La “rivoluzione normale” di Luigi Pagano? Meno carcere, più prevenzione di Andrea Gianni Il Giorno, 27 ottobre 2025 Il Garante dei detenuti del Comune di Milano, che ha diretto San Vittore: servono progetti. “Istituti fatiscenti, 100mila reclusi aspettano misure di detenzione alternative”. Il debutto di Luigi Pagano nell’amministrazione delle carceri risale al 1979, a Pianosa, isola sperduta nel Tirreno dove nella sezione di massima sicurezza furono reclusi anche brigatisti e boss mafiosi, fino alla chiusura nel 1998. Poi l’Asinara, altri istituti fino all’approdo nel 1989 nella casa circondariale di Milano San Vittore, che ha diretto fino al 2004. Il passaggio al provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e poi al dipartimento, fino alla recente nomina come garante dei detenuti del Comune di Milano. Un mondo segnato da problemi cronici - sovraffollamento, suicidi di reclusi e di agenti della polizia penitenziaria, violenze - al quale ha dedicato il libro-inchiesta “La rivoluzione normale” (Gruppo editoriale San Paolo). Pagano, che cos’è la ‘rivoluzione normale’? “Consiste nell’applicazione coerente delle leggi che riguardano il sistema penitenziario e che già fanno parte del nostro ordinamento. Dovrebbero applicare alla pena il dettato dell’articolo 27 della Costituzione, che definisce che essa deve mirare al recupero e al reinserimento del detenuto nella società, ma non vengono rispettate. Se ciò avvenisse potremmo dire che, se proprio abbiamo bisogno di un carcere, esso sarebbe all’altezza della civiltà di un Paese democratico. La vera rivoluzione, quindi, sarebbe iniziare ad applicare le norme. Questo non è successo neanche dopo le condanne inflitte all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: mancarono il coraggio e la volontà, è stata un’occasione sprecata”. Pensa che quello attuale sia un momento storico propizio per avviare questa ‘rivoluzione normale’? “Non credo, visto come si sta muovendo la politica su questo tema. La retorica del ‘buttare via la chiave’ è retaggio di una politica senza la ‘p’ maiuscola. Secondo me il carcere andrebbe superato, ma se vogliamo mantenere questo sistema almeno facciamolo rispettando la Costituzione. Oggi 100mila persone sono già fuori dal carcere grazie a pene e misure alternative alla detenzione, mentre altre 100mila attendono la concessione. Al di là dei detenuti pericolosi, che possiamo stimare in 10mila, chi resta in carcere? Sono le persone più disperate, che non hanno i requisiti - casa, famiglia e accesso al lavoro - attorno ai quali costruire un percorso all’esterno. Il sovraffollamento non è dovuto tanto alle entrate, quanto alle mancate uscite. Per risolverlo, nell’immediato, servirebbe una nuova amnistia o un indulto”. In futuro potrà esistere un mondo senza carceri? “Potrebbe sembrare un’utopia, ma non lo è. In passato pene cruente, squartamenti, torture erano la normalità. Il mondo si evolve, e il futuro potrebbe riservarci sorprese che neanche immaginiamo. La priorità, però, è intervenire sul presente. Anche il personale sta male, e tra gli agenti si registra un aumento allarmante dei suicidi. La responsabilità è anche di chi non ha fatto nulla per cambiare il sistema. Pensiamo al Beccaria (carcere minorile milanese al centro di un’inchiesta per violenze degli agenti sui detenuti, ndr), dove da dieci anni non c’è un direttore fisso e l’istituto è stato lasciato nell’abbandono. Quando esplodono certi casi, bisognerebbe andare alle radici”. Dalla fine degli anni 70 come è cambiato il mondo delle carceri? “I problemi, purtroppo, restano sempre gli stessi, legati anche a strutture vecchie e fatiscenti. San Vittore, che considero come casa mia, ha 200 anni e andrebbe chiuso, mentre invece viene utilizzato anche per rinchiudere persone in attesa di una sentenza, non ancora condannate”. Ricorda, nella sua carriera, una situazione particolarmente critica? “Penso all’epoca di Mani Pulite, quando a San Vittore arrivammo ad avere 2.400 detenuti. Ma abbiamo sempre dovuto fronteggiare emergenze, che si rivelano anche una fucina di idee coinvolgendo operatori, detenuti e società esterna. Con Tronchetti Provera, ad esempio, creammo il primo call center in carcere. Abbiamo ideato la casa di reclusione di Bollate, divenuta un modello, il primo Istituto a custodia attenuata per madri (Icam) a San Vittore, e altri progetti di cui vado orgoglioso”. Un incontro a cui è rimasto legato? “Quello con il cardinale Carlo Maria Martini. Arrivò a San Vittore per la messa durante il Giubileo nelle carceri. C’era brusio, i detenuti mormoravano, e temevo potesse scoppiare una sommossa. A un certo punto si librò nell’aria una colomba, i detenuti applaudirono e iniziarono a gridare ‘libertà, libertà’. Uno dei magistrati presenti, Manlio Minale, ebbe un sussulto di commozione e mi disse: ‘Mi hai fatto un bello scherzo, ora ogni volta che mi troverò a giudicare dovrò pensare a questo momento che ho vissuto’”. L’Italia continua a essere insanguinata dai femminicidi. Come intervenire? “Non serve inasprire le pene, ma investire sulla prevenzione e su tutto ciò che può innescare un cambiamento culturale. Le parole spese sulla necessità di tutelare le donne, però, stridono con la realtà e, ad esempio, con programmi televisivi dove accade l’esatto contrario”. Il futuro delle carceri: tecnologia al posto delle celle di Gianluca Riccio futuroprossimo.it, 27 ottobre 2025 La detenzione hi-tech a casa costa meno, funziona meglio e riduce la recidiva. Il detenuto esce dal tribunale con una sentenza: tre anni. Non sale sul furgone che lo porterà in carcere. Torna a casa. Alla caviglia, un dispositivo GPS grande quanto un orologio. Sul polso, un sensore che monitora movimento e comportamento. A casa, una centralina che registra tutto. Benvenuto nella “Selvfengsel”, la prigione di sé stessi. Nei paesi scandinavi potremmo vederla dal 2030, in Italia non ci arriveremo forse mai. In tutto questo, la domanda resta: serve davvero rinchiudere la gente nelle carceri, dietro le sbarre? Il problema italiano: troppa domanda, zero offerta - In Italia, a novembre 2023 risultavano attivi 5.965 braccialetti elettronici, un numero in crescita rispetto ai 2.808 del 2021. Sembra un progresso. Il problema è che i dispositivi disponibili sono circa 2.000 e i detenuti in attesa di un braccialetto sono almeno 700. Risultato: chi ha diritto ai domiciliari resta in cella. A maggio 2025, diverse città italiane tra cui Milano segnalavano la mancanza cronica di dispositivi. Cosa significa? Che persone condannate per reati minori, che potrebbero scontare la pena a casa con un sistema di controllo, rimangono in carcere. Contribuiscono al sovraffollamento. Costano allo Stato. E quando usciranno, avranno vissuto in condizioni che aumentano la probabilità di recidiva. Uno studio scientifico svizzero condotto tra il 1999 e il 2002 su 631 condannati in sei cantoni ha dimostrato che la sorveglianza elettronica rafforza l’autodisciplina ed è più economica del regime detentivo tradizionale. L’esperimento fu interrotto solo nel 4% dei casi. La matematica è semplice. Un giorno di detenzione con braccialetto elettronico costa 54 euro, contro i 133 della semilibertà e i 203 della detenzione in carcere. Eppure continuiamo a costruire celle. Scandinavia, laboratorio del futuro penitenziario - La Norvegia non ha inventato niente. Ha solo capito prima degli altri che punire non serve a niente se poi rispedisci fuori persone peggiorate. Negli anni Ottanta, il sistema carcerario norvegese era simile al nostro: celle dove circolava droga, detenuti con problemi psichiatrici non curati, proteste, evasioni. Il tasso di recidiva era al 70%. Identico all’Italia di oggi. Poi hanno cambiato strategia. Dal 2008 è in vigore una Carta bianca che prevede la collaborazione tra cinque ministeri: Giustizia, Istruzione, Cultura, Salute e Autonomie locali. Il concetto è che la vita in cella non deve essere diversa da quella fuori, e la pena non deve privare il detenuto di dignità. I risultati sono arrivati in meno di vent’anni. La realtà virtuale per la riabilitazione dei detenuti è solo uno degli esperimenti in corso. L’intelligenza artificiale che monitora comportamenti a rischio, sensori che rilevano stati emotivi critici, terapie personalizzate basate su algoritmi. La tecnologia sta entrando nelle carceri da tutte le porte. Il prezzo della libertà (controllata) - Ma funziona davvero? Il modello norvegese sembra dimostrare di sì, almeno sul piano della recidiva. Sul piano etico, le domande sono altre. Un braccialetto elettronico con taser integrato è meno invasivo di una cella? Un algoritmo che ti monitora ventiquattr’ore su ventiquattro è più umano di un secondino? La risposta dipende da cosa consideriamo peggio: essere rinchiusi fisicamente o essere liberi ma costantemente sorvegliati. La tecnologia promette carceri meno affollate e costi ridotti. Ma il prezzo è una sorveglianza totale, H24, che trasforma ogni casa in una cella potenziale. In Svizzera l’uso dei braccialetti elettronici è cresciuto del 25% tra il 2018 e il 2023. I Cantoni urbani li utilizzano di più, specialmente quelli che avevano partecipato al progetto pilota. Il sistema facilita il reinserimento sociale ed evita il sovraffollamento carcerario. Anche l’Italia potrebbe seguire questa strada, se solo investisse nei dispositivi necessari. La proposta dello studio pubblicato nel 2018 da Dan Hunter e colleghi del King’s College London era chiara: il costo della tecnologia diminuisce costantemente, mentre quello delle carceri aumenta. Anche rifornendo i detenuti di nuova tecnologia ogni anno, il risparmio sarebbe nell’ordine di decine di migliaia di dollari per persona. E questo prima ancora di considerare i benefici sociali: meno recidiva, più riabilitazione, famiglie che restano unite. Questione di scelte (e di soldi) - Il dibattito non è se abolire le carceri sia giusto o sbagliato. È se possiamo permetterci di continuare a gestirle come facciamo ora. Le celle costano, non funzionano, producono recidiva. La tecnologia costa meno, funziona meglio, riduce la recidiva. La matematica, ancora una volta, è brutalmente semplice. Certo, restano i criminali violenti, quelli per cui la detenzione fisica è necessaria per proteggere la società. Ma sono una minoranza. La maggior parte dei detenuti potrebbe scontare la pena a casa, con un sistema di controllo adeguato. Lo dicono i dati, lo dimostrano gli esperimenti scandinavi, lo conferma la matematica economica. Forse tra trent’anni le carceri saranno davvero un ricordo. O forse continueremo a riempirle, ignorando tutto quello che sappiamo su cosa funziona e cosa no. Dipende solo da quali priorità decideremo di darci. E da quanti braccialetti elettronici avremo voglia di comprare. Dal carcere alla tavola, quando il riscatto passa per la gastronomia di Sabina Licci ansa.it, 27 ottobre 2025 Dietro le sbarre, tra gli aromi del lievito madre, del cioccolato fuso e della frutta c’è la ricetta cooperativa della rinascita e del reinserimento lavorativo. In Italia, sempre più progetti carcerari stanno facendo della gastronomia e dell’agricoltura, non solo un mestiere ma un potente strumento di riscatto sociale. E se un prodotto oltre ad essere buono fa anche del bene, viene apprezzato da 7 consumatori su 10, come emerge da un’indagine del centro studi di Confcooperative. Nelle cooperative sociali che si occupano dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate aderenti a Confcooperative Federsolidarietà, sono più di 3mila gli occupati nell’agricoltura sociale, di cui 350 tra detenuti ed ex detenuti. Un legame forte, quello tra agricoltura, alimentazione e inclusione e percorsi di riabilitazione sociale, con evidenti risultati. Basti pensare che su 100 detenuti che seguono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo in carcere nelle cooperative sociali, la recidiva è abbattuta a meno del 10%. E c’è ancora molto margine per far crescere l’impegno della cooperazione sociale in questo ambito, come sottolinea Stefano Granata, presidente di Confcooperative Federsolidarietà. Emblema di questo connubio virtuoso è la Pasticceria Giotto della Casa di Reclusione di Padova, laboratorio diventato un modello internazionale, dove 50 detenuti danno vita a dolci che hanno conquistato il Gambero Rosso, l’Accademia della Cucina Italiana e il New York Times. I loro panettoni, colombe e cioccolatini non sono solo prodotti di alta qualità ma la prova tangibile che l’eccellenza artigianale può fiorire ovunque. Ad Alghero, il progetto InsideOut ha creato un punto di snack artigianali: qui i detenuti preparano panini, focacce e tramezzini per “Il Baretto” di Porto Ferro, dove ogni panino racconta una storia di riscatto e competenze ritrovate. A Verona la cooperativa Panta Rei con i progetti “Imbandita - La tavola del riscatto” e “Pasta d’Uomo - Mai stati così buoni” porta la trasformazione alimentare in carcere, e nel reparto femminile le detenute producono marmellate e conserve partendo dagli scarti alimentari, dando nuova vita alle cose un pò come a sè stesse. In quello maschile, invece, si impasta pane e si sfornano dolci. “Ogni vasetto venduto è un atto di inclusione”, sottolinea la presidente Elena Brigo. A Cuneo il progetto di inclusione sociale Panatè, ‘sforna Il pane che vale la pena’, nasce da una cooperativa dove oltre il 50% dei dipendenti sono detenuti. “Dietro ogni pagnotta c’è la rinascita di una persona - dicono i fondatori - c’è la pazienza della lievitazione, la cura della cottura, la concretezza di un gesto antico che restituisce dignità”. Dieci anni dietro le sbarre: al carcere minorile ho insegnato tante cose, ma credo di averne imparate di più di Maria Concetta Bonetti orizzontescuola.it, 27 ottobre 2025 Quando sono entrata per la prima volta in un carcere minorile avevo una penna, qualche libro e un nodo in gola. Il cancello si è chiuso alle mie spalle con un rumore secco, che non ho mai dimenticato. Da allora, per dieci anni, quel rumore ha segnato l’inizio di ogni mia giornata di lavoro. Mi avevano detto che insegnare lì sarebbe stato diverso. Ma non mi avevano spiegato quanto. La classe che non assomiglia a nessun’altra - La mia aula non ha finestre grandi né banchi in fila ordinata. Ci sono sguardi che pesano, silenzi lunghi, una tensione che si taglia come l’aria prima di un temporale. I miei studenti non portano zaini colorati, ma storie difficili: famiglie assenti, rabbia, abbandono, errori troppo grandi per la loro età. All’inizio non mi guardavano nemmeno. “Tanto qui non serve studiare, prof,” mi diceva qualcuno, con una sfida negli occhi che era solo paura travestita. E io imparavo a non rispondere subito, a lasciare spazio, a far capire che non ero lì per giudicare. Piano piano, con una poesia di Ungaretti, una canzone di De André o un esercizio di grammatica fatto con ironia, qualcosa si muoveva. Bastava uno sguardo curioso, una domanda buttata lì: “Prof, ma davvero si può vivere scrivendo?” Le lezioni che ho ricevuto - In dieci anni ho insegnato tante cose, ma credo di averne imparate di più. Ho imparato che la fiducia è lenta, ma quando arriva è vera. Ho imparato che dietro la rabbia c’è quasi sempre un dolore antico, che nessuno ha mai ascoltato. Ho imparato che la scuola, anche dietro le sbarre, può essere uno spazio di libertà. Ci sono giorni in cui torno a casa svuotata, con la sensazione che nulla cambi. E poi ci sono quei momenti minuscoli che ti ripagano di tutto: un ragazzo che scrive il suo primo tema senza errori, un altro che ti chiede un libro “per quando esco”, uno che ti saluta con un “grazie, prof” sussurrato, quasi di nascosto. Uscire è più difficile che entrare - Ogni volta che esco dal carcere e il cancello si richiude dietro di me, respiro l’aria di fuori con una gratitudine nuova. Ma anche con un senso di inquietudine. Perché so che là dentro ho lasciato qualcuno che sta ancora cercando una strada. Questi dieci anni mi hanno insegnato che non esiste “noi” e “loro”. Esistono persone, con le loro ferite e la loro possibilità di cambiare. E che educare non significa solo insegnare: significa credere in chi, per la prima volta, sente che qualcuno crede in lui. Oggi so che la libertà non è solo un cancello che si apre. È la consapevolezza che, anche dietro una porta chiusa, puoi continuare a imparare, a sognare, a scegliere chi vuoi diventare. Referendum giustizia, Meloni rischia di Alessandro De Angelis La Stampa, 27 ottobre 2025 Va di moda, nel centrodestra, spifferare - e non c’è motivo per dubitare dell’intenzione - che “Giorgia Meloni non commetterà l’errore di Matteo Renzi”. Quello cioè di trasformare il referendum costituzionale (stavolta è sulla giustizia) in un voto politico su di sé. Allora la personalizzazione fu l’errore fatale e bye bye palazzo Chigi. Lo spiffero, che oggi rivela una preoccupazione, è destinato, vedrete, a diventare una pia illusione in tempi brevi. Ovvero: appena finite le Regionali, quando partirà una campagna referendaria lunga sei mesi. L’illusione è destinata a cadere non solo per ragioni di indole della premier, piuttosto incline a non sottrarsi alla pugna in prima persona, quando il clima si scalda. Ma soprattutto per ragioni squisitamente politiche. C’è poco da fare: sarà un referendum sul governo e su Giorgia Meloni. Lo sarà per come la riforma è stata presentata: uno scalpo storico della magistratura. Che del trumpismo mutua il racconto di un potere senza vincoli in virtù della propria unzione popolare, del vecchio e nuovo berlusconismo (pure Marina si è appalesata) il repertorio sulle “toghe rosse”. Sentirete che fanfare questa settimana, appena si concluderà l’iter parlamentare. Lo sarà per come la separazione delle carriere è stata realizzata: una riforma “del governo”, senza confronto in Parlamento. Lo sarà perché l’acceleratore lo ha premuto consapevolmente Giorgia Meloni. Delle tre riforme, pomposamente annunciate per “fare la storia”, una si è rivelata infattibile (l’Autonomia), l’altra troppo rischiosa e dunque congelata (il Premierato), la Giustizia è stata ritenuta il terreno più agevole, vista la scarsa popolarità dei giudici nel Paese. E lo sarà per esigenze di mobilitazione. Per portare la gente alle urne alle Europee Giorgia Meloni si è dovuta candidare capolista (anche lì: fu un voto sul governo e le andò bene), alle Regionali ha stampato il suo volto sui manifesti accanto a quello dei candidati governatori, difficilmente potrà stare alla finestra in occasione del referendum (peraltro senza quorum) lasciando l’onere comiziante a pensosi costituzionalisti. Insomma, avrebbe potuto continuare a prosperare in un tranquillo tran tran fino alle politiche. Ha invece scelto, sostanzialmente, di tenere le prove generali un anno prima, dando così agli avversari, divisi su tutto, l’unico bersaglio unificante: il “no” che, in questo caso, basta per vincere. Una “politicizzazione” in sé, al di là di come gestirà la campagna. Ove, prevedibilmente, il governo proverà a circoscriverla sul tema giudici, le opposizioni a caricarla del significato di “difesa della Costituzione” sperando che, allo scoccare del decennio, non ci sia due senza tre: la “Carta” ha già battuto Silvio Berlusconi nel 2006 e Matteo Renzi nel 2016. Sin qui le intenzioni. Poi si sa come vanno queste competizioni: assumono significati simbolici che non puoi definire in partenza, molto legate a episodi e clima del momento. Certo è che per entrambi gli schieramenti ci sono elementi di rischio. Complicato che, in caso di sconfitta, Giorgia Meloni possa far finta di niente. A maggior ragione se sarà premiata la linea della “difesa della democrazia”, risulterà azzoppata proprio nella sua legittimità politica a governare e dovrà ritrovare un racconto per le politiche. Se invece vincerà rispetto a questo allarme, per le opposizioni è un game over definitivo. Si ritroverebbero a dover fare in un anno ciò che non hanno fatto in quattro, con le leadership già travolte nelle urne. Separare la giustizia dalla lentezza di Gabriele Canè La Nazione, 27 ottobre 2025 Forse bisognerebbe pensare anche a un’altra separazione. Bene se andrà in porto quella delle carriere tra pm e giudici: tra i Paesi di più solida civiltà giuridica, restiamo quasi l’eccezione. Ma non basta, un altro passo è necessario, fondamentale nel nostro malconcio stato di diritto: la separazione della giustizia dalla insostenibile lentezza dei suoi tempi. Quando Marina Berlusconi punta il dito accusatorio sui “persecutori giudiziari” del padre zittiti dall’ultima sentenza della Cassazione, non grida solo l’estraneità a ogni connivenza con la mafia. Ovvio. Denuncia anche e soprattutto come questa risposta sia arrivata dopo 30 anni! Indecente, come lo sono altre migliaia di casi che si trascinano nei rinvii di mesi per un’assenza in aula, nelle ripartenze di una causa perché il dossier è passato di mano, per una fotocopia che manca. Allora, non stupisce che l’Associazione magistrati si indigni, in fondo neppure troppo, per l’accusa di complotto. Ma è anche un segnale di serietà che il suo presidente, Cesare Parodi, ammetta che “la tempistica non ha funzionato e che qualunque vicenda che dura 30 anni, è qualcosa che un Paese civile non dovrebbe conoscere”. Con una indicazione positiva che si può trarre da questa osservazione: quello dei tempi può e deve essere un terreno comune per una riforma urgente, seria e condivisa. Perché, certo, nei modi sono possibili visioni diverse. Figuriamoci, il giustizialismo e il parallelismo oggettivo tra inchieste giudiziarie e obiettivi di alcuni partiti ha caratterizzato la vita politica e istituzionale degli ultimi decenni. I tempi, però, sono altra cosa. Sono i mezzi necessari per far funzionare la macchina, gli organici adeguati, un corpo legislativo che snellisca le procedure invece di appesantirle. Riguardano tutti, giudicanti e giudicati. Sono la difesa collettiva dall’ingiustizia più ingiusta: ottenerla a tumulazione avvenuta. La magistrata del secolo scorso: “Così ho rotto il tetto di cristallo. La riforma Nordio? Pessima” di Irene Famà La Stampa, 27 ottobre 2025 Nel 1963 Gabriella Luccioli fu tra le prime 8 donne a indossare la toga in Italia. “Ho dovuto lavorare più dei colleghi maschi”. Quando il presidente della commissione dichiarò Gabriella Luccioli dottoressa in giurisprudenza con centodieci su centodieci cum laude ci furono applausi scroscianti. Un momento di orgoglio, soddisfazione. Trascorsi i festeggiamenti, però, della sua laurea Gabriella Luccioli non sa che farsene. “I miei compagni erano orientati, sin da subito, a preparare il concorso per entrare in magistratura, ma io non potevo perché donna”, racconta oggi, ottantacinque anni, simbolo di tante conquiste, altrettante vittorie, numerose picconate al “soffitto di cristallo” date, all’inizio, anche un po’ inconsapevolmente. Quando di “soffitto di cristallo” proprio non si parlava. “Era il novembre 1962 e i magistrati erano rigorosamente uomini”. L’apertura, l’opportunità, arriva mesi dopo: il 9 febbraio 1963. Quello il momento in cui la legge consentì alle donne di indossare la toga. “E io, per senso di accettare la sfida, di provarci, feci il concorso e lo vinsi”. Gabriella Luccioli e altre sette in tutta Italia: prime magistrate. Con la “e” finale, anche se all’epoca menzionare il linguaggio di genere era davvero un’eresia. “Erano anni in cui non c’era particolarmente la consapevolezza della discriminazione, questa è venuta dopo”. Quel concorso, Luccioli lo considera una “fatalità. A inizio Anni 60 non c’era ancora la maturazione di sé e del femminismo, che è arrivata negli anni successivi e ha orientato la mia formazione professionale. All’epoca considerai l’intera situazione una sorta di colpo di fortuna”. La nomina arriva il 5 aprile 1965. Luccioli è una donna determinata, caparbia. Nata a Terni, in Umbria, frequenta il liceo classico a Spoleto. Poi si sposta a Roma, a La Sapienza. Il primo incarico come uditore giudiziario è al tribunale di Montepulciano. Poi, mesi dopo, rientra a Roma come pretore prima alla quinta poi alla prima sezione civile. Sedici anni dopo, nel 1982, arriva la nomina di consigliera presso la Corte d’appello della Capitale. “No, non è stato facile. Mentirei dicessi il contrario”. Otto magistrate distribuite su tutto il territorio nazionale è sinonimo di solitudine. Per ciascuna di loro. “Nel distretto di Roma, sono rimasta sola per tanti anni. Sola, donna, in un contesto che era unicamente maschile”. Luccioli ricorda ancora “l’atteggiamento scettico, di attesa, di diffidenza, di messa alla prova”. Gli sguardi di chi, con paternalismo e accondiscendenza, probabilmente piegando la testa sulla destra e abbozzando una sorta di sorriso di comprensione, voleva spiegarle come svolgere il suo lavoro. O di chi, abbassando gli occhiali, attendeva un suo errore. È una donna, impossibile che non sbagli, questo il pensiero comune. E quell’errore, gli altri, gli uomini, lo aspettavano per potere allargare le braccia in segno di disapprovazione. Ad alzare le sopracciglia non erano solo gli avvocati o le persone civili finite nelle maglie della giustizia per questo o quel motivo, ma anche e soprattutto “i colleghi più giovani. Proprio loro facevano fatica a vedersi al fianco, in pari posizione, una donna. Dovevo dimostrare di meritare il posto che ricoprivo, dimostrare la massima professionalità, rispondere a tutte le richieste, emettere sentenze impeccabili”. Luccioli non si scompone: “Sapevo che dovevo lavorare molto più duramente dei miei colleghi maschi”. Allora come adesso: “Questo aspetto lo si riscontra ancora oggi. Le donne devono lavorare e combattere di più per essere percepite come uguali”. Pioniera, nel 1990 è la prima donna ad essere nominata consigliera della Corte di Cassazione, nel 2008 diventa prima donna presidente di sezione della Cassazione. E ancora. “Nel 2011, per la prima volta per una donna, ho assunto la direzione di quella sezione”. Insieme ad altre, fonda l’Associazione donne magistrato italiane: non vuole essere semplicemente un esempio, ma lottare concretamente, in prima linea, perché le cose cambino. Oggi le magistrate “sono tante, circa il 57%, e sono destinate ad aumentare sempre di più. Lo si vede nei concorsi: studiano, si iscrivono, li superano”. Parità raggiunta? “I numeri sono buoni e significativi, ma ancora non c’è parità negli incarichi direttivi”. Per le funzioni requirenti, le donne a capo di uffici delle procure sfiorano il 23%, e per le funzioni giudicanti il dato ruota attorno al 33%. “È vero, abbiamo avuto la bella esperienza di una donna presidente della Suprema Corte di Cassazione. Un particolare momento che ha avuto un forte valore simbolico, ma che non cancella la realtà dei fatti: la nostra scarsa rappresentanza”. Tema complesso, delicato. Luccioli non vuole banalizzare, un aspetto però lo sottolinea: “Le donne, ancora oggi, devono badare a diverse cose. Ed essere dirigente d’ufficio comporta, molto spesso, spostamenti di sede”. I diritti restano una priorità per Luccioli che nel 2007 firma la sentenza relativa al caso di Eluana Englaro, con cui si sancì l’autodeterminazione terapeutica per i malati terminali (si diede loro, insomma, la possibilità di scegliere), e nel 2013 la sentenza in cui difese l’affidamento dei minori alle coppie omosessuali. Oggi è in pensione, ma l’animo battagliero è sempre lo stesso. Le scorse settimane, a Genova, ha presenziato e partecipato al congresso nazionale di AreaDg, gruppo progressista dei magistrati, per dibattere sulla riforma costituzionale della giustizia a firma Meloni-Nordio. “Una riforma pessima. Fatta con intenti diretti a menomare l’autonomia della magistratura. Per non parlare dei costi che comporterà. Eccessivi. Sa cosa significa raddoppiare il Consiglio superiore della magistratura? Per non parlare dello svilimento di un organo costituzionale come il Csm”. E a Giorgia Meloni, prima premier donna, lancia una riflessione: “Avrebbe potuto rappresentare un simbolo e non l’ha fatto. La sua prima mossa in pubblico è stata chiedere di essere chiamata “il presidente”. Al maschile”. Non credo che tra “il” o “la” premier, in fondo, poco cambi? “No, il linguaggio è molto importante”. Nessun vezzo o puntigliosità. “Il linguaggio esprime consapevolezza di sé e responsabilità della propria funzione”. La definizione legale di stupro tra consenso e violenza: la via europea su cui l’Italia vacilla di Francesca Spasiano Il Dubbio, 27 ottobre 2025 Il nostro Codice penale fonda ancora la fattispecie sulla forza o l’abuso, ma dal 2013 la Convenzione di Istanbul ci impone di mettere in primo piano la volontà espressa dalla persona offesa. ora il Pd rilancia una riforma, ma il rischio è rinunciare alle garanzie. C’è chi la mette così: se fondassimo la definizione legale di stupro sul consenso, poi dovremmo girare con il registratore in tasca per garantirci la prova del “sì”? Per fortuna il dibattito è un po’ più ampio di così, anche se il tema esiste. E investe prima di tutto la dottrina e la giurisprudenza, che in Italia ha “anticipato” il legislatore nell’estendere la fattispecie di violenza sessuale. Il nostro codice penale, articolo 609-bis, continua a fondarla sulla violenza, la minaccia o l’abuso di autorità, senza mai menzionare il concetto di consenso. Anche se la Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013, impone di tipizzare un reato che si regga proprio su tale principio. La formula si trova all’articolo 36: lo stupro è “un rapporto sessuale senza consenso”, che deve essere espresso “volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”. Ma nonostante la Convenzione sia uno strumento internazionale giuridicamente vincolante nell’ambito della violenza di genere, sono ancora molti i Paesi dell’Unione europea che continuano a disattenderla. Il ritardo dell’Italia è stato già “segnalato” dal Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Grevio), e della necessità di riformare la normativa in materia si è tornato a parlare proprio negli ultimi giorni, dopo un nuovo caso che ha catalizzato l’interesse dell’opinione pubblica. Il fatto è avvenuto nelle Marche, dove la Corte d’appello di Ancona ha appena ribaltato l’assoluzione di un 31enne accusato di stupro, condannandolo a tre anni. A scatenare l’ondata di indignazione sono stati alcuni passaggi della sentenza di primo grado, che sono finiti sui giornali a poche ore dal nuovo verdetto. Il punto critico riguarda proprio il consenso espresso dalla giovane donna che ha denunciato, 17enne all’epoca dei fatti, che a parere dei giudici “era in condizione di immaginarsi i possibili sviluppi della situazione”. Una frase che ha scatenato le reazioni anche della politica e in particolare delle parlamentari del Pd, che hanno rilanciato una proposta di legge per modificare la fattispecie di violenza sessuale. Si tratta di due testi pressoché identici, firmati da Laura Boldrini alla Camera, dove è già cominciato l’iter, e da Valeria Valente al Senato. La proposta rovescia l’attuale formulazione dell’articolo 609 bis del codice penale (“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni”), per porre in primo piano il consenso, che deve restare “immutato durante l’intero svolgersi dell’atto sessuale”. Cioè può essere revocato in qualunque momento e con ogni forma. Da qui muove anche la giurisprudenza di legittimità, attraverso una serie di sentenze con le quali la Cassazione ha delineato un orientamento volto a “svuotare” il concetto di violenza per riempirlo di nuovi significati. Secondo questa interpretazione, costringere non significa soltanto esercitare forza: è proprio l’assenza di consenso l’elemento centrale su cui si fonda la violenza. Anche quando a un “sì” segua un “no”: se il dissenso viene manifestato nel corso di un atto sessuale - con parole o tacitamente, tramite azioni - quell’atto è da considerare illecito. Un concetto ormai pacifico, che però pone non pochi problemi sul piano pratico, nell’ambito del processo, e nel necessario bilanciamento tra tutela della vittima e garanzie difensive per l’imputato. Per cominciare: come si affronta in tribunale un caso in cui non ci sia comprovata violenza fisica? E ancora: il consenso va espresso esplicitamente o va da sé, in mancanza di un no? Ovvero, un mancato sì, equivale a no? La cronaca giudiziaria ci ha insegnato che le reazioni a un stupro possono essere molteplici. C’è chi cerca di liberarsi dell’aggressore reagendo con forza e chi invece resta inerme, come paralizzato, per lo choc e il timore di subire ulteriore violenza. Per questo, sul piano penale, può rilevare anche il contesto in cui si svolge l’atto sessuale e il grado di consapevolezza di chi si trova sul banco degli imputati. “Si è definitivamente giunti, per via giurisprudenziale, alla consacrazione del paradigma del consenso affermativo (“affermative consent”), quale assestamento del diritto vivente: nell’inerzia del legislatore rispetto all’opportunità di riformare la fattispecie di violenza sessuale incentrandola sul consenso, interviene sistematicamente la giurisprudenza a ridisegnare il volto della norma, attraverso un’interpretatio abrogans dei requisiti della violenza e della minaccia, ritenendo integrato il delitto ogniqualvolta la persona offesa si trovi concretamente nell’impossibilità materiale o psicologica di opporre un rifiuto espresso al rapporto sessuale”, spiega Michela Pellini su Giurisprudenza penale. Ma questa impostazione, naturalmente, porta con sé dei rischi. Sia sul piano delle relazioni intime, che potrebbero irrigidirsi eccessivamente, sia sul piano processuale. Soprattutto nell’ambito dei delitti sessuali, sui quali la pressione dell’opinione pubblica reclama una risposta sanzionatoria “esemplare”. “Portando alle estreme conseguenze il modello del consenso affermativo, si potrebbe arrivare a sostenere che qualora la persona rimanga impassibile e non manifesti espressamente il proprio consenso, sarebbe in ogni caso integrato il fatto tipico, anche in caso di gradimento o di volontà dell’atto da parte della stessa”, spiega ancora Pellini. La quale ricorda che nella fattispecie di violenza sessuale “è insito un certo grado di indeterminatezza che appare difficile colmare interamente per via legislativa, eliminando ogni margine di discrezionalità in capo ai giudici”. Un’interpretazione troppo vaga di consenso esporrebbe ogni caso all’arbitrarietà di chi decide, ma al contempo è impensabile “burocratizzare” i rapporti intimi al punto da pretendere che si compili un modulo per non incorrere in guai giudiziari. Trovare il giusto equilibrio è complesso, e ogni paese cerca il suo modello. L’ordinamento inglese, per esempio, si basa sull’assenza di consenso e fissa il confine in tre punti: una persona A commette un reato se l’atto sessuale con B è effettivamente avvenuto, se B non vi acconsente, e se A non è ragionevolmente conscio che B acconsenta. La Germania, invece, ha optato per il “dissenso temperato”: qui l’elemento centrale della fattispecie penale risiede nel rifiuto della persona offesa, che deve essere riconoscibile, seppure tacito. Il modello normativo tedesco, riformato l’ultima volta nel 2016, punisce la violenza sessuale anche se la vittima non ha opposto resistenza fisica. Ma si distingue dalla legge spagnola, “solo sì è sì”, che dal 2022 pone l’accento sul consenso esplicito. La riforma, chiesta a gran voce dai movimenti femministi, ha cancellato la distinzione tra “abuso sessuale” e “aggressione sessuale” e prevede misure per sostenere le vittime. Ma con qualche “effetto collaterale” imprevisto: la riformulazione che fa convergere diverse condotte in un unico reato, secondo una scala progressiva di sanzioni, ha portato a centinaia di riduzioni della pena e scarcerazioni. In Francia, il cantiere è ancora aperto: dopo il via libera dello scorso aprile a una prima versione del testo, il 23 ottobre l’Assemblea Nazionale francese ha approvato la stesura definitiva (riformulata da una commissione apposita) che introduce la nozione di “consenso” nella definizione di stupro e aggressione sessuale. Il voto finale al Senato è previsto per il 29 ottobre, un anno dopo il processo sul caso di Gisèle Pelicot, drogata e stuprata per anni, a sua insaputa, da decine di uomini “reclutati” sul web dal marito. La sua vicenda ha sconvolto la Francia e il mondo intero, fornendo la spinta decisiva per riscrivere l’articolo del codice penale attualmente in vigore, che invece definisce lo stupro come qualsiasi atto di penetrazione sessuale commesso attraverso “violenza, coercizione, minaccia o sorpresa”. Il caso ha aperto una riflessione sul concetto di “sottomissione chimica”, cioè l’annullamento totale della volontà della vittima, ridotta in stato di incoscienza. Una condizione che la legge non prevede, seppure anche la normativa italiana riconosca come aggravante l’inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto. Ciò che resta da scardinare, è l’antica concezione di violenza come espressione di una forza invincibile, a cui è impossibile sottrarsi: il nostro codice penale continua a basarsi su quest’idea, anche dopo la riforma - l’ultima - contenuta nella legge 66 del 1996. Valeria Valente: “Si processano ancora le vittime. Per questo la legge sul consenso serve” di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2025 La giustizia ancora guarda con sospetto le donne che denunciano violenza. La senatrice dem in Commissione femminicidio: “Finché chiederemo alle vittime di dimostrare di aver resistito, continueremo a giustificare i colpevoli”. Valeria Valente, senatrice del Pd, componente della Bicamerale femminicidio, la sentenza di Macerata è stata criticata per il linguaggio usato nel descrivere la presunta vittima di stupro. Cosa ci dice questo linguaggio sul modo in cui la giustizia - e più in generale la cultura giudiziaria - affronta i casi di violenza di genere? La sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Macerata, per fortuna modificata in appello, è purtroppo molto grave soprattutto perché ravvisa nel comportamento della giovane donna, essersi appartata in auto con un ragazzo, la principale causa dello stupro, di fatto rivittimizzandola. Dice in sostanza: “Non era vergine, doveva aspettarselo”. Il pronunciamento di quei magistrati è sembrato cioè ispirato al principio che il desiderio maschile sia incontrollabile e spetti dunque alla donna soddisfarlo o evitare di sollecitarlo: uno dei pilastri del controllo sul corpo femminile da parte degli uomini. L’Italia è stata sanzionata dalla Cedu per fenomeni di vittimizzazione secondaria. A cosa è legata questa tendenza e quanto è presente nelle nostre aule di giustizia? Quali strumenti concreti servirebbero per ridurla? La vittimizzazione secondaria è purtroppo ancora drammaticamente presente nelle aule giudiziarie del nostro Paese, e non solo, ed è connaturata con il fatto che la violenza maschile contro le donne è un fenomeno strutturale, radicato nella cultura di stampo patriarcale, ancora tanto diffusa. Nel sistema giudiziario si combatte innanzitutto con un’adeguata conoscenza e una corretta lettura delle sue dinamiche, delle sue modalità di espressione, delle sue fasi. La strada maestra è dunque quella della formazione e della specializzazione degli operatori della giustizia, magistrati avvocati, consulenti. Abbiamo votato sì al ddl femminicidio anche perché dispone la formazione obbligatoria per i magistrati ma, affinché non rimanga lettera morta, serviranno risorse e un impegno ancora più netto della Scuola superiore della magistratura. Il Pd ha rilanciato la proposta di una legge sul consenso. In cosa consiste e perché sarebbe importante prevedere il consenso esplicitamente per legge? C’è ancora resistenza culturale, anche tra i giuristi o nell’opinione pubblica, ad accettare il consenso come criterio centrale? La Convenzione di Istanbul stabilisce che il consenso a un rapporto sessuale deve essere espresso esplicitamente e sempre libero, quindi anche revocabile, altrimenti siamo di fronte a uno stupro. Come Pd abbiamo proposto sia al Senato che alla Camera un ddl sul consenso perché l’attuale formulazione dell’articolo 609-bis del Codice penale da un lato restringe lo stupro alla presenza di condotte quali violenza, minaccia e abuso d’autorità e, dall’altro, non tiene in alcun conto che nella maggior parte dei casi la donna non è in condizione di reagire. Così nei processi per stupro si chiede ancora alla vittima di dimostrare di aver subito un comportamento violento, minaccioso o abusante attraverso la prova di aver esercitato un’energica e visibile reazione. Se manca, si arriva a sostenere che abbia accondisceso al rapporto. Una legge sul consenso aiuterebbe quindi le donne a non essere rivittimizzate e offrirebbe loro uno strumento efficace per difendersi meglio in tribunale. La pdl Boldrini ha iniziato alla Camera l’iter in Commissione, mi auguro si arrivi quanto prima alla sua approvazione. L’educazione sessuale e affettiva appare come un tabù per questa maggioranza. Che spiegazione si dà? E che tipo di educazione servirebbe per essere davvero efficace e non percepita come un’imposizione ideologica? Questa maggioranza è conservatrice e si sta dimostrando allergica al superamento di modelli familiari, relazionali e sessuali streteotipati e datati. L’emendamento che vieta nella primaria di secondo grado corsi di educazione sessuo-affettiva è grave. Se vogliono proseguire in maniera unitaria su questi temi, come sarebbe doveroso e auspicabile, devono assolutamente ritirarlo. Contro stereotipi e pregiudizi è infatti basilare il protagonismo di tutte le agenzie educative, a partire da scuola e università, per la promozione di una cultura del rispetto della differenza sessuale, del corpo e dell’autodeterminazione delle donne. Non vedo dove sia l’imposizione ideologica, parliamo di diritti umani. L’inasprimento delle sanzioni non sembra avere effetti pratici, ad esempio sul fenomeno dei femminicidi: in genere chi arriva a maturare una tale decisione non pensa alle conseguenze. A che serve allora prevedere pene più severe? Se il carcere non basta, quali politiche o strumenti potrebbero invece funzionare davvero per prevenire la violenza di genere? L’inasprimento delle pene, così come l’istituzione di nuove fattispecie di reato, da solo non serve a prevenire la violenza contro le donne, proprio perché siamo davanti a un fenomeno sociale e culturale strutturale. Se nel 34% dei casi di femminicidio l’autore si suicida, non c’é deterrenza che tenga. La strada maestra restano le politiche di prevenzione: educazione sessuo-affettiva, al rispetto della differenza di genere, decostruzione e ricostruzione dei modelli di relazione tra gli uomini e le donne, investimento sull’autonomia economica delle donne e sulla vera parità. E poi bisogna sostenere con più risorse la rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio che, oltre ad accogliere le donne, sono un presidio di promozione di nuovi modelli culturali e di spazi di libertà e autonomia per tutte. Infine servono corsi seri e obbligatori per gli uomini maltrattanti, campagne di sensibilizzazione, una collettiva responsabilizzazione maschile. Che ruolo hanno i media e il linguaggio giornalistico nel modo in cui la società percepisce la violenza di genere? Possono contribuire a cambiare l’immaginario collettivo? Contro stereotipi e pregiudizi il linguaggio è importantissimo e i media hanno un ruolo chiave. Se il femminicidio di Pamela Gianini è stato ancora rappresentato attraverso una narrazione incentrata sulla vita di questa bella ragazza di successo, con un’attenzione ossessiva alla sua immagine e ai suoi comportamenti di vita, invece che concentrarsi sul profilo dell’uomo che l’ha ammazzata e che non accettava la sua libertà e le sue scelte, c’è ancora tanta strada da fare. Soprattutto, stupisce e preoccupa ancora la ricerca del movente, come se ogni femminicidio non fosse l’espressione di un fenomeno sociale e dunque politico, ma un singolo fatto privato e dunque di cronaca. Aurora Matteucci: “Affidarsi alla fede del diritto penale non è la soluzione e sfibra le garanzie” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 ottobre 2025 “Questa assuefazione fideistica al potere taumaturgico del diritto penale sta producendo solo danni, sul piano delle garanzie processuali, oggi ridotte al lumicino, senza alcuna reale capacità di debellare un fenomeno che è e resta grave”. L’assoluzione prima e la condanna poi di un ragazzo per violenza sessuale a Macerata, balzata agli onori della cronaca una settimana fa, riaccende la polemica sul tema del consenso. Ne parliamo con l’avvocato Aurora Matteucci, già presidente della Camera penale di Livorno. La proposta di legge Boldrini intende superare il concetto di violenza sessuale come atto necessariamente compiuto con l’uso di violenza o minaccia, stabilendo invece che integrano la fattispecie di violenza sessuale tutti gli atti sessuali compiuti o subiti in assenza di consenso. “Una norma prevista dalla Convenzione di Istanbul” ha specificato la parlamentare. Lei cosa ne pensa? Quella del consenso all’atto sessuale è questione molto complessa. Per la Cassazione, ormai da anni, l’atto sessuale non consentito è reato, a prescindere dal fatto che ricorra una violenza fisica o psichica. Si è forzato, in palese violazione del principio di legalità, la lettera della legge limitata ai casi di costrizione mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o di induzione con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica o con inganno. Ora, se è innegabile che l’atto sessuale non consentito sia una grave forma di violazione dell’autodeterminazione, la supplenza interpretativa della magistratura non può essere una strada condivisibile. In questo senso potremmo allora dire ben venga il legislatore a fare definitiva chiarezza. Quindi ben venga la Boldrini? La proposta di legge Boldrini desta, però, più di un dubbio. Si legge: “Per consenso si intende quello espresso quale libera manifestazione di volontà della persona e che rimanga immutato durante l’intero svolgersi del rapporto sessuale. Il consenso deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto e può essere revocato dalla persona in qualsiasi momento e in qualsiasi forma”. Sembra semplice. Ma non lo è. Intanto: che cosa si intende per revoca del consenso in qualsiasi forma? Locuzione imprecisa che aprirà la breccia alle interpretazioni più varie. Peraltro, la Convenzione di Istanbul non lo richiede. Non solo. Provare l’esistenza del consenso, anche oggi, è impresa quasi impossibile, specie considerando che per evitare il rischio di vittimizzazione secondaria certe domande della difesa vengono interdette a priori. In Germania si è deciso di incriminare gli atti compiuti contro la volontà riconoscibile di un’altra persona. Scelta più aderente alla realtà delle relazioni sessuali in cui è difficile immaginare formule sacramentali di consenso. Non solo: neppure c’è accordo sulla definizione di consenso. In che senso? In apparenza sembra chiaro: “un sì è un sì”, “un no è un no”. E però, se il “no” è pacificamente un rifiuto, un “non sì” è automaticamente “un no”? Ancora: un “si” esprime sempre desiderio o anche un’accettazione? E, in questo caso, quando l’accettazione è la strada per evitare un male peggiore e quando, invece, è adesione passiva ad un atto non pienamente gradito ma tutto sommato ammesso? Le norme penali possono davvero sciogliere e delineare tutte le ambiguità? Se i confini epistemologici del consenso sono così difficili da individuare non è sufficiente normare le relazioni umane attraverso il diritto penale. Parlare di consenso senza affrontare il contesto culturale rischia di svuotarne il significato lasciando le donne intrappolate dentro un ordine egemonico nel quale il “sì” potrebbe apparire “un guscio vuoto” (M. Garcia). Questa assuefazione fideistica al potere taumaturgico-pedagogico del diritto penale ha prodotto e sta producendo solo danni - sul piano delle garanzie processuali, oggi ridotte al lumicino senza alcuna reale capacità di debellare un fenomeno che è e resta grave. I fatti di cronaca ce lo ricordano impietosamente. La violenza maschile non arretra con la minaccia dell’ergastolo (vedi il nuovo ddl femminicidio). Cosa fare allora? Servono altri strumenti: denari, tanto per iniziare, e non riforme a costo zero; investimenti sul welfare; sforzi concreti per analizzare e sabotare un sistema culturale che ha fatto della subalternità delle donne la sua cifra e che si manifesta ancora attraverso il dominio maschile e la normalizzazione di logiche di possesso cui fa da pendant, va detto, una scarsa consapevolezza, da parte di molte donne, della propria autonomia sul piano sessuale e non solo. Stiamo andando verso una sorta di burocrazia sessuale, per cui bisogna portarsi a letto un modulo e una biro? Interpretazioni semplicistiche, che niente hanno a che vedere con analisi serie e rigorose dei fenomeni sociali, rischiano di produrre, in effetti, storture macchiettistiche. Nei casi di violenza di genere si parte dal presupposto che la presunta vittima abbia sempre e comunque ragione. C’è qualcosa di sbagliato in questo pensiero? Siamo passati da una legislazione aberrante - la violenza sessuale come crimine contro la moralità e il buon costume, il matrimonio riparatore etc., ad una reazione scomposta che oggi pretenderebbe di tradurre nel processo penale lo slogan “sorella io ti credo”. La Cassazione riconosce una presunzione di veridicità del narrato della persona offesa. Ma nessuna norma lo prevede. Per giunta, presumere la veridicità di una denuncia o di una dichiarazione contrasta platealmente con la presunzione di innocenza. Se presumo che quello che racconti è vero devo presumere, necessariamente, che l’imputato sia colpevole. Quali sono le conseguenze sul processo penale? Un avvitamento pericoloso sulle garanzie processuali. Per inciso: maggiori sono i rischi sul piano della reazione penale (pensiamo al rischio di un ergastolo) e maggiori dovrebbero essere le garanzie per approdare a sentenze giuste. Ormai sempre di più assistiamo a pesanti critiche nei confronti di giudici che derubricano o assolvono in casi di maltrattamenti, stupri e reati simili. Qual è il rischio sotteso? Anzitutto nella stragrande maggioranza dei casi le critiche provengono da persone che non leggono le sentenze. I media hanno una grande responsabilità scagliandosi contro singole parole di sentenze che, lette per intero, assumono ben altro significato. Criticare una sentenza è lecito. Ma la decisione è la sintesi di un processo i cui atti sono per lo più sconosciuti. Occorre maggiore prudenza. Il rischio è quello di minare la serenità dei giudici. Secondo lei c’è un problema di scrittura delle sentenze? Talvolta sì. Ma ribadisco: vanno lette per intero. Ad esempio: sentenza di Macerata. In questo caso la decisione dell’assoluzione poggia su molte ragioni che riesce davvero difficile affermare che l’imputato sia stato assolto perché la ragazza aveva già avuto rapporti sessuali in precedenza. Calabria. Emergenza carceri: sovraffollamento, collusioni e diritti negati di Elisa Barresi Il Reggino, 27 ottobre 2025 Angela Napoli: “Serve un indirizzo politico unitario e volontà concreta”. Un sistema al collasso che, secondo l’ex deputata, rischia di vanificare la funzione rieducativa della pena e di alimentare il potere delle organizzazioni mafiose anche dietro le sbarre. Giunto al quinto appuntamento dello speciale sull’emergenza carceri in Calabria, l’approfondimento dà voce all’onorevole Angela Napoli, ex parlamentare e membro storico della Commissione Antimafia, per oltre vent’anni sotto scorta per le sue denunce contro la ‘ndrangheta. Napoli analizza una situazione definita “incandescente da tempo”, denunciando il sovraffollamento cronico, la carenza di personale e psicologi, le collusioni interne e l’assenza di strutture sanitarie adeguate. Un sistema al collasso che, secondo l’ex deputata, rischia di vanificare la funzione rieducativa della pena e di alimentare il potere delle organizzazioni mafiose anche dietro le sbarre. “Non parlerei di una situazione incandescente solo adesso - spiega Angela Napoli - ma di un’emergenza che va avanti da anni. Ogni volta che accade un episodio grave si promettono soluzioni, ma poi tutto torna come prima”. L’onorevole denuncia la mancanza di interventi strutturali: dai suicidi in carcere, che nel 2025 hanno già superato quota 60, alla carenza di psicologi e personale qualificato, fino a un sovraffollamento che in alcuni istituti “raggiunge livelli insostenibili”. “La soluzione non è l’amnistia o l’indulto - afferma - ma la costruzione e l’ampliamento di strutture adeguate, perché il diritto alla pena non può trasformarsi in una condizione disumana”. Napoli non nasconde le proprie preoccupazioni sulle collusioni interne: “Non solo tra detenuti, ma anche tra detenuti e personale, talvolta persino a livelli dirigenziali”. Una denuncia che si intreccia con un’altra realtà inquietante: i boss che continuano a comandare anche dal carcere. “È impensabile che un capo della ‘ndrangheta perda il controllo del suo territorio. Le comunicazioni avvengono in mille modi: tramite familiari, avvocati, persino attraverso telefoni e droni che entrano negli istituti. Mancano i controlli, manca la volontà di impedire tutto questo”. Un altro aspetto critico è quello della sanità carceraria, che Napoli definisce “un vero nodo dolente”. Pur riconoscendo alcune eccellenze, l’ex parlamentare sottolinea che “la mancanza di strutture adeguate e di personale sanitario rende difficile garantire cure dignitose ai detenuti”. Tuttavia, avverte: “Non sempre chi dichiara di non poter restare in carcere per motivi di salute dice il vero. Ci sono strutture interne migliori di molte esterne. Serve equilibrio e trasparenza”. Napoli pone l’accento sulla funzione costituzionale della pena: rieducare il detenuto. “Se un boss continua a impartire ordini dal carcere, se i detenuti fragili vengono soggiogati dai più forti, allora quella funzione è perduta. Servono regole, controlli, una sorta di anti-’ndrangheta penitenziaria’ che protegga chi vuole davvero cambiare vita”. Alla domanda sulle soluzioni concrete, Napoli è chiara: “Serve un indirizzo politico unitario, oggi completamente assente. C’è chi parla solo di rieducazione, chi di punizione esemplare. Finché la politica resterà divisa, ogni proposta sarà inefficace. La pena deve essere certa, ma anche dignitosa e utile al riscatto di chi la sconta”. Sul piano personale, l’onorevole, che ha vissuto 22 anni sotto scorta per la sua attività contro la ‘ndrangheta, non nasconde la preoccupazione per il ritorno in libertà di molti boss: “I boss non dimenticano. Ma io continuo a credere nella libertà e nella legalità. Ho vissuto anni difficili, ho rischiato la vita, ma non ho mai smesso di denunciare. Perché fingere di non sapere è già una forma di complicità”. Le parole di Angela Napoli restituiscono il quadro di un sistema penitenziario calabrese - e nazionale - al limite del collasso, dove emergenze strutturali, carenze umane e connivenze interne minano la giustizia e la sicurezza collettiva. Una denuncia lucida che richiama la politica alle proprie responsabilità: trasformare l’indignazione in azione concreta, per restituire al carcere la sua funzione civile, non solo punitiva ma anche rieducativa. Umbria. Scabbia, decine di casi in carcere di Massimo Solani rainews.it, 27 ottobre 2025 Focolai negli istituti penitenziari di Perugia e Terni. L’allarme dei sindacati: “Manca personale sanitario, a rischio anche gli agenti”. A dare l’allarme erano stati i parenti di alcuni detenuti degli istituti di Terni e Perugia. Casi di scabbia isolati che, in strutture sovraffollate dove è impossibile o quasi trovare spazi adeguati per separare i malati dai sani e contenere così la diffusione del contagio, in pochi giorni sono diventati veri e propri focolai con decine di casi. A lanciare l’allarme il garante dei detenuti dell’Umbria Giuseppe Caforio che nei giorni scorsi ha allertato le autorità sanitarie chiedendo un intervento per evitare il diffondersi dei contagi. E se a Terni la situazione sembra tornata sotto controllo, nonostante la difficoltà di gestire spazi ancora limitati dopo la rivolta di giugno e col numero di reclusi oramai stabilmente sopra le 600 unità, più complicata è quella di Capanne. E il timore è che, se non contenuta in tempo, la diffusione dei contagi di scabbia possa aumentare ulteriormente nelle prossime settimane quando le carceri umbre, soprattutto Terni e Orvieto, saranno interessate da nuovi trasferimenti, come “annunciato” dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha fatto istallare nuovi letto in celle dove già sono ospitati fino a sette detenuti. A peggiorare lo scenario, poi, la carenza di personale sanitario in grado di occuparsi del trattamento dei detenuti malati, necessario soprattutto per evitare il contagio di quei reclusi affetti da patologie pregresse e per questo immunodepressi. Ma preoccupazione, ovviamente, è stata espressa anche dai sindacati della polizia penitenziaria che hanno denunciato il rischio a cui sono esposti gli agenti che lavorano ogni giorno a contatto con i detenuti. Bologna. Ecco il nuovo spazio per detenuti e associazioni che lavorano in carcere bolognatoday.it, 27 ottobre 2025 Si chiama Qubo7, ed è stato inaugurato in via Ferrarese, al quartiere Navile. In via Ferrarese è stato inaugurato Qubo7. Si tratta della nuova sede del Coordinamento carcere del Navile, che ha l’obiettivo di diventare la casa delle associazioni che lavorano nei penitenziari ma anche un laboratorio per le attività dei detenuti. Come spiega l’agenzia Dire, il nome è già un programma: il numero 7, infatti, è stato scelto per “rendere il carcere il settimo quartiere di Bologna”. Il taglio del nastro è avvenuto nel pomeriggio di sabato 25 ottobre e all’inaugurazione ha partecipato Federica Mazzoni, presidente del quartiere Navile. “Finalmente il Coordinamento carcere del Navile, che a livello cittadino si propone di essere un punto di riferimento per il carcere tra il dentro e il fuori - dice Mazzoni -, ha una sede fisica. Abbiamo detto fin dall’inizio che per noi il carcere non è un luogo da tenere lontano, da non conoscere, ma da integrare quanto più possibile nella vita della città e quindi il settimo quartiere di Bologna per noi dev’essere la casa circondariale”. C’è stata la necessità, spiega ancora Mazzoni, di dare “una casa fisica, una struttura di coordinamento a tutte le associazioni che con il volontariato si occupano di carcere, con i detenuti, per dare loro delle buone opportunità durante la pena ma anche per costruire la rete sociale utile per il loro reinserimento, perché l’articolo 27 della Costituzione per noi non è qualcosa di astratto”. Su queste basi “vogliamo anche noi, dal Navile, cercare di fare il nostro pezzetto concreto per far sì che il reinserimento e la rieducazione delle persone che sbagliano, che ovviamente devono pagare secondo la legge che impone delle sanzioni e delle pene - prosegue la presidente - poi possano avere una seconda opportunità. Opportunità di tipo lavorativo per quando si esce, ma anche di volontariato per la cura del territorio”, come ad esempio “le pulizie in quartiere”. Lo spazio potrà servire anche come casa dove i detenuti potranno incontrare i loro familiari, oppure un luogo dove i reclusi in licenza potranno passare del tempo. “Insomma, questo è un segnale politico che parte dal basso a cui teniamo molto - conclude Mazzoni -, perché le persone detenute devono avere una seconda opportunità e noi lavoriamo anche per questo reinserimento”. Alessandria. Sul futuro incerto del carcere San Michele il sindaco scrive a Delmastro di Adelia Pantano La Stampa, 27 ottobre 2025 Il San Michele potrebbe diventare carcere di massima sicurezza, chiesti chiarimenti al Governo. Sulle voci che circolano da giorni che vorrebbero il carcere di San Michele prossimo a diventare una struttura di massima sicurezza per detenuti al 41-bis, è intervenuto anche il sindaco di Alessandria Giorgio Abonante che chiedere chiarezza al Governo Meloni. “Ho scritto al sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, per avere chiarimenti sulle modalità di azione previste - spiega il primo cittadino - ma soprattutto per non sprecare il lavoro fatto nel tempo da tante istituzioni e dal terzo settore per creare una realtà sicura e aperta nella relazione tra detenzione e comunità. Non possiamo perdere questo patrimonio”. Abonante chiede al Governo “di agire con trasparenza”. Aggiungendo: “Aspettiamo una risposta a breve, ma soprattutto un confronto con gli altri organi dello Stato per capire cosa sta succedendo”. A sollevare la questione era stato nei giorni scorsi anche il deputato Pd Federico Fornaro, che alla Camera ha presentato un’interrogazione indirizzata al ministro della Giustizia, chiedendo chiarimenti sugli interventi strutturali in corso. Sullo sfondo, però, resta un fitto silenzio istituzionale. Nessuna comunicazione ufficiale è arrivata né al Comune né ai sindacati della Penitenziaria, che confermano di non aver ricevuto informazioni formali. Anche dall’incontro in prefettura di giovedì, convocato per affrontare le criticità anche del Don Soria, l’altro carcere cittadino, non sono emerse certezze. Il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria avrebbe riferito che al momento non ci sono certezze. Intanto alcuni detenuti con pene brevi o in semilibertà sarebbero già stati trasferiti in altri istituti piemontesi. Il carcere di San Michele (aperto nel 1992 dopo otto anni di lavori) ospita oggi trecento detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 269 posti, e soffre di una cronica carenza di personale di polizia penitenziaria. Eppure, dietro le sbarre, da anni si coltiva una delle esperienze più avanzate di reinserimento del Piemonte: laboratori di pasticceria e orti, corsi professionali e universitari, fino al Centro Agorà inaugurato quest’anno come spazio educativo e culturale aperto al territorio. Patrimonio umano e civile che rischia di andare perduto. Cuneo. “Voci erranti”, “Aria aperta” e Cascina Pensolato premiate dall’associazione Mario Riu cuneodice.it, 27 ottobre 2025 Quest’anno è stato riconosciuto il lavoro delle realtà che operano all’interno delle carceri, a difesa dei diritti dei detenuti. Sabato mattina, nel salone d’onore del Municipio, si è tenuta la consegna del Premio Mario Riu, che quest’anno è stata dedicata alle associazioni che operano all’interno delle carceri, a difesa dei diritti dei detenuti - un tema particolarmente caro a Mario Riu, che fu tra i promotori anche presidente di Voci Erranti, un’associazione che, attraverso il teatro, ha offerto ai detenuti strumenti di riscatto e consapevolezza”. Proprio a questa associazione - e a due altre realtà locali che operano nelle carceri: Aria aperta e Cascina Pensolato - sabato è stato consegnato il Premio Mario Riu 2025. La cerimonia, che si è aperta con il saluto della sindaca di Cuneo Patrizia Manassero, del presidente della Provincia Davide Sannazzaro e del consigliere regionale Mauro Calderoni (che hanno ricordato l’originalità del contributo di Riu (“Sapeva immaginare percorsi politici straordinari; seppe andare al di là delle famiglie politiche; i suoi insegnamenti hanno messo radici”; “aveva un’attenzione particolare per il Sociale”) è proseguita con un interessante confronto sul tema “La civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri”, cui hanno contribuito Alberto Valmaggia, garante dei detenuti per il Comune di Cuneo, Claudio Sarzotti, docente universitario e presidente dell’associazione Antigone Piemonte, Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti fino all’agosto 2025. “Di circolare in circolare le carceri si stanno chiudendo al mondo esterno - ha denunciato Alberto Valmaggia, portando a esempio l’ultima circolare del ministero di Grazia e Giustizia che prevede che per interventi di carattere educativo bisogna chiedere l’autorizzazione, fornire i dati, nomi dei partecipanti, il parere della direzione -. Tutto questo burocratizza, ostacola e rallenta fortemente un’attività importantissima per i detenuti. Dove va la funzione riabilitativa del carcere?”. Questione ripresa dal presidente dell’associazione Antigone Piemonte, Claudio Sarzotti che ha sottolineato come la rieducazione non è possibile in un contesto in cui si privilegiano le politiche penali alle politiche sociali. “La formazione della polizia penitenziaria è sempre più basata su una logica di guerra: manovre per bloccare i detenuti, uso delle armi. Questo è molto pericoloso: occorre preparare il personale a contenere la violenza insista nelle dinamiche stesse della condizione carceraria”. “La riforma penitenziaria di 50 anni fa indicava chiaramente un altro orizzonte: la detenzione dovrebbe essere l’estrema ratio; occorre passare alle misure alternative”. Proseguendo questo ragionamento Bruno Mellano ha aggiunto: “Abbiamo delegato l’esecuzione della pena al carcere, mentre essa deve coinvolgere la città, le scuole, la società organizzata”. E ancora: “Spetta a noi cittadini chiedere, esigere… Molte inchieste per reati di tortura sono state possibili perché i medici hanno certificato la non corrispondenza tra quanto dichiarato e la realtà”. Questione rilanciata con forza dal presidente di Voci erranti, Marco Mucaria, educatore nel carcere di Saluzzo. “Dobbiamo lavorare perché cambi lo stigma sociale verso i detenuti; quando un detenuto ha scontato la sua pena, è un uomo libero. Eppure incontra difficoltà insormontabili a trovare un lavoro, una casa, a ricominciare la sua vita”. Le tre associazioni premiate - La consegna dei premi da parte della nipote di Mario Riu, Linda Fogliato, è stata accompagnata dalla presentazione, da parte del presidente dell’associazione Dario Colombano, delle tre realtà individuate. “Voci erranti”, nata nel 2000, all’interno dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi da un Laboratorio teatrale con un gruppo di malati ed infermieri psichiatrici, venne poi invitata dall’allora direttrice del carcere di Saluzzo, Marta Costantino, a portare l’esperienza in carcere. Da allora Voci errante lavora con i detenuti “per ri-leggere, attraverso il teatro, il proprio vissuto e prendere consapevolezza dei propri limiti e delle proprie potenzialità”. Oggi si realizzano due spettacoli all’anno aperti alla cittadinanza e un gruppo di attori-detenuti recitano anche in trasferta. L’associazione gestisce anche il Caffè intervallo a Savigliano e un laboratorio di biscotti all’interno del carcere di Saluzzo. “Aria aperta”, associazione che opera nel carcere di Cuneo, accompagna i detenuti con colloqui individuali, fornisce loro aiuto materiale e organizza la biblioteca interna. Per diversi anni ha gestito un alloggio per ex detenuti in cui sono passate oltre 400 persone. “Incontriamo situazioni di povertà estrema: molti detenuti non hanno i soldi per una telefonata, per i francobolli - ha detto il responsabile dell’associazione -, noi facciamo il possibile per alleviare queste difficoltà, ma il nostro obiettivo è anche di sensibilizzare la cittadinanza: facciamo incontri nelle scuole, nelle parrocchie”. Cascina Pensolato è una cooperativa agricola sociale nata con l’obiettivo di favorire l’inserimento di detenuti e persone in situazione di fragilità nel mondo del lavoro e nella vita sociale, coltivando i terreni in San Antonio Baligio (Fossano) concessi in affitto dall’Istituto diocesano sostentamento del clero. Il progetto è partito grazie a un finanziamento della Caritas nazionale per l’inserimento lavorativo di 5 detenuti e di altrettanti detenuti agli arresti domiciliari; determinante l’impegno da parte di un agricoltore del posto - precedente affittuario dei terreni e titolare dell’azienda Orti del Casalito - a pianificare le attività agricole e a seguire il lavoro, fornendo assistenza tecnica e provvedendo alla collocazione dei prodotti nei suoi punti vendita. Ora la stessa cooperativa gestisce due punti vendita: uno in città e un altro all’interno del carcere con affaccio all’esterno. Inoltre la cooperativa fornisce la frutta e verdura al laboratorio di trasformazione dei prodotti realizzato nel carcere, che dà lavoro ad altri detenuti. “L’obiettivo non è solo di offrire un’opportunità lavorativa, ma di accompagnare queste persone in un cammino di crescita personale” ha detto il presidente della cooperativa, Nino Mana, prima di leggere la toccante testimonianza di un detenuto (presente alla cerimonia di premiazione) che racconta come l’incontro con la realtà di Cascina Pensolato gli abbia cambiato la vita. Roma. “Salone della Giustizia”, tre giorni di dibattiti su riforma e referendum ansa.it, 27 ottobre 2025 Si apre martedì a Roma la sedicesima edizione del Salone della Giustizia. All’evento, che si concluderà il 30 ottobre, prenderanno parte ministri, leader di partito, vertici della magistratura, dell’avvocatura, dell’ordine pubblico e della società civile che affronteranno i temi legati alla riforma e al referendum. Nella giornata d’apertura in programma un faccia a faccia con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. A seguire il tema su “I diritti umani ai tempi dell’incertezza” con esponenti della Corte costituzionale, del Csm, delle Camere Penali e dell’Aiga. Previsto un video messaggio dell’ex Guardasigilli Paola Severino. Ernesto Maria Ruffini, ex presidente dell’Agenzia delle Entrate, Francesco Paolo Sisto, vice ministro della Giustizia, saranno protagonisti degli altri due face to Face previsti nella mattinata. Il pomeriggio si aprirà con l’intervento di Giuseppe Conte. Previsti anche due faccia a faccia: il primo con Matteo Salvini, vicepremier e ministro delle Infrastrutture e Trasporti, il secondo con Cesare Parodi, presidente dell’Anm. In chiusura si parlerà di polizia penitenziaria insieme ad Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia, e Stefano Carmine De Michele, capo dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Nel programma della seconda giornata previsti, tra gli altri, anche gli interventi del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, del leader di Azione, Carlo Calenda, del presidente del Copasir, Lorenzo Guerini e del direttore del Dis, Vittorio Rizzi. Giovedì si parlerà di riforme istituzionali con il ministro Maria Elisabetta Alberti Casellati. Nel programma anche un dibattito sulla sanità pubblica - a cui prenderà parte il ministro della Salute, Orazio Schillaci - e sul Pnrr alla presenza del ministro per gli Affari Europei e le Politiche di Coesione Tommaso Foti. L’ultimo faccia a faccia vedrà la presenza del ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Arezzo. La musica dell’incontro che porta alla Casa Circondariale l’Orchestra Multietnica arezzo24.net, 27 ottobre 2025 Mercoledì 29 ottobre si concluderà, con un concerto dell’Orchestra Multietnica di Arezzo presso la Casa Circondariale, il progetto Saràbanda che ha coinvolto alcuni detenuti in un racconto di musica e relazione. Si conclude con un concerto presso la Casa Circondariale il laboratorio musicale che ha impegnato i detenuti insieme ai musicisti dell’ensemble aretino. Si concluderà nei prossimi giorni il laboratorio musicale curato dai musicisti dell’Orchestra Multietnica di Arezzo presso la Casa Circondariale di Arezzo. Il laboratorio si è svolto nell’ambito del progetto “Saràbanda”, realizzato con il contributo del Comune di Arezzo, Assessorato alle Politiche per l’integrazione e del Cesvot, in collaborazione con Officine della Cultura. Il percorso, articolato in sei incontri di due ore ciascuno, ha coinvolto 15 detenuti, alcuni dei quali alla loro prima esperienza musicale. In ogni incontro, guidati da un piccolo gruppo di musicisti dell’OMA, i partecipanti hanno avuto l’occasione di avvicinarsi alla musica come strumento di espressione, dialogo e scoperta reciproca. In un clima di ascolto e fiducia la musica si è così trasformata in un linguaggio comune capace di superare barriere linguistiche, culturali e sociali, valorizzando le tradizioni e le esperienze di vita dei singoli partecipanti. Il percorso vedrà il suo punto conclusivo in un concerto presso la Casa Circondariale di Arezzo che si terrà mercoledì 29 ottobre, con la partecipazione di una formazione ridotta dell’Orchestra Multietnica di Arezzo. Nell’occasione i detenuti che hanno preso parte al laboratorio si esibiranno insieme ai musicisti in un momento di condivisione e restituzione collettiva celebrando la musica come momento di incontro, dialogo e riscatto. “Entrare in carcere con la musica significa prima di tutto portare ascolto - spiega Massimo Ferri, ideatore del progetto oltreché musicista sul palco -. Non si tratta solo di insegnare a suonare, e difatti alcuni tra i partecipanti, senza esperienza, hanno dato il proprio contributo cantando, altri suonando strumenti a percussione messi a disposizione dall’OMA, ma di creare uno spazio dove le persone possano ritrovare voce, ritmo e relazione. La musica diventa così una forma di libertà possibile, anche dentro un luogo chiuso: un modo per riscoprire sé stessi e la propria storia, insieme agli altri.” La musica, nel progetto Saràbanda, è un’occasione per riscoprire competenze e radici culturali, per mettersi alla prova e mettersi in gioco, restituendo valore e dignità a contesti spesso dimenticati o colpevolizzati. Un percorso che conferma ancora una volta come l’esperienza musicale, così come portata avanti dall’Orchestra Multietnica di Arezzo, sia strumento di integrazione, relazione e libertà, capace di generare legami anche nei luoghi dove sembrano più difficili da immaginare. Ulteriori informazioni: www.orchestramultietnica.net - www.officinedellacultura.org. Cagliari. “Pierina e il lupo”: in scena i burattini costruiti dai figli dei detenuti di Uta Dove Domus Claudia cagliaritoday.it, 27 ottobre 2025 Saranno i burattini costruiti dai bambini e ragazzi, figli di detenuti del carcere di Uta, insieme ai giovani attori allievi della associazione “Le Compagnie del Cocomero” di Sestu, i protagonisti dello spettacolo “Pierina e il lupo”, che andrà in scena domenica 26 ottobre, alle 18, alla Domus Claudia di Sestu in via Parrocchia 80. Lo spettacolo è l’esito scenico del percorso di laboratori di costruzione e animazione di burattini “Le mani che muovono i sogni”, organizzato dall’associazione Prohairesis e curato da Rauhl Bernardelli, maestro burattinaio dell’associazione. L’iniziativa si inserisce nel progetto “Liberi dentro per crescere fuori”, selezionato dalla Fondazione “Con i Bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, che ha come destinatari principali i figli di persone detenute nella casa circondariale Ettore Scalas di Uta o sottoposte a pene alternative. Il laboratorio, iniziato a dicembre 2024 e concluso a fine giugno 2025, ha visto la costruzione e messa in scena di burattini da parte di ragazzi dagli 11 ai 13 anni, proseguendo una tradizione artistica che la famiglia Bernardelli porta avanti da tre generazioni. Lo spettacolo, della durata di circa 60 minuti, è rivolto a bambini e ragazzi dai 5 ai 14 anni e alle loro famiglie. Per proseguire in questo lavoro di promozione dei legami affettivi e di momenti di normalità all’interno del contesto detentivo, il giorno seguente, lunedì 27 ottobre, a partire dalle 14, all’interno del carcere di Uta, la sala incontri sarà addobbata a tema Halloween e animata da truccabimbi, dolcetti e tanta musica, grazie all’organizzazione di Exmé & Affini. Ospiti speciali saranno gli Arkeos, gruppo musicale cagliaritano che proporrà i grandi successi della musica italiana, per un pomeriggio di allegria e condivisione. L’obiettivo del progetto è offrire ai bambini e ragazzi, che spesso affrontano sfide emotive e sociali uniche, un canale non verbale per esprimere e dare forma a emozioni complesse, difficili o dolorose che troppo spesso non emergono. È dimostrato che questo tipo di attività sono utili allo sviluppo dell’autostima, alla concentrazione e alla disciplina; incentivano la socializzazione e il lavoro di gruppo, migliorano o si creano condizioni per migliorare o ristabilire il legame genitoriale. Il progetto Liberi dentro per crescere impegna le cooperative sociali cagliaritane Elan (capofila), Exmè & Affini, Panta Rei Sardegna, Solidarietà Consorzio; Casa delle Stelle, la casa circondariale Ettore Scalas di Uta, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sardegna (Uiepe), il Servizio politiche sociali abitative e per la salute del Comune di Cagliari, l’associazione Prohairesis e Aragorn. L’altruismo efficace e l’idea di giustizia di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2025 L’etica di Peter Singer promuove l’altruismo efficace come strumento per massimizzare il benessere collettivo e affrontare le sfide globali. L’etica pratica di Peter Singer riporta la filosofia morale nel suo terreno d’origine, quello in cui le idee si misurano con le sfide e i dilemmi della vita concreta. La sua filosofia, in questa prospettiva, interroga l’economia - la scienza triste dell’uso efficiente delle risorse - per formulare una domanda semplice e radicale: quanta sofferenza possiamo eliminare con i mezzi che abbiamo a disposizione? Il presupposto a tale domanda è che se possiamo fare del bene a qualcuno e possiamo farlo a un costo sostenibile, rimanere indifferenti è moralmente inaccettabile. È questa l’impostazione che sta alla base dell’”altruismo efficace”, un’etica della responsabilità calcolata, fondata sull’evidenza e sulla ragione. Non basta voler essere buoni; occorre esserlo nel modo più efficace possibile. Ne nasce una morale dal rigore geometrico, che misura la virtù non dalle intenzioni, ma dalle azioni e dai loro effetti. È una sfida diretta al sentimentalismo del nostro tempo, a quella bontà di superficie che si esaurisce spesso nella commozione o nel gesto simbolico. Quello di Singer non è un rifiuto della compassione, tutt’altro. È un esercizio di affinamento. Sottopone l’emozione a un principio di disciplina morale e la libera dall’ipocrisia. Perché “la compassione, se non è guidata dalla ragione, è cieca e spesso inefficace” (p. 82), scrive chiaramente in The Most Good You Can Do (Yale University Press, 2015). Il suo è un invito a riconsiderare le basi utilitaristiche dell’etica e a immaginare la giustizia non come distribuzione di diritti, opportunità o risorse, ma come massimizzazione del benessere collettivo. È un’etica che non si limita a promuovere gesti individuali di altruismo, ma che propone un nuovo criterio di razionalità pubblica - un’economia morale dell’impatto - dove il valore di un’azione si misura in base a quanto essa contribuisce alla riduzione della sofferenza complessiva degli esseri senzienti. Singer ci pone in questo modo davanti ad una domanda scomoda ma urgente: se sappiamo come ridurre il male nel mondo, se possiamo farlo senza sacrifici insostenibili, con quale diritto scegliamo di non farlo? Storie di un’etica possibile - Il punto di partenza dell’argomentazione di Singer è un esperimento mentale. Immaginate di camminare sul bordo di uno stagno e di vedere all’improvviso un bambino che rischia di annegare. Per salvarlo dovreste entrare nell’acqua e tirarlo fuori; questo significherebbe sporcarvi i vestiti e le scarpe. Sareste comunque disposti a farlo per salvare la vita al bambino? Non conosco nessuno che si rifiuterebbe di provarci. Si tratta di un’intuizione morale troppo ovvia, dice Singer, per ignorarla. Ma se è così ovvio che salvare il bambino è un dovere ineludibile, perché non applichiamo lo stesso principio ai bambini che muoiono ogni giorno di malaria o di fame dall’altra parte del mondo. Potremmo salvare anche loro, spesso pagando un prezzo molto inferiore a quello che dovremmo pagare per far lavare l’abito e le scarpe dopo un eventuale tuffo nello stagno. Ecco che allora il nostro comportamento quotidiano contraddice la logica morale che diciamo di accettare. L’idea di “altruismo efficace” (effective altruism), allora, non è altro che una forma di etica che applica la razionalità scientifica alla compassione. Singer lo definisce così: “Gli altruisti efficaci sono coloro che usano l’evidenza e la ragione per capire come poter fare il massimo bene possibile agli altri e che agiscono di conseguenza” (p. 7). Non basta voler aiutare, bisogna farlo in modo che il bene prodotto sia massimo, rispetto ai mezzi impiegati. La sua argomentazione è narrativa, fatta di storie di persone comuni che hanno superato l’ipocrisia del sentimentalismo e che incarnano compiutamente la logica dell’altruismo efficace. C’è Matt Wage, laureato a Princeton, che rinuncia a una carriera accademica per andare a lavorare nella finanza. Il suo obiettivo è guadagnare il più possibile per poter devolvere la metà del proprio reddito alle cause umanitarie più efficaci. Matt Wage - scrive Singer - “Capì che guadagnando e donando avrebbe potuto fare molto di più che lavorando direttamente per un’organizzazione benefica” (p. 5). C’è poi Julia Wise, che insieme al marito Jeff Kaufman vive con estrema semplicità per poter donare gran parte del proprio reddito. I Kaufman hanno deciso che una spesa annua di $36.000 sarebbe stata sufficiente per coprire i loro bisogni. Tutto il resto viene donato per la lotta contro la povertà estrema e le malattie prevenibili. “Per Julia - scrive Singer - donare non è un sacrificio, è uno stile di vita. Trova gioia nel sapere di poter aiutare gli altri” (p. 27). Uno dei punti più interessanti del racconto è che quella di Julia non viene presentata come una figura ascetica o disincarnata. Singer ne parla con grande attenzione psicologica, mostrando come la pratica del dono, lungi dall’essere scontata, abbia costretto Julia a trovare un equilibrio con la vita personale e con il desiderio, per esempio, di avere una famiglia. In un passaggio particolarmente toccante, Singer riporta la riflessione di Julia sulla difficoltà di conciliare la maternità con l’imperativo etico a donare: “Quando ero incinta, ho capito che avrei dovuto donare di meno. Avrei dovuto pensare non solo a ciò di cui hanno bisogno gli altri, ma anche a ciò di cui ha bisogno mia figlia, e a ciò di cui ho bisogno io per prendermi cura di lei” (p. 29). Questa confessione, nella lettura che ne dà Singer, non rappresenta un cedimento, ma la prova che l’altruismo efficace non richiede l’annullamento personale, bensì la ricerca di un equilibrio tra razionalità morale e cura concreta delle relazioni. Julia Wise incarna una forma di altruismo “sostenibile”. Non un eroismo sovrumano, ma la disciplinata continuità di un gesto quotidiano. Singer la presenta come un esempio di come la felicità personale e la responsabilità globale possano coesistere. “Persone come Julia e Jeff - scrive il filosofo - mostrano che vivere eticamente, lungi dal rendere la vita più difficile, la rende più significativa” (p. 31). L’altruismo efficace viene incarnato nella sua forma più umana e convincente; non come un calcolo freddo, ma come una “razionalità gentile”. Una vita moralmente coerente non necessariamente deve implicare rinunce e sacrifici. Si tratta, piuttosto, di un modo concreto di ampliare il proprio senso di appartenenza al mondo. Per Singer, Julia e il marito rappresentano la prova vivente che la felicità non deriva dal consumo, ma dal contributo: una forma concreta di giustizia morale resa possibile da scelte ordinarie. La giustizia come riduzione della sofferenza - Questi e molti altri esempi che Singer presenta nel suo libro servono a mostrare che l’etica dell’altruismo efficace non è una forma eroica di ascetismo, inarrivabile ai più, ma un modo alternativo di vivere normalmente, un modo che non implica necessariamente la rinuncia, e che punta tutto sull’efficacia. Perché il vero altruista non si limita a essere buono, ma cerca, piuttosto, di essere utile. L’altruismo efficace, come tutto l’approccio di Singer, si fonda, aggiornandolo, sull’utilitarismo di Jeremy Bentham e John Stuart Mill secondo cui una società giusta è quella che punta alla “massima felicità per il numero più grande”. Singer adatta questa visione alla scala globale dell’economia contemporanea, nella quale - sostiene - il nostro potere di incidere sul benessere altrui è immenso. Un individuo con un reddito medio in un Paese ricco può salvare decine di vite in un Paese in via di sviluppo, se sceglie le giuste cause. Il criterio non è la prossimità geografica, ma l’impatto: una vita in Uganda vale quanto una vita a Londra o Milano. “Dal punto di vista dell’universo - scrive ancora il filosofo citando Sidgwick - la sofferenza di ciascuno conta esattamente allo stesso modo” (p. 97). È un cosmopolitismo morale il suo che dissolve i confini tradizionali della giustizia. Il confine tra “noi” e “loro” sparisce perché ciò che ci unisce tutti e ci fa tutti uguali è la comune capacità di provare sofferenza e di essere felici. “Non possiamo aspettarci che tutti siano santi, ma possiamo aspettarci che tutti facciano qualcosa di significativo” (p. 68), scrive ancora Singer. E fare qualcosa di significativo, in questa prospettiva, significa ottimizzare l’impatto. Per questo occorre scegliere bene sia la causa per la quale donare, sia l’organizzazione attraverso cui farlo. Per questo occorrono dati verificabili che mostrino il rapporto tra costo sostenuto e vite salvate. Ogni dollaro deve produrre il massimo di benessere complessivo. Questa visione porta Singer a proporre una forma di giustizia distributiva utilitaristica: in un mondo di risorse limitate, è moralmente giusto allocarle dove generano il più grande beneficio per il maggior numero di persone. Non è un’economia del merito, ma dell’urgenza: la priorità non è chi “merita” aiuto, ma chi può trarne il massimo vantaggio. Il principio di efficienza è l’unico che possa reggere una moralità globale. L’empatia selettiva, quella che ci fa donare a una causa solo perché ci colpisce o magari ci tocca da vicino, è un lusso psicologico che non dovremmo permetterci. L’altruismo efficace non riguarda solo le scelte individuali, ma disegna una visione complessiva della società giusta. Singer non parla di carità, ma di giustizia globale: la riduzione della sofferenza come criterio oggettivo di progresso umano. Una società giusta non è quella che proclama valori universali, ma quella che ottiene concretamente più benessere e meno sofferenza per tutti. Si tratta di una visione la cui forza sta nella semplicità: se ogni vita conta allo stesso modo, allora ogni decisione economica è una decisione morale. Il prezzo di un caffè, un investimento, un voto politico. Tutto può essere valutato in termini di vite migliorate o perdute. L’efficienza morale come nuova frontiera della politica - Singer è ben consapevole che questa razionalità morale può sembrare disumana. “Non possiamo vivere ogni istante come se fossimo sempre davanti al bambino che annega” - ammette (p. 121). Tuttavia, la visione utilitaristica della giustizia che ne deriva è anche una provocazione per le democrazie liberali. Se la moralità è una questione di calcolo razionale, che posto resta per i valori, le culture, le differenze? Singer non offre risposte definitive, ma suggerisce che la politica, per essere giusta, debba incorporare criteri di efficacia morale, misurando l’impatto delle decisioni pubbliche sulla qualità della vita reale. È una prospettiva in virtù della quale dovremmo guardare le nostre vite non per quanto possediamo, ma per quanto bene potremmo fare con ciò che possediamo. È una morale che disorienta, perché non concede rifugio nel sentimentalismo e tanto meno lascia spazio all’ipocrisia autoassolutoria. Ma proprio per questo è anche una delle poche proposte di giustizia all’altezza della globalizzazione: una ragione compassionevole, una solidarietà misurata e concreta. In un tempo che ha eletto l’efficienza economica a suo idolo, Singer ci ricorda che la vera efficienza è morale: trasformare risorse in benessere, conoscenza in equità, ricchezza in vite salvate. Certo, neanche la versione moderna dell’utilitarismo di Singer sfugge alla critica che John Rawls muove all’utilitarismo classico: nella sua lucida razionalità esso finisce, infatti, per trattare le persone come mezzi e non come fini in sé. Se, infatti, l’obiettivo è la massimizzazione della somma delle utilità individuali, quando la privazione di alcuni produce un beneficio proporzionalmente maggiore per altri, allora tale privazione - di reddito, di opportunità, perfino di diritti e libertà - è da considerarsi legittima. E una teoria della giustizia che genera ingiustizia anche se per pochi, necessariamente cade in una contraddizione difficilmente risolvibile. Ciò non toglie che Peter Singer con la sua idea di altruismo efficace ponga una sfida formidabile al senso comune, al sentimentalismo, alla pietà pelosa, di chi si scandalizza a parole ma poi non muove un dito per ridurre le sofferenze altrui, anche quando potrebbe farlo facilmente e in modo economico. Forse il messaggio più radicale che ne emerge è che l’efficienza, valore cardine dell’economia moderna, deve essere riscattata moralmente. Non basta produrre o crescere: bisogna sapere a vantaggio di chi. L’unica efficienza che può salvarci è quella che trasforma la ricchezza in giustizia, il calcolo in compassione, la ragione in cura del mondo. Perché si è aperto un dibattito europeo sulla “maggiore età digitale”? di Ilaria Solaini Avvenire, 27 ottobre 2025 Proteggere i minori, anche attraverso l’introduzione di una “maggiore età digitale”, di fatto un limite anagrafico prestabilito per poter accedere ai social media. È questo uno dei passaggi centrali del documento, redatto dal Consiglio europeo tre giorni fa, che richiama i valori, gli interessi e l’autonomia normativa dell’Unione europea, anche nell’ambito digitale. “L’Ue continuerà a promuovere soluzioni tecnologiche - si legge - antropocentriche che proteggano le persone e i loro dati e salvaguardino la responsabilità digitale, la trasparenza e la resilienza sociale”. Questo indirizzo strategico-politico, contenuto nell’articolo 49 delle conclusioni del Consiglio europeo del 23 ottobre, riporta la nostra attenzione all’enorme dibattito sull’utilizzo dei social media da parte di ragazze e ragazzi. All’interno del quale restano aperte moltissime domande: la verifica dell’età dei minori quanto sarà invasiva e quali garanzie di privacy potrà avere? Le piattaforme saranno chiamate a sviluppare una sorta di “algoritmo alternativo” che non si basa su dati specifici dell’utente? E ancora, il divieto universale sotto un’età specifica è l’unica via, perché davvero famiglia e scuola non possono nulla? Va detto che ci muoviamo in un ambito, quello digitale, così nuovo e in rapido mutamento che fare analisi e proporre rimedi risulta impresa sempre incompleta. Francia e Italia sono stati tra i primi Paesi a preoccuparsi delle conseguenze generate dagli algoritmi delle piattaforme costruiti per “inchiodarci” davanti allo schermo, fagocitare il nostro tempo e monetizzare i nostri dati personali. Oltralpe già nel 2023 è stata approvata una legge che obbliga i fornitori di servizi di social network che operano in Francia a rifiutare l’accesso ai minori di 15 anni, salvo l’autorizzazione di un genitore. Formalmente la legge esiste, ma la sua piena applicazione, soprattutto per gli aspetti cruciali, tra cui la verifica dell’età e il sistema di sanzioni, risulta ancora in fase di definizione. Nel nostro Paese è stato presentato il disegno di legge bipartisan “Disposizioni per la tutela dei minori nella dimensione digitale”, che prevede, tra l’altro, che l’accesso ai social network e ai servizi di condivisione video sia permesso ai minori solo se abbiano compiuto almeno 15 anni, salvo diverso consenso dei genitori. Nei giorni scorsi erano arrivate anche le osservazioni dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, indirizzate proprio al Senato italiano: nel documento viene menzionato il dibattito tra l’approccio cosiddetto “proibizionista”, che propone limiti di età e una rigorosa verifica dell’identità per l’accesso ai social media, e un opposto approccio che enfatizza la consapevolezza critica degli utenti, adulti in primis. Viene citato Jonathan Haidt, autore del saggio La generazione ansiosa, considerato il più autorevole tra i “proibizionisti”: lo psicologo americano, supportato da un consistente numero di studi e ricerche, sostiene che i social media abbiano scatenato una sorta di “grande ricablaggio dell’infanzia”, che negli ultimi anni ha portato a un’esplosione dei problemi di salute mentale tra giovani e adolescenti. Per Haidt, la crisi dei giovani sarebbe dovuta al passaggio da un’infanzia basata su sperimentazione e libertà a un mondo fatto di struttura e controllo. Oggi gli adolescenti privati della possibilità di esplorare il mondo reale senza i genitori, ma anche di sviluppare l’autosufficienza e la fiducia in se stessi, secondo Haidt, preferiscono restare a casa a fissare i loro smartphone. Esponente di punta del fronte “non-proibizionista”, citato ugualmente nel documento a firma della Garante per l’infanzia, è invece la psicologa americana Candice L. Odgers, secondo la quale tra l’accesso precoce al digitale e il netto peggioramento della salute mentale di bambini e adolescenti vi sarebbe certamente una correlazione, ma non un rapporto causa-effetto scientificamente dimostrabile. Seppur alcuni recenti dati dell’Ocse sulla solitudine ci confermino questa grande crisi dei legami sociali e delle relazioni che porta con sé un crescente isolamento tra le persone, la tesi di Haidt secondo cui la responsabilità sarebbe solo dei social media è stata criticata. Va ricordato che sulla rivista americana Nature era stata la stessa Odgers a spiegare che, al momento, non esistano basi scientifiche per affermare che i social media provochino disturbi mentali. In questo contesto, l’Autorità garante per l’adolescenza ha assunto una posizione pragmatica, riconoscendo i limiti sia dell’approccio “proibizionista” legati soprattutto alla praticabilità del divieto, sia di quello “non proibizionista”, di fatto, indicando la necessità di un intervento normativo. In altre parole, la responsabilizzazione degli adulti e il sostegno alle famiglie e agli insegnanti, supportati da campagne informative e da un grande lavoro di conoscenza degli strumenti digitali, sono necessarie tanto quanto lo sono delle misure legislative sul limite di età imposto per accedere ai social, ma anche per interagire con i sistemi di intelligenza artificiale sempre più presenti nelle nostre vite. Nel documento si legge anche della possibilità di un digital divide “inverso”, ossia un divario digitale che può colpire i ragazzi e le ragazze che crescono in famiglie culturalmente e socialmente deprivate, che accedono più precocemente al digitale, con possibili conseguenze sul loro sviluppo emotivo e cognitivo. Che fare, dunque? Secondo la Garante per l’infanzia, la soluzione più efficace risiede nel ricostituire il tessuto comunitario e sociale, incoraggiando gli adolescenti e i bambini a tornare a una socialità fisica e non digitale, restituendo un maggiore spazio-tempo in presenza, non organizzato e non strutturato dagli adulti e non raggiungibile dall’occhio delle Big Tech. La giornalista esperta di tecnologie e genitorialità, Kathryn Jezer-Morton, in un articolo selezionato e tradotto da Internazionale, aveva così spiegato la differenza tra il 2025 e gli idilliaci anni Novanta: “Non è che allora le persone vivevano più serenamente il tempo non strutturato. È che il tempo non strutturato poteva esistere senza essere divorato dalle fauci degli schermi”. Se non resistiamo, lo schermo inghiotte tutto di noi. Non possiamo arrenderci al conformismo della guerra di Marco Impagliazzo Avvenire, 27 ottobre 2025 “Osare la pace” è il titolo del 39° Incontro internazionale, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio nello “spirito di Assisi”, in corso a Roma fino al 28 ottobre. Dopo la caduta del Muro di Berlino sarebbe stato inimmaginabile fino a qualche tempo fa, almeno in Europa, non partire da quel bene comune che era la pace acquisita dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale. Pace tra nazioni che si erano affrontate per secoli come Francia e Germania. Eppure, lo vediamo dolorosamente, oggi il paradigma si è rovesciato: è ormai la guerra e non più la pace ad essere considerata come soluzione delle contese. Stiamo usando il male come farmaco che pretende di divenire la panacea di tutti i mali. Ma è veramente così? Davvero siamo costretti a pensare che il mondo debba rassegnarsi a una deriva inarrestabile di conflitti in cui solo la vittoria di una delle parti può far tacere le armi? La storia insegna che “ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l’ha trovato”, come affermava Papa Francesco nella Fratelli tutti, e che ci vogliono anni e anni per riparare i danni che ha provocato. È per questo che, con convinta ostinazione - la stessa che animava Giovanni Paolo II quando convocò per la prima volta ad Assisi, nel lontano 1986, i leader delle religioni mondiali - dobbiamo continuare a “osare la pace”. È questo il titolo scelto per il trentanovesimo Incontro internazionale, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio nello “spirito di Assisi”, che quest’anno si svolge a Roma, da oggi al 28 ottobre. L’ideale è che non ci si può arrendere al rassegnato conformismo bellico di questi tempi, ma occorre “osare” anche quando tutti dicono che la pace è impossibile. Lo ripeteranno da diverse angolature e provenienze, i numerosi autorevoli rappresentanti delle religioni mondiali, delle istituzioni, del mondo della cultura: ben 400 delegati che animeranno 22 forum su temi di grande attualità come il disarmo, i migranti, le disuguaglianze che attraversano il mondo, il futuro dell’Europa e quello dell’Africa, il dialogo interreligioso e l’ecumenismo, senza dimenticare chi ha dato la sua vita in nome della fede, vittime della violenza, come i martiri contemporanei. All’inaugurazione interviene il presidente Sergio Mattarella e alla cerimonia conclusiva Papa Leone, che ha iniziato il suo pontificato proprio nel nome di una pace “disarmata e disarmante”, con la preghiera dei cristiani all’interno del Colosseo e l’appello di pace proclamato davanti all’Arco di Costantino. Presenti a Roma per l’evento i massimi leader religiosi come il grande imam di Al-Azar Al- Tayyeb e il capo dei rabbini europei Goldschmidt, autorità buddiste, induiste e di altri mondi religiosi asiatici. Si sentiranno voci dalle regioni del mondo che soffrono, con testimonianze di rifugiati che sono fuggiti dalle guerre e la presenza dei cardinali Pierbattista Pizzaballa per la Terra Santa e Fridolin Ambongo per il Congo. Tutti costoro si faranno portavoce dei popoli che soffrono per i conflitti e le tante forme di violenza subite, come l’essere costretti a lasciare la propria casa e la propria terra di origine. È alle vittime, popoli e persone ostaggi dei conflitti, che è innanzi tutto dedicato questo incontro internazionale. Per un cristiano, come per ogni credente, la guerra è inaccettabile e non ci si stancherà di ripeterlo perché ai nostri giorni c’è troppa rassegnazione o quasi assuefazione agli scenari bellici, forse perché sono troppi, come sono innumerevoli le immagini crudeli e drammatiche che ci raggiungono ogni giorno. L’incontro internazionale è una ribellione corale e pacifica alla guerra. A questo evento si assoceranno con la loro presenza diecimila persone provenienti non solo dall’Italia, ma da tutta Europa. Tra di loro - ed è un buon segno - anche molti giovani. È il frutto di un’eredità raccolta da Sant’Egidio dopo la storica Giornata di preghiera per la pace del 27 ottobre 1986, ancora in tempi di guerra fredda. L’intuizione fu di continuare lo “spirito di Assisi” nato dalla visione profetica di Giovanni Paolo II. Il cammino nello spirito di Assisi possiede una forza di pace: ha l’autorità e il fascino del disinteresse perché non cerca nient’altro che una via pacifica tra le religioni e tra le nazioni. I leader religiosi che compiono tale cammino esercitano un ministero della pace in un mondo diviso. Amare il mondo non significa adattarsi alle sue paure ma testimoniare unità. Quelle di Roma, saranno giornate di preghiera e memoria. Un modo per raccogliere le lacrime delle tante vittime innocenti con l’ambizione di essere quel cuore che batte dentro una globalizzazione fredda e talvolta disumana, mantenendo viva la memoria degli orrori della guerra e guardando ai benefici della pace. Medio Oriente. “Il cessate il fuoco a Gaza non reggerà, Israele non vuole la pace ma il dominio” di Alessandro Colombo La Stampa, 27 ottobre 2025 La giornalista Rula Jebreal: “Il piano Trump deve avere interlocutori palestinesi. In questo momento l’uomo giusto è Barghouti”. “Ogni volta che disumanizzi una nazione apri la porta al genocidio”. È anche sulle parole che si fanno le guerre. Le parole per descrivere e quelle per raccontare. Rula Jebreal, giornalista italo palestinese, le usa in entrambi i modi. Per descrivere le azioni compiute e narrare i fatti avvenuti. Lo fa nel libro Genocidio (ed. Piemme), cronaca di due anni di guerra spietata a Gaza e ricostruzione delle sue premesse. Il saggio sarà presentato questa mattina nella Sala della Lupa a Montecitorio. Lei scrive che il genocidio. Inizia con le parole. Quali? “Davanti al corte di giustizia internazionale ci sono oltre 500 dichiarazioni di ufficiali e politici israeliani che indicano un incitamento al genocidio. Tra queste quella del presidente di Israele Herzog: “Non ci sono innocenti a Gaza”; quella dell’ex ministro della difesa Gallant: “Sono animali umani”, oppure il ministro dell’Agricoltura Avi Dichter che ha dichiarato: “Stiamo ora lanciando la Nakba di Gaza”. Per non parlare di Smotrich e Ben Gvir. Tutte le volte che disumanizzi una nazione apri la porta al genocidio”. Nel libro parla di tre grandi gruppi di vittime: bambini, medici e giornalisti. Perché ritiene che siano stati colpiti deliberatamente? “Colpendo i bambini distruggi la prossima generazione e dunque il futuro dei palestinesi. Annienti qualsiasi speranza. Poi i medici. Chi cura la vita umana andava distrutto. Pensiamo ad Adnan Al-Bursh, primario dell’ospedale di Al-Shifa. È stato arrestato, torturato, e ucciso ad aprile 2024. Il suo corpo è in mano degli israeliani che non lo consegnano perché su quel corpo ci sono le prove delle torture. Si elimina chi cura la vita”. E poi c’è chi racconta la vita, i giornalisti... “Sono quelli che hanno documentato le prove dei crimini che sono stati commessi a Gaza. Perché Israele vieta ai giornalisti internazionali di entrare a Gaza? Se tu contesti l’accusa di genocidio allora li fai entrare. Diversamente hai paura della verità e questa è l’ammissione che stai commettendo un genocidio”. Cosa può dire invece delle vittime del 7 ottobre? “È un atto di terrorismo ogni volta che si colpiscono deliberatamente i civili. È chiaro che Hamas ha commesso crimini di guerra, ma la risposta ai crimini di guerra non può essere il genocidio. Una soluzione militare al conflitto non esiste. Le atrocità producono atrocità”. Lei parla di uno Stato binazionale. Può davvero essere una soluzione? “Può essere una federazione o binazionale. Credo in una soluzione politica e diplomatica che è l’unica alternativa a questa carneficina e all’isolamento di Israele. Una soluzione che deve essere però imposta con le sanzioni e un embargo delle armi”. Ma la soluzione deve includere Hamas? “Hamas non vuole più stare al potere. I palestinesi a Gaza e in Cisgiordania secondo me non li vogliono. Loro stessi riconoscono il dato politico. Questo però non significa escludere i palestinesi. Per questo la pace di Trump è miope perché per avere una pace duratura gli interlocutori devono essere palestinesi non solo la Lega araba, Tony Blair o Kushner. Non può apparire agli occhi dei palestinesi come un’ennesima forma di colonizzazione”. E chi li dovrebbe rappresentare? “Marwan Barghouti. Non a caso Trump spinge per la sua liberazione, così come il leader della comunità ebraica americana Ronald Lauder. Barghouti in questo momento è la figura che potrebbe guidare la transizione dal genocidio alla pace e alla sicurezza per tutti”. Questo cessate il fuoco reggerà? “No, perché Israele lo ha già violato più volte. Mentre diminuisce la violenza a Gaza, aumenta quella dei coloni in Cisgiordania difesi dai militari. E il parlamento israeliano ha approvato una legge per l’annessione illegale della Cisgiordania occupata. Davvero si illudono che possano avere tutta la Palestina senza i palestinesi. Questo picco di violenza osceno in Cisgiordania, dove non c’è Hamas, fa capire che Israele non è interessata alla pace ma vuole il dominio, l’occupazione permanente e l’annessione illegale”. Cosa significa presentare questo libro nel parlamento italiano? “È il momento giusto per presentare questo libro nei palazzi del potere. Solo il potere politico potrà cambiare le cose nella speranza che i leader italiani prendano le distanze dal punto di vista militare da questi crimini. Se tu collabori militarmente ti esponi all’accusa di complicità. A Gaza non muoiono solo i palestinesi. A Gaza sta morendo il diritto umanitario internazionale ma soprattutto le regole, le leggi e le convenzioni che sono state erette dopo la Seconda guerra mondiale per proteggere tutti noi, non solo i palestinesi”. Medio Oriente. Un 16enne americano-palestinese detenuto da 8 mesi La Presse, 27 ottobre 2025 Il padre: “Un bambino in un centro di tortura”. Mohammed Zaher è un adolescente americano-palestinese detenuto in una prigione israeliana da otto mesi, dopo essere stato arrestato all’età di soli 15 anni. Ora suo padre, Zaher Ibrahim, è disperato perché il figlio sta male: “È un bambino in un centro di tortura”, denuncia l’uomo spiegando che dopo 3-4 mesi di carcere il figlio aveva perso un terzo del suo peso corporeo e soffriva di scabbia. Il 16enne palestinese, che vive a Palm Bay, in Florida, era in visita alla sua famiglia in Cisgiordania con i suoi genitori nel mese di febbraio, secondo il Council on American-Islamic Relations. È stato arrestato il 15 febbraio nella casa di famiglia nel loro villaggio vicino a Ramallah con l’accusa di aver lanciato pietre contro i coloni israeliani in Cisgiordania. E rischia una condanna a 20 anni. Il padre Zaher ha dichiarato: “È molto difficile per noi sapere che si trova in una delle prigioni peggiori al mondo”. La sua famiglia, già in lutto per la morte di un parente ventenne picchiato a morte da coloni israeliani, sta ora implorando i leader statunitensi di aiutare a liberare il ragazzo. Mohammed, che ha compiuto 16 anni mentre era in prigione, è stato “rapito nel cuore della notte, ammanettato e bendato”, secondo quanto riferito dal padre che sta restando in Cisgiordania assieme alla moglie, sperando di tornare negli Stati Uniti col figlio. Il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato in un comunicato che sta seguendo da vicino il caso di Mohammed e sta collaborando con il governo israeliano al riguardo. Medio Oriente. La Siria dopo Assad: le speranze per i diritti e la realtà delle violenze settarie di Agnese Stracquadanio Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2025 Così le Ong cercano di raccontare la situazione sul campo. La caduta del regime non ha interrotto le violenze. A farne le spese soprattutto gruppi etnici e religiosi un tempo più vicini al potere: in sei mesi denunciata la morte di 2818 civili. Il ruolo del governo di transizione e la sfida delle associazioni che operano sul campo. “Sicurezza è una parola scomparsa dal dizionario molto tempo fa”, dice Tamara Aboalwan, ricercatrice sul campo e attivista umanitaria originaria di Suwayda, Siria. Lavora per il Syrian for Truth and Justice (STJ) che dal 2016 documenta le violazioni dei diritti umani in Siria, non solo quelle commesse dal regime di Assad. “Abbiamo notato delle mancanze. Molte violazioni non venivano coperte, per questo è nata l’organizzazione”, racconta Bassam Alahmad, co-fondatore e direttore di STJ. Come quelle commesse da organizzazioni e gruppi estremisti. “Come l’ISIS, ad esempio”. Operando principalmente dal Nord-est della Siria durante il regime di Assad, grazie al lavoro di documentazione sul campo come quello svolto da Aboalwan, il STJ è riuscito a creare un database di testimonianze, inchieste e report. “Lavoriamo con persone che sono sul posto di cui spesso ancora non diffondiamo l’identità perché non c’è fiducia in questo governo”, spiega Alahmad. Come gran parte della popolazione, Aboalwan aveva festeggiato la liberazione della Siria a dicembre 2024, ma dopo quasi un anno la sua opinione nei confronti delle forze al potere è cambiata. Dopo la caduta del regime di Assad il lavoro di documentazione e monitoraggio delle violazioni dei diritti umani portato avanti da think-tank e organizzazioni non-governative non è cessato. Le violazioni in Siria sono ancora costanti e di diversa matrice. I massacri commessi dalle autorità del governo di transizione, da forze a loro affiliate o da altri gruppi armati come quelli che sono avvenuti nelle regioni costiere nei confronti degli alawiti e nel sud della Siria, verso i drusi di Suwayda, hanno mostrato il volto di un Paese profondamente diviso. Come divisa è anche l’opinione delle organizzazioni per la protezione dei diritti umani, tra chi nonostante tutto ripone una maggiore fiducia nella nuova leadership siriana, e chi invece diffida apertamente. “Sicuramente ci sono stati dei miglioramenti rispetto al periodo di Assad, ma non so quanto ancora vogliamo fare paragoni con il regime che era il male assoluto”, dice Fadel Abdulghany, direttore del Syrian Network for Human Rights (SNHR), altra organizzazione indipendente che dal 2011 si occupa di documentare la violazione dei diritti umani nel Paese. “Per 15 anni abbiamo lavorato in Siria dall’interno e dall’estero con alcuni dei nostri membri in fuga dal regime. Abbiamo pubblicato centinaia di report e inchieste sulla situazione dei diritti umani in Siria prima della caduta di Assad e anche dopo”, spiega Abdulghany sperando in una transizione democratica. Il nuovo governo di transizione guidato da Ahmad al-Sharaa, ex esponente dell’organizzazione estremista islamica Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente affiliata ad al-Qaeda, è il primo ad essere stato accolto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dopo quasi sessant’anni, ma in casa fatica a tenere tutto sotto il suo controllo. A seguito della caduta del regime, a giugno il SNHR ha annunciato l’apertura della prima sede a Damasco. In questi anni i membri dell’organizzazione sono stati presi di mira da diverse parti e gruppi armati e hanno vissuto direttamente la repressione del regime di Assad attraverso i suoi metodi, subendo minacce, arresti arbitrari e rapimenti. “Tre dei nostri colleghi rimangono tuttora scomparsi”, continua. Adesso c’è spazio di critica: “Nessuno ci ha accusati o minacciati. Il nostro personale riesce a condurre visite e ad operare anche se abbiamo criticato il governo diverse volte”, precisa. “È un buon segno”. Le violenze - Allo stesso tempo “c’erano preoccupazioni che questa nuova fase rappresentasse più un progetto arabo-sunnita che uno democratico. Ci aspettavamo delle tensioni ma non questa esplosione di violenza settaria” spiega Alahmad. Il Paese tiene infatti insieme varie realtà, ognuna con le sue élite locali e la sua struttura, che si ritrovano ad avere a che fare con autorità nazionali ed internazionali. “La Siria è fatta di tante comunità che ad oggi sono preoccupate. Su tutte le donne”, sottolinea Alahmad. Il timore, secondo STJ, è che una nuova dittatura stia avanzando nel Paese. “Quando vuoi costruire una nazione per tutti è necessario negoziare, mentre loro discutono con tutti tranne che con i siriani”, continua, sottolineando la mancata volontà di costruire uno Stato inclusivo. “Anche la conferenza di dialogo nazionale lo dimostra: durata qualche ora, dopo 54 anni di dittatura”, in riferimento alla conferenza organizzata dal governo di transizione il 25 febbraio. Il diffondersi di episodi di violenza di diversa natura è cominciato già all’indomani della caduta del regime. Un esempio è la storia di Hadi Akil, giovane sciita proprietario del Join Social Club, bar nel quartiere al-Baramkeh di Damasco che racconta di essere stato costretto a chiudere dopo che alcuni uomini affiliati o vicini al nuovo governo sono entrati armati nel locale durante una sessione di musica dal vivo, minacciando i presenti. Dopo che le minacce hanno raggiunto la sua famiglia, lui e suo fratello sono stati costretti a lasciare il Paese. Adesso vivono a Beirut e non possono tornare in Siria. Nella prima metà del 2025 il SNHR ha documentato la morte di almeno 2.818 civili, di cui 201 bambini e 194 donne. Sebbene alcune di queste morti possano essere precedenti al periodo in cui sono state documentate, il rapporto indica che il governatorato di Latakia e quello di Tartous hanno registrato il più alto numero di morti, molti dei quali causati dall’esplosone della violenza sommaria di marzo. Il numero di vittime civili di marzo rappresenta infatti il 67% delle uccisioni registrate nei primi sei mesi dell’anno, con un picco di almeno 1.889 morti. La costa e il Sud - “Ci sono elementi di genocidio”, afferma Alahmad in riferimento al massacro di alawiti avvenuto a marzo in diverse zone della costa e nelle città di Hama e Homs. “A centinaia di persone è stato chiesto se fossero alawiti oppure no”, continua. Gli scontri tra i fedeli dell’ex regime di Assad in maggioranza alawiti e i combattenti governativi o vicini alle nuove autorità siriane si sono trasformati in violenza sommaria su base settaria a cui il governo di transizione ha risposto con l’invio di forze di sicurezza in gran parte formate poco prima dalla dissoluzione di varie milizie in un’unica forza. Sempre secondo il report di SNHR, il mese di giugno ha registrato il più basso numero di vittime civili documentate, precedendo un altro massacro: quello che a luglio ha interessato il sud della Siria, il governatorato di Suwayda, a causa delle violenze e degli scontri tra milizie druse e fazioni beduine, cui si è aggiunta l’offensiva delle forze alleate al governo. “Un’operazione di sicurezza” sostenuta da milizie tribali ed estremiste rapidamente degenerata in guerra di strada. In pochi giorni almeno 1.500 persone sono state uccise. Così, le dinamiche di violenza settaria viste sulla costa si sono ripetute al Sud. Dalle informazioni raccolte dal STJ, le violenze erano iniziate già tra aprile e maggio, con fazioni locali di combattenti drusi oppositori del governo di transizione per le sue radici islamiste da un lato, e forze di pubblica sicurezza con i loro gruppi armati dall’altro. “Ho documentato atrocità commesse nei confronti di persone della mia stessa comunità, senza poter accedere alla zona. Ci sono stati casi di donne rapite e a Suwayda le persone non hanno mai fatto esperienza di qualcosa del genere. Sono in uno stato di choc collettivo”, denuncia Aboalwan dalla Siria: in questo caso non solo documenta per il STJ, ma è parte integrante della comunità colpita. “Abbiamo raccolto centinaia di testimonianze dalla costa e decine da Suwayda. Le case sono state saccheggiate, le persone umiliate, torturate o uccise, così è cambiata la nostra opinione su questo governo che instituisce commissioni d’inchiesta che nessuno prende seriamente”, aggiunge Alahmad. Le commissioni del governo sui crimini - Il governo di transizione di al-Sharaa ha istituito commissioni d’inchiesta per indagare sulle violenze, ma secondo un recente rapporto di Human Rights Watch, Syrian Archive e STJ sul massacro di marzo, forze governative o affiliate coordinate dal ministero della Difesa hanno commesso abusi che potrebbero essere considerati crimini di guerra e il lavoro delle commissioni manca di trasparenza verso le responsabilità degli alti funzionari e dei comandanti sul campo, creando un precedente che lascia aperta la porta a ulteriori rappresaglie e atrocità. “Ci sono stati segnali positivi come la presa di coscienza sul numero di persone uccise, ma credo che abbiano cercato di ignorare la responsabilità dello Stato e delle autorità, come anche la matrice settaria dietro ai massacri, parlando soltanto di vendette”, spiega Alahmad, intervistato prima dell’uscita del report. Secondo STJ la matrice settaria danneggerebbe l’immagine che la Siria cerca di costruirsi agli occhi della comunità internazionale. Le conclusioni del rapporto affermano che, seppur in assenza di ordini diretti, il governo ha giocato un ruolo centrale nel dispiegamento e nel coordinamento delle forze sul territorio anche dopo che crimini erano divenuti pubblici e dovrebbe adesso indagare le responsabilità istituzionali, oltre che individuali. Le persone che hanno commesso gli abusi erano interni, collegati o hanno agito sotto il controllo del ministero della Difesa che ha in qualche modo permesso che ciò accedesse. “E questo è un gioco pericoloso: significa incoraggiare la guerra civile” conclude Alahmad. Il SNHR sottolinea come le commissioni dovrebbero essere solo il punto di partenza per il raggiungimento dei reali obiettivi da parte del governo: riconoscere le vittime, risarcire le famiglie e assicurare i responsabili alla giustizia. Secondo le organizzazioni intervistate, anche la comunità internazionale ha delle responsabilità nel supportare la normalizzazione con il Paese pur in assenza di uno sforzo reale in direzione democratica e nel rispetto delle minoranze. “Una responsabilità etica e politica”, sottolinea Alahmad. “C’è bisogno del supporto anche logistico dei Paesi che hanno a cuore la stabilità della Siria”, sottolinea Abdulghany, ricordando come il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, sia stato tra i primi a visitare Damasco. “Hanno ereditato una sfida immensa, piena di riforme che adesso devono attuarsi”, riferendosi a chi ha guidato la rivolta ed è adesso al potere. “Ma mia mamma lo aveva detto: Ahmed al-Sharaa non è venuto a liberare la Siria. Una volta al-Qaeda, sempre al-Qaeda” conclude Tamara Aboalwan. Algeria. Boualem Sansal ancora in carcere, l’Europa si impegni per la sua liberazione di Claus Leggewie* micromega.net, 27 ottobre 2025 Sul caso Sansal, l’Europa deve fare pressioni sull’Algeria. E anche il governo Meloni dovrebbe fare la sua parte. Da quasi un anno lo scrittore franco-algerino Boualem Sansal è detenuto ingiustamente; a giugno è stato condannato a cinque anni di carcere, che sta scontando in un istituto penitenziario nei pressi di Algeri. Sansal, ottantenne malato di cancro, ha pochissimi contatti con il mondo esterno, se non con la moglie, anch’ella malata, e non riceve le cure mediche di cui avrebbe bisogno. Finora non si è avuto alcun segno che il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune intenda concedergli la grazia o espellerlo verso la Francia o un altro paese europeo, come qualche tempo fa si sperava. Dal palazzo presidenziale trapelano di tanto in tanto voci secondo cui il presidente starebbe cercando il momento adatto, dopo aver lasciato passare festività legate alla rivoluzione di liberazione algerina, occasioni in cui di norma vengono rilasciati detenuti comuni. Sansal aveva espresso il suo dissenso verso questo regime in romanzi e saggi già da tempo, e tuttavia fino al 2024 non aveva subìto conseguenze. È stata un’intervista a un organo di stampa francese, i cui contenuti non erano in linea con la visione storica nazionalista del presidente algerino, a portare al suo arresto e alla condanna. Un’espressione di pensiero libero - che tra persone civili potrebbe essere oggetto di un dibattito acceso ma lecito - gli è valsa l’accusa di alto tradimento e l’imposizione brutale del silenzio, in una cella di nove metri quadrati. Tutto ciò è noto da mesi. A quanto pare, oltre alla diplomazia francese anche altri Stati hanno cercato di ottenere la sua liberazione o almeno un trasferimento all’estero per cure mediche (che, tra l’altro, erano state concesse in Germania al gravemente malato predecessore di Tebboune, Bouteflika) ma finora è stato tutto inutile. Si continua a ripetere che un atteggiamento troppo conflittuale potrebbe peggiorare la situazione di Sansal. Ma la realtà ha già fornito la smentita. Un altro cittadino francese, il giornalista sportivo Christophe Gleizes, anch’egli arrestato ingiustamente, è stato condannato a sette anni di prigione. Il motivo? Aveva cercato di intervistare alcuni membri della squadra calcistica “Jeunesse Sportive de Kabylie” (JSK), nel mirino del regime ufficialmente per un presunto sostegno all’autonomia culturale della regione berbera, passate in realtà per critiche al “palazzo”. Le autorità francesi sono rimaste in silenzio, mentre Gleizes si è visto recapitare un’accusa di sostegno al terrorismo. Entrambe le condanne dimostrano l’insicurezza di un regime che si sente minacciato, nel caso Sansal, quando viene messo in discussione il mito dell’unità nazionale algerina intesa come repubblica arabo-islamica. Con queste condanne, si vuole trasmettere l’idea che l’Algeria stia continuando la sua lotta di liberazione anticoloniale, sostenendo nel contempo il movimento indipendentista saharawi Polisario e la causa palestinese, nell’ambito della quale il paese vuole presentarsi come capofila del movimento antisionista contro Israele. Si comprende così quanto le domande di un giornalista o i testi di uno scrittore vengano profondamente politicizzati, fino a far diventare i loro autori pedine sacrificabili nella partita a scacchi con la Francia, con la cui società l’Algeria è storicamente legata a doppio filo, un legame che attraverso la migrazione giunge fino ai giorni nostri. Il regime algerino non è interessato né alla riconciliazione né a un’elaborazione del passato: tiene vivo il conflitto anche attraverso agenti della sicurezza e dei consolati, così come influencer sui social media che diffondono disinformazione e promuovono attacchi in Francia. Con questo atteggiamento antifrancese - e più in generale antioccidentale - il regime cerca di contenere il malcontento sociale, la mancanza di prospettive per i giovani, le rivendicazioni femminili di emancipazione e le richieste politiche di democrazia che si sono manifestate con forza nel movimento Hirak del 2019/2020. Fatale è ora la strumentalizzazione che del destino di Boualem Sansal viene fatta dalla politica interna francese. L’estrema sinistra sfoga il proprio ardore postcoloniale contro lo scrittore, accusandolo di aver rilasciato un’intervista a una piattaforma dichiaratamente di destra. Nel frattempo, gli estremisti di destra del Rassemblement National si schierano a favore di Sansal per ragioni facilmente decifrabili: il loro profondo risentimento nei confronti dei musulmani e una tradizione revanscista legata all’”Algérie française”. Il gruppo europarlamentare di cui il partito fa parte, Patrioti per l’Europa, aveva proposto al parlamento europeo di assegnare a Sansal il Premio Sakharov per la libertà di pensiero [poi assegnato ai giornalisti Andrzej Poczobut e Mzia Amaglobeli, detenuti rispettivamente in Bielorussia e in Georgia]: una proposta che non si poteva che sostenere, anche se l’estrema destra ne ha fatto un uso strumentale. Il partito pseudo-sinistra, in realtà nazionalista e antieuropeo, La France Insoumise di Jean-Luc Melenchon, accusa Sansal di essere responsabile del proprio destino a causa delle sue critiche all’islam e della sua simpatia per Israele. Lo scrittore Kamel Daoud, anch’egli minacciato e in esilio in Francia, ha detto ciò che era necessario dire su questa vergognosa manovra. La sinistra, che invoca sempre la libertà di espressione per sostenere le proprie cause - anche quando ciò arriva a includere simpatie per Hamas - dimostra di non comprendere la libertà di pensiero e artistica nella sua essenza: essa inizia quando si tollerano anche opinioni che non piacciono. Il comitato di solidarietà di Parigi, che si impegna instancabilmente per la liberazione di Sansal, è continuamente bersagliato da minacce anonime. La sua impotenza riflette soltanto l’impotenza - o meglio: la rinuncia a impegnarsi - dei governi e delle istituzioni europee nei confronti di un regime autocratico. Si ha l’impressione che il sequestro di due cittadini francesi abbia legato le mani agli europei, e che il regime algerino tenga il coltello dalla parte del manico. Ma non è affatto così. Gli Stati membri dell’Ue e la Commissione europea dispongono di strumenti di pressione: esistono accordi bilaterali e multilaterali con l’Algeria che riguardano l’esportazione di gas naturale e tecnologie del futuro come l’idrogeno verde. L’Algeria è alla ricerca di condizioni economiche più vantaggiose e i nostri governi dovrebbe porre come condizione per ottenerle la liberazione di Sansal e Gleizes (e, per inciso, anche di altri prigionieri politici). Anche l’Italia può fare la sua parte. È infatti il paese con cui l’Algeria intrattiene i rapporti economici e politici più stretti. È necessario un ultimatum: i negoziati con Bruxelles salteranno se Sansal non sarà liberato entro la fine dell’anno. Non è accettabile che l’Europa e l’Occidente tradiscano i propri princìpi e si pieghino a regimi autoritari quando si profilano svantaggi economici. *Traduzione dal tedesco a cura della redazione