno di un’attività in carcere. Fino a prima della circolare, così come stabilisce l’art. 17 della legge 354/1975, la domanda per portare dall’esterno una attività in carcere andava presentata al direttore dell’istituto penitenziario in cui si sarebbe voluto operare il quale esprimeva parere sull’istanza e la trasmetteva al magistrato di sorveglianza per l’autorizzazione. Adesso non sarà più così, perché a decidere sarà il Dap a Roma. Firmata da Ernesto Napolillo, a capo della direzione generale dei detenuti e del trattamento, la circolare va a modificare l’iter “delle richieste di provvedimenti autorizzativi degli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo che si intenda realizzare presso gli istituti penitenziari”, prevedendo che “per i soli istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta sicurezza, Collaboratori di giustizia, 41 bis) l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se previsti per i soli detenuti allocati nel medesimo istituto al circuito cd. Media sicurezza, dovrà sempre essere richiesta a questa direzione generale”. Inoltre, la richiesta dovrà pervenire “con congruo anticipo” e contenere necessariamente i seguenti dati: spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, lista dei detenuti da coinvolgere, elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti della comunità esterna, parere della direzione. Per le attività rivolte a soli detenuti di Media sicurezza reclusi in carceri dove non ci sono altri circuiti le competenze “rimangono in capo ai provveditorati regionali”. Ciambriello: “A rischio le iniziative di inclusione sociale” Neppure si fa attendere la reazione del Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti delle persone private della libertà, il Garante campano Samuele Ciambriello, secondo il quale “la circolare firmata dal dott. Napolillo rischia di mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale negli istituti, in particolare per il circuito di Alta Sicurezza”. “Tale circolare - prosegue Ciambriello - dà anche una certezza di una scarsa contezza reale dei contesti carcerari, trasforma le autorizzazioni della magistratura di sorveglianza in orpelli, elementi ancillari. Ci sono iniziative trattamentali di cooperative, associazioni, enti locali e non si comprende la gestione diretta della Direzione generale degli istituti con i circuiti di Alta Sicurezza. Ma allora i direttori e i responsabili del Prap sono semplici amministratori di condominio?”. Davvero il problema del carcere è una donna che fa l’amore con il proprio compagno? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2025 Una donna detenuta nel carcere di Vercelli rimane incinta e per un sindacato di polizia penitenziaria “ormai è Disneyland”. Ma avere una vita sessuale è un diritto per tutti. Una donna detenuta nel carcere di Vercelli rimane incinta senza aver mai beneficiato di permessi premio o misure esterne. Usufruiva di colloqui con il compagno, padre di sua figlia e anche lui detenuto nella sezione maschile del medesimo istituto. Nel mondo sessuofobo del carcere, l’evento ha fatto notizia. Un sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha commentato affermando che il carcere “oramai è Disneyland”. Non so quale aspetto del noto parco giochi intendesse richiamare con il paragone, se il divertimento, il senso di libertà, la varietà delle attrazioni. Ricapitoliamo insieme cosa è il carcere oggi in Italia, per capire se vi sia una pertinenza o se la frase è semplicemente sciocca e offensiva per chi in prigione vive e lavora. Nel gennaio 2024 la Consulta dichiara che la possibilità di avere una vita sessuale costituisce un diritto per tutti, anche per la persona detenuta, e che la sua privazione automatica - come imposto dalla legge italiana che prevede il controllo a vista dei colloqui in carcere - è in contrasto con vari principi della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sono passati quasi due anni da tale sentenza e le carceri che oggi prevedono spazi per i colloqui intimi sono quattro o cinque su 189 istituti per adulti (non si capisce perché rispetto alle carceri minorili il tema non sia mai stato messo all’ordine del giorno). Pure sotto questo aspetto, come sotto moltissimi altri, il sistema penitenziario è incostituzionale. Quella donna e il suo compagno avrebbero avuto il diritto di mantenere un legame anche sessuale in condizioni ben meno improvvisate di come probabilmente è accaduto. Ma continuiamo a ricapitolare. Dopo la condanna dell’Italia nel 2013 da parte della Corte di Strasburgo per il trattamento inumano e degradante che veniva inflitto alle persone detenute nelle nostre galere, abbiamo assistito a una stagione riformatrice che aveva portato a una parziale decarcerizzazione e aveva migliorato la vita quotidiana interna. L’amministrazione penitenziaria aveva adottato il principio secondo il quale la cella dovesse servire esclusivamente come camera di pernottamento, prevedendo una vita diurna fuori dalla stanza e impegnata in attività di vario tipo. I sindacati autonomi di polizia si sono lamentati di questa troppa vivacità, sostenendo che aumentasse le violenze da parte dei detenuti e le aggressioni al personale. Eppure i numeri parlano chiaro: tutti gli eventi critici sono cresciuti da quando le celle sono tornate a essere luoghi di segregazione continua dove i detenuti vivono ammassati dalla mattina alla sera, con una conseguente inevitabile crescita della tensione. Nel frattempo il carcere continua a chiudersi sempre di più. Una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di pochi giorni fa riduce ulteriormente e grandemente la possibilità per la società esterna di organizzare attività culturali, ricreative, sportive in carcere. Poche settimane prima un’altra circolare aveva, tra le altre cose, disposto che in caso di malessere di una persona detenuta il 118 venga chiamato “solo nei casi di effettivo pericolo di vita”. Un’amministrazione del Ministero della Giustizia, che nulla c’entra con l’area sanitaria, dà con questa nettezza un’indicazione volta a influenzare la libera decisione dei medici. Inutile dire che non sempre è chiaro in anticipo se c’è o meno un pericolo di vita. Trattandosi tuttavia della vita di un detenuto, possiamo permetterci di rischiare. Che il medico non ci faccia perdere tempo e risorse con inutili ricoveri esterni. Questo è il Disneyland che si vive attualmente in carcere. Corpi ammassati in celle sovraffollate chiuse l’intera giornata, vite buttate, mancanza di assistenza sanitaria e di ogni prospettiva di vita. Ma davvero il problema è una donna che fa l’amore con il proprio compagno? Tanti auguri e un abbraccio ai futuri genitori. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Detenuti e volontari insieme per l’ambiente. Quasi sei tonnellate di rifiuti raccolte in tutta Italia di Agnese Casoni lavoce-nuova.it, 28 ottobre 2025 Oltre cento detenuti in permesso premio hanno trascorso una giornata all’aperto dedicata all’ambiente e al riscatto sociale, affiancati da dodici affidati in prova al servizio sociale e più di 230 volontari, per ripulire parchi, spiagge e aree urbane in tredici città italiane. L’iniziativa ha portato alla raccolta complessiva di 5.580 chili di plastica e altri rifiuti, pari a quasi sei tonnellate. L’evento, promosso da Plastic Free Onlus - organizzazione impegnata nella lotta contro l’inquinamento da plastica - in collaborazione con Seconda Chance, associazione che favorisce il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, si è svolto nello scorso weekend a pochi mesi dal successo della precedente edizione di maggio. L’iniziativa ha unito due mondi solo in apparenza distanti: la tutela dell’ambiente e il reinserimento sociale. I partecipanti provenivano da quindici istituti penitenziari - tra cui Torino, Ivrea, Varese, Padova, Prato, Viterbo, Frosinone, Vasto, Teramo, Pescara, Secondigliano, Locri, Laureana di Borrello, Caltagirone e Cagliari - e hanno operato fianco a fianco con i volontari Plastic Free nelle rispettive città. L’appuntamento previsto a Marina di Massa, invece, è stato rinviato a causa del maltempo e sarà recuperato prossimamente. Ogni raccolta si è trasformata in un’occasione di incontro e fiducia, durante la quale cittadini e detenuti hanno condiviso gesti concreti di rispetto e solidarietà. L’ambiente ha assunto il ruolo di terreno neutro e inclusivo, capace di abbattere barriere, creare relazioni e generare cambiamenti reali e duraturi. Questo risultato si inserisce nel percorso avviato tre anni fa tra Plastic Free e Seconda Chance, sinergia che continua a rafforzarsi grazie alla collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, la Magistratura di Sorveglianza, i Comuni, le aziende di igiene urbana, le associazioni locali e centinaia di volontari in tutta Italia. L’iniziativa rappresenta un esempio concreto di come ecologia, legalità e inclusione sociale possano unirsi per costruire comunità più pulite, solidali e coese. Carriere separate: ora la magistratura “scende in campo” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 ottobre 2025 Le correnti si compattano e rivendicano il diritto di fare politica. Carofiglio, De Cataldo e Gratteri frontmen della campagna per il No. “Giusto dire No”: è intorno a questo slogan che l’Anm si compatta ufficialmente in vista dell’appuntamento referendario della prossima primavera. Domani al Senato inizia la discussione sulla riforma Nordio e giovedì il voto finale. Ma intanto i magistrati affilano le armi e escono uniti dall’assemblea di sabato, convinti di poter vincere la partita, puntando nella comunicazione all’attacco e a non a pararsi dalle accuse. “Basta difenderci soltanto - ha detto il presidente Cesare Parodi - raccontiamo a tutti quello che la magistratura italiana ha fatto per la società in questi anni, non soltanto ovviamente come sarebbe difficile negare per il terrorismo e per la mafia ma a tutela della salute delle famiglie, dei bambini, della dignità delle persone, dei lavoratori dell’ambiente”. Il segretario Rocco Maruotti è stato invece applaudito quando richiamando la disiscrizione dall’Anm di Nino di Matteo ha detto che “la miglior risposta è arrivata con tanti giovani magistrati che si sono iscritti per essere presenti in questa assemblea”. Dibattendo poi sulle critiche continue che la magistratura sta ricevendo in questi mesi - “ci hanno detto che siamo dei killer e stiamo aspettando le scuse invano” - Maruotti ha concluso: “Il passo dalla delegittimazione all’azione violenta rischia di essere breve, come accaduto a Ranucci”. Insomma le toghe lanciano un pericoloso allarme. Replicando indirettamente all’avvocatura il vice segretario Stefano Celli poi ha precisato come proprio lo statuto dei lavoratori “all’articolo 27 prevede che le realtà sindacali possano riunirsi nelle sedi dove lavorano”. Ma i veri protagonisti sono state prime donne come Nicola Gratteri, Gianrico Carofiglio e Giancarlo De Cataldo, intervenuti in assemblea a dare consigli sulla comunicazione. Secondo il primo “basta fare convegni con avvocati e professori. Non perdete tempo a parlare con 150 persone. Andate dappertutto, nelle università, nella società civile. Io mi sveglio al mattino e ho sei giornali contro. Voi nessuno” a sostenere la causa. “E allora andate tra la gente a spiegare con i 400 vocaboli che conoscono” la contrarietà alla riforma. Per il secondo invece sarebbe proficuo “raccontare storie in cui i cittadini si possono immedesimare” allontanando il tema della possibile sottoposizione del pm all’Esecutivo in quanto “è un argomento a cui si può facilmente controbattere”. Su quest’ultimo punto si è trovato in disaccordo De Cataldo invece. Ma la standing ovation si è avuta per Sigfrido Ranucci, che si è presentato a sorpresa perché non invitato ufficialmente dai vertici bensì, sembrerebbe, da Celli. Il clima è comunque positivo tra le toghe e non si lasciano spaventare dai sondaggi che darebbero i Sì vittoriosi con ampio margine, perché le loro rivelazione interne sono diverse. E la volontà di tutti è quella dell’unità tra tutte le correnti. Persino un moderato di Mi come Gerardo Giuliano è arrivato a dire “ciascuna corrente abbassi la sua bandiera e alzi quella dell’Anm”. Mentre la presidente di Md, Silvia Albano, ha invitato “ad andare per strada fare i banchetti e raccogliere le firme per chiedere il referendum: questo è fondamentale perché ci permetterebbe di stare tra la gente. Se non facciamo questo non lo vinciamo il referendum”. Alcune crepe sono poi però emerse nella riunione del “parlamentino” dell’Anm di domenica e dopo la lettura dei giornali. Innanzitutto durante il Cdc Antonio D’Amato di Magistratura indipendente ha detto che “rispetto all’intervento a sorpresa dell’ottimo Sigfrido Ranucci che è venuto a portare la sua testimonianza - per carità va benissimo - dobbiamo porci un problema di metodo: che cosa succederà se si presentano ospiti indesiderati a nostre manifestazioni aperte?”. Se D’Amato voleva evitare che il suo intervento “fosse strumentalizzato”, in realtà molti dei suoi colleghi in Cdc ci riferiscono che non l’hanno gradito perché hanno avuto l’impressione di una “excusatio non petita” nei confronti del giornalista di Rai3, la cui presenza non gli sarebbe stata gradita. Poi diversi magistrati si sono svegliati leggendo le parole di Parodi su Berlusconi. Persecuzione? “Se è avvenuto è qualcosa che io assolutamente condanno” ha risposto Parodi ad un giornalista di Omnibus. “Ma che sta facendo?”, “Sta dicendo per caso che Berlusconi è stato perseguitato?”, mugugna qualche suo collega che non esclude che nel prossimo Cdc quando si discuterà del punto all’odg riguardante “riflessione su esternazioni rappresentative dell’Anm e modalità espositive” non sarà trattato solo l’affaire Maruotti per il suo scivolone verso i consiglieri del Csm ma anche questa uscita del presidente Parodi. Sempre durante il Cdc un altro punto è stato discusso spegnendo i microfoni di Radio Radicale. “Si tratta di una scelta politica rilevante”, qualcuno penserebbe tattica: ha giustificato così Maruotti la decisione di stare a porte chiuse per parlare di se e dove organizzare il prossimo congresso. Forse alla fine si terrà solo una assemblea, più snella da metter su prima dell’appuntamento referendario. Ma questo non è piaciuto al gruppo dei CentoUno. Natalia Ceccarelli ha abbandonato per protesta la seduta “perché ormai attaccano e staccano i microfoni a loro piacimento. Per me è una violazione del regolamento”. Ma già in assemblea c’era stato un diverbio. Andrea Reale e Ceccarelli avevano chiesto di mettere a verbale un documento in cui si dicevano contrari alla separazione ma favorevoli al sorteggio “ma la presidente di seduta ha ritenuto inammissibile questa allegazione, perché non era una mozione e l’ha estromessa - ha detto Reale - Inoltre, non è stata consentita, da parte nostra, una dichiarazione di voto contrario contro il documento unitario di tutte le correnti, nel quale non hanno neanche provato a coinvolgerci”. La strategia di Meloni in vista del referendum sulla giustizia di Carmelo Caruso Il Foglio, 28 ottobre 2025 L’ex avvocato di Tortora, volti noti del garantismo, puntare sul “costo” della mala giustizia. Si prepara la campagna della destra in vista del referendum. il più temuto dall’altra parte è Gratteri. Cassese: “Non è una gara su Meloni. La sinistra avrebbe bisogno di quarant’anni con lei a Palazzo Chigi”. Meloni vuole giustizia e la vuole nuova. Separa le carriere dei magistrati e si unisce con Marina Berlusconi. Il nuovo Landini è Nicola Gratteri. Ecco come Meloni vuole vincere il referendum sulla giustizia. La strategia prevede di coinvolgere volti popolari: da Gaia Tortora a Gian Domenico Caiazza, da Giuseppe Cruciani a Daniele Capezzone passando per avvocati come Raffaele Della Valle. La missione è trasformare il referendum nella festa della giustizia, nel sogno, pienamente realizzato, di Giuliano Vassalli. Sta per iniziare la campagna della destra, la campagna che deve portare il governo a vincere il referendum sulla giustizia. È convinzione, anche a sinistra, che chi vince il referendum ipoteca la vittoria alle prossime elezioni. Oggi FdI si riunisce per studiare tappe e slogan. Il grande giorno è giovedì quando il ddl sulla separazione delle carriere verrà approvato al Senato. È l’ultima lettura e il Pd farà ostruzionismo. Prenderanno la parola tutti i senatori dem e come anticipato da Francesco Boccia si parlerà di “pieni poteri di Meloni”, di minaccia per la Carta. Dopo il voto, Meloni intende convocare una riunione a Palazzo Chigi, stendere personalmente la strategia. La premier è rimasta colpita, piacevolmente, dall’intervento di Marina Berlusconi sul Giornale. La figlia del Cav. ha parlato dei due volti della giustizia, di “luna nera”, ha difeso, ancora, e con passione, il padre, i lunghi anni per avere una sentenza definitiva. Per Meloni significa che “Mediaset farà la sua parte” e che la Cavaliera svolgerà un ruolo attivo nella campagna, mettendo a riparo la stessa premier. Meloni non vuole fare passare il referendum come un sondaggio sul suo governo. Si sta ragionando su una campagna che non deve avere il tono minaccioso, come chiede il ministro Carlo Nordio, “né punizioni, né umiliazioni”, ma rivelarsi un lungo elenco, puntuale, sulla giustizia guasta. Tra i temi da illuminare c’è l’irragionevole durata del processo, le ingiuste detenzioni, le valutazioni positive dell’operato che gli stessi magistrati si auto assegnano. Per FdI è sufficiente “indicare casi come quelli di Elvo Zornitta o Garlasco”, indagini che hanno paralizzato imprese e settori economici. Non si esclude, anzi, si tenterà di coinvolgere, anche solo come forma di racconto, Alberto Stasi. Dopo l’approvazione della riforma, la destra chiederà di indire il referendum. Si sta ancora valutando se farlo attraverso cinque regioni o attraverso un quinto dei membri della Camera. Si riparte dalla responsabilità civile dei magistrati, la legge Vassalli. Il referendum per Meloni deve limitarsi alla domanda semplice “vi piace la giustizia così com’è?”, deve spiegare che finora nessun magistrato ha realmente pagato, a eccezione di una toga salernitana che nel 2018 ha versato diecimila euro per un suo errore. Il messaggio da veicolare deve essere limpido. Anche se la riforma si occupa di aspetti tecnici, come la separazione delle carriere, la campagna verterà “su quanto costa la mala giustizia”. In tutte le professioni, a eccezione dei magistrati, “chi sbaglia, paga”, ma con i magistrati, pensa il governo, “loro sbagliano e tu paghi”. Sabino Cassese, ex giudice della Corte Costituzionale, ha già offerto consigli ma non vuole essere coinvolto in una campagna a favore della riforma. E’ di Cassese l’opinione che il referendum non debba diventare una gara su Meloni, così com’è di Cassese lo sconforto verso l’attuale sinistra e verso Landini che Cassese chiama “il genio”. A una cena fra amici, Cassese ha dichiarato: “Meloni deve restare altri 40 anni al governo per il bene della sinistra. Con Meloni altri quarant’anni, l’attuale sinistra finisce e si potrà ricostruire un pensiero di sinistra. Credetemi, alla sinistra servono quarant’anni di Meloni”. Per semplificare il messaggio, il governo vuole avere come testimonial o Gaia Tortora (nel 2026 uscirà la serie evento di Marco Bellocchio sul padre Enzo Tortora) o l’avvocato che lo ha difeso, Raffaele Della Valle. Altra figura che può sposare il referendum è Giuseppe Cruciani con il partito de “La Zanzara”. È prevedibile chi monopolizzerà la campagna contro la separazione delle carriere. La destra è convinta che sarà Nicola Gratteri, la toga che si è sempre dichiarata contro la separazione delle carriere (ma favorevole al sistema del sorteggio dei componenti del Csm). Una delle battaglie che porterà avanti il governo riguarda l’articolo 98 che i “magistrati di fatti infrangono costantemente”. È l’articolo che impedisce a magistrati, militari, diplomatici di iscriversi a partiti politici. Secondo la destra viene “rispettato, di fatto, solo dai militari ma usurpato dalle toghe” che fanno politica senza bisogno di iscriversi ai partiti. Sta per arrivare la nuova giustizia di Meloni ed è la luna nera della sinistra. Io, garantista, dico: sulla riforma della giustizia ho qualche dubbio di Giorgio Gori* Il Dubbio, 28 ottobre 2025 Considero un fatto positivo che pm e giudici condividano la stessa cultura giuridica. Mi sono fatto un’opinione sul tema della separazione delle carriere dei magistrati, principale oggetto della riforma della giustizia recentemente approvata dal Parlamento e oggetto di consultazione referendaria nella prossima primavera. Desidero condividerla con i lettori de Il Dubbio e lo faccio in modo schematico, sperando che questo non nuoccia alla comprensione degli argomenti che sinteticamente provo ad esporre. Considero, da garantista, prioritario l’obiettivo di dare piena realizzazione all’articolo 111 della Costituzione, e so bene che il tema della separazione delle carriere ha storicamente rappresentato un “cavallo di battaglia” del mondo liberale. Io stesso, fino a qualche anno fa, ho dato il mio parere favorevole a una riforma in tal senso e ho anche firmato per il referendum. Tuttavia: 1. Credo che la riforma Cartabia abbia nel frattempo già fatto il grosso del lavoro, limitando ad uno i possibili passaggi da una funzione all’altra, purché all’inizio della carriera e prescrivendo il trasferimento in altra regione; 2. i passaggi sono già oggi rarissimi: negli ultimi cinque anni - quindi anche prima della legge Cartabia - solo lo 0,83% dei pm ha chiesto il passaggio a giudice e lo 0,33% da giudice a pm; 3. mi chiedo se davvero la “non separazione” - ciò che ne residua dopo la riforma Cartabia - rappresenti oggi un effettivo ostacolo al perseguimento dell’obiettivo costituzionale. Se cioè la condivisione del percorso formativo e del CSM, oltre a quell’unico passaggio di funzione che la norma oggi consente, ponga davvero pubblici ministeri e giudici in una condizione di promiscuità tale da alterare le condizioni di parità tra accusa e difesa di fronte al giudice, a danno dell’imputato; se la risposta fosse “sì”, mi chiedo se la totale separazione delle carriere prevista dalla riforma sarebbe allora sufficiente al ripristino dell’auspicato equilibrio tra le parti, o se il contrasto della “pericolosa contiguità” tra i due ruoli non dovrebbe estendersi alla separazione delle sedi di lavoro, degli esercizi pubblici frequentati dagli uni e dagli altri, ecc. 4. in realtà, l’abnorme differenza tra le richieste delle procure e le decisioni dei giudici (64% di archiviazioni, 60% di assoluzioni per i casi che arrivano a processo) parrebbe segnalare una significativa indipendenza della funzione giudicante, già oggi; 5. considero un fatto positivo - da non cancellare - che pm e giudici condividano la stessa cultura giuridica, e che i pm non si formino in una prospettiva esclusivamente accusatoria; 6. l’obiettivo che a mio parere andrebbe perseguito è piuttosto quello di una maggiore responsabilizzazione dei pm, a tutela della presunzione di innocenza e dell’auspicata parità tra accusa e difesa; la riforma non mi pare andare in questa direzione, anzi: vedo il rischio che la postura esclusivamente accusatoria delle procure possa essere rafforzata dalla “corporativizzazione” del ruolo, sottratto ad ogni controllo e sempre più saldato a quello della polizia giudiziaria. Penso quindi che potrebbero essere altre, e non questa, le battaglie per limitare le carcerazioni preventive, per evitare i processi mediatici, ed avere cioè una giustizia più aderente ad un altro articolo della Costituzione, il 48; quindi una giustizia più giusta, oltre che più efficiente. *Europarlamentare Partito Democratico “Riforma per un sistema più giusto. La magistratura resterà indipendente” di Valentina Pigliautile Il Messaggero, 28 ottobre 2025 Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, giovedì il via libera finale alla separazione delle carriere. La riforma darà davvero maggiore autonomia alla magistratura? “La riforma è di vitale interesse per rendere l’Italia un paese normale e in linea con gli altri stati europei, che hanno fatto proprio il rito accusatorio e prevedono, infatti, carriere separate tra chi accusa e chi giudica”. La riforma Cartabia, attualmente in vigore, prevede un solo cambio in corso di carriera per i magistrati. Questo non incide già sulle correnti? “Chi lo dice è o ignorante o fa finta di non conoscere la norma. Il problema non è il cambio di ruoli, ormai impossibile dopo i primi nove anni di carriera, ma l’intreccio perverso che, nell’unico Csm nominato attraverso le correnti, porta allo scambio di favori. Questo è ciò che inquina il sistema giustizia in Italia”. Quindi chi parla del rischio che i pm siano maggiormente esposti al potere esecutivo sbaglia? “Anche qui, chi lo dice è in perfetta malafede e non ha letto il nuovo articolo 104 della Costituzione, che recita: “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composto da magistrati della carriera requirente e giudicante”“. Due Csm distinti, uno per i giudici e uno per i pm, non si portano dietro anche più burocrazia e minor efficienza? “Il tema dell’efficienza non centra nulla con la materia referendaria, si affronta con altre norme di cui in parte il ministro Nordio si sta occupando e si è occupato in passato. E poi nulla vieta che l’attuale burocrazia venga divisa, spartendo anche il personale. Non mi pare questo il problema. Qui è una questione di applicare la normativa europea anche in Italia”. L’Alta corte, chiamata a svolgere compiti disciplinari, sarà invece composta sia da magistrati requirenti che da giudicanti. Non è un controsenso? “No assolutamente, anche se, per quanto mi riguarda, ho proposto una doppia Alta Corte quando sono stato audito alla Camera. C’è anche da dire che ad oggi questo organismo, chiamato a occuparsi di provvedimenti disciplinari, non esiste e noi non l’abbiamo mai sperimentato. Non mi sembra un elemento decisivo”. Il segretario dell’Anm, Cesare Parodi, ha preannunciato una battaglia “a difesa di valori costituzionali nei quali crediamo e che questa riforma altera”. La riforma rema contro la Costituzione? “Finora - ad esempio citando l’articolo 104 - io ho parlato di valori costituzionali. Non capisco di quali valori parli Parodi, ce li dica. Più che fare affermazioni generaliste, parliamo di norme e di quello che c’è scritto nella riforma: su quello siamo pronti al confronto. Ma aggiungo anche un altro punto”. Prego... “Mi sembra strano che l’Anm, che è un sindacato, si costituisca come controparte del Parlamento. Questa non è una riforma del governo, ma del Parlamento, che l’ha approvata anche con l’appoggio di alcuni partiti di opposizione”. Nei prossimi giorni, alla Camera, la Fondazione Einaudi lancerà il Comitato per il Sì alla riforma, presieduto da Gian Domenico Caiazza. Come imposterete la campagna per il referendum? “Sulla logica della verità. Controbatteremo una serie di falsità e lo faremo perché non dobbiamo difendere nessun potere, dobbiamo dire le cose esattamente come stanno”. Anche Marina Berlusconi si è schierata a favore della riforma. Ha apprezzato le sue parole? “Ho apprezzato quelle parole di Marina Berlusconi. Spero che le reti che fanno capo a Mediaset la finiscano con le trasmissioni “urlate” e comincino ad avere un approccio ragionato alla questione. In questi trent’anni abbiamo avuto tifosi per curve contrapposte e non funziona così”. Quando parla di trasmissioni urlate intende i talk? “Esattamente...” Teme che siano controproducenti? “Sì, proprio così. Io spero che il governo faccia un passo indietro e lasci fare campagna per il sì, non agli addetti ai lavori, ma ai cittadini. Non sarà un referendum pro o contro il governo, ma per chi vuole che dopo trent’anni dal caso Tortora si arrivi a una giustizia giusta, che tanto ha invocato Marco Pannella”. Oltre all’Anm, anche i principali partiti scenderanno in campo con dei propri comitati. Questo non è un problema? “I comitati sono previsti dalla Costituzione. Secondo me, i partiti che vogliono farli, sbagliano, ma ognuno - sia partiti che Anm - sono liberi di sostenere le proprie tesi con serenità. Ognuno si misurerà con la qualità del proprio comitato: il nostro sarà costituito da intellettuali di area liberale. Ma non mi si venga a dire che questa riforma manda in crisi la democrazia o è un colpo di stato”. Separazione delle carriere: una riforma coerente col modello accusatorio di Gaetano Insolera Il Dubbio, 28 ottobre 2025 Di seguito un estratto dell’intervento di Gaetano Insolera, Professore dell’Alma mater studiorum- Università di Bologna, tratto dal volume “Modelli processuali e pubblica accusa Una separazione delle carriere?” (Mimesis Editore) in cui vengono raccolti scritti anche di studiosi di filosofia del diritto, Alessio Lo Giudice e Bruno Montanari, di diritto civile, Mario Barcellona, di diritto pubblico, Felice Giuffrè, anche componente del Csm, come il magistrato Antonello Cosentino, e magistrati in servizio presso la Corte di Cassazione, Angelo Costanzo e Tomaso Epidendio. L’idea di una separazione tra magistrati requirenti e giudicanti si è concretizzata nel disegno di legge di riforma costituzionale ormai prossimo alla conclusione dell’iter parlamentare. Sulla sua necessità per garantire un processo veramente accusatorio si era espressa da tempo la migliore cultura penalistica. Sui contenuti del testo, identificato col nome di Carlo Nordio, ministro della Giustizia, si sono colte, fin dalla sua presentazione, varie opinioni e giudizi diversi. Si segnala la granitica opposizione della magistratura organizzata e quella dell’attuale opposizione politica. Condivido la conclusione di Carlo Guarnieri, autorevole studioso di sistemi giudiziari comparati: “il progetto Nordio è forse il tentativo più ambizioso - almeno fino ad oggi - di riformare l’assetto della nostra magistratura per affrontarne le disfunzioni”. Le parole chiave stanno nel relativismo temporale “almeno fino a oggi” e in “tentativo”. L’effetto più visibile del testo - in sé prudente e con tante incertezze rimesse al tempo della sua sperimentazione - è stato quello di dare piena luce a una tetragona, e tutta politica, opposizione della Anm e delle correnti anche in questo caso, e ancora una volta, in nome della immutabilità della “Costituzione più bella del mondo”. Ecco lo slogan ormai ricorrente, da parte sia dell’opposizione politica, sia della magistratura organizzata: la Costituzione è sotto attacco. Ho scelto di parlare di conquista dell’accusatorio, anziché di riconquista. Certo fu coraggiosa la riforma dell’ 89 in nome delle garanzie dell’accusatorio e di un diritto penale liberale. Seguì in breve tempo il suo smantellamento con un contributo decisivo del maggioritario schieramento della magistratura: è storia nota. La Corte costituzionale, d’altra parte, giocò “di sponda”. Un tabù restò quella del reclutamento, della formazione e, in definitiva, della legittimazione indistinta dei magistrati: nonostante l’adozione dell’accusatorio “sulla bocca”, il modello burocratico di reclutamento indifferenziato quanto alle funzioni, restò “nel cuore” e trovò difensori che vi colsero, quasi con orgoglio nazionalistico rispetto al mondo anglosassone, la migliore garanzia da una “contaminazione” della politica. È un racconto che si rafforzerà sempre più negli anni a seguire, sarà l’involucro teorico dello spostamento verso il giudiziario di poteri effettivi (e irresponsabili), via via sottratti, con l’etichetta di “diritto vivente”, al processo decisionale democratico descritto dalla Costituzione vigente. In parallelo la preponderanza di fatto dei poteri delle Procure. Occorre però chiedersi anche come interagiscano i diversi sistemi processuali inquisitorio, accusatorio, misto - con un’istanza sociale innegabile di verità attesa dal processo. Condivisibile l’opinione del processualista Ferrua, quando critica le tesi che propongono forme diverse di verità intendendo come verità formale quella prodotta in sede giudiziaria, rispetto a una sostanziale corrispondente alla verità esterna degli accadimenti del passato, oggetto dell’imputazione e della ricostruzione nel processo. Sulle orme dai tre modelli ipotizzati da Rawls, da scartare la giustizia procedurale pura che non contempla un criterio esterno per giudicare la bontà del risultato. Da escludere anche l’idea di una giustizia perfetta in base a un criterio esterno di verità che qualifica come giusto il risultato da offrire all’opinione pubblica. Da preferire la tesi che vuole la giustizia prodotta nel processo “imperfetta”, finalizzata al rispetto delle regole, ma che non è in grado di garantire sempre un risultato giusto. La separazione delle carriere nella riforma costituzionale che si avvia all’approvazione è un tentativo, da difendere, coerente con la prospettiva di un modello accusatorio e solo il tempo potrà consentire di conoscerne gli effetti reali. Ma ne cogliamo i limiti se consideriamo gli interessi sostanziali degli attori del processo e i corollari politici, sociali e antropologici che ne definiranno la reale natura accusatoria. Forse più utile interrogarsi in negativo: chiediamoci cosa non possa mancare a un processo accusatorio per definirlo tale. Nel conflitto tra accusa e diritti di libertà di chi dovrebbe essere presunto innocente, l’accusatore, grazie a percorsi di reclutamento burocratici e di carriera endogeni, già al momento delle scelte di indagine, come può non condividere l’anima di un giudice che dovrà decidere nel prosieguo? Istanze e scelte di politica criminale, a cominciare dalla individuazione delle priorità di trattazione e di allocazione delle risorse, possono restare nelle mani di un accusatore che condivide con i giudici il perimetro della irresponsabilità e della indipendenza interna? Tocchiamo così i nodi dell’obbligatorietà dell’azione penale e quello delle priorità di intervento. L’ obbligatorietà posta in Costituzione protetta dal made in Italy, è dogma e articolo di fede, come si sa non effettivo, ma intoccabile, della democrazia giudiziaria. Detenzione domiciliare concessa anche a causa delle carceri affollate di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2025 Anche il sovraffollamento carcerario rientra tra gli indici che possono fondare la concessione della detenzione domiciliare. Lo mette nero su bianco un’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino  la n. 3394 del 2025, con la quale è stata decisa la scarcerazione di un detenuto, colpito da patologie di gravita tale da non giustificare comunque, da sole considerate, la sospensione della detenzione. Per i giudici “l’attuale quadro di sovraffollamento delle strutture penitenziarie impone una doverosa riflessione rispetto alla necessita di protrarre lo stato di detenzione per soggetti affetti da serie patologie (ancorché adeguatamente monitorate e non in fase d’immediato peggioramento). Al riguardo, va osservato che la Direzione sanitaria della Casa circondariale di Torino - anche grazie alla professionalità e disponibilità del personale che vi presta servizio - è in grado di fare fronte, tempestivamente, alla gran parte delle problematiche sanitarie dei detenuti: ciò nonostante, è intuitivo come il regime detentivo possa cagionare un surplus di sofferenza e disagio in soggetti affetti da serie patologie”. Il Tribunale ha sottolineato così che ogni decisione di concessione della misura alternativa al carcere deve fondarsi su una valutazione individualizzata e in grado di tenere conto della specificità delle situazioni concrete, tenuto conto anche del tasso di sovraffollamento delle carceri, in molti istituto del tutto intollerabile. In questo senso, osserva l’ordinanza che “il Tribunale ritiene doveroso valutare, caso per caso, se le problematiche sanitarie di cui è affetto il detenuto - esaminate congiuntamente alla tipologia di reati commessi, alla risalenza nel tempo dei fatti, dell’entità della pena residua da espiare e alla pericolosità in concreto del condannato - possano giustificare un’interpretazione estensiva del disposto dell’articolo 47 ter comma 1 lettera c) dell’Ordinamento penitenziario conforme ai principi costituzionali di tutela della salute e umanità dell’esecuzione della pena”. Corrobora la lettura del Tribunale, anche il pieno assenso della Procura che, nell’articolato parere favorevole all’accoglimento dell’istanza esposto in udienza, ha ricordato come il magistrato, a prescindere dalle funzioni di pubblico ministero o di giudice, nel prendere una decisione è chiamato a bilanciare contrapposte esigenze “tenendo conto anche della realtà territoriale e del momento storico in cui opera”. Catanzaro. I detenuti denunciano: in 6 mesi 6 morti e cure negate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2025 Sei detenuti deceduti in sei mesi, tutti ufficialmente per arresto cardiaco. Farmaci che tardano 3- 4 giorni, visite mediche ridotte a una volta alla settimana e medici introvabili nelle ore notturne. È quello che emerge dalla denuncia sottoscritta all’unanimità dai detenuti della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro un documento che non lascia spazi a interpretazioni e che rappresenta, per loro stessa ammissione, il grido d’allarme di un intero istituto in crisi. La lettera, indirizzata al Presidente della Repubblica, ai ministri della Giustizia e della Salute, ai magistrati e alle autorità competenti, racconta di una struttura dove le negligenze mediche sono diventate ordinaria amministrazione. I detenuti non chiedono privilegi: chiedono il minimo, quelle condizioni di dignità e assistenza che dovrebbero essere scontate in qualsiasi istituzione pubblica. Cominciano dai numeri: le visite mediche interne, che dovrebbero essere garantite su richiesta, sono state ridotte a una sola alla settimana. Quando accade, perché spesso non accade. La carenza di personale medico comporta il rinvio costante da una settimana all’altra, con tempi di attesa che si allungano da 14 a 21 giorni per ottenere una semplice prescrizione di tachipirina. In emergenza, la situazione peggiora: quando un detenuto accusa un malore, trovare un dottore diventa quasi impossibile. Se arriva, lo fa a distanza di ore. Se non arriva, il detenuto resta solo con il suo dolore. Il documento evidenzia un paradosso: sulla carta esiste un centro clinico H24. Sulla carta. Perché dalle 20 alle 8 del mattino, per dodici ore ogni notte, nessun medico è fisicamente presente in carcere. Gli infermieri si arrangiavano come potevano, oppure attendono la guardia medica, che impiega dai 45 minuti a oltre un’ora per arrivare. Dall’insediamento del nuovo Direttore Sanitario, sempre secondo la denuncia, una nuova regola ha trasformato ogni medicina, perfino quelle più banali, in un’odissea burocratica. La tachipirina, il malox, l’enterogelmina: anche questi farmaci comuni ora richiedono una prescrizione medica. Che arriva in ritardo. E quando finalmente arriva, il farmaco viene consegnato con un ulteriore ritardo di 3- 4 giorni. Il risultato è prevedibile: un detenuto con febbre o dolori resta senza cure per settimane, aspettando una ricetta che tarda e un medicinale che non arriva. Stando alla denuncia rivolta alle autorità competenti, sarebbero stati eliminato gli assistenti alla persona, i “piantoni”, figure retribuite e gestite da detenuti stessi. Sarebbero stati sostituiti con 3- 4 operatori socio- sanitari dell’Asp di Catanzaro, per una popolazione carceraria di oltre seicento persone. La matematica è spietata: è insufficiente. Di conseguenza, detenuti con gravi patologie, che necessitano di assistenza continua e specifica, sarebbero stati allocati nelle sezioni ordinarie come fossero persone in condizioni normali di salute. Violano questo gli articoli 3, 27 e 32 della Costituzione, scrivono i detenuti. Esiste un solo reparto clinico dedicato ai malati, con undici posti. Sempre pieni. Recentemente è stato allestito un reparto semi- clinico al primo piano, un’idea potenzialmente interessante. Ma la struttura che lo ospita è vecchia, fatiscente, inadatta. I detenuti malati che ci vengono allocati affrontano quotidianamente lo stesso problema: mancanza di acqua calda nelle camere. Camere troppo piccole, non idonee per chi è disabile o ha difficoltà di movimento. Infissi che non reggono agli agenti atmosferici. Docce comuni a orari prestabiliti, senza passerelle per disabili. Un solo lavandino interno per tutte le necessità. E il regime detentivo prevede celle chiuse, senza la possibilità di apertura che esiste in altre sezioni: questi malati trascorrono la maggior parte delle giornate rinchiusi, con come unica alternativa le ore d’aria che, per le loro condizioni di salute, spesso devono declinare. Eppure la direzione sanitaria, stando alla denuncia, avrebbe ripetutamente certificato la compatibilità della detenzione inframuraria per pazienti che avrebbero dovuto stare in ospedale. Malati con problemi cardiaci, oncologici, obesi in modo critico, paraplegici, disabili gravi: la direzione avrebbe assunto la responsabilità della loro gestione interna, nonostante il centro clinico del carcere manchi degli strumenti e delle strutture necessarie. Il risultato è scontato: l’aggravamento delle loro patologie. Tra luglio 2024 e gennaio 2025, dentro le mura della “Ugo Caridi” sei uomini hanno smesso di respirare. Ufficialmente, tutti per lo stesso motivo: arresto cardiaco. I loro nomi sono stati registrati con questa causa, come se fosse sufficiente una diagnosi generica a spiegare tutto. Antonino Pugliese aveva circa 45 anni quando è morto. Aveva una famiglia che lo aspettava fuori: sono loro ad aver capito che qualcosa non tornava, che non bastava scrivere “arresto cardiaco” su un modulo. Hanno presentato denuncia. Le indagini sono ancora in corso. Fatmir Dulla ne aveva circa 57. Era di origine albanese. Mancavano pochi giorni alla sua scarcerazione, pochi giorni prima di tornare a casa. Se ne è andato dentro. Ivan Claudio Covelli aveva 42 anni e fino a pochi giorni prima lavorava fuori dal carcere. Era un detenuto che dimostrava di stare meglio, che poteva integrarsi in attività esterne. Poi è tornato. E non è più uscito. Damiano Ferraggine aveva 37 anni. È morto lo stesso giorno del suo ingresso. Il primo giorno. Nessuno ha avuto il tempo di conoscerlo veramente. Ivan Domenico Lauria era il più giovane: 28 anni soltanto. È deceduto in cella d’isolamento, lontano dagli altri. Sua madre è arrivata al punto di presentare denuncia, perché i punti chiari sulla sua morte erano pochi, troppo pochi. E poi Angelo Pino di circa 47 anni. Sei vite, sei fascicoli etichettati con la stessa causa. Sei certificati di morte redatti in sei mesi. I detenuti che hanno firmato la denuncia non dicono che l’arresto cardiaco non esista, che sia impossibile morire così in carcere. Dicono una cosa più semplice e più terribile: come è possibile che sei persone comunque giovani muoiano tutte nello stesso modo, nello stesso periodo, in circostanze che rimangono oscure? È stata data loro l’assistenza preventiva che avrebbe potuto evitare il peggio? Quando il malore si è presentato, qualcuno è corso in loro aiuto subito, o c’è stato un ritardo di ore, lo stesso ritardo di sempre? Nessuno è venuto a rispondere a queste domande, denunciano i detenuti. Dal 2025, i responsabili sanitari non risponderebbero alle richieste di certificati telematici per le pensioni, di documentazione per il rinnovo della patente, di relazioni sanitarie richieste dall’autorità giudiziaria. Le email indirizzate agli avvocati rimangono senza risposta. I colloqui orali, si legge sempre nella denuncia, sono praticamente impossibili: nonostante innumerevoli richieste formali negli ultimi due anni e mezzo, i detenuti non riescono a ottenere nemmeno un incontro per esporre i propri problemi. Quando i sorveglianti penitenziari vengono interrogati sulla reperibilità della direzione, la risposta è sempre la stessa: “Non c’è mai”, “Non effettua colloqui”, “Vi chiamerà a breve”. I detenuti della “Ugo Caridi” chiedono le dimissioni dei responsabili. Chiedono un accertamento sulla gestione della competente area sanitaria. Chiedono un intervento urgente dalle autorità competenti per garantire loro i diritti costituzionali e internazionali, quelli sanciti dall’articolo 3, 27 e 32 della Costituzione e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La lettera è sottoscritta all’unanimità. Non è una protesta di una frazione, non è il grido di chi vuole evitare la responsabilità dei propri reati. È il segnale d’allarme dei detenuti che, pur privati della libertà, chiedono semplicemente quella dignità umana che nessuno dovrebbe perdere, nemmeno dentro un carcere. Napoli. Era in carcere a Poggioreale, Konte Allhaje è morto di tubercolosi di Fabrizio Geremicca Il Manifesto, 28 ottobre 2025 Il ventisettenne gambiano è stato ricoverato al Cardarelli e poi al Cotugno ma non c’è stato nulla da fare. I compagni di cella: “Soffriva da tempo di dolori, tossiva e perdeva sangue dalla bocca”. Konte Allhaje, ventisettenne gambiano, era stato rinchiuso a Napoli nel reparto Salerno del carcere di Poggioreale un anno fa, ad ottobre 2024, per scontare una condanna per piccolo spaccio di stupefacenti. Ne è uscito il 30 settembre scorso per essere ricoverato al Cardarelli e poi essere trasferito il 3 ottobre al Cotugno, l’ospedale napoletano specializzato in malattie infettive. Lì è morto il 10 ottobre a causa di una grave forma di tubercolosi. La vicenda ha acceso ancora una volta i riflettori sul tema dell’adeguatezza e della tempestività dell’assistenza sanitaria per i detenuti. Aperta un’inchiesta da parte della procura per verificare se ci siano state omissioni e negligenze da parte di chi nel carcere avrebbe dovuto garantire che il detenuto fruisse dell’assistenza sanitaria. Sono state sequestrate le cartelle cliniche relative ai due ricoveri di Konte. Il caso è finito in parlamento, dove i senatori di Avs Peppe De Cristofaro, Ilaria Cucchi e Tino Magni hanno presentato un’interrogazione ai ministri Nordio e Schillaci. “Fino ai mesi estivi del 2025 - ricostruiscono - il detenuto svolgeva regolare attività lavorativa all’interno dell’istituto, circostanza che, di norma, presuppone una condotta regolare e affidabile. Nel corso dell’estate, tuttavia, Konte sarebbe stato sottoposto a un periodo di isolamento lungo circa un mese, al termine del quale le sue condizioni fisiche sarebbero apparse fortemente peggiorate (notevole dimagrimento, tosse persistente, stato di grave debilitazione)”. De Cristofaro, Cucchi e Magni scrivono: “Secondo quanto riferito da più fonti e nonostante le reiterate richieste di assistenza sanitaria, il detenuto non sarebbe stato visitato o curato tempestivamente e solo in una fase ormai avanzata della malattia sarebbe stato trasferito al Cardarelli e successivamente al Cotugno”. I tre parlamentari fanno anche riferimento a un’altra circostanza: “Risulterebbe che la notizia del decesso non sia stata comunicata tempestivamente ai familiari e agli operatori che lo seguivano”. Il 25 ottobre l’ex Opg Je so’ pazzo, Mediterranea Saving Humans, esponenti delle comunità dei migranti e altri hanno promosso un presidio davanti al carcere di Poggioreale. Hanno denunciato che il ragazzo aveva già chiesto di essere visitato nella medicheria del penitenziario il 30 luglio, ma che la sua richiesta non avrebbe avuto alcun riscontro. A Poggioreale sono presenti 2.149 detenuti per una capienza teorica massima di 1.600 posti, attualmente ridotta a 1.300 perché sono in corso lavori in uno dei padiglioni. Nel penitenziario, secondo i dati che ha fornito giorni fa Samuele Ciambriello, il garante dei detenuti in Campania, “dall’inizio dell’anno si sono verificati 2 suicidi, 25 tentativi di suicidio, 202 casi di autolesionismo, 3 decessi per cause da accertare e 9 per cause naturali”. Relativamente alla morte del giovane gambiano, Ciambriello riporta le testimonianze dei compagni di cella del ragazzo: “Soffriva da tempo di dolori, tossiva e perdeva sangue dalla bocca”. Torino. Carceri, ecco la “stanza dell’affettività”. Una volta al mese e solo col partner di Silvia Bacci rainews.it, 28 ottobre 2025 Tutto pronto al Lorusso e Cutugno, servirà per tutti i penitenziari della regione. Ma, dopo il caso della detenuta incinta a Vercelli, è polemica. La donna detenuta rimasta incinta nel carcere di Vercelli riaccende il dibattito sulla necessità di uno spazio per l’intimità nelle case circondariali. Spazio che proprio nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino dovrebbe essere aperto il 1° novembre. Casi come quello di Vercelli sono rari anche perché l’ordinamento penitenziario è ancora spesso fatto in modo da renderli quasi impossibili, qualche regola a Vercelli deve essere stata violata. Ieri la visita del provveditorato regionale per accertare le dinamiche dell’accaduto. Resta il tema, su quale si è espressa la Corte costituzionale che a gennaio 2024 ha dichiarato illegittimo il divieto all’amore e alla sessualità in carcere. Proprio dando seguito a questa sentenza nel padiglione E del carcere di Torino è stata istituita la “stanza dell’affettività”. Un locale con camera da letto, bagno e docce grande circa quindici metri quadri che verrà usata da ospiti delle carceri di tutto il distretto di Piemonte e Valle d’Aosta. L’incontro affettivo potrà accadere una volta al mese, solo con partner riconosciuti e senza controllo visivo. Esclusi i detenuti sanzionati e in regime di 41 bis mentre avranno la precedenza quelli che non beneficiano di permessi premio e chi deve espiare pene più lunghe. Per la nuova garante dei detenuti di Torino Diletta Berardinelli “le stanze dell’affettività non rappresentano un privilegio ma un diritto umano fondamentale riconosciuto dalle istituzioni europee”. Più critico il sindacato Osapp: “Il carcere è ridotto a una Disneyland”. Bologna. Lavoro: l’opportunità arriva dietro le sbarre, l’esperienza del carcere della Dozza Adnkronos, 28 ottobre 2025 Investire nella rieducazione dei detenuti, mettendo al centro formazione e lavoro. È l’obiettivo di un progetto di reinserimento sociale che il Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro sta portando avanti in tutta Italia attraverso diversi consigli provinciali dei professionisti, come quello di Bologna. “Noi a Bologna - racconta Pier Paolo Redaelli, presidente del Consiglio provinciale dell’ordine dei consulenti del lavoro di Bologna- seguiamo un’impresa sociale che si chiama ‘Fare Imprese in Dozza’. La Dozza è il carcere di Bologna e questa impresa è stata costituita da tre società che operano nel campo della costruzione delle macchine automatiche. E la novità di questo progetto è che è stato costruito all’interno del carcere, grazie all’amministrazione carceraria che ha dato in uso la palestra, un’officina meccanica. In quest’officina meccanica in questo momento operano come dipendenti assunti a tempo indeterminato 14 detenuti che sono stati selezionati e formati dalla ‘Fondazione Aldini Valeriani’, che è una fondazione che si ricollega all’Istituto tecnico ‘Aldini Valeriani’“, sottolinea. E in questi anni i risultati sul reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti sono arrivati. “Dal 2012 sono stati assunti 77 dipendenti proprio all’interno del carcere -sottolinea Redaelli- che ovviamente nel corso di questi anni hanno cessato la loro attività lavorativa perché sono stati scarcerati. Di queste 77 persone l’80% circa non ha più avuto recidiva, nel senso che oggi ha un lavoro stabile all’interno di questa impresa”, sottolinea Redaelli. E il presidente del consiglio provinciale dell’ordine dei consulenti di Bologna sottolinea come quindi “sia un progetto che funziona molto bene. È entrata a far parte di questa realtà la Granarolo latte, perché all’interno delle carceri della Dozza ci sono dei macchinari per produrre prodotti caseari, e quindi inizieranno questa nuova avventura”. “L’altra realtà che seguiamo -spiega Redaelli- è un’impresa sociale che si chiama ‘Siamo Qua’, ed è un’impresa per le detenute. Loro hanno realizzato all’interno del carcere che presso la sede della cooperativa sociale, un laboratorio di sartoria. Delle operaie formano all’interno del carcere queste detenute, che poi quando ottengono la semilibertà vengono trasferite appunto nella sede sociale della coop. Le problematiche sono molte per queste detenute, perché ovviamente al termine del periodo di detenzione perdono la loro qualifica di svantaggiate e quindi si ritrovano nel mondo del lavoro”. “Molto spesso però in particolare per quelle extracomunitarie, senza permesso di soggiorno, farle entrare nel mondo del lavoro è sempre più complesso. Ecco perché noi stiamo cercando di portare avanti una richiesta di riforma della norma, proprio per dare la possibilità a questo persone svantaggiato di poter riprendere la propria attività lavorativa, la propria dignità”, conclude Redaellli. Vasto (Ch). Detenuti e volontari insieme per ripulire la spiaggia di Punta Penna dai rifiuti chietitoday.it, 28 ottobre 2025 Torna l’iniziativa di Plastic Free Onlus, l’organizzazione impegnata nel contrasto all’inquinamento da plastica, e Seconda Chance, associazione del Terzo Settore dedicata al reinserimento socio-lavorativo dei reclusi. Dopo il grande successo dell’iniziativa di maggio, che aveva visto oltre 400 partecipanti, tra cui 114 detenuti in permesso premio, rimuovere 3,7 tonnellate di plastica e rifiuti in 12 città italiane, Plastic Free Onlus, l’organizzazione impegnata nel contrasto all’inquinamento da plastica, e Seconda Chance, associazione del Terzo Settore dedicata al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, tornano a unire le forze per una nuova giornata di impegno condiviso tra ambiente e inclusione sociale. Sabato 25 ottobre, l’Abruzzo sarà protagonista con tre appuntamenti che coinvolgeranno detenuti provenienti dagli istituti penitenziari di Vasto, Pescara e Teramo. A Vasto, volontari e detenuti si ritroveranno sulla spiaggia di Punta Penna per un intervento organizzato in collaborazione con Pulchra Ambiente e la riserva naturale di Punta Aderci, con il patrocinio del Comune di Vasto. A Pescara, la giornata prenderà il via al giardino fluviale vicino al Ponte Flaiano, con una passeggiata ecologica lungo il fiume, patrocinata dal Comune di Pescara e dall’associazione Musica & Poesia Città di Pescara. A Teramo, infine, i volontari si ritroveranno al Centro di Educazione Ambientale - Giardino Gaetano Ruggieri, per un intervento con il supporto della Teramo Ambiente e il patrocinio del Comune di Teramo. Tre momenti distinti ma uniti dallo stesso obiettivo: costruire ponti tra ambiente, comunità e reinserimento sociale, offrendo ai detenuti un’occasione di riscatto e partecipazione attiva. “Dopo i risultati straordinari di maggio, abbiamo deciso di rimetterci subito in moto - spiega Flavia Filippi, presidente e fondatrice di Seconda Chance - Queste giornate non sono semplici azioni di pulizia, ma esperienze di comunità. Detenuti, volontari, educatori e cittadini si ritrovano insieme a condividere gesti concreti di rispetto e solidarietà. È così che il reinserimento diventa reale: attraverso la fiducia, la partecipazione e l’impegno condiviso”. Una visione che si integra pienamente con la missione di Plastic Free, come sottolinea Lorenzo Zitignani, direttore generale dell’organizzazione: “Le nostre giornate di pulizia ambientale nascono per sensibilizzare, ma anche per unire. Iniziative come questa dimostrano che l’associazionismo può essere un ponte tra mondi diversi, creando valore per l’ambiente e per le persone. Collaborare con Seconda Chance ci ricorda che cambiare è possibile, e che a far del bene non si sbaglia mai”. La mobilitazione del 25 ottobre rappresenta una nuova tappa del percorso comune avviato tre anni fa tra Plastic Free Onlus e Seconda Chance, che continua a crescere grazie alla collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, la magistratura di sorveglianza, i Comuni, le aziende di igiene urbana, le associazioni locali e i volontari di tutta Italia. L’obiettivo è sempre lo stesso: costruire comunità più pulite, solidali e inclusive. Teramo. Aumentano i detenuti-cantonieri: da 6 a 16 nel progetto promosso dalla Provincia Il Centro, 28 ottobre 2025 Aumenta il numero dei detenuti “stradini”. Nella seconda edizione dell’iniziativa promossa da Provincia, Bim, associazione “Uniti contro la droga”, direzione del carcere di Castrogno e Ufficio esecuzione penale esterna del ministero della Giustizia, passeranno da sei a sedici le persone che parteciperanno al progetto di reinserimento lavorativo. I detenuti per un giorno alla settimana saranno affiancati a cantonieri dell’amministrazione provinciale e impegnati in interventi di manutenzione stradale. Al termine del percorso della durata di un anno, i partecipanti all’iniziativa riceveranno la qualifica di stradino. I detenuti, selezionati in base ai criteri fissati dall’Ufficio esecuzioni penali esterne, usciranno dalle celle senza sorveglianza e saranno accompagnati solo da un tutor. “I risultati della prima edizione dell’iniziativa sono stati molto lunsighieri”, sottolinea il vice presidente della Provincia Renato Rasicci, “e per questo la direzione del carcere ha aumentato il numero dei detenuti inseriti nel programma”. Rasicci ha anche proposto la riattivazione del laboratorio di ceramica all’interno dell’istituto di Castrogno. Trento. “I libri liberano”, al via una raccolta fondi per la biblioteca del carcere vitatrentina.it, 28 ottobre 2025 A partire da oggi, lunedì 27 ottobre, e fino al prossimo 7 gennaio, è aperta la raccolta fondi intitolata “I libri liberano”, che prevede l’acquisto di cinquecento nuovi libri (dizionari, vocabolari, grammatiche, prontuari di conversazione, codici aggiornati, manualistica, narrativa, saggistica, fumetti e libri in lingue straniere) e dvd da destinare alla biblioteca della Casa circondariale di Trento. Alla campagna, promossa nell’ambito del progetto Liberi da dentro e finanziata anche grazie al bando “Cultura e sport per il sociale 2025” della Fondazione Caritro con il sostegno di Sparkasse per il Crowdfunding, hanno aderito più di sessanta biblioteche su tutto il territorio provinciale e venti librerie, dove sono disponibili i segnalibri e le indicazioni per donare. “Un’iniziativa molto bella, e di conseguenza non potevamo non sostenerla, per portare più libri, ma anche creare un collegamento tra la città e il suo carcere”, ha detto in conferenza stampa l’assessora Giulia Casonato, che ha ricordato la collaborazione del Comune di Trento con la Biblioteca del carcere. Ed è proprio questo l’obiettivo del progetto Liberi da dentro, nato nel 2018 per coinvolgere la cittadinanza in eventi e occasioni di incontro e scambio sul tema dell’esecuzione penale attraverso attività di carattere culturale, dentro e fuori dal carcere, nelle quali vengono coinvolte persone detenute, dimesse dal carcere e sottoposte a misure di comunità e volontari, oltre a tutta la cittadinanza, come ha spiegato la presidente di APAS Trento Maria Coviello: “La raccolta fondi che parte oggi ha coinvolto più di 60 biblioteche su tutto il territorio provinciale e 20 librerie. Da oggi è possibile offrire il proprio contributo collegandosi al sito Ideaginger.it”. “La cultura è uno strumento importantissimo per la rieducazione e la riabilitazione, ve lo dico da ex detenuto”, ha aggiunto Carlo Scaraglio, vicepresidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia - Trentino Alto Adige (CRVG-TAA). “Vogliamo fare in modo che il carcere aderisca il più possibile al suo mandato costituzionale, e per quanto possibile sia un ruolo di reinserimento, riabilitazione e occasioni per tornare in società. Ma la raccolta fondi è solo una delle diverse azioni previste per questo e il prossimo anno. Sono infatti in programma due edizioni della Biblioteca vivente. Una si svolgerà in carcere e coinvolgerà undici persone recluse che non hanno la possibilità di uscire, la cui formazione è iniziata a metà ottobre. A entrare in carcere per ascoltare i “libri umani” saranno alcune studentesse e alcuni studenti della facoltà di giurisprudenza. La seconda è in programma in primavera, in collaborazione con le Biblioteche comunali, a Trento, Rovereto, Riva del Garda e in Val di Fiemme. Come in una biblioteca tradizionale, anche nella Biblioteca vivente è possibile consultare libri su argomenti vari e “prendere in prestito” per un tempo stabilito un “libro umano”. I visitatori potranno così conversare a tu per tu in maniera informale con persone che nella quotidianità non avrebbero occasione di incontrare e che spesso sono oggetto di pregiudizi e discriminazioni. In questi incontri, saranno principalmente detenuti o ex detenuti. Per dare vita al progetto, sarà fatto un lavoro di coinvolgimento delle risorse umane: il personale della Casa circondariale di Trento sarà parte attiva della selezione dei detenuti da coinvolgere, mentre i volontari della rete, sostenuti nell’organizzazione dai collaboratori della Fondazione Franco Demarchi, si occuperanno della formazione e della realizzazione degli eventi. In collaborazione con alcune biblioteche trentine, nei gruppi di lettura verranno letti dei libri a tema carcere e organizzati incontri con l’autore. Alcuni di questi testi saranno letti anche dal gruppo di lettura nato all’interno della Casa circondariale di Trento, per permettere uno scambio di opinioni e riflessioni emerse nei diversi gruppi. E ancora, nel corso dell’anno scolastico sono in programma laboratori e incontri nelle scuole curati dall’associazione Dalla Viva Voce, che insieme al Coordinamento teatrale trentino realizzerà per gli studenti delle scuole superiori del territorio una rappresentazione cinematografica o teatrale sull’esecuzione penale. Sarà così possibile parlare di giustizia riparativa, informazione, carcere e dipendenze. Lecco. “Respiro. Giustizie in dialogo”: riflettere sul carcere tra condanna e riscatto primalecco.it, 28 ottobre 2025 Giovedì 30 ottobre al Palazzo delle Paure la presentazione del libro di Luisa Bove, con istituzioni, mediatori e operatori penitenziari a confronto sul sistema carcerario e la giustizia restaurativa. Giovedì 30 ottobre 2025 alle 20.45, al Palazzo delle Paure, si terrà l’incontro pubblico “Respiro. Giustizie in dialogo”, in occasione della presentazione del libro “Respiro. Il carcere oggi tra condanna e riscatto” di Luisa Bove, giornalista per la Diocesi Ambrosiana. L’evento, promosso da L’Innominato - tavolo lecchese per la giustizia restorativa e dall’Ambito territoriale di Lecco, in collaborazione con il Comune di Lecco, rappresenta un’importante occasione di riflessione sul sistema penitenziario a partire da un confronto tra le istituzioni, i servizi della giustizia e l’esperienza territoriale lecchese. “Continua il percorso di confronto del nostro territorio sulla tematica della giustizia - sottolinea l’assessore al Welfare del Comune di Lecco, Emanuele Manzoni - Un’attenzione che affonda le radici nell’importante cammino fatto dal tavolo lecchese dell’Innominato in questi anni. Un’esperienza che coniuga cittadini attivi, terzo settore, servizi e istituzioni e che è riuscita a far crescere sul nostro territorio competenze e consapevolezza rispetto alle connessioni che ci sono tra giustizia e comunità locale.” “Tutto ciò che assume evidenza penale è prima di tutto una lacerazione delle relazioni di fiducia in una comunità di persone che vivono un territorio. Ed è per questo che è utile un lavoro di mediazione per ricomporre quella ferita. È questo lo sguardo che abbiamo promosso in questi anni e che, al crescere della consapevolezza, permette di far crescere anche la sicurezza”, commenta l’assessore Emanuele Manzoni. Durante la serata, accanto all’autrice interverranno: Luigi Pagano, attuale garante dei diritti delle persone private della libertà di Milano, direttore di istituti penitenziari, provveditore regionale e vicecapo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; Bruna Dighera, del Tavolo lecchese per la giustizia restorativa, mediatrice esperta formatrice, psicologa e psicoterapeuta; Luisa Mattina, direttrice della casa circondariale di Lecco; Maria Trimarchi, direttrice ufficio esecuzione penale esterna Como-Lecco-Sondrio; Franco Lozza, giornalista, videomaker e socio dell’Innominato Aps. A moderare la serata sarà Lucio Farina, dell’L’Innominato Aps, direttore del centro di servizio per il volontariato Monza-Lecco-Sondrio Ets e garante dei diritti delle persone private della libertà di Lecco. L’incontro sarà preceduto, nel pomeriggio, da un momento di dialogo riservato tra i relatori e le persone detenute presso la casa circondariale di Lecco, a testimonianza dell’impegno concreto per un confronto e una migliore comprensione della realtà delle strutture penitenziarie. Bologna. “Vado al massimo”: il laboratorio che dà voce ai detenuti di Giulio Lolli bandieragialla.it, 28 ottobre 2025 Un evento dai risvolti unici si è svolto la scorsa settimana alla sala cinema del Carcere della Dozza in occasione del decennale della scomparsa del prof Massimo Pavarini, intellettuale, scrittore e docente presso l’Università di Bologna che ha dedicato il suo studio alla conoscenza e alla critica del sistema penale e penitenziario italiano, e del resto del mondo. Proponendo una sfida sullo stile di quelle lanciate da Massimo Pavarini, un suo ex allievo, il professor Davide Bertaccini assegnatario della cattedra di Diritto Penitenziario di Bologna, coadiuvato da due suoi ex studenti, la dottoressa Margherita Maestrelli e il dott. Lorenzo Mazza, ha deciso di dare voce comune a donne e uomini che la privazione della libertà la scontano sulla propria pelle, per far capire come prima o poi delle tante contraddizioni e ipocrisie, sofferenze e vergogne del nostro sistema punitivo se ne potrà fare a meno. La straordinarietà dell’evento, tuttavia, non si deve solamente alla delicatezza dei temi affrontati, a una platea gremitissima o alla presenza di ospiti di rilevo come la professoressa Sofia Ciuffoletti dell’Università di Firenze (autrice di vari articoli sulle condizioni della donna all’interno del carcere) e il prof. Giovanni Torrente dell’Università di Torino (coordinatore della rivista Antigone e che ha studiato il sistema carcerario anche dall’interno svolgendo per alcuni anni la professione di educatore penitenziario) ma dal fatto che la direttrice dr.ssa Rosa Alba Casella abbia concesso, con notevole coraggio anche istituzionale, di far incontrare e permettere di lavorare assieme detenute e detenuti. La preparazione - Un vero e proprio laboratorio culturale che nei dieci mesi di preparazione ha permesso l’incontro di saperi differenti sul controllo sociale e la giustizia penale, al quale il professor Bertaccini ha conferito il titolo canzonatorio di “Vado al Massimo”. Sebbene durante i primi mesi di letture ed elaborazioni detenute e detenuti non hanno potuto direttamente incontrarsi, l’unione finale dei propri elaborati sulle problematiche carcerarie è avvenuto assieme, miscelando virtuosamente le esperienze dirette vissute in diversi istituti penali italiani ed esteri con le letture scelte tra i libri che il prof Massimo Pavarini ha donato in eredità al carcere della Dozza. Il fondo Pavarini è costituito da oltre 3000 tomi che hanno permesso la creazione dell’omonima biblioteca, un luogo che si staglierebbe per la sua quiete e bellezza anche se non fosse collocato all’interno di un contenitore fatto di caos e bruttura. Dopo anni di oblio, la direttrice Rosa Alba Casella ha deciso di ridare vita alla biblioteca Pavarini, rendendola punto di studio per i detenuti che frequentano l’università, luogo di confronto con i docenti e tutor e sede per corsi, incontri con le istituzioni e laboratori culturali, accessibile anche ai visitatori esterni che, con le dovute procedure e cautele, ne vogliono studiare i rari volumi. Vari interventi - Ed è proprio grazie alle parole scritte su questi preziosi testi che le detenute e i detenuti hanno potuto esprimere con così grande intensità le proprie riflessioni, cominciate con il racconto di Hanane sulle difficoltà che incontrano le detenute straniere, e di quanto il sistema di infantilizzazione del detenuto e il metodo della “carota e del bastone” sia drammaticamente amplificato nelle sezioni femminili. Strumenti di controllo obsoleti che Pierloreto ha analizzato e criticato con profondità, chiarendo al pubblico le funzioni dell’educatore e di quanto le leggi non scritte degli attori del microcosmo carcerario, influenzino le vite dei ristretti. Vite spesso sprecate nell’ozio, come ha riflettuto Alessandra, la quale ha rimarcato la mancanza, soprattutto nelle sezioni femminili, di corsi professionalizzanti agganciati a un tirocinio che possano anticipare il contenuto di una futura misura cautelare. Ed è proprio la rieducazione il tema riportato da Igli, rimarcando che se per qualcuno, durante la carcerazione, il cambiamento in positivo avviene, per molti la detenzione provoca un mutamento pernicioso, sia morale che fisico. Elementi che evidenziano una sua personale posizione riformista, e non abolizionista, rispetto alle istituzioni penitenziarie. L’esperienza portata da Daniele ha, invece, sottolineato l’ipocrisia di un sistema che parla di rieducazione e reinserimento ma mantiene in vita la condanna al fine pena mai, una dicotomia di un’afflizione come l’ergastolo, che nega l’esistenza di se stesso con la motivazione meramente ipotetica della fruizione dei benefici penitenziari e della liberazione condizionale, che viene peraltro concessa con una media di due ergastolani all’anno. Elementi gravi in comune - Sempre rigorosamente strumentalizzati dalla politica e dalla stampa giustizialista, di cui ha parlato chi scrive per ricordare di come sia stata più volte causa di suicidio, autolesionismo e risentimento contro le istituzioni la totale discrezionalità che la legislazione regala a Magistrati di sorveglianza, educatori e direttori delle carceri. L’esperienza di ingiustizie e discriminazione subite e viste, mi hanno fatto riportare ad alta voce le parole espresse da Massimo Pavarini che nel suo Manifesto, redatto oltre 20 anni fa, le quali risuonano oggi più che mai attuali: “E allora, in favore del carcere non c’è difesa possibile, neppure la più radicale delle riforme impossibili. A chi sdegnato allontana lo sguardo dal supplizio, non resta che agire per abolire quel supplizio.” L’ultimo intervento - L’ultimo intervento è stato di Naomi e, sebbene tutte le donne hanno mostrato come la sensibilità del genere femminile sia una ricchezza sempre troppo trascurata, il suo ha colpito i presenti non solo per i temi trattati, ma per l’intensità emotiva che ha saputo trasmettere. Sovrapponendo le letture di Recluse di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa e La detenzione femminile tra uguaglianza e differenza di Sandra Rosetti alla sua esperienza di vita, Naomi ci ha raccontato dei conti che ha dovuto fare con uno Stato inefficiente, sia per mancanza di leggi sia per la mentalità maschilista e patriarcale di chi aveva il compito di tutelarla in quanto cittadina, e, poi, di come quello stesso Stato l’abbia giudicata e abbandonata in un carcere. Un luogo dove ha incontrato nuovamente quel sistema patriarcale che ha cercato di infantilizzarla, trattandola come una incapace nonostante abbia tirato su da sola una figlia splendida e mostrato capacità manageriali di assoluto rilievo, grazie alle quali si è trovata un lavoro che le permetterà a breve una meritata ripartenza. Conclusioni - Storie che sarebbero rimaste senza racconto se non ci fosse stata un’iniziativa che meriterebbe di essere riproposta, non solo per rendersi conto che nelle carceri esiste un’umanità e una cultura ben diversa e migliore di quella che ci racconta una classe politica che ha sostituito i libri con gli smartphone e il dibattito parlamentare con i post su Instagram, ma anche che il muro, non fatto di cemento ma di morale sessista e patriarcale che separa uomini e donne nelle carceri, può essere abbattuto. “Davanti allo specchio della prigione ho ritrovato il mio vero volto” di Giorgio Paolucci Avvenire, 28 ottobre 2025 La toccante testimonianza scritta di Nareto nel testo premiato al concorso per detenuti organizzato dalla Fondazione Società San Vincenzo de’ Paoli. Per le persone detenute la scrittura è una risorsa inestimabile. Strumento prezioso per rileggere il passato, prendere coscienza degli errori commessi e provare a metterli nero su bianco, fare i conti con il dolore procurato e con quello che divora l’anima, riannodare i fili spezzati dell’esistenza. Ed è anche un modo per dire a sé stessi e testimoniare alla società che l’uomo non è definito dal male compiuto, ma c’è sempre una possibilità di cominciare una nuova esistenza, già nel tempo della detenzione. Nei giorni scorsi il carcere Canton Mombello di Brescia ha ospitato la cerimonia di premiazione del premio letterario riservato ai detenuti promosso dalla Federazione Nazionale Italiana Società San Vincenzo de’ Paoli e intitolato alla memoria di Carlo Castelli (volontario vincenziano e promotore della Legge Gozzini), giunto alla diciottesima edizione. Il titolo di quest’anno mette in evidenza le dinamiche di cambiamento che possono nascere anche nel buio del carcere: “Mi specchio e (non) mi riconosco: non sono e non sarò il mio reato”. I tre vincitori hanno ricevuto un riconoscimento che si è tradotto in una doppia opportunità: una somma in denaro destinata al partecipante e una seconda somma che finanzia progetti di reinserimento sociale da realizzare in un carcere per adulti, in un istituto penale minorile e attraverso l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). “Ogni vincitore diventa così protagonista di un percorso che offre a un altro detenuto una concreta possibilità di riscatto - spiega Paola Da Ros, presidente della Federazione. I testi premiati e altri dieci lavori ritenuti meritevoli dalla giuria vengono raccolti in un’antologia distribuita in tutta Italia e allegata alla nostra rivista Le Conferenze di Ozanam”. Pubblichiamo di seguito ampi stralci di “L’amico riflesso”, uno dei tre racconti vincitori, in cui l’autore affronta un dialogo profondo con sé stesso, tra colpa, ferite e desiderio di rinascita. Specchio insopportabile e maledetto. Volgevo lo sguardo altrove pur di non vedere quella faccia riflessa che ogni mattina mostravi, ma tu, impietoso, mi affliggevi esibendo il volto di un detenuto. Un’immagine che generava rabbia e rancore, frustrazione e depressione. Silente e insistente, non concedevi sconti e attenuanti: “Sei tu, fattene una ragione”, parevi dirmi. Un tormento quotidiano a cui era impossibile fuggire. Un dito puntato che trafiggeva gli occhi e tormentava il cervello. Ti odiavo. Sono entrato in carcere poco convinto di aver commesso un reato, preferivo parlare di errore: potenza delle distorsioni mentali. I primi a non volerci credere sono stati i miei familiari, “impossibile tu abbia fatto ciò che sostengono i giudici” dicevano. E io con loro. Dopo trent’anni di lavoro, una moglie e un figlio magnifici, sono passato da incensurato a detenuto. “Lo sbaglio l’ho commesso, d’accordo, ma addirittura la galera no, questo no. Non sono un terrorista, un rapinatore e, tutto sommato, non ho ucciso nessuno” ripetevo a me stesso. Ma tu, specchio, non hai mollato la presa: “Basta trovare giustificazioni”. Disperato, mi sono arreso e ho accettato l’aiuto di un’équipe di esperti compiendo una scelta tormentata e sofferta. Mi spiegarono che avrei dovuto lavorare su istinti e pulsioni, elaborare criticamente l’accaduto, rileggere il mio vissuto con occhio differente, imparziale, accettando il confronto, l’analisi, la ricerca delle cause, toccando con mano le conseguenze delle mie azioni e le ferite arrecate, guardando in faccia la verità. “Proviamoci”, non potrà esser peggiore di quell’immagine che quotidianamente riflettevi, ormai divenuta insopportabile, capace di artigliarmi l’anima. Giorno dopo giorno sono emersi dall’oblio tratti e aspetti della personalità che inconsciamente preferivo non vedere, mantenere sepolti, nascondendoli al mondo ed a me stesso. (…) Come è accaduto? Come è stato possibile che non mi rendessi conto di ciò che stavo compiendo? Il vaso di Pandora era stato aperto. Ho ricostruito, condiviso, rivissuto l’accaduto con sofferenza e disagio, sincerità e lacrime, scoprendo nodi irrisolti, traumi non elaborati, modalità comportamentali, debolezze, limiti. Gradualmente ho iniziato ad ammettere e comprendere che quel viso rispecchiava realmente la persona capace di calpestare altri per ottenere ciò che voleva, pronto a tutto pur di ottenerla. (…). Ho vacillato, ho temuto di non farcela e proprio in quei tristi frangenti ho scoperto che non ero solo e potevo contare, nonostante tutto, sull’amore immeritato dei miei familiari, la vicinanza degli amici superstiti, il ritrovato conforto e sostegno della fede, riscoprendo le orme di Dio che camminava al mio fianco, accorgendomi che non se era mai andato. È emersa chiara la consapevolezza che chiedere aiuto non è segno di debolezza, bensì di forza (…). Un cammino impegnativo e a tratti doloroso, che mi ha trasformato da vagabondo in pellegrino, con una meta da raggiungere, imparando a convivere con il senso di colpa che ancora oggi toglie il respiro, accettandomi per ciò che sono. (…) Sai, specchio, ho scoperto che la speranza è più forte dei fatti: non li ignora, non li aggira, ma li attraversa, li contesta e talvolta li trasforma, ma è necessario guardarsi dentro, accettando con umiltà la mano di coloro che vogliono aiutarti nella risalita. L’avessi fatto prima, forse non sarei in carcere. Specchio, ancora oggi guardo l’immagine riflessa e non mi capacito di ciò che ho fatto. Eppure quella persona ero io. Sono io. Smagrito, qualche ruga in più, i capelli radi con fili d’argento ma, se ti limiti all’apparenza, sembrerei lo stesso uomo di anni fa. Sei ancora capace di farmi provare vergogna, senso di colpa e crisi di coscienza, perché non puoi sapere la trasformazione avvenuta dietro le sbarre. Sei un disco che ripete sempre la medesima musica, cambi solo l’arrangiamento. Ma non è così, te l’assicuro. Questo è il tuo limite. Non è colpa tua, sei un oggetto inanimato, ti limiti all’esteriorità. Il volto che oggi restituisci è, invece, quella di un uomo diverso, punito e detenuto, ma consapevole e rinato. Non temere, sei in buona compagnia, sei identico a molti che incontrerò da libero cittadino e già mi hanno impresso un marchio indelebile, ritenendomi un reietto, uno scarto sociale, un reato che cammina, capaci solo di giudicare, emettere l’ennesima sentenza. Forse inappellabile. Lo chiamano stigma. (…) Oggi, caro specchio, non ti odio più, anche se mi mostri una figura al contempo reale e virtuale, verosimile ma non autentica. Ora sono un uomo timoroso ma fiducioso, carico di desideri e speranze, rimorsi e rimpianti, aperto al futuro. Ho sostituito all’attesa inerme l’azione, alla fuga la responsabilità, ritrovando l’autostima, maturando la convinzione che la vita non è un mistero da risolvere, ma una sfida da vivere. Tutti i giorni. Stamattina mi sono fatto la barba e ho visto il mio viso segnato da anni di detenzione a tratti incivile e disumana, stipato in una cella sovraffollata ma intrisa di solitudine, con il drammatico ricordo di compagni di viaggio che hanno deciso di farla finita. Acqua passata, mi ripeto, ma non voglio ricadere nell’errore e nascondermi ciò che mi attenderà lasciandomi catturare dall’ottimismo ottuso. Sarà dura. Molto dura. Quasi sessantenne ed ex detenuto: un appestato. Come raccontare al mondo che è possibile concedere una seconda possibilità? Come far comprendere che sono fragile e custode di lacrime, prigioniero di mille limiti prima che colpevole? Non è il colpo di spugna sul passato, ma la volontà di provare a riallacciarmi le scarpe e ripartire senza aver sulle spalle uno zaino troppo pesante, che mi farebbe cadere. L’amore dei miei cari, la fede e le lettere degli amici infondono speranza. (…). Ce la farò? Ricominciare da zero, in una nuova città, tra volti sconosciuti, chiedendo un lavoro per ripartire, sapendo che sono, un ex galeotto, sinonimo di pericoloso, uno da cui stare alla larga. Davvero è lo scandalo della speranza. Ma l’alternativa sarebbe la resa e in troppi hanno deciso di rinunciare, di arrendersi allo sconforto, nell’indifferenza generale. Un silenzio assordante certo non beneaugurante. Io no. Ci voglio provare e affrontare la seconda vita a muso duro. So di potercela fare. Sai, specchio, ti faccio una confidenza: quando preparerò la borsa per uscire dal carcere non ti lascerò nella cella. Ti porterò con me. Un amico sincero, pur se virtuale, mi servirà. Nareto Le “Vite minori” dei ragazzi in carcere di Manuela Messina Il Giornale, 28 ottobre 2025 Le storie di Youssef Barsom, Willy Boy, F., tutti giovanissimi dietro le sbarre. Un libro-inchiesta della giornalista Raffaella Di Rosa racconta le loro esistenze “minori”. Dall’Egitto alla Libia, dov’è stato rinchiuso in un centro di detenzione. E poi, attraverso il mare su un barcone, in Italia, dove è arrivato legato mani e piedi. C’era anche Youssef Moktar Loka Barsom, ad appena 18 anni, finito in cella per piccole rapine, nelle carceri italiane già sovraffollate. Non ne è mai uscito. È morto soffocato a settembre 2024 dal fumo di un incendio divampato a San Vittore. Willy Boy ha 19 anni, una pistola tatuata sul braccio e una vita di piccoli reati fino a quando non è “approdato” nella comunità di Don Burgio, dove ha trovato ascolto e cura. F. tra poco farà 18 anni nel minorile di Catanzaro, dove è detenuto per aver partecipato al lancio di una bicicletta dai Murazzi del Po di Torino: ha colpito un giovane studente universitario di Palermo che resterà sulla sedia a rotelle per tutta la vita. Delle loro esistenze “minori” e di quella di molte altre parla la giornalista Raffaella Di Rosa nel suo libro da poco pubblicato dal titolo “Vite minori - Storie vere di ragazzi dietro le sbarre” (il Millimetro). Quindici capitoli che offrono al lettore una realtà scomoda: le carceri sono piene di giovanissimi non così diversi dai nostri figli e dai loro compagni di banco. Guardarla in faccia è una questione di umanità, ancora prima di civiltà. Nel lavoro di indagine del libro sono raccolte le testimonianze di chi è a sua volta “recluso” perché in carcere ci lavora: agenti della polizia penitenziaria, cappellani, educatori, infermieri. Alla presentazione, lunedì 27 ottobre alla Libreria Centofiori in piazzale Dateo a Milano, partecipa la ex presidente del tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto, il fratello di Youssef, Jorge Barsom, e Fabrizio “Otis” Bruno dell’associazione 232, che nell’istituto penale per minori “Cesare Beccaria” promuove i laboratori rap. “Amomamma” ovvero il carcere visto attraverso un tatuaggio garantedetenutilazio.it, 28 ottobre 2025 Il Garante Anastasìa è intervenuto alla presentazione del libro nel teatro di Rebibbia Nuovo complesso. “Le istituzioni totali tendono a uniformare le esperienze, la vita si deve uniformare a quella dell’istituzione, la personalità viene mortificata. Nel carcere, che è un’istituzione totale la prima necessità è quella di trovare modalità di espressione della propria personalità. Nella pena vi è un residuo di libertà che è l’espressione e il tatuaggio è una delle forme di coltivazione delle modalità di espressione”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, nel corso della presentazione del libro “Amomamma” che si è tenuta venerdì 24 ottobre nel Teatro della Casa circondariale di Rebibbia Nuovo complesso. Scrivere sulla propria pelle è una pratica che risale a migliaia di anni fa, si legge nella presentazione del libro nel sito dell’editore Meltemi, che così prosegue: “Il volume indaga le caratteristiche di comunicazione, autodeterminazione ed esercizio di libertà legate a questa pratica, mettendone in luce - grazie a una pluralità di punti di vista - le implicazioni all’interno degli istituti penitenziari. Immergendosi nel mondo carcerario, il testo spiega innanzitutto perché per i detenuti - che vivono in una condizione di vulnerabilità e senza adeguate tutele che garantiscano loro sicurezza fisica, psicologica, esistenziale e giuridica - il tatuaggio ha un così elevato valore simbolico: l’immagine stampata sul corpo è l’unica forma tangibile che non può essere sottratta ai privati della libertà. Dopo aver descritto le fonti normative, le tecniche, gli strumenti utilizzati e alcuni aspetti sanitari, il libro affronta la questione della clandestinità, che rende il tatuaggio in carcere molto pericoloso: la direzione verso cui dovrebbero lavorare le istituzioni è quella della ‘riduzione del danno’, sia fisico sia esistenziale. Amomamma invita dunque a riflettere su un fenomeno che riguarda la dignità umana e i diritti fondamentali dei detenuti, con l’ambizioso obiettivo di una convivenza sociale pacifica e inclusiva”. Gli autori Daniela Attili vive a Ventotene ed è una psicologa e psicoterapeuta a indirizzo antropologico esistenziale. È stata consulente del Ministero della Giustizia. Paola Bevere vive a Roma, dove esercita la professione di avvocato e di docente in Diritto dell’esecuzione penale e Diritto penitenziario presso l’Università LUMSA. Gabriele Donnini, tatuatore, vive a Roma ed è proprietario del Tattooing Demon Studio dal 1986. Regole condivise e fiducia nel futuro di Dacia Maraini Corriere della Sera, 28 ottobre 2025 Le idee per esistere hanno bisogno della ragione e la ragione è quella che ci permette di avvicinarci, in punta di piedi, calcolando il vicino e il lontano, alla realtà. Se abbandoniamo la ragione, cadiamo nel grande fosso dei sensi e delle emozioni dove ciascuno rivendica i suoi interessi e le sue necessità. Come si spiega che il linguaggio degli insulti e della denigrazione ha prevalso sul confronto delle idee? Perfino nel popolare gioco sportivo, quando uno dei contendenti perde una partita o un duello, va a dare la mano all’avversario. Si tratta di una prassi di civiltà. Perché non può avvenire nell’uso quotidiano, sia in politica che nei tanti praticati social? Dobbiamo pensare che la denigrazione dell’avversario avviene quando mancano le idee per un confronto alla pari? O perché si ritiene che la forza delle parole brutali e offensive sia più vicina alla potenza fisica? O ancora perché si pensa che il confronto sia un modo per legittimare l’avversario, mentre l’insulto e la denigrazione lo delegittimano? In un dialogo basato sull’offesa e la diffamazione ha la meglio chi è più sicuro di sé e più aggressivo. Si tratta di gettare a terra l’altro come avviene in una partita di boxe. Il pugno che meglio colpisce le parti sensibili è quello vincente. Ma dove vanno a finire le idee in tutto questo, nell’iperuranio platoniano? Ovvero in una bolla astratta che contiene e conserva lo spirito umano più vicino agli dei? Le idee per esistere hanno bisogno della ragione e la ragione è quella che ci permette di avvicinarci, in punta di piedi, calcolando il vicino e il lontano, alla realtà. Se abbandoniamo la ragione, cadiamo nel grande fosso dei sensi e delle emozioni dove ciascuno rivendica i suoi interessi e le sue necessità. È lecito pensare che sia proprio questa cultura che rifiuta la ragione e il confronto a scoraggiare dal voto i giovani? Se non esiste un sistema di valori e di ideali condivisi a cui fare riferimento, perché votare. Se la politica diventa scontro di potere, ovvero abbattimento dell’avversario, come capire dove sta il giusto e l’ingiusto, il vero e il non vero? Il voto non esprime il mio bisogno di giudicare in base a idee e ragioni, sembra dirsi il cittadino poco attento… io posso divertirmi a guardare, magari anche partecipare da tifoso allo scontro, ma la cosa non riguarda la mia vita quotidiana e la mia chiarezza su ciò che è giusto e ciò che non lo è. La misura del giusto e del non giusto ce la danno la ragione e la fiducia nelle regole. Per questo è importante costruire un sistema di regole condivise e puntare sulla fiducia nel futuro. Democrazia è in crisi, la responsabilità è anche comunitaria di Loris Serafini* Avvenire, 28 ottobre 2025 La sussidiarietà come risposta da sola non basta: dev’essere parte di un progetto di rinnovamento fondato su dignità della persona, lavoro e bene comune. L’intervento di Giorgio Vittadini sulla crisi della democrazia e sulla cultura della sussidiarietà, pubblicato su “Avvenire” lo scorso 14 ottobre coglie un punto decisivo: la stanchezza della democrazia nasce dal logoramento del legame tra libertà e giustizia sociale. Ma la sussidiarietà, da sola, non basta: dev’essere parte di un progetto politico e culturale di rinnovamento democratico, fondato sulla dignità della persona, sul valore del lavoro e sul bene comune. Oggi il vuoto più profondo non è solo istituzionale, ma culturale. I partiti hanno smarrito le radici ideali che li legavano alle grandi tradizioni di pensiero - liberale, socialista, cattolico-democratica - dissolvendo i riferimenti etici che davano senso alla vita pubblica. È nata una politica dell’immediatezza, che comunica senza pensare e decide senza ascoltare. Dove in Europa sopravvivono culture riformatrici, in Italia resta un vuoto ancora irrisolto, che alimenta personalismi e populismi. In questo spazio la sussidiarietà deve ritrovare una dimensione politica: restituire alle persone la coscienza di appartenere a una storia e di concorrere a un destino comune. Vedo nella sussidiarietà non una contrapposizione allo Stato, ma un principio di corresponsabilità. Essa nasce dagli articoli 2 e 3 della Costituzione: la persona nella rete delle relazioni e la Repubblica impegnata a rimuovere gli ostacoli alla libertà e all’uguaglianza. Una sussidiarietà separata dalla giustizia sociale maschera l’arretramento del pubblico; una sussidiarietà integrata, invece, rafforza la capacità pubblica e riconosce le comunità come partner del bene comune. La prossimità è fondamentale, ma non sufficiente. Le sfide globali - potere dei dati, crisi climatica, precarietà - non si governano solo dal basso. Serve una nuova architettura multilivello: comunità solidali, istituzioni pubbliche capaci e una dimensione europea che garantisca diritti globali. Senza questa scala integrata, la sussidiarietà resta un mosaico di esperienze virtuose ma impotenti. Non credo alla contrapposizione tra Stato e società civile. Serve uno Stato capace, non minimo: garante dei diritti universali - sanità, scuola, casa, lavoro dignitoso - e aperto alla cooperazione con le forze vive della società. Dove il pubblico arretra, la sussidiarietà si deforma in privatismo caritatevole e si spezza il patto sociale. I corpi intermedi, infine, non possono essere gusci vuoti: devono tornare luoghi di formazione e cittadinanza attiva. Solo se uniscono pensiero e responsabilità, la sussidiarietà diventa partecipazione reale e non gestione di servizi. Il lavoro resta il banco di prova della democrazia. Ricostruire una società del lavoro dignitoso significa ridare senso alla cittadinanza. L’articolo 1 non è solo un fondamento, ma un progetto politico: rimettere il lavoro al centro di un’economia che non sacrifichi la persona all’efficienza. Sussidiarietà e democrazia possono rinascere solo insieme, attraverso una prossimità responsabile: ascolto, cura, impegno condiviso. La democrazia non si difende solo con le regole, ma con le relazioni, il lavoro e la giustizia. La sussidiarietà da sola non basta ma senza di essa - quella autentica, che nasce dalla persona e si fa comunità - nessuna democrazia potrà rinascere. *Già presidente nazionale delle Acli Se c’è odore di zolfo riscopriamo l’anima del Servizio civile di Antonio Maria Mira Avvenire, 28 ottobre 2025 Gli scenari di guerra spingono tanti a chiedere di riproporre il servizio militare di leva, servirebbe invece rilanciare lo spirito che invita a essere costruttori di pace. “In piedi costruttori di pace!”. Sono le indimenticabili parole di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, il 30 aprile 1989 in una strapiena Arena di Verona. Costruire la pace, non solo proclamarla, non solo denunciare gli attacchi contro di essa. Don Tonino, pastore della concretezza, parlava di chi “la pace la costruisce nel silenzio della storia o nell’esilio della geografia. Nei bagni di folla o nella solitudine dei deserti. Nelle foreste dell’Amazzonia o nel vortice disumano delle metropoli. Sul letto di un ospedale o nel nascondimento di un chiostro. Nell’operosità di una scuola materna che si apre ai valori della mondialità o nel travaglio provocato da uno stile di accoglienza nei confronti dei fratelli di colore”. Sembra la fotografia del Servizio civile al quale proprio in quegli anni veniva riconosciuta dalla Corte costituzionale “la pari dignità” rispetto al servizio militare, perché anche assistere i più fragili, gli scartati, gli immigrati, o difendere l’ambiente o il patrimonio culturale, era difendere la Patria, anche se con modalità diverse. Ma il Servizio civile non era sostituzione del welfare pubblico, perché partiva, aveva le sue profonde basi, in quel ripudio della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, come scrive all’articolo 11 la nostra bellissima Costituzione, costruita da chi la guerra l’aveva drammaticamente vissuta. Non a caso negli anni in cui nasce il Servizio civile nazionale nasce anche la legge 185 sull’esportazione delle armi, la migliore e più severa norma al mondo su questa delicatissima materia. E ottiene un fondamentale successo la campagna contro le mine antiuomo, che porta l’Italia, allora grande produttore di queste armi vigliacche, a bloccarne la produzione, prima al Mondo. Erano anni nei quali, sono sempre parole di don Tonino, “nell’aria c’è odore di zolfo”. Guerre alle porte di casa come quelle nei Balcani. Ma anche anni di grandi movimenti pacifisti. Nascevano da “famiglie” diverse, cattoliche, laiche, radicali, di una sinistra libertaria già post comunista. “Non uccidere è per alcuni un dovere religioso per altri un dovere etico”, scriveva allora Alex Langer, tra i padri dell’ambientalismo e del pacifismo italiano, che in sé incarnava queste famiglie. Scelte nette, pagate di persona come i primi obiettori di coscienza che negli anni ‘70 finivano in carcere per il rifiuto del servizio militare. Non violenza fino in fondo che poi sempre più trasforma quel “non” in un “per”. Per la pace, per la tolleranza, per gli ultimi, per i più soli, proprio come aveva indicato don Tonino. E non è certo un caso che a scegliere di costruire così la pace siano stati tanti giovani cresciuti e formati in parrocchia, nelle prime organizzazioni ecclesiali. Ad aprire le porte per il loro “Servizio civile” sono state tante Caritas diocesane. Ricordo bene, ad esempio, la straordinaria esperienza della Caritas di Roma e del suo fondatore don Luigi Di Liegro. Quei ragazzi che non solo dicevano “no” alla divisa ma soprattutto “sì” alla pace da costruire nella città, permisero di aprire l’ostello, l’ambulatorio e le mense per immigrati e senza dimora, mondialità in casa nostra, straordinario strumento per promuove concretamente la pace. Li ricordo bene, quando la sera si ritrovavano per pregare e riflettere sulla pace e poi la mattina essere sul campo per costruirla. Spiegava don Giuseppe Pasini, tra i fondatori della Caritas italiana, che gli obiettori al servizio militare “dovevano essere considerati non “manovali” per servizi ai poveri, ma giovani impegnati a rafforzare la propria personalità umana e cristiana, attraverso il servizio, l’interiorizzazione del valore della pace”. Fu una stagione davvero entusiasmante, non capita da parte della politica, al punto che il ministero della Difesa il 13 novembre 1986 inviò ispettori e carabinieri in una decina di sedi e centri di assistenza della Caritas per controllare cosa facessero quegli “strani ragazzi”. Che si sporcavano le mani in nomi di grandi valori e idealità. Gli stessi che molti hanno poi portato nella loro vita successiva: Servizio civile come scuola di forti scelte. Poi, purtroppo, negli anni, soprattutto con la gestione di parte del Servizio civile da parte dei comuni, la carica ideale si è un po’ annacquata a favore di troppo concrete esigenze. Soprattutto dopo l’abolizione del servizio militare di leva. Ora c’è chi vorrebbe rilanciarlo, mal consigliato dal nuovo “odore di zolfo” che si alza da troppi scenari di guerra. Va, invece, rilanciato lo spirito che più di quaranta anni fa portò migliaia di ragazzi, e porta ancora oggi, a scegliere di essere “costruttori di pace”, con la bellezza di un’idealità che si faceva concretezza del fare. “Abbiamo bisogno di testimoni e di attori di pace”, ha scritto ieri la Conferenza nazionale Enti per il Servizio civile. Appunto, testimoni e attori. Se il clima di odio contagia la scuola di Fabrizia Giuliani La Stampa, 28 ottobre 2025 La guerra, le battaglie che la scandiscono, non sono solo fatti, lontani o molto vicini: la guerra è una cultura. I suoi referenti non sono solo le città martoriate, i suoi strumenti non solo i Tomahawk o i carri armati; la sua minaccia non è solo l’invasione su larga scala o l’annientamento nucleare. La guerra può essere il nome di un Ministero, per venire alle più recenti decisioni governative statunitensi; un modo di pensare, agire, concepire l’uso della forza nella sfera pubblica per riportare ordine dentro e fuori i confini. La cultura della guerra, dunque, si afferma oltre l’impiego delle milizie, penetra credenze, convinzioni e piega a sé argomenti e parole. Non si impone nella lingua ma sulla lingua: la guerra comincia dove finisce il lògos, direbbero i vecchi filosofi, ossia dove il confronto delle ragioni con le armi della parola, dove restano solo l’annientamento e la resa. Non è affare solo di slogan aggressivi, discorsi di odio, nuove parole, ma una deformazione progressiva di posture, abitudini, discussioni. Bisogna partire da qui, purtroppo, per leggere quel che è accaduto al liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Genova e all’Einstein di Torino, ma nei mesi scorsi avevamo visto le stesse dinamiche a Roma e altrove. La vicenda del capoluogo ligure è emblematica: durante un’occupazione, un gruppo di giovani estranei alla scuola ha fatto un’irruzione violenta con mazze, bastoni e spranghe. Gli studenti hanno descritto il raid: estintori usati come armi, devastazione degli spazi - banchi e sedie distrutti - inni al duce e una svastica gigante sul muro. Hanno chiamato la polizia e si sono barricati, lamentano il ritardo nell’intervento delle forze dell’ordine. Domenica hanno fatto appello pubblico alla città che ha risposto, sindaca Salis in testa: vogliono ricostruire la scuola che “è luogo da difendere e non da assaltare”. A Torino, ieri, un gruppo di giovani di destra - Gioventù Nazionale Gabriele D’Annunzio - si è presentata per volantinare fuori dal liceo per opporsi alla “cultura maranza”, il collettivo di sinistra si è opposto, cestinando il materiale. Tensione, spinte, intervento della polizia che ha portato via, in manette, un ragazzo del collettivo. Reazione degli studenti, che hanno circondato il blindato provando a ribaltarlo. La guerra e la sua cultura, dicevamo. Un certo modo di pensare e gestire l’ordine pubblico, la protesta, il conflitto. Ma anche un certo modo di guardare alla scuola, che non è l’Università e bisognerebbe tenerlo a mente quando si interviene. Perché la stragrande maggioranza degli studenti delle scuole superiori rigetta una logica di violenza, difende il proprio spazio e si aspetta che le istituzioni la sostengano in questa azione, come hanno mostrato i ragazzi di Genova. Dovremmo guardare con attenzione allo sforzo che fanno, accogliere il dialogo, se vogliamo costruire un argine alla cultura della guerra spinta dallo spirito del tempo. Non è facile, sembra un vento inarrestabile che travolge ogni confine. Invece si può fare, se si ha rispetto per i luoghi della formazione, che non sono il covo dell’antagonismo e dell’estremismo, come a volte sembra affermare il governo, ma il terreno dove nasce il vaccino. Fiano: “Cacciato dall’aula come mio padre nel ‘38, io volevo parlare di pace” di Miriam Romano La Repubblica, 28 ottobre 2025 L’ex deputato: “Non sono riuscito a portare a termine il convegno all’università di Venezia. Impedire di esprimersi è fascismo”. Un’aula con le travi a vista, le pareti in mattoncini, un pubblico di uditori tra i banchi. L’ex parlamentare del Pd Emanuele Fiano, figlio di Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz, invitato ieri a parlare all’Università Ca’ Foscari di Venezia di “pace dei due popoli per i due stati”, è riuscito a stento a iniziare il convegno. “Dopo mezz’ora e appena due domande dal pubblico, mi è stato impedito di proseguire da un gruppo di studenti di sinistra che hanno esposto striscioni, si sono messi attorno alla cattedra, contestandomi anche cose che non ho mai detto”, racconta Fiano, presidente di Sinistra per Israele - Due Popoli Due Stati. Qual è stata la genesi del convegno? “Sono stato invitato all’Università dall’associazione Futura, un gruppo di maggioranza nella rappresentanza studentesca dell’ateneo veneziano. Nelle scorse settimane la locandina era stata fatta girare. “Voci per la pace. Il cammino dei due popoli per i due stati”, il titolo dell’iniziativa. Insieme a me avrebbe dovuto parlare il professore Antonio Calò, presidente della Fondazione Ve.Ri.Pa. (Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace). Un dibattito moderato dalla studentessa Giulia Alberoni. L’agitazione era iniziata già nei giorni scorsi quando la notizia del convegno ha iniziato a circolare”. Cioè? “Sui canali social del “Fronte della Gioventù Comunista” sono stati pubblicati i primi messaggi contro di me, per “opporsi a chi, come Emanuele Fiano, prima tramite slogan sulle testate giornalistiche, e ora anche muovendosi dentro l’Università avanza con la scusa del pacifismo affermazioni cerchiobottiste”. Dalle parole ai fatti. Per evitare disordini, il convegno è stato dirottato dagli organizzatori in un’altra aula, senza darne notizia sui social. Ma la nuova location è entrata lo stesso nel mirino dei gruppi di sinistra”. Di cosa stavate parlando quando è iniziata la contestazione? “Sono riuscito a rispondere a solo due domande. La prima di chi mi chiedeva di ripercorrere tutta la storia sionista. La seconda sul ruolo degli organismi internazionali. Ma sono riuscito a parlare circa mezz’ora”. Come sono entrati in aula? “Hanno iniziato a protestare già fuori dall’Università. Il messaggio sullo striscione era chiaro: “Fuori i sionisti dalle Università”. Falce e martello in calce allo striscione e la sigla FGC. Saranno stati almeno una cinquantina di studenti. Poi sono saliti. Alcuni si sono messi intorno alla cattedra. Altri hanno iniziato a urlare dal fondo dell’aula. Il leader del gruppo ha cominciato a leggere al microfono un discorso”. Cosa le hanno detto? “Hanno ignorato che ho sempre condannato Netanyahu. Lo sanno tutti che sono sempre stato critico. Ho spiegato anche questo, ma non c’è stato nessun verso. Continuavano a dire: “Non ce ne frega nulla. Non basta contrastare un governo, ma bisogna contrastare lo Stato. Non vogliamo che tu parli in questa università”. È riuscito a difendersi? “Ho detto loro che sono dei fascisti. Lo sono tecnicamente, perché impedire a una persona di parlare è fascismo. Ma non sono comunque riuscito a portare a termine il convegno e ho subito pensato a una cosa”. Che cosa ha pensato? “Il pensiero è andato subito ai miei genitori. L’ultima volta che hanno espulso un Fiano da un luogo di studio è stato nel ‘38, con mio padre. Noi eravamo lì a parlare di pace tra due popoli, di ingiustizie, di dolori, di violenza. Chi non vuol sentire parlare di queste cose la pace non la vuole”. Come si sente ora? “Sono scioccato. Vivo da 15 anni sotto scorta per le minacce che subisco in quanto ebreo, ma non avrei mai pensato che mi venisse negato il diritto di parola”. La società curda tra prudenza e speranza di Maysoon Majidi Il Manifesto, 28 ottobre 2025 Pace o miraggio? È la domanda di fronte al ritiro totale della guerriglia curda dalla Turchia e la ridefinizione della politica curda. Con l’annuncio ufficiale del ritiro completo delle forze del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) dal territorio turco verso il nord dell’Iraq, si chiude uno dei conflitti più lunghi e complessi del Medio Oriente. La decisione, resa pubblica il 26 ottobre 2025 dalle montagne di Qandil, segna non solo la fine di oltre quarant’anni di guerra, ma anche l’inizio di una nuova fase nella ridefinizione della politica curda in Turchia e nella regione. Nato nel 1978 come movimento di liberazione d’ispirazione marxista-leninista, il Pkk ha progressivamente trasformato la propria strategia, passando dalla lotta armata alla via politica e democratica. Nel comunicato letto a Qandil, il gruppo ha spiegato che il ritiro risponde alle decisioni del dodicesimo congresso e all’appello del suo leader incarcerato Abdullah Öcalan per “una società pacifica e democratica”. Nelle immagini diffuse, venticinque combattenti - otto donne tra loro - attraversano il confine turco verso le aree difensive nel nord dell’Iraq. I passaggi precedenti di questo processo sono noti: il cessate il fuoco del primo marzo, la decisione di sciogliere le strutture militari a maggio e la cerimonia simbolica di disarmo svoltasi a Suleymaniya a luglio. Nel nuovo comunicato, la realtà nata dalle ceneri del Pkk parla di “fine definitiva della strategia militare” e chiede leggi speciali per l’integrazione democratica, la libertà dei partiti curdi e un’amnistia specifica per i propri membri. “Non vogliamo solo un’amnistia generale - ha dichiarato il dirigente Sabri Ok - ma norme che garantiscano una reale partecipazione politica”. Sull’intero processo pesa però una lunga storia di sfiducia. Il precedente tentativo di pace del 2015 fallì nel sangue, con l’arresto di migliaia di attivisti, giornalisti e deputati del Partito democratico dei popoli (Hdp, poi costretto a sciogliersi). Molti temono che il governo di Recep Tayyip Erdogan possa utilizzare questo nuovo percorso per ottenere legittimità internazionale senza attuare vere riforme. Ankara, dal canto suo, definisce il ritiro “un passo concreto verso una Turchia senza terrorismo” e ha istituito una commissione parlamentare di 51 membri per elaborare un quadro legale al processo di pace. I media turchi parlano di un imminente incontro tra Erdogan e una delegazione del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli (Dem, successore dell’Hdp), che in seguito si recherà sull’isola di Imrali per consultare Öcalan. Gli attivisti curdi accolgono il processo con cautela. Finché non saranno garantite le libertà politiche e rimossi i vincoli imposti ai partiti curdi, dicono, “questa sarà una pace dall’alto, non una pace dal basso”. Intanto, la società curda, stremata da decenni di conflitti, guarda con speranza alla possibilità di una nuova stagione politica. Per molte donne curde, la transizione ha un doppio significato: la fine della guerra e l’inizio di una nuova battaglia per la parità nel campo politico. Le conseguenze del ritiro superano i confini turchi. Baghdad teme un aumento della presenza del Pkk nel nord dell’Iraq, Teheran guarda con sospetto alla crescente influenza dei curdi vicini a Öcalan in Iran occidentale, mentre in Siria le forze curde alleate del Pkk tentano di consolidare la propria posizione di fronte ad Ankara. Secondo diversi analisti occidentali, se il processo di transizione verrà consolidato, potrebbe alterare gli equilibri di sicurezza lungo le frontiere siriane e irachene. Sul piano giuridico, il futuro di Abdullah Öcalan e la sorte dei combattenti disarmati rappresentano la prova più delicata. L’esperienza internazionale mostra che ogni transizione priva di leggi chiare e di un monitoraggio indipendente rischia di fallire. Se Ankara approverà in tempi rapidi le norme su amnistia e integrazione e renderà la liberazione di Öcalan parte del processo di legittimazione politica, Qandil potrà trasformarsi da simbolo di guerra a simbolo di pace. In caso contrario, il rischio di un ritorno alla violenza rimane reale. In un Medio Oriente ancora prigioniero di guerre infinite, la scelta del Pkk di deporre le armi ricorda una verità semplice ma radicale: nessuno Stato può costruire la propria stabilità eliminando l’altro. La pace - come gridano le donne curde a Qandil - non nasce dalle armi, ma dall’uguaglianza e dalla giustizia.