Anm, sfida sul referendum: “La Costituzione va difesa”. Lite con Marina Berlusconi di Conchita Sannino La Repubblica, 26 ottobre 2025 Via alla campagna per il No: la separazione delle carriere altera la Carta. La figlia del Cavaliere: “Stop a 30 anni di veleni”. Ovazione per Ranucci. Adesso la battaglia è ufficialmente aperta. Quasi otto ore di assemblea generale, testimonial di peso venuti nel sabato piovoso fino in Cassazione per sostenere la campagna dell’Anm contro la riforma sulla giustizia. L’ovazione a sorpresa per Sigfrido Ranucci, l’abbraccio per una rockstar come Edoardo Bennato, lo show agrodolce (eppure apprezzato) di Nicola Gratteri, gli applausi per Carofiglio e De Cataldo, le analisi pacate e l’emozione dei giovani tirocinanti. Ma poi l’orologio torna, in qualche modo, indietro: e sul via ufficiale delle toghe alla mobilitazione per il No, in vista del referendum di primavera sulla separazione delle carriere, piomba la polemica tra l’Associazione nazionale delle toghe e Marina Berlusconi. Con la presidente di Fininvest e Mondadori che, dopo la recente pronuncia favorevole a Dell’Utri, spinge forte, dalle pagine de Il Giornale, per la riforma, considerata “un passo avanti significativo verso una giustizia veramente giusta”. E il vertice dell’Anm Cesare Parodi che, nei toni pacati, ribatte secco: “Sentenza giusta? E allora perché ci si lamenta?”. Uno scambio che non turba la giornata. La mozione finale condanna la riforma che “altera la Carta”, annuncia progetti, iniziative “con la società civile”, una piattaforma informativa. È votata all’unanimità, contrari solo i sei (su 1500 votanti a favore) appartenenti ad “Articolo 101” che conferma la contrarietà al ddl, ma dice sì al sorteggio. L’aula magna del Palazzaccio è gremita di persone, si commenta la lunga lettera pro-riforma di Marina Berlusconi. Che scrive: “Purtroppo, e lo dico da figlia, nemmeno la migliore delle riforme della giustizia servirà a restituire a mio padre trent’anni di vita avvelenati e devastati dalle calunnie e dalle false accuse”. Non esita neanche, l’erede di Berlusconi, a dettare la linea su “ulteriori interventi urgenti”, come “una nuova e vera responsabilità civile dei magistrati. Chi sbaglia, paghi”. Parole contundenti. Su cui Parodi commenta caustico: “Chi fa queste affermazioni ha avuto una risposta in termini di giustizia. Peraltro su una pronuncia di cui non c’è ancora motivazione. Non capisco: bisognerebbe rallegrarsi, non lamentarsi. Nel nostro Paese esistono tre gradi di giudizio anche per questo”. È una compattezza, quella delle toghe, unite oltre gli orientamenti politici (la destra di Mi, i progressisti di Area, la sinistra di Md e i centristi di Unicost) che non piace al Palazzo. Il ministro Tajani si dice pronto “ad organizzare comitati per difendere la riforma”, sostenuta da FI fino al punto da elevare postume dediche a Silvio, in Parlamento. Lo stesso ministro Nordio torna a chiedere “toni pacati”, e non parla solo ai magistrati, perché “se il risultato del referendum andasse in certa direzione”, la “politica si troverebbe ipotecata dalla magistratura come è stato dopo Tangentopoli”. Ma intanto l’Anm porta a casa istantanee importanti. Ranucci, accolto da scroscianti applausi, dice: “Voterò no al referendum perché ovunque sia stata attuata la separazione, vede il pm sottoposto alla politica”. E poi sul suo giornalismo sotto attacco: “Non chiedo che mi ritirino le querele: voglio vincere sul campo”. Bennato dice al microfono: “Fate il mestiere più complicato del mondo, sono qui a darvi la mia solidarietà”. È determinatissimo Gratteri: “Dall’Anm non sono mai stato considerato quando ero sotto attacco... ma l’ho superato. Questa battaglia è importante, la posta in gioco troppo alta: vogliono ridurci al silenzio, impaurirci, normalizzare pm e giudici”. È la stessa conclusione cui arriva anche chi non è magistrato, ma giurista e avvocato di lungo corso. Come il professore Mitja Gialuz, che dice: “Questa riforma è una pessima notizia per i cittadini, visto che per produrre diritto e tutelare i diritti nelle società complesse c’è bisogno di leale collaborazione tra poteri indipendenti. E non di prevaricazione dell’esecutivo sul giudiziario”. Tra due giorni. “Dire no è difendere Costituzione”. L’Anm prepara le barricate contro la riforma della giustizia di Francesco Curridori Il Giornale, 26 ottobre 2025 L’Associazione Nazionale Magistrati boccia la riforma della giustizia, giudicandola un rischio per l’indipendenza delle toghe e l’equilibrio dei poteri. Annuncia una campagna nazionale contro il progetto. “L’Associazione Nazionale Magistrati non può restare inerte di fronte a una riforma che altera l’assetto dei poteri disegnato dai Costituenti e mette in pericolo la piena realizzazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. È quanto si legge nella mozione conclusiva dell’Assemblea Generale dell’Anm, secondo la quale “é giusto dire no”, perché “dire no alla riforma significa difendere la Costituzione, l’equilibrio tra i poteri e la libertà di tutti”. Secondo il sindacato dei magistrati, la riforma “incide sul cuore stesso della funzione giurisdizionale”, si legge nel documento. L’Anm ne contesta tutti gli aspetti principali: dalla separazione delle carriere che “indebolisce il giudice e avvicina il pubblico ministero al potere esecutivo” al sorteggio per i membri del Csm che “svuota la rappresentanza democratica e altera gli equilibri in favore della componente politica” fino all’Alta Corte disciplinare “per la quale rimangono oscuri i criteri di formazione dei collegi” che sarebbe “uno strumento di condizionamento dei magistrati”. Le toghe avvertono: “una magistratura forte con i deboli e debole con i forti non garantisce più la tutela effettiva dei diritti, nè l’equilibrio tra i poteri dello Stato, condizione imprescindibile della democrazia”. Ma non solo. La riforma della giustizia “non rende la giustizia più rapida o più efficiente: la rende meno libera, più esposta all’influenza dei poteri esterni e meno capace di difendere i cittadini”. E ancora: “In questo solco si inserisce pericolosamente anche la riforma del sistema dei controlli della magistratura contabile. La magistratura italiana rivendica il diritto - e il dovere - di essere autonoma e indipendente per garantire che la legge resti davvero uguale per tutti”. Per questi motivi l’Anm è pronta “a promuovere, a livello nazionale e territoriale, iniziative di approfondimento e confronto con la società civile, l’Avvocatura, l’Accademia e le altre magistrature per spiegare con chiarezza le ragioni del proprio dissenso e le conseguenze della riforma”. In poche parole, è pronta a fare opposizione alla riforma promuovendo “una campagna nazionale di informazione e sensibilizzazione sul significato e sugli effetti della riforma costituzionale, anche in vista della consultazione referendaria”. Tra le iniziative utili “a diffondere una corretta conoscenza del progetto di revisione costituzionale e delle ragioni del dissenso espresso dall’Associazione”, si citano: “la formalizzazione, ad opera degli organi centrali dell’Anm, di un Manifesto chiaro e univoco che ponga in evidenza i pericoli derivanti dalla riforma; la creazione di una piattaforma digitale con sezioni informative dedicate all’attività del comitato; una giornata per raccogliere adesioni al Comitato con organizzazione di eventi su base territoriale; la promozione di iniziative in sinergia con il mondo associativo e con le diverse realtà locali; in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, l’organizzazione, con il contributo del comitato, di iniziative condivise con esponenti della società civile”. Cesare Parodi, presidente dell’Anm, parlando a margine dell’assemblea generale dell’Associazione, aveva chiarito: “Dobbiamo avere il coraggio di dire veramente chi siamo, è questa la sfida che vogliamo vincere con la chiarezza di non portare mai avanti un discorso oppositivo, ideologico, politicizzato, come tanti purtroppo ci vogliono additare per poterci sconfiggere non sui nostri argomenti ma con armi assolutamente improprie”. E infine: “Difendiamo i nostri valori, non siamo contro nessuno ma siamo a favore dei valori della Costituzione e combattiamo questa battaglia nell’interesse di tutti, perché la nostra vita e il nostro stipendio non cambieranno con questa riforma, ma cambierà la vita dei cittadini”. Comitati per il No, il delicato equilibrio tra l’indipendenza e la libertà politica dei magistrati di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 26 ottobre 2025 Il dibattito sollevato da Enrico Costa riaccende il confronto sui limiti costituzionali alla partecipazione politica dei magistrati in servizio. Il ruolo dei comitati come “soggetti politici”. Nel dibattito apertosi attorno al ruolo dei magistrati nei comitati referendari, il nodo giuridico di fondo è uno: se tali comitati possano essere considerati “soggetti politici” e, in tal caso, se la partecipazione dei magistrati in carica a essi configuri una violazione del divieto costituzionale di appartenenza a partiti politici. La questione, sollevata da Enrico Costa e accennata anche dal professor Oliviero Mazza, tocca il cuore del rapporto tra indipendenza della magistratura e libertà di espressione politica dei singoli magistrati. Il punto di partenza è l’articolo 98, terzo comma, della Costituzione, secondo cui “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati”. La norma, dunque, non prevede un divieto automatico ma attribuisce al legislatore il potere di introdurlo. Tale potere è stato esercitato con il decreto legislativo n. 109 del 2006, che qualifica come illecito disciplinare l’iscrizione a partiti politici o la partecipazione “sistematica e continuativa” alla loro attività. La ratio è evidente: preservare l’imparzialità e l’apparenza di indipendenza della funzione giudiziaria, evitando che il magistrato appaia schierato su temi di natura politica. Parallelamente, le norme che regolano i referendum - gli articoli 75, 132 e 138 della Costituzione e la legge n. 352 del 1970 - prevedono la possibilità di costituire comitati promotori e comitati per il Sì o per il No, ossia organismi organizzati per sostenere una determinata opzione di voto. La disciplina successiva sulla comunicazione politica, in particolare la legge n. 28 del 2000 e le delibere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, li qualifica come “soggetti” della comunicazione politica, dotati di diritti e spazi nei mezzi di informazione analoghi a quelli dei partiti. È su questo piano che nasce la tensione: nel momento in cui un comitato referendario è considerato “soggetto politico” ai fini della propaganda e della comunicazione elettorale, la partecipazione attiva di magistrati in carica - soprattutto se sistematica, pubblica o dirigenziale - rischia di collidere con il divieto sancito dall’articolo 98 e dal decreto 109. Non esiste, va detto, una norma che equipari in modo esplicito i comitati referendari ai partiti politici. Tuttavia, la sostanza dell’attività di tali organismi è di natura politica: promuovono una linea, cercano consenso, organizzano eventi e comunicazione di massa per influenzare l’esito di una consultazione popolare. È dunque difficile negare che si tratti di soggetti che operano nel campo dell’azione politica organizzata. Da ciò consegue che, se un magistrato in servizio partecipa con continuità o ricopre ruoli pubblici all’interno di un comitato, la sua condotta possa essere interpretata come partecipazione politica rilevante ai fini disciplinari. La giurisprudenza costituzionale e disciplinare non offre ancora un precedente specifico su questo punto, ma la linea interpretativa più prudente è quella di estendere il concetto di “partecipazione sistematica” anche a forme associative o comitati che perseguano finalità politiche. In altre parole, il magistrato può certamente esercitare i propri diritti civili, ma non può farlo in modo tale da compromettere - anche solo in apparenza - la neutralità della funzione giudiziaria. Un conto è l’adesione personale a un’idea o la firma occasionale di un appello, altro è l’impegno continuativo in un organismo che svolge propaganda politica. Il tema si inserisce in un contesto più ampio, in cui la magistratura è chiamata a mantenere una rigorosa distanza dalle contese politiche, specie quando esse riguardano la struttura stessa della giurisdizione, come nel caso della separazione delle carriere. La partecipazione dei magistrati a un comitato che si schieri pubblicamente per una determinata opzione di voto rischia di trasformarsi, agli occhi dell’opinione pubblica, in un atto di militanza. Ed è proprio questo rischio reputazionale - prima ancora che disciplinare - a minacciare la fiducia dei cittadini nell’imparzialità dei giudici. Il confronto con altri ordinamenti conferma la delicatezza del tema. In Francia e Germania la partecipazione dei magistrati ad attività politiche è fortemente limitata, mentre nel Regno Unito le regole di condotta vietano qualsiasi coinvolgimento che possa compromettere la percezione di neutralità del giudice. L’Italia, con il meccanismo dell’articolo 98, si colloca in una posizione intermedia, affidando al legislatore e agli organi di disciplina la valutazione concreta delle condotte. In definitiva, la costituzione o l’adesione di magistrati a comitati referendari non è di per sé vietata, ma può divenire problematica quando l’attività del comitato assuma un profilo marcatamente politico e la partecipazione del magistrato sia pubblica e continuativa. È in quel momento che la linea di confine tra libertà personale e dovere d’imparzialità si assottiglia fino a scomparire. La questione, che unisce profili costituzionali, deontologici e reputazionali, merita dunque un approfondimento serio e non ideologico: non per limitare la libertà dei magistrati, ma per preservare - anche nelle forme della democrazia diretta - la credibilità della giurisdizione come potere terzo e indipendente. *Avvocato, direttore ISPEG L’equilibrio fragile tra autonomia e potere nella magistratura di Rocco Romeo* Il Riformista, 26 ottobre 2025 Quando la critica diventa delegittimazione: l’equilibrio fragile tra autonomia e potere nella magistratura italiana. Nel rapporto, spesso irrisolto, tra magistratura e politica, c’è un confine sottile che separa la critica legittima dalla delegittimazione. È un confine che, negli ultimi anni, appare sempre più labile, e che rischia di trasformare il confronto istituzionale in un’arena di sospetti e accuse reciproche. Il consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura Tullio Morello ha recentemente richiamato l’attenzione su questo tema cruciale, affermando con chiarezza: “I giudizi sui magistrati sono rischiosi, perché ci delegittimano”. Parole semplici, ma dense di significato. In quella frase si racchiude non solo una preoccupazione corporativa, ma una riflessione profonda sul senso stesso dell’indipendenza della giurisdizione e sulla tenuta morale delle istituzioni repubblicane. La giustizia non può essere terreno di contesa politica - Negli ultimi mesi, il dibattito acceso intorno alle dichiarazioni del ministro Carlo Nordio ha riaperto la questione della separazione delle carriere e del ruolo del Csm. Nordio ha più volte ribadito che l’indipendenza della magistratura deve essere “garantita dall’interno”, ma la sua posizione è stata letta da alcuni come un tentativo di ridefinire i confini del potere giudiziario in rapporto all’esecutivo. In questo scenario, l’intervento di Morello non è un gesto di chiusura, bensì un invito al discernimento. Egli ricorda che “le regole devono favorire l’autonomia interna, altrimenti l’indipendenza può essere messa a rischio”. La magistratura non deve essere intoccabile, ma neppure vulnerabile. La critica è fisiologica in ogni democrazia, ma quando assume toni demolitori, quando diventa quotidiano sospetto, finisce per erodere la fiducia dei cittadini non solo nei giudici, ma nello Stato di diritto. La giustizia, in fondo, è percepita come la linea ultima della tutela dei diritti: se quella linea si spezza, si apre un vuoto di credibilità che nessuna riforma potrà colmare. Tra autonomia e responsabilità - Il punto centrale del ragionamento di Morello è la consapevolezza che l’indipendenza non è privilegio, ma servizio. Un magistrato indipendente è tale perché risponde alla legge e alla propria coscienza, non a un partito, a un governo o a una corrente interna. Per questo il consigliere richiama la necessità di preservare la libertà interpretativa dei giudici senza scadere nell’anarchia interpretativa: la creatività giuridica, dice, deve sempre restare ancorata alle norme e al contesto. È una posizione di equilibrio, quella che oggi sembra più difficile da mantenere, in un tempo in cui ogni decisione giudiziaria viene scomposta, commentata e giudicata sui social prima ancora che nei tribunali. La magistratura vive una stagione complessa: da un lato la pressione politica, dall’altro la tentazione, interna, di chiudersi in difesa. Morello invita a evitare entrambe le derive: serve autonomia, ma anche responsabilità. Serve una magistratura che sappia dialogare con il Paese, ma senza farsi dettare l’agenda dal clamore mediatico. La delegittimazione come rischio sistemico - C’è un aspetto che emerge con forza: la delegittimazione non colpisce solo i magistrati, ma le istituzioni nel loro insieme. Quando si diffonde l’idea che i giudici siano faziosi o politicizzati, si incrina la fiducia nella stessa idea di giustizia. E senza fiducia, non c’è più diritto, ma solo forza. Per questo Morello rifiuta l’idea che il confronto tra politica e magistratura debba avvenire per via di slogan o di anatemi. Non serve un lessico di guerra, ma un linguaggio di collaborazione. La sua è una voce che richiama all’ordine costituzionale, non al silenzio: la critica è ammessa, purché sia argomentata, rispettosa, consapevole delle conseguenze che può produrre nella società civile. In una democrazia matura, la reciproca legittimazione tra poteri dello Stato è ciò che ne garantisce la stabilità. Il ministro può proporre riforme, il Csm può esprimere riserve, ma entrambi devono riconoscere il valore del dialogo e la pari dignità dei ruoli. La sobrietà come virtù istituzionale - Il messaggio più profondo di Tullio Morello è forse questo: la sobrietà è una virtù istituzionale. In un tempo in cui l’urgenza comunicativa sembra prevalere sulla ponderazione, ricordare che la giustizia ha bisogno di silenzio, di studio e di equilibrio è un atto controcorrente. Non servono giudizi sommari sui giudici, ma una riflessione collettiva sul ruolo della giurisdizione in una società che cambia. La politica, se vuole davvero riformare la giustizia, deve farlo con rispetto e con umiltà. La magistratura, se vuole difendere la propria autonomia, deve farlo senza chiudersi nel corporativismo. Solo da questa reciprocità responsabile può nascere una nuova stagione di fiducia, nella quale la critica torni a essere strumento di crescita e non di distruzione. Perché in fondo - come ha ricordato Morello - delegittimare i magistrati significa delegittimare la Repubblica stessa. E la Repubblica, lo sappiamo, vive solo se le sue istituzioni si rispettano a vicenda. *Docente, giornalista, scrittore e saggista Marina Berlusconi: “Urgente la riforma della giustizia” di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2025 Dopo la Cassazione la figlia del Cavaliere denuncia “trent’anni di calunnie”. I magistrati: perché lamentarsi? Via alla campagna Anm per il no al referendum. Alla vigilia del secondo e ultimo passaggio in Aula al Senato della riforma della giustizia con la separazione delle carriere, dopo i due sì della Camera - martedì si aprirà la discussione generale a Palazzo Madama e l’obiettivo della maggioranza è licenziare al più presto il Ddl costituzionale per andare al referendum confermativo nella prossima primavera - va in scena un nuovo capitolo dello scontro tra la famiglia Berlusconi e la magistratura. Protagonisti, Marina Berlusconi e il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi. A dare fuoco alle polveri è stata la lettera della presidente di Fininvest e del gruppo Mondadori pubblicata ieri sul Giornale, a pochi giorni dalla sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso della procura di Palermo contro la decisione della Corte d’appello che aveva rigettato la richiesta di sorveglianza speciale e confisca dei beni nei confronti dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, stabilendo che “non è risultata, a oggi, mai processualmente provata alcuna attività di riciclaggio di Cosa nostra nelle imprese berlusconiane, né nella fase iniziale di fondazione del gruppo né nei decenni successivi”. La pronuncia “certifica che non ci sono mai stati riciclaggi di Cosa Nostra nella Fininvest né accordi con Forza Italia”, afferma la figlia del Cavaliere, che la considera “un cruciale passo avanti anche sul cammino della verità per mio padre”. Contestando chi, sulla stampa, ha “ingiustamente sminuito” la decisione, dicendosi inquietata dal “lima velenoso, incattivito” e sottolineando che “polemizzare su una sentenza è un po’ come confondere il dito con la luna”. Perché la “luna nera” è proprio lo spazio in cui, per l’imprenditrice, “agisce quella piccola parte della magistratura che si considera un contropotere investito di una missione ideologica” e che rende l’Italia un Paese “giustizialista”, dove la “voglia di gogna continua a muovere le peggiori pulsioni dei mezzi di comunicazione e dell’opinione pubblica”. Da qui l’urgenza della legge in dirittura d’arrivo - nonostante il rammarico, perché “nemmeno la migliore delle riforme servirà più a restituire a mio padre trent’anni di vita avvelenati e devastati dalle calunnie e dalle false accuse” - e anche dell’altro intervento sollecitato: “Sarebbe urgente una nuova e vera responsabilità civile dei magistrati. Perché il principio deve valere per tutti e chi sbaglia deve pagare”. Marina Berlusconi cita le “mille persone all’anno, più di tre al giorno, che finiscono ingiustamente in carcere” e incassa il plauso del leader Antonio Tajani, che si definisce “quasi commosso” dalla lettera e promette l’impegno di Fi nella battaglia “per una giustizia giusta”, e della vicesegretaria di Fi, Deborah Bergamini (parole di “estrema lucidità”). A stretto giro Parodi, interpellato a margine dell’assemblea generale dell’Anm, replica: “Perché lamentarsi di una giustizia che comunque arriva a un risultato condiviso? Rallegriamoci che le sentenze siano giuste e non concentriamoci sul fatto che ci sia un percorso lungo, difficile per arrivare alle soluzioni di casi che, alle volte, sono incredibilmente complessi”. Quanto agi errori della magistratura, “sono un fatto fisiologico, non patologico”. La risposta infiamma le reazioni degli azzurri, dai capigruppo (Paolo Barelli bolla come “incredibili” le affermazioni del presidente dell’Anm, Maurizio Gasparri chiede a Parodi di scusarsi) agli esponenti della minoranza interna come Licia Ronzulli e Giorgio Mulè. Tutti ricompattati nel nome della lotta più cara al fondatore. L’appuntamento referendario promette di essere un potente collante per l’intero centrodestra, dopo le frizioni sulla manovra e l’ultima tornata di regionali attesa il 23-24 novembre. “Spero sia un referendum da tenere in termini pacati, nell’interesse della politica”, mette a verbale il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che già gioca la carta del pericolo in agguato se il sì non dovesse trionfare: “C’è il rischio che la stessa politica si troverebbe ipotecata dalla magistratura, come è stato a lungo dopo Tangentopoli”. Opposta la lettura dell’Anm, che ha deliberato di promuovere una campagna e un manifesto a sostegno del no. Un voto - spiega la mozione approvata ieri - che “significa difendere la Costituzione, l’equilibrio tra i poteri e la libertà di tutti”. Bruti Liberati: “È in gioco la democrazia. Il Governo ha ignorato le voci critiche” di Conchita Sannino La Repubblica, 26 ottobre 2025 L’ex pm: “Sarebbe paradossale che tutti possano esprimersi tranne i magistrati. Falso che i cittadini abbiano voltato le spalle ai giudici”. “È stata un’assemblea molto partecipata, e densa. Ed è giusto: si sta uniti in passaggi come questo. Perché l’Associazione nazionale è la magistratura italiana. Ed è nell’Anm che le diverse posizioni, trovano una sintesi”. Edmondo Bruti Liberati è stato giudice, pm, consigliere Csm e soprattutto: procuratore di Milano negli anni in cui il centrodestra, con deputati e senatori, non esitava a manifestare contro le toghe, sulle scale di quel Palazzo di giustizia. “Giusto dire no” è lo slogan dell’Anm contro la riforma. Il suo no come lo spiega a un cittadino che non ne sa nulla? “La posta in gioco è molto importante per tutti i cittadini, non per le toghe. Perché il “riequilibrio dei poteri” tra esecutivo e giudiziario riguarda la democrazia. Perché l’indipendenza dei giudici e dei pm è garanzia dei diritti: è la condizione che assicura l’eguaglianza di tutti davanti alla legge”. La destra assicura che l’indipendenza non sarà toccata... “Ma scusi, cosa vale mantenere la proclamazione teorica della indipendenza delle toghe, quando si riduce alla quasi irrilevanza il Csm? Cioè l’istituto che la nostra Costituzione ha voluto garante dell’effettività di questa indipendenza”. Lei boccia tutto l’impianto: anche la creazione dei due Csm e della Corte disciplinare? “Sì, perché quel disegno è sbagliato. Spezzettato in due organi non comunicanti, al Csm si sottrae la competenza disciplinare per affidarla ad un’Alta corte con una disciplina le cui storture tecniche sono state sottolineate da tutti i costituzionalisti”. E poi c’è il sorteggio dei membri di questi nuovi Palazzi... “Appunto: che affida al caso il funzionamento di organi di tale rilevanza”. Nordio torna a chiedervi sobrietà, “termini pacati”. Per lei, quale dev’essere la strategia? “Sarebbe paradossale che tutti possano esprimersi, tranne i magistrati. Le critiche al senso complessivo della riforma, e ai singoli passaggi, hanno raccolto ampi consensi tra i costituzionalisti. E troveranno consenso nelle posizioni della società civile e, ovviamente, di partiti politici”. Partiti che non sono ammessi nel comitato dell’Anm sorto per il no... “Sì, ciascuno si muove nel suo ambito, coi suoi argomenti. Quelli dell’Anm sono sì argomenti “politici”, ma di “politica della giustizia”. Nulla di meno, nulla di più”. Anche a Palazzo Chigi si ragiona sull’opportunità di “non personalizzare” la consultazione. Temono l’effetto Renzi 2016? “Eppure proprio questo governo ha “politicizzato” la riforma, è evidente”. Come lo avrebbe fatto? “Con la blindatura del ddl Meloni/Nordio. Non un emendamento delle opposizioni è stato accolto; ignorati anche tutti gli aggiustamenti proposti da esperti, persino quelli favorevoli in linea di principio alla riforma”. La destra confida nel calo di consenso della magistratura. E voi? La partita è ancora aperta? “Il ministro Nordio, un anno fa, poneva questo quesito: “Siete contenti, cari cittadini, di com’è oggi la magistratura? Se non lo siete votate Sì al referendum”. Appello ad un plebiscito pro o contro la magistratura e con quesito tendenzioso”. Quindi? Lo ribalterebbe? “Direi, più semplicemente: e se poi i cittadini, giustamente preoccupati per le disfunzionalità del sistema, nel segreto dell’urna si ricordassero che “spettano al Ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi della giustizia”, come dice l’articolo 110 della Carta? Il ministro pro tempore è proprio Nordio”. Qualche errore l’avrete commesso anche voi. O no? “Ai magistrati si deve chiedere umiltà, di rifuggire da ogni protagonismo personale, di rendere comprensibili le loro decisioni, di rispettare sempre la dignità delle persone, di impegnarsi per una giustizia più rapida. E ben vengano le critiche quando i magistrati non si dimostrano all’altezza: ma che non sia la delegittimazione del ruolo- essenziale - che svolgono per assicurare la convivenza civile”. I cittadini vi ascolteranno? “Non faccio previsioni. Dico che, in una sfiducia generalizzata verso le istituzioni, la magistratura si colloca a un livello ancora alto di fiducia: tra il 35 e il 45 per cento”. Il bisogno di un’informazione libera per contrastare la spettacolarizzazione mediatica delle violenze di Rete Sguardo Femminista Il Domani, 26 ottobre 2025 Stampa, media televisivi e social - che dovrebbero attenersi a codici di comportamento fondati sul rispetto della dignità femminile - finiscono spesso per diventare parte di un processo di esposizione pubblica che produce una seconda violenza. Perché le donne hanno paura di denunciare? Una ragazza di diciassette anni che ha denunciato il suo violentatore può essere oggetto di “indagini pubbliche”? Nei crimini commessi contro le donne, la vittimizzazione secondaria indica la sofferenza ulteriore che le vittime subiscono, specialmente dopo la denuncia, quando vengono esposte all’attenzione dei media o messe sotto pressione. Le norme di tutela nazionali e internazionali impongono di contrastare questo fenomeno. Eppure, stampa, media televisivi e social - che dovrebbero attenersi a codici di comportamento fondati sul rispetto della dignità femminile - finiscono spesso per alimentarlo, diventando parte di un processo di esposizione pubblica che produce una seconda violenza. Nei giorni scorsi, una giovane vittima di stupro è stata sottoposta a una gogna mediatica dalla quale avrebbe dovuto essere tutelata, per obbligo professionale, da chi ha firmato codici etici e professionali. La sentenza del tribunale di Macerata - quella antecedente al ricorso poi conclusosi con una condanna a tre anni - ha dato origine ad articoli vagamente o apertamente offensivi. E questo nonostante sia chiaro che la verità processuale è quella sancita dal giudizio finale, non quella delle fasi dibattimentali, influenzate dagli interessi delle difese. Nei processi, infatti, le vittime diventano “parte” solo se si costituiscono tali. Le vere parti in causa restano accusa e difesa, che godono entrambe di ampia libertà d’azione. Tutto questo è normale - finché la stampa non utilizza quelle dinamiche per delegittimare chi ha subito la violenza. La spettacolarizzazione dei processi, poi, va oltre: non solo alimenta suggestioni a favore degli imputati, spesso sostenute persino da figure istituzionali, ma colpisce l’intero movimento femminista e antiviolenza. Dietro la manipolazione delle informazioni che riguardano violenze e femminicidi si nasconde una logica di mercato: la scoperta di un’”area di consumo mediatico” in crescita. L’audience impone la ricerca di dettagli sempre più intimi, non per informare ma per suggestionare. Così si tenta di ricacciare il femminicidio in una zona d’ombra, riducendolo a un tema secondario nell’agenda politica. Il movimento femminista contro la violenza maschile è una soggettività politica autonoma, che si fonda sulla salvaguardia reale delle donne e delle vittime: un principio irrinunciabile, non negoziabile e non riducibile a logiche di consenso. Nell’interesse della giustizia e della civiltà, va rivendicato un dovere etico e pubblico: quello di garantire un’informazione libera e responsabile, capace di restituire il senso stesso dello Stato di diritto, fondato anche sulla distinzione netta tra vittime e carnefici. Puglia. Il Garante dei detenuti: “Colloqui intimi in carcere, boom di richieste” telebari.it, 26 ottobre 2025 Un boom di richieste di colloqui intimi con compagne e mogli da parte di detenuti pugliesi, come prevede la legge, sta finendo sui tavoli dei pm della Direzione distrettuale antimafia di Bari deputati ad autorizzarli nei casi in cui non spetti ai direttori delle case circondariali. Il trend in aumento si è verificato soprattutto nell’ultimo mese, con risposte a macchie di leopardo. I colloqui intimi si basano sul diritto costituzionale all’affettività, anche se l’attuazione completa è ancora in corso e le variabili da considerare sono diverse. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha introdotto linee guida per consentirli, prevedendo una frequenza pari a quella dei colloqui visivi. E una durata massima di due ore, da svolgersi in spazi adeguati come le stanze dell’affettività. La questione, però, resta dibattuta. Mentre i direttori delle strutture pugliesi si stanno organizzando, come racconta il Garante regionale pugliese per i diritti dei detenuti, Piero Rossi. “Ci sono direttori che stanno facendo anche di più - spiega Rossi -. Stanno provando a costruire spazi che siano d’uso ‘promiscuo’: non solo per la consumazione dell’atto sessuale, ma per dare la possibilità ai detenuti di vivere un momento familiare. Anche perché, purtroppo, molti di loro scontano pure un po’ la difficoltà, l’imbarazzo e il pregiudizio di chi vede nel colloquio intimo solo il motivo sessuale”. Benevento. Omicidio alla Rems di San Nicola Baronia, l’accusato trasferito in carcere avellinotoday.it, 26 ottobre 2025 Nella tarda serata di ieri S.P., classe 1996, è stato condotto nel carcere di Avellino a seguito del fermo disposto dal Pubblico Ministero del Tribunale di Benevento, Dott.ssa Flavia Felaco. L’accusa è di omicidio pluriaggravato. Il ventinovenne si è reso protagonista di un delitto efferato, commesso sotto le telecamere di videosorveglianza della struttura di San Nicola Baronia. A morire è stato un altro ospite della struttura, Pasquale Cannavacciuolo, 59 anni, colpito dapprima con due schiaffi al volto e successivamente, una volta caduto a terra, con calci alla testa che ne hanno determinato la morte. S.P. si trovava nella struttura di San Nicola Baronia dal 22 luglio 2025 in forza della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Napoli che in data 15 aprile 2025 aveva completamente ribaltato la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Assise di Napoli che gli aveva invece comminato 24 anni di carcere per l’omicidio pluriaggravato di un altro detenuto, tale Chiarolanza Eduardo, massacrato di botte nel carcere di Poggioreale. L’avvocato Rolando Iorio, storico difensore di S.P., era riuscito infatti a dimostrare con una serie di perizie e consulenze l’assoluta incapacità d’intendere e di volere del proprio assistito, che quindi era passato da una condanna a 24 anni inflitta in primo grado per omicidio pluriaggravato ad una sentenza di assoluzione per vizio totale di mente. La Corte d’Assise d’Appello di Napoli, nell’assolvere il P., ne aveva comunque ordinato il ricovero in residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza, in considerazione dell’elevata pericolosità sociale. Nuove valutazioni psichiatriche e il ritorno in carcere - Il decreto di fermo emesso dalla Procura di Benevento nella giornata di ieri, è stato preceduto da un nuovo riesame dello stato di salute psico-fisica del P., affidato dagli Inquirenti al Dott. Alfonso Tramontano, psichiatra, il quale dopo aver visitato il ventinovenne nella Rems di San Nicola Baronia, ha concluso per la sua piena capacità di intendere e di volere nonché per la sua capacità di stare in giudizio. Da tale consulenza si sono quindi aperte le porte del carcere per il pluriomicida. Per il delitto Chiarolanza, alla base del gesto commesso dal P., vi era stata la volontà di punire la vittima la quale si era resa responsabile dell’omicidio della madre e dello smembramento del suo corpo, ritrovato a pezzi in due borse Ikea sul ciglio della strada. Per il delitto Cannavacciuolo, avvenuto interamente sotto le telecamere della Struttura Rems, alla base del folle gesto vi sarebbe una disputa sulla figura di San Michele Arcangelo. Napoli. Caso Alhagie Konte, manifestazione ed ispezione a Poggioreale: “È morto di carcere” di Antonio Musella fanpage.it, 26 ottobre 2025 In 700 manifestano all’esterno del carcere napoletano dove il giovane 27enne era detenuto. Erano stati disposti accertamenti medici, ma non sono mai stati fatti. Dal 27 luglio avrebbe chiesto di essere portato in medicheria, dove è arrivato solo il 30 settembre. In centinaia sono arrivati sotto al carcere di Poggioreale per chiedere verità e giustizia per Alhagie Konte, il giovane di 27 anni detenuto nel carcere napoletano e morto a seguito di una grave forma di tubercolosi. La Procura sta indagando per chiarire se Alhagie abbia ricevuto o meno le giuste cure all’interno del carcere, prima di essere trasportato, alla fine di settembre, già in condizioni gravissime all’ospedale Cardarelli e successivamente al Cotugno, dove è morto dopo 6 giorni. Ormai era troppo tardi per combattere la malattia. Il ragazzo, prima di finire in carcere, era stato un attivista del Movimento rifugiati e migranti di Napoli, e sono stati proprio loro a denunciare pubblicamente la vicenda della sua morte e tutti gli aspetti oscuri. Al presidio convocato fuori al carcere di Poggioreale hanno preso parte in 700, per lo più migranti, ma anche con una presenza significativa di attivisti e società civile. “Alhagie è morto di carcere” - Insieme alla manifestazione all’esterno del carcere c’è stata anche una visita all’interno dell’istituto penitenziario da parte dei deputati del Movimento 5 Stelle Dario Carotenuto e Marianna Ricciardi. I due parlamentari hanno chiesto di visita la struttura e di visionare anche la cella in cui era detenuto Alhagie Konate. Il ragazzo era un lavorante ed il suo compito, per un periodo, era quello di lavare le celle dell’isolamento. Per comodità alla fine del turno dormiva in quella parte del carcere, ma non da solo, insieme ad altri. Nel mese di agosto Alhagie sarebbe ritornato nella sua cella nel padiglione Salerno e le sue condizioni di salute sarebbero apparse subito molto precarie. “I compagni di cella ci hanno detto che tra agosto e settembre la sua salute è peggiorata notevolmente - spiega a Fanpage.it Dario Carotenuto - abbiamo appreso che il personale medico aveva disposto più volte per lui anche degli accertamenti pneumologici e delle radiografie al torace. Ma non sono stati eseguiti. Molto spesso manca il personale di scorta per condurre i detenuti all’esterno presso gli ospedali pubblici per fare i controlli diagnostici. In un sistema normale Alhagie si sarebbe potuto curare e salvare, invece è morto”. Proprio su tutto l’iter di assistenza medica è al centro dell’indagine che sta svolgendo la Procura della Repubblica di Napoli. “Le condizioni di vita all’interno del carcere uccidono le persone, li colpiscono nella salute fisica e mentale, non lo scopriamo ora che Poggioreale è un istituto fallimentare, ma questa storia ce lo evidenzia”, sottolinea Carotenuto. All’interno del carcere la delegazione non ha trovato però ad accoglierli nessuna figura dirigenziale. Non c’era il direttore del carcere, non c’era il vice direttore del carcere, non c’era il responsabile sanitario del carcere. Ad attendere i parlamentari solo il capo della polizia penitenziaria. “A lui abbiamo chiesto di vedere la scheda dei trasferimenti, per capire i movimenti fatti da Alhagie, ma ci ha detto che i terminali erano in manutenzione. Peccato che pochi minuti dopo, quando è andato via, abbiamo visto che funzionavano perfettamente” racconta il deputato 5 Stelle. “Il caso di Alhagie ci dice che l’intero sistema non funziona - incalza Carotenuto - lui è morto di carcere, ma nella stessa condizione ci sono tantissimi altri detenuti, le condizioni igienico sanitarie sono vergognose, ci sono detenuti il cui stato di salute non è compatibile con il regime carcerario. Noi ritorneremo presto perché vogliamo parlare con il direttore del carcere e con il responsabile sanitario, faremo un’interrogazione parlamentare al Ministro Nordio, bisogna intervenire subito perché altri potrebbero fare la fine di Alhagie”. Il Movimento rifugiati e migranti non cesserà la mobilitazione sul caso di Alhagie, anche per tenere un riflettore acceso sulle condizioni dei detenuti nel carcere di Poggioreale, dove a fronte di 1300 posti vivono invece 2150 detenuti. “Alhagie era un ragazzo buono, era molto piccolo quando è arrivato in Italia - ci racconta Maddalena Verrone del centro sociale Ex Opg “Je so pazz” - viveva in condizioni pessime in un centro di accoglienza vicino Piazza Garibaldi, è lì che lo abbiamo conosciuto, ed insieme a noi è diventato un attivista. Ma le condizioni di estrema precarietà lo hanno poi portato a finire in carcere, come tocca alla maggior parte dei migranti nel nostro paese, discriminati, esclusi e abbandonati a loro stessi”. Fuori dal carcere la folla grida “Libertà! Libertà!” mentre, dalle celle che si affacciano su Piazzale Cenni, i detenuti alla vista della manifestazione rispondono con la battitura delle sbarre. “Alhagie era gonfio, respirava a fatica, espettorava muchi, questo è quello che ci hanno raccontato i suoi compagni di cella - ci spiega Saverio Mascolo del Movimento Rifugiati e Migranti - quando gli è stato concesso di fare il lavorante ha avuto una visita medica, a febbraio 2025, ma non è stato testato per la tubercolosi, che può essere in incubazione per molti mesi. Dal 27 luglio, secondo quanto riferito dai compagni di cella, Alhagie avrebbe chiesto più volte di andare in medicheria, ma non sarebbe mai stato possibile portarlo, visto che si entra solo il martedì, ed il piantone che doveva portarlo in medicheria non era disponibile. Solo il 30 settembre Alhagie è stato finalmente portato al pronto soccorso del carcere, dove sono state riscontrate condizioni drammatiche, che hanno indotto il personale medico a chiedere il trasferimento all’ospedale Cardarelli in emergenza senza passare per l’autorizzazione del giudice di sorveglianza”. Il caso di Alhagie Konate è l’ennesimo che si consuma nel carcere di Poggioreale, diventato tra gli istituti penitenziari con le condizioni peggiori d’Italia. “All’interno di quel posto non c’è nulla che ha a che fare con la giustizia - sottolinea Mascolo - le condizioni sono drammatiche, sia per lo spazio che per condizioni igieniche. Le docce sono in condizioni igienico sanitarie da prigione libica, su 4 vani doccia ne funzionano 2, hanno l’acqua calda un’ora al giorno. Il responsabile del decesso di Alhagie è il sistema carcerario, lo hanno lasciato morire, a nostro avviso in tanti sapevano della situazione e nessuno agiva. È necessario accertare le responsabilità dell’autorità carceraria e di quella medica, ed è necessario per tutti i detenuti che oggi sono lì. In molti avrebbero diritto a pene alternative, ma il sistema non funziona e quindi sono costretti a vivere in quell’inferno”. Catanzaro. “Serve una riforma del sistema, non un ritorno al carcere come luogo di esclusione” di Luciano Giacobbe* calabriainforma.it, 26 ottobre 2025 In un momento in cui il sistema penitenziario italiano è al centro di un acceso dibattito, le parole di Samuele Ciambriello, Portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti Territoriali, ci spingono a riflettere profondamente sulle recenti circolari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Queste direttive, a firma del Capo Dap Stefano Carmine De Michele e del Direttore Generale Detenuti e Trattamento Ernesto Napolillo, sembrano segnare un ritorno a una visione “carcerocentrica”, contrapponendosi ai progressi cercati negli anni precedenti in termini di inclusione e reinserimento sociale. “Le circolari in discussione mostrano chiaramente una scarsa comprensione della realtà vissuta nei nostri penitenziari”, afferma Giacobbe. La mancanza di attenzione alle dinamiche interne delle carceri, e l’evidente riduzione delle opportunità di inclusione sociale, sollevano interrogativi vitali sul futuro del sistema carcere-giustizia in Italia. Giacobbe condivide la preoccupazione espressa da Ciambriello riguardo al rischio che queste circolari possano soffocare iniziative vitali messe in atto da cooperative, associazioni ed enti locali. In un contesto in cui il circuito di Alta Sicurezza sembra essere trattato con maggiore rigidità e scarsa flessibilità, il Garante di Catanzaro evidenzia che i direttori penitenziari non possono diventare semplici gestori di amministrazione; essi hanno il compito essenziale di mediare tra sicurezza e diritto alla rieducazione, un principio fondamentale sancito dalla nostra Costituzione. In un’epoca in cui la società italiana si trova a dover affrontare temi complessi come i suicidi, il sovraffollamento carcerario, le emergenze sanitarie e il benessere mentale dei detenuti, è fondamentale riaprire il dibattito sulla necessità di una riforma profonda del sistema penitenziario. Giacobbe rilancia il messaggio di Ciambriello: “Non possiamo permettere che, invece di evolverci, regrediamo verso un modello che riduce il carcere a un luogo di esclusione piuttosto che di recupero”. La proposta è chiara: è il momento di tornare a discutere di un sistema basato sulla “sorveglianza dinamica”, capace di promuovere attività lavorative, ricreative e trattamentali, essenziali per il reinserimento delle persone detenute. “In questi anni, afferma Giacobbe, la Politica ha perso tante opportunità per realizzare riforme rimaste inapplicate e ora è giunto il momento di riprendere il cammino verso una giustizia che sia soprattutto rieducativa”. Concludendo, Luciano Giacobbe invita tutti gli attori coinvolti - istituzioni, associazioni e la comunità - a unirsi in questo sforzo per un sistema penitenziario più umano e giusto, ricordando che il vero obiettivo deve essere sempre quello di “rieducare” e non solo di “vigilare”. La riforma del carcere è un tema che riguarda non solo i detenuti, ma la società nel suo complesso. *Garante dei Diritti dei Detenuti del Comune di Catanzaro Torino. “Parlare di carcere nel carcere”: un’occasione mancata Il Manifesto, 26 ottobre 2025 Il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria ha revocato all’ultimo momento l’autorizzazione per la presentazione della proposta di legge “Sciascia-Tortora” nel carcere Lorusso Cutugno. Le associazioni promotrici denunciano una decisione incomprensibile che ha chiuso, ancora una volta, le porte del dialogo sulla giustizia giusta. Un’occasione mancata. Così le associazioni promotrici della proposta di legge “Sciascia-Tortora” - Amici di Leonardo Sciascia, Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora, Italia Stato Di Diritto, la Società della Ragione e l’Unione delle Camere Penali Italiane - hanno definito la decisione del Provveditorato regionale del Piemonte dell’Amministrazione penitenziaria, che ha revocato in extremis l’autorizzazione per la presentazione della proposta all’interno del carcere di Torino. L’incontro, inizialmente previsto per venerdì 24 ottobre nella Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino, si è tenuto comunque nello stesso orario, ma presso la sede della Fondazione dell’Avvocatura Torinese Fulvio Croce. Una “decisione tardiva e incomprensibile”, hanno scritto le associazioni, ricordando come analoghe iniziative si siano svolte in altri istituti penitenziari e auspicando che possano continuare a farlo. Il testo di legge “Sciascia-Tortora” - elaborato dalle stesse organizzazioni - propone un percorso di formazione per i magistrati che includa non solo lo studio dei grandi testi del pensiero giuridico, ma anche un’esperienza diretta di alcuni giorni negli Istituti detentivi. Un modo per “conoscere i luoghi in cui decine di migliaia di persone sono rinchiuse in attesa di giudizio o in esecuzione di pena, troppo spesso in condizioni contrarie alla dignità umana, ai principi costituzionali e ai diritti fondamentali”. Le associazioni hanno richiamato l’urgenza di riportare l’attenzione sul sistema penitenziario italiano, segnato da una crisi profonda e da un tasso di sovraffollamento che contribuisce alla tragedia dei numerosi suicidi in carcere. “Le occasioni di apertura del carcere alla società civile - hanno affermato - dovrebbero essere considerate momenti preziosi di dialogo e confronto. Perché impedire di parlare del carcere nel carcere?” Il comunicato si è chiuso con un impegno che suona come una promessa: “Non ci rassegniamo e continueremo a bussare alle porte del carcere, per dialogare, confrontarci, discutere, conoscere e capire. Aprire il carcere al discorso sul carcere fa bene alla società. Chiuderlo non fa bene a nessuno”. Como. Manca il Garante dei detenuti, il Bassone rischia di diventare una “dimensione fantasma” di Giulia Ghirardi fanpage.it, 26 ottobre 2025 Il Garante dei detenuti è la figura deputata a vigilare, ascoltare e segnalare eventuali abusi registrati all’interno di un carcere. “Al Bassone di Como tale figura manca da giugno 2024. Il rischio è che le criticità restino inascoltate, i dati ignorati e le zone grigie non affrontate”, ha spiegato l’ex Garante, Alessandra Gaetani, a Fanpage.it. Così, però, il carcere rischia di diventare una vera e propria dimensione fantasma della città. Da mesi il carcere di Como è senza Garante dei detenuti. “La posizione è rimasta vacante dalla fine del mio incarico lo scorso giugno”, ha spiegato a Fanpage.it l’ex Garante, Alessandra Gaetani. Detto in altre parole, al momento al Bassone manca la figura deputata a intercettare ciò che non va, quel ponte di collegamento tra interno ed esterno, capace di esercitare la moral?suasion necessaria per non lasciare che il carcere si trasformi in una dimensione fantasma all’interno della città. Cosa sta succedendo al carcere Bassone di Como - Facciamo un passo indietro. La figura del Garante dei detenuti gioca un ruolo chiave nella tutela e salvaguardia dei diritti dei detenuti e delle detenute. L’incarico, infatti, per quanto onorario, è l’unico tramite esterno al quale viene affidato il compito di vigilare, ascoltare e segnalare eventuali abusi registrati all’interno del carcere. Lo ha ribadito a Fanpage.it anche Gaetani che ha definito il Garante una figura “fondamentale” perché “sguardo capace all’interno del carcere”. E lo ha fatto con onestà, ricordando che tale figura “non ha poteri esecutivi veri e propri”, ma può “esercitare una moral?suasion mirata”: una pressione morale, un richiamo di responsabilità civile che ha una funzione di tutela e presidio. Per questo, quando in un carcere manca il Garante, il pericolo non è solo formale, ma anche politico e, prima di tutto, sociale. Ed è proprio quanto si sta verificando a Como. “Sono tanti mesi che il carcere di Como sta rimanendo scoperto”, ha spiegato ancora Gaetani a Fanpage.it. “Il rischio è che le eventuali criticità restino inascoltate, i dati ignorati, le zone grigie non affrontate”. Così, appresa tale situazione, Fanpage.it ha contattato il Comune di Como per avere spiegazioni e capire come mai tale posizione sia stata e rimanga tuttora vacante, ma nessuno ha mai saputo rispondere. Sulla questione è poi ritornata l’ex Garante, spiegando che, “quando un Garante è in scadenza di mandato, il Comune non dovrebbe aspettare il termine, ma attivarsi per tempo per non rimanere scoperti”. Tuttavia, in molti casi, questo non accade. “Non lo fa quasi nessuno”, ha aggiunto Gaetani, specificando che anche a Milano - dove gli apparati comunali sono più attrezzati - “spesso non lo fanno”. Il rischio, però, è che in circostanze di questo tipo si perda la funzione rieducativa che dovrebbe essere sottesa alla detenzione e che la pena diventi puro contenimento. In questo modo è evidente come la mancanza del Garante dei detenuti a Como, così come altrove, non è nient’altro che la spia di una società capace di vedere le sbarre e le celle, ma non chi le abita, e che, ancora, fatica a prendersi le proprie responsabilità. Così facendo, però, non fa altro che aumentare il numero di fantasmi presenti in città. Bologna. Coordinamento carcere Navile: “Un nuovo spazio per i detenuti” Il Resto del Carlino, 26 ottobre 2025 La presidente del quartiere, Mazzoni: “Una rete di sostegno che serve a creare relazioni tra dentro e fuori”. Si chiama QuBo7 perché l’obiettivo è quello di “rendere il carcere il settimo quartiere di Bologna”. Taglio del nastro in via Ferrarese per inaugurare la nuova sede del Coordinamento carcere Navile: sarà utilizzabile dalle associazioni che si occupano di questo tema, ma anche per attività che vedono protagonisti gli stessi detenuti o ex detenuti. I locali, fino a qualche tempo fa, erano dedicati ad alcuni servizi per gli adolescenti che sono stati trasferiti in piazza Lucio Dalla. “Finalmente il Coordinamento carcere del Navile, che a livello cittadino si propone di essere un punto di riferimento per il carcere, tra il dentro e il fuori - dichiara la presidente del Quartiere, Federica Mazzoni - ha una sede fisica: QuBo7. Abbiamo detto fin dall’inizio che per noi il carcere non è un luogo da tenere lontano, da non conoscere, ma da integrare quanto più possibile nella vita della città e quindi il settimo quartiere di Bologna per noi dev’essere la Casa circondariale”. Il piccolo edificio si trova lungo la strada che porta alla Dozza e proprio qui “abbiamo deciso di dare una casa fisica, una struttura di coordinamento - continua Mazzoni - a tutte le associazioni che con il volontariato si occupano di carcere, con i detenuti, per dare loro delle buone opportunità durante la pena ma anche per costruire la rete sociale utile per il loro reinserimento”. Su queste basi “vogliamo anche noi, dal Navile, cercare di fare il nostro pezzetto concreto per far sì che il reinserimento e la rieducazione delle persone che sbagliano, che ovviamente devono pagare secondo la legge che impone delle sanzioni e delle pene poi possano avere una seconda opportunità. Molti detenuti, con le associazioni del territorio - spiega Mazzoni - organizzano pulizie di comunità in diversi posti del nostro quartiere: attività che d’ora in poi potranno essere organizzate utilizzando proprio la nuova sede del Coordinamento”. Dove ci sarà anche una radio, Eduradio, dedicata alla vita in carcere. L’apertura della sede di via Ferrarese “è iniziata un po’ come slogan - afferma la responsabile del Coordinamento, Maria Raffaella Ferri - ma poi va a finire che qualcuno ci crede e le cose vanno avanti. È una casetta, ma è un punto fermo di quella solidarietà che vogliamo costruire tra associazioni e volontari”. Monza. Dignità in crisi dietro le sbarre: “Emergenza totale in carcere” di Alessandro Salemi Il Giorno, 26 ottobre 2025 Al Teatro Binario 7 il convegno di Azione sui tanti problemi della casa circondariale di via Sanquirico. La direttrice Buccoliero: sovraffollamento, assenza di spazi e anche l’assistenza sanitaria è in sofferenza. Una realtà che chiede ascolto. Il carcere di Monza è oggi lo specchio fedele di un sistema penitenziario in crisi, dove la dignità fatica a trovare spazio dietro le sbarre. È quanto emerso ieri al Teatro Binario 7 nel convegno organizzato da Azione Monza e Brianza. Tra gli ospiti, il deputato Fabrizio Benzoni, da tempo impegnato sul fronte carcerario, sostenitore del disegno di legge di Più Europa firmato da Riccardo Magi, che propone il principio del numero chiuso per combattere il sovraffollamento. Ma il cuore del dibattito è stato Monza. La direttrice della casa circondariale, Cosima Buccoliero (foto), ha tracciato un quadro che non lascia spazio a illusioni: “Oggi abbiamo 735 detenuti per 411 posti disponibili. In passato siamo arrivati a superare quota 750. Dopo un temporaneo blocco delle assegnazioni, il trend è di nuovo in salita. Entro l’estate rischiamo di tornare a quei numeri”, dichiara. Un dato che pesa non solo sulle condizioni materiali, ma anche sulla tenuta psicologica dei detenuti e del personale. “Ci sono camere pensate per una persona e mezzo che ospitano tre detenuti. Il terzo, spesso il più fragile, dorme su una brandina scomoda. E non tutti riescono a partecipare alle attività: mancano spazi, e chi resta chiuso in cella tutto il giorno finisce per scivolare nella frustrazione o nella violenza”, spiega Buccoliero. Sono 250 i detenuti in carico alla psichiatria e oltre 400 seguiti dal Sert per dipendenze da sostanze. “A volte sembra di lavorare in un pronto soccorso. Il personale non è sufficiente per gestire situazioni tanto complesse”, ammette. Anche l’assistenza sanitaria soffre: “C’è chi ha atteso due anni per un’operazione al varicocele, o per un’ernia inguinale evidente”. Mancano gli spazi. “Abbiamo solo tre percorsi scolastici. Uno, quello di falegnameria, coinvolge 25 detenuti: vorrei replicarlo, ma oggi non è possibile”. L’assessora alle Biblioteche Viviana Guidetti ha parlato dell’importante lavoro di questi anni sulla biblioteca penitenziaria, parte del circuito Brianza Biblioteche con 7.700 volumi, ora consultabili online. Venezia. Porta della Speranza, dal carcere alla vita di Margherita Bertolo Il Gazzettino, 26 ottobre 2025 L’idea della Santa Sede di realizzare un monumento all’uscita di Santa Maria Maggiore. La varcheranno, con passi incerti, le persone che usciranno dal carcere dopo aver scontato la loro pena. Quando riaffacciandosi al mondo esterno, dovranno cominciare di nuovo, superando la paura e la diffidenza degli sguardi. La Porta della Speranza che verrà costruita all’esterno del carcere maschile di Santa Maria Maggiore, nel sestiere veneziano di Santa Croce, vuole infondere coraggio e dire: “Non abbiate timore, siamo pronti ad accoglierti”. Ideata dal regista Mario Martone e realizzata dalle mani sapienti di artigiani da tutta Italia, rappresenterà la forza di un genere umano che, attraverso la creatività e l’intelletto, riesce a rinnovare se stesso. Nella mente e nell’anima. Simbolo di un rito di passaggio e della rinascita. È questo il cuore del progetto nato da un’idea del Cardinale José Tolentino de Mendonça, presidente della Fondazione Pontificia Gravissimum Educationis e prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede. Un’iniziativa che si intreccia con l’apertura della Porta Santa nel carcere romano di Rebibbia, avvenuta all’inizio del Giubileo. “La speranza è un sentimento nel cuore di tutti gli uomini e di tutte le donne. Quando il vaso di Pandora si apre e i mali del mondo si riversano, rimane la speranza”, spiega il professor Davide Rampello, curatore, direttore artistico e creativo (tra le esperienze, in passato, anche il Carnevale di Venezia), storico presidente della Triennale di Milano (dal 2003 al 2011), docente universitario e volto televisivo (l’ultima di tante è Striscia la Notizia). È proprio lui, attraverso la Rampello & Partners, a curare l’intero progetto, che in Italia prevede la realizzazione di otto monumentali Porte da installare di fronte ad altrettante carceri italiane (e due portoghesi), dove saranno visibili a tutti. Ciascuna sarà ideata da un interprete della creatività umana. Ci sono gli architetti Michele De Lucchi, Fabio Novembre, Stefano Boeri. Gli artisti Gianni Dessì e Mimmo Paladino. Fino allo chef Massimo Bottura, all’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta, al regista Mario Martone, il quale interverrà, appunto, a Venezia. “Far realizzare le porte non solo agli artisti ma anche chi pratica scienza, i mestieri e professioni diverse, è fondamentale: la speranza è virtù (da vis, forza) e le virtù sono la forza dell’uomo”, spiega Rampello. Il processo creativo delle Porte della Speranza parte dalle persone che quell’arco un giorno lo dovranno varcare. E così Mario Martone, che gli ambienti carcerari li ha più volte raccontati - l’ultimo caso è il recentissimo “Fuori”, adattamento cinematografico del romanzo autobiografico di Goliarda Sapienza “L’università di Rebibbia” (1983) - giovedì ha trascorso l’intera giornata all’interno della casa circondariale di Santa Maria Maggiore. “È stato toccante, si tratta di persone con un’esperienza di vita incandescente che si trovano in una situazione in cui trasmettono il loro dolore, la loro speranza. E anche la loro determinazione: sono pronte a uscire e ad affrontare la vita in una maniera diversa, non commettendo gli stessi errori”. Eppure, sul loro destino incombe un enorme interrogativo: “Cosa troveranno all’uscita? Questo è il punto - incalza Martone -. Tra i detenuti che ho incontrato a Venezia c’è un iracheno fuggito dalle bombe. Arrivato in Italia ha dormito sotto i ponti e a un certo punto è finito in carcere. Una volta uscito, cosa troverà? È questo il punto”. Di sicuro, ad accoglierlo, ci sarà una porta, la Porta della Speranza. Per ora c’è il massimo riserbo sul progetto. Di sicuro, sorgerà di fronte all’ingresso del carcere. “Servirà valutare con molta attenzione l’ambiente circostante, con cui il monumento dovrà dialogare in modo naturale e non invasivo”, premette Martone, rivelando un sentimento di profondo rispetto per Venezia. “Una città che mi è cara e vorrei che non venisse mai toccata o sfregiata”, aggiunge. Quel che è certo è che tutte le Porte, inclusa quindi quella veneziana, saranno realizzate in materiali come il metallo, la pietra, il legno, “i materiali della croce”, come li ha definiti Rampello. La pietra sarà quella di Vicenza, facile da lavorale, severa, grigia. E se Martone sceglierà la carpenteria metallica, ad occuparsene sarà la Maeg di Vazzola, guidata da Alfeo Ortolan, mentre Maurizio Milan, con Buromilan, curerà gli aspetti tecnici del progetto, che sarà realizzato entro settembre dell’anno prossimo. Con il coinvolgimento di una “bottega” - così Rampello ama definirla - di oltre cento persone tra ideatori, professionisti e maestranze. Dove l’arte diventerà viatico per l’anima. Tutti offriranno il proprio saper fare a titolo gratuito, e ai costi vivi provvederà la Fondazione Cariplo. Ogni fase della realizzazione, a Venezia e nelle altre carceri, sarà documentata da un unico libro-catalogo e da un film diretto da Giuseppe Carrieri. A ritrarre il volto di una Chiesa più laica che mai, che esce dal tempio e percorre le calli. Per accogliere chi si appresta a ricominciare la propria vita, quasi a dire: “Non abbiate paura!”. “Le cose che t’ho imparato”, il palco diventa una cella tra noir e risate di Antonia Fama collettiva.it, 26 ottobre 2025 Due detenuti in un lungo confronto di fronte a un piatto di pasta, che cambierà le loro vite. Al Cometa Off a Roma il lavoro della regista Siddharta Prestinari. Due uomini, due storie, due universi talmente lontani da risultare alla fine vicini. Come gli opposti che si attraggono, come i nemici che si scoprono. Una cella e due vite troppo ingombranti per non starci strette. Sono i due protagonisti di Le cose che t’ho imparato, tratto da un testo di Carlo Picchiotti. Lo spettacolo, adattamento e regia di Siddhartha Prestinari, è andato in scena a Roma, al Teatro Cometa Off. Sul palco, commedia e dramma si fondono, restituendo quell’ironia che è propria dell’esistenza, anche nelle vicende più cupe e nelle sue pieghe più nere. Stefano Ambrogi ed Ermenegildo Marciante interpretano due detenuti: un galeotto in cella da oltre vent’anni e un imputato spinto dentro da una scelta eticamente complessa. È in una squallida cella di tre metri per tre che si svolge tutta la scena. Un lungo piano sequenza che rivelerà, man mano, segreti inconfessabili e dolori sottaciuti. La durezza del galeotto da un lato, talmente abituato al carcere che ne ha fatto la sua casa; la fragilità emotiva del giovane imputato dall’altro, totalmente impreparato alla realtà della detenzione. Come lo è lo spettatore, che insieme a lui supera i numerosi cancelli che portano alla sua cella. Per circa un’ora di spettacolo il pubblico non è più chiuso fuori (dalla quarta parete) bensì chiuso dentro insieme ai due personaggi, che si confrontano fino allo sfinimento. Le condizioni della detenzione prendono allora corpo sulla scena, non solo attraverso le parole degli attori. Ma anche, e soprattutto, attraverso i loro gesti, gli oggetti con cui entrano in contatto: un coltello, un mazzo di carte, una grattugia. Ma soprattutto, un piatto di Gricia. Le cose che t’ho imparato sono tutte le dritte per sopravvivere in carcere, che il detenuto di lungo corso cerca di dare all’imputato nel poco tempo che passeranno insieme. Ma anche tutte quelle che un padre mancato non ha potuto insegnare a un figlio orfano. La vera forza della storia sta nel suo risvolto tragicomico, che usa la battuta come strumento per veicolare anche i messaggi più duri. Giusta la scelta registica di affidarsi (e fidarsi) di una romanità che è capace di fare metafora su qualsiasi evento - anche il più tragico - della vita. In questo, Stefano Ambrogi ci regala un’interpretazione autentica, sanguigna, leggera e profonda al tempo stesso. Dall’altro lato, Ermenegildo Marciante gli fa da contrappeso, come due pugili al loro incontro sul ring. La paura e l’ingenuità, nella sua interpretazione dapprima nervosa, si aprono man mano a risvolti buffi, che invitano all’empatia. Accanto al tema della detenzione, anche se solo tratteggiato, quello del diritto alla scelta, all’autodeterminazione sulla propria vita. Una riflessione etica di non poco conto, che apre uno squarcio su un argomento che nel nostro Paese resta tuttora un imperdonabile tabù. Le cose che t’ho imparato è la dimostrazione che della vita si può e si deve sorridere sempre, anche quando ci sarebbe da piangere. Perché, come diceva Flaiano: la situazione è grave, ma non seria. Francesca Archibugi: “Non è più tempo di fare le brave bambine, diamo voce alle vittime” di Fulvia Caprara La Stampa, 26 ottobre 2025 La regista in “Illusione “parte da un caso di violenza contro una ragazzina: “La piaga dei femminicidi è antica, finalmente adesso se ne ha coscienza”. In una Perugia fredda e piovosa, teatro plumbeo di affari ignobili, in testa quello di ragazzine giovanissime, rapite e obbligate a prostituirsi, Francesca Archibugi ambienta il suo nuovo film Illusione ispirato a un fatto di cronaca filtrato dalla sua speciale sensibilità, e, quindi, capace di diventare molto altro: “L’idea mi è venuta da un trafiletto sul Corriere dell’Umbria in cui si parlava di una ragazza trovata in un fosso, creduta morta e poi, invece, scoperta viva, molto probabilmente legata alla tratta delle bianche, perché, purtroppo, Perugia è un centro di smistamento di molti traffici. Questo germe è stato lì, a crescere per anni, in modo del tutto inconsapevole, ogni tanto ripensavo a quella ragazzina nel fosso, a chi era e a che cosa poteva esserle accaduto. Ogni tanto guardavo su Internet, per capire se ci fossero stati sviluppi dell’indagine, ma niente. Evidentemente quel ritrovamento non era considerato importante”. Con Laura Paolucci e Francesco Piccolo, la regista ha immaginato la vicenda del film, ieri alla Festa del Cinema, concentrando il racconto su Rosa Lazar (Angelina Andrei), moldava, neanche 16 anni, vittima di violenza brutali, sulla sostituta procuratrice Cristina Camponeschi (Jasmine Trinca), sul vicequestore Pizzirò (Filippo Timi) e sullo psicologo Stefano Mangiaboschi (Michele Riondino) che cerca di far affiorare la verità nella mente confusa e disturbata della ragazzina, affetta da una grave forma di rimozione. L’inchiesta potrebbe trascinare nel fango notabili del luogo, uomini rispettati, che hanno in mano le redini del potere. “Ho avuto voglia istintivamente - spiega Archibugi - di uscire un po’ dalle case, di entrare nel logos pubblico, forse perché la situazione esterna è talmente forte e per certi aspetti inedita...Non volevo fare un film sociologico, piuttosto scoprire una persona, quella biondina abbandonata su una strada, capire chi era, cosa aveva fatto, qual era stato il suo percorso all’interno di quel mondo. Gli altri personaggi sono venuti fuori insieme a lei”. Eppure, come recitava il vecchio detto femminista, “il personale è politico”, e quindi Illusione non è solo un thriller in cui si cercano i responsabili di un crimine, ma anche un film che parla di rapporti tra uomini e donne, mette il dito nella piaga dei femminicidi e sul fatto che, in passato, l’attenzione su certe morti, fosse meno alta di adesso: “Le mie amiche femministe - dichiara la regista - mi hanno detto che è tutta una questione politica, e io mi sono cosparsa il capo di cenere. Facciamo film sulla vita, sull’umanità, sperando di raccontare qualcosa dell’esistenza, magari smuovere questioni gigantesche come i rapporti tra i sessi. Credo che il problema dei femminicidi non sia peggiorato, è solo che adesso se ne ha più coscienza e che, per tutte noi, sia diventato più insopportabile. Se ne parla di più, delle violenze che sfociano nel femminicidio, ma anche di tutti gli altri tipi di violenze che non arrivano a quel punto, ma che noi, come donne, siamo costrette a subire, nella nostra vita quotidiana, in tutti i lavori che facciamo”. Sui casi di Perugia, legati al proliferare della “mafia slava che si è infiltrata dappertutto”, è stata aperta, fa sapere Archibugi, “un’inchiesta che si chiama “Infinito”. L’ha iniziata la Boccassini, io stessa, ignorantissima, non ne sapevo niente, ma forse, mi chiedo, c’è anche un problema nell’informazione?”. Di sicuro c’è, più in generale, un nodo profondo, che riguarda la consapevolezza femminile, un traguardo che richiede sforzi e tempi di maturazione: “Quando ho iniziato a fare questo mestiere - osserva Archibugi - volevo solo essere accettata, fare la brava bambina. Poi passano gli anni, e, a un certo punto, capisci che tu, non solo non vuoi più fare la brava bambina, ma non vuoi nemmeno che la facciano le ragazze giovani di oggi”. Nel caso di Archibugi la presa di coscienza “è stata lenta”, non perché fosse del tutto assente, ma perché la professione di regista ha sempre occupato uno spazio molto grande: “Il mio lavoro è sempre stato, dentro di me, qualcosa di gigantesco, ha riempito tutti i buchi, così sono andata avanti senza mai farne una questione femminile. Mi sembrava quasi inelegante, quando pensi di non essere abbastanza all’altezza, non vuoi avere alibi. Però poi arriva un momento in cui dici a te stessa che forse, senza vergogna, puoi cercare di raccontare quello che ci succede, da sempre, a tutte quante”. Nel bel mezzo della Festa del cinema è arrivata, pochi giorni fa, la notizia dei tagli al Fondo per l’Audiovisivo: “Sono senza parole - commenta Archibugi -, non solo perché vedo, intorno a me, la disperazione delle troupe, dell’enorme indotto che il cinema comporta, e il fatto che nessuno si muova. Quello che mi colpisce è l’assoluta miopia della politica culturale. Non si capisce che un Paese che svuota il racconto di se stesso, è un Paese che, pian piano, diventa sempre più piccolo e marginale. Oggi, in Italia, si sta tornado indietro, in un modo incredibile, e questo perché non si crede e non si punta sul suo potenziale di espressione culturale. È una cosa che mi provoca dolore”. La Chiesa italiana guarda al futuro: sì alle 124 proposte del Cammino sinodale di Giacomo Gambassi Avvenire, 26 ottobre 2025 Il documento che raccoglie quattro anni di ascolto e confronto è stato votato a larga maggioranza dagli 800 delegati. La parola ora passa ai vescovi. Dissensi per i paragrafi su iniziative Lgbt, donne, stipendi dei collaboratori e nuovo ministero della cura. Centoventiquattro proposte per rinnovare la Chiesa italiana. Tutte approvate. Così come l’intero Documento di sintesi che le contiene: quello intitolato “Lievito di pace e di speranza” che raccoglie i quattro anni del Cammino sinodale della Penisola. Testo ratificato con più del 95% dei consensi dagli oltre ottocento delegati delle diocesi del Paese riuniti oggi a Roma per la terza Assemblea sinodale. Terza e ultima, dopo la prima di novembre convocata con l’obiettivo di individuare principi e criteri per elaborare le indicazioni di “cambiamento”; e dopo la seconda di aprile dove la votazione era stata rinviata e il documento finale ritirato per il dissenso sui contenuti scaturito dal dibattito. “Davvero possiamo dire che la logica del “si è sempre fatto così” non ha avuto la meglio”, ripercorre il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, nelle conclusioni di questa mattina. E spiega che l’intero percorso “ci aiuta a proteggere la Chiesa dal penoso protagonismo individuale, dall’esibizione delle proprie originalità, da un pensiero stantio ridotto a ideologia, ben diverso dal mettere a servizio tutto se stessi e dal camminare con responsabilità e passione assieme”. Al termine dei lavori, l’Assemblea ha inviato un messaggio al Papa: “Il Cammino sinodale, ritmato dalla preghiera, dall’ascolto e dalla partecipazione, ci ha aiutato a riscoprire lo stile della vita e della missione della Chiesa. Padre Santo, crediamo che questa sia la bellezza dell’annuncio del Vangelo: una bellezza che chiede di essere incarnata nelle nostre vite e annunciata alle donne e agli uomini di oggi”. Il testo appena approvato non è “un documento dottrinale” e contiene le direttrici “pastorali per essere una comunità ecclesiale missionaria”, afferma l’arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, Erio Castellucci, presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, nella conferenza stampa che segue all’Assemblea. Tre quelle che condensano il testo: la “corresponsabilità”, intesa come “rinnovo degli organismi di partecipazione” in diocesi e parrocchie, “guida maggiormente condivisa delle comunità”, valorizzazione delle “donne” e dei “laici”, sottolinea Castellucci riassumendo le proposte presenti nel documento; la “formazione”, inclusa una revisione dell’Iniziazione cristiana in modo che ciascuno “possa attingere alla ricchezza del Vangelo rimettendo al centro la Parola anche con gruppi di base o di ascolto nei luoghi della vita quotidiana”; e la “pace” che richiama a una “Dottrina sociale attenta alle problematiche attuali”. Con un’”operazione trasparenza” capillare, la Cei ha reso noti tutti i voti. “Per non lasciare l’esclusiva a qualche sito…”, scherza Castellucci. Gli oltre cento suggerimenti hanno avuto il via libera con un consenso medio di oltre il 90% dell’Assemblea sinodale. Salvo poche eccezioni. La proposizione con il maggior numero di voti “non favorevoli”, circa il 23% (pari a 188 voti su 813), è stata una di quelle sulla presenza femminile nella Chiesa: in particolare, dove si indica di proporre contributi sul diaconato alle donne nell’approfondimento avviato dalla Santa Sede. “Un voto sulle donne che non ho capito”, ammette monsignor Valentino Bulgarelli, segretario del Comitato nazionale. L’altra proposta nel mirino è il paragrafo su Lgbt, convivenze e unioni civili: il 20% dell’Assemblea (185 voti su 822) si è detta contraria al sostegno Cei alle Giornate contro ogni forma di violenza e discriminazione, compresa quella contro l’omofobia e la transfobia. “Un invito che è stato equivocato, come se la Cei avallasse il Gay Pride - fa sapere Castellucci -. Invece la Chiesa aderisce già con il suo stile, ossia con la preghiera, a Giornate contro il femminicidio o gli abusi”. E Bulgarelli aggiunge: “Tutte le proposte hanno al centro la persona. L’unica nostra preoccupazione è incontrare come comunità cristiana la gente e stare dentro gli snodi della loro vita”. Non troppo apprezzata anche la proposta per un’”equa remunerazione” di quanti sono “impegnati regolarmente in un ministero ecclesiale”: i voti di dissenso sono stati 174 su 810, il 21%. Si dice “dispiaciuto” il segretario del Comitato nazionale. “Poteva essere un salto di qualità, fermo restando il dono della gratuità”, precisa. “Sorpreso” lo stesso Castellucci per un’altra indicazione che è stata “bocciata” dal 18% dei votanti (144 in tutto): quella che chiede alla Santa Sede di avere anche in Italia il ministero istituito della cura, dell’ascolto, dell’accompagnamento. “Sono stupito - afferma l’arcivescovo -. Si tratta di una figura delineata dal Sinodo dei vescovi. Già una ventina di diocesi ha avviato il ministero della cura e della consolazione. Forse si avverte una certa allergia per i ministeri istituiti che vengono percepiti come esempi di clericalismo”. Ne escono, invece, rafforzati gli organismi di partecipazione come scuola di sinodalità e dialogo: a cominciare dai Consigli pastorali. “La Cei potrà proporli alle diocesi come obbligatori, mentre adesso, secondo il diritto canonico, sono a discrezione del vescovo”, annuncia Castellucci. E Pierpaolo Triani, membro della presidenza del Comitato nazionale, ricorda che “serviva una svolta perché tali organismi esistono da decenni ma spesso sulla carta”. In ogni caso, sottolinea Bulgarelli, i risultati delle votazioni sulle singole proposte “sono segnali da valutare”. Come faranno i vescovi nelle cui mani finisce il Documento del Cammino sinodale. “È ora compito dei pastori assumere tutto, individuare priorità, coinvolgere forze vecchie e nuove per dare corpo alle parole - spiega il cardinale Zuppi -. Collegialità e sinodalità. La prossima Assemblea generale della Cei avrà proprio la discussione su questo documento come tema portante”. È l’appuntamento in programma dal 17 al 20 novembre ad Assisi. Prima un gruppo di vescovi presenterà le linee guida sulla base del Documento approvato. “Una proposta che ha ricevuto più voti avrà maggiore peso - specifica Castellucci -. E dall’Assemblea generale Cei di maggio 2026 usciranno le tracce degli orientamenti pastorali per i prossimi anni”. È un “nuovo metodo: in passato c’erano gli orientamenti per il decennio; adesso la prima metà del decennio è stata dedicata all’ascolto grazie al Cammino sinodale, e la seconda metà verterà sulla recezione di quanto emerso”. Oltre 500mila le persone coinvolte in un percorso iniziato nel 2021 per volontà di papa Francesco. “Ci ha animato - osserva Castellucci - l’interrogativo su come essere Chiesa in un Paese dove assistiamo al tramonto della cristianità, dove non siamo più maggioranza, dove risultiamo una delle tante voci e nemmeno la più ascoltata. Tutto ciò avrebbe potuto portare a una depressione pastorale o, come sostengono alcune frange ultra fondamentaliste, al desiderio di rieditare forme del passato. Tutto ciò non ha riguardato il Cammino sinodale: sia perché chi ha queste convinzioni non partecipa al Cammino; sia perché si tratta di posizioni molto marginali nelle nostre comunità”. E Zuppi sintetizza: sono stati anni di ascolto e dialogo per imparare a essere “credibili e più credenti”. L’equivoco sull’appoggio ai gay pride e apertura alle donne: cosa c’è nel documento della Cei di Francesco Antonio Grana Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2025 Il testo è stato approvato dopo la profonda spaccatura che si era registrata tra i rappresentanti sinodali della Cei nell’aprile 2025, mentre Papa Francesco lottava tra la vita e la morte. Non sono mancate le contestazioni sui temi da sempre più sensibili. Un documento anacronistico, soprattutto sul ruolo delle donne nella Chiesa e sui gay. È quello approvato dalla terza assemblea sinodale della Conferenza episcopale italiana con 781 voti favorevoli e 28 contrari su 809. Un testo che vede finalmente la luce dopo la profonda spaccatura che si era registrata tra i rappresentanti sinodali della Cei nell’aprile 2025, mentre Papa Francesco lottava tra la vita e la morte. All’epoca, infatti, la bozza del documento finale fu duramente contestata dalla stragrande maggioranza dei partecipanti all’assemblea sinodale e i vertici della Chiesa italiana, per evitare una pesante bocciatura, preferirono ritirare il testo senza metterlo ai voti. Morto Bergoglio ed eletto Prevost, la Cei, che aveva già riprogrammato, con un documento totalmente riscritto, l’assemblea sinodale alla fine di ottobre 2025, è riuscita a farlo approvare, senza, però, evitare alcune significative contestazioni sui temi da sempre più sensibili e soprattutto con un equivoco abbastanza grave sul gay pride. Il punto maggiormente contestato è quello che riguarda le diaconesse. Proposta che è tornata più volte durante il pontificato di Francesco, ma senza alcuna prospettiva concreta. Leone XIV, invece, è stato ancora più esplicito su questo aspetto, chiudendo subito definitivamente la porta a qualsiasi possibilità di ordinare donne diacono. Non si comprende allora come questa proposta sia riemersa nel documento finale dell’assemblea sinodale della Cei. La Chiesa italiana, infatti, non ha alcun potere in merito. Ogni decisione di questo tipo spetta unicamente al Papa. Eppure, con 625 voti favorevoli e 188 contrari, è stata approvata la proposta “che la Cei sostenga e promuova progetti di ricerca di facoltà teologiche e associazioni teologiche per offrire un contributo all’approfondimento delle questioni relative al diaconato delle donne avviato dalla Santa Sede”. Duramente contestato, con 661 voti favorevoli e 156 contrari, il paragrafo che afferma “che la Cei, promuovendo una rete di diverse realtà nazionali, sostenga la creazione di un tavolo di studio permanente sulla presenza e l’apporto delle donne nella Chiesa, al fine di formulare proposte operative per incentivarne la corresponsabilità ecclesiale”. Ugualmente controverso il tema dei gay pride. Con 637 voti favorevoli e 185 contrari è passata la proposta di sostenere “con la preghiera e la riflessione le ‘giornate’ promosse dalla società civile per contrastare ogni forma di violenza e manifestare prossimità verso chi è ferito e discriminato (Giornate contro la violenza e discriminazione di genere, la pedofilia, il bullismo, il femminicidio, l’omofobia e transfobia, etc.)”. Ed è proprio qui che si è generato l’equivoco sul gay pride. Il regista del documento, monsignor Erio Castellucci, arcivescovo-abate di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi, vicepresidente per il Nord della Cei e presidente del Comitato nazionale del cammino sinodale, ha spiegato che questo paragrafo è stato probabilmente “frainteso perché ho visto che circolavano interpretazioni piuttosto aliene rispetto all’intenzione di chi ha redatto il testo, come se la Cei si disponesse ad avallare le manifestazioni del gay pride: ma qui si parla in realtà di giornate a cui già in buona parte la Chiesa italiana, come altre chiese, aderisce, con la propria modalità che è quella della preghiera e della riflessione, per esempio le giornate che riguardano la lotta contro la pedofilia, o iniziative contro il femminicidio. Si stanno anche diffondendo veglie di preghiera contro l’omotransfobia. Ma qui non si tratta quindi di un’apertura a chissà quali manifestazioni. Però - ha concluso il presule - questa interpretazione ha girato parecchio sui social e probabilmente qualcuno l’ha assunta nel votare”. Un pasticcio, insomma, che rischia di scontentare tutti, favorevoli e contrari. Mentre, con 672 voti favorevoli e 154 contrari, è stato approvato il paragrafo dove si chiede “che le Chiese locali, superando l’atteggiamento discriminatorio a volte diffuso negli ambienti ecclesiali e nella società, si impegnino a promuovere il riconoscimento e l’accompagnamento delle persone omoaffettive e transgender, così come dei loro genitori, che già appartengono alla comunità cristiana”. Invece, con 700 voti favorevoli e 127 contrari, è stato approvata la proposta di “nuovi percorsi di formazione” della Chiesa “alle relazioni e alla corporeità-affettività-sessualità - anche tenendo conto dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere - soprattutto di preadolescenti, adolescenti e giovani e dei loro educatori”. “Una volta che questa assemblea sinodale ha congedato il testo con il suo voto, - ha spiegato il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna - è ora compito dei pastori assumere tutto, individuare priorità, coinvolgere forze vecchie e nuove per dare corpo alle parole. Collegialità e sinodalità”. Il porporato ha aggiunto che “la prossima assemblea generale della Cei avrà proprio la discussione su questo documento come tema portante”. Infatti, la presidenza della Chiesa italiana nominerà un gruppo di vescovi che elaborerà, sulla base del documento approvato, priorità, delibere e note che saranno al centro dell’assemblea generale della Cei che si terrà a novembre 2025. Migranti. Cpr: Trento parte, Bolzano si ferma di Marika Giovannini e Marco Angelucci Corriere dell’Alto Adige, 26 ottobre 2025 Trento accelera sul Centro per i rimpatri mentre a Bolzano rimane tutto impantanato. L’intesa tra Provincia e Ministero dell’interno ha stabilito centro rimpatri dovrebbe sorgere a Piedicastello, a Bolzano invece dovrebbe sorgere accanto all’aeroporto. Ma la sua realizzazione è collegata a quella del nuovo carcere che però è “congelato” da più di un decennio e non sembra destinato a sbloccarsi in tempi brevi. Il tono tradisce amarezza e irritazione. Perché se da un lato Franco Ianeselli si trova a commentare un accordo - quello tra il ministro Matteo Piantedosi e il governatore Maurizio Fugatti sul nuovo Cpr - che ha visto il Comune praticamente alla finestra, dall’altro il sindaco di Trento fa capire di non aver trovato, nelle dichiarazioni di venerdì in Provincia, ciò che lui stesso aveva invocato solo 24 ore prima: un ragionamento sull’accoglienza e sulla dignità delle persone. Di più: di fronte all’annuncio di un dimezzamento dei posti per l’accoglienza straordinaria, Ianeselli rilancia con un altro annuncio. Volutamente forzato e semplificato: “In questo modo raddoppieranno i senzatetto in città”. “Questo accordo - parte subito netto il primo cittadino - è l’ennesima riproposizione di un pensiero semplificato secondo il quale se si riducono i posti di accoglienza, automaticamente ci saranno meno richiedenti asilo. E dunque: problema risolto”. Ma non è così: “La realtà è diversa, perché ci sono flussi che non vengono controllati in partenza e le persone che poi fanno richiesta di protezione internazionale, in città, ci sono ugualmente”. Ianeselli punge quindi il presidente della Provincia: “Forse questa riduzione dei posti per l’accoglienza risolve qualche problema a Piazza Dante, che non sapeva come sostituire la residenza Fersina con una nuova struttura”. L’immobile di via al Desert, infatti, dovrà essere abbattuto per far posto ai cantieri del nuovo Polo ospedaliero e universitario. Con la necessità di trovare una sede alternativa: voci assicurano di una trattativa avanzata con la Diocesi per l’immobile in località San Niccolò, a nord di Ravina. Che però può ospitare meno persone rispetto alla Fersina. Ma se alla Provincia questa soluzione può far gioco, per il Comune non è così: “Le persone, anche se non ci sono posti per l’accoglienza, in città ci sono comunque. E staranno sotto i ponti, negli anfratti. Credo, quindi, che il problema si amplierà e per l’ennesima volta viene scaricato sui cittadini di Trento e sul Comune”. Di più: “Se mancano delle politiche di integrazione, l’esito è di avere più insicurezza in città e minore dignità per queste persone. L’esito dunque è negativo”. Tenendo conto anche di un altro aspetto: “Siamo tutti d’accordo sul fatto che se un irregolare delinque va espulso dal territorio nazionale. Ma non mi pare che in questo momento succeda così nei Cpr”. L’unica nota positiva dell’accordo, secondo Ianeselli, è l’istituzione di una sezione straordinaria della commissione per il riconoscimento della protezione internazionale: “Così - dice - si ridurranno i tempi”. Intanto, a Bolzano la realizzazione del Cpr è da tempo impantanata negli uffici ministeriali. L’area individuata dal Viminale per la costruzione del centro è accanto a quella dove, almeno sulla carta, dovrebbe sorgere il nuovo carcere. Una struttura all’avanguardia che dovrebbe diventare la prima in Italia ad essere gestita in partnership pubblico privato: l’area è già stata espropria e il gruppo Condotte ha vinto la gara d’appalto indetta dalla Provincia. Insomma sulla carta sarebbe tutto a posto ma da 10 anni il progetto è bloccato. Tra le difficoltà finanziarie di Condotte e la riluttanza del ministero della Giustizia a stanziare i fondi necessari per partire, il nuovo carcere è finito in un cassetto e lì rimane. Nel frattempo si è bloccata anche la realizzazione del Cpr. Da quanto trapela da Palazzo Widmann, in via Arenula sarebbe anche avvenuto un ripensamento: il ministero infatti propenderebbe per realizzare un carcere più piccolo. In questo caso però si pone il problema di indennizzare Condotte. Possibile che il Cpr aiuti a sbloccare il nuovo carcere, per il momento però sembra che lo stallo sul carcere stia bloccando la realizzazione del Centro per i rimpatri. “Attendiamo risposte da Roma” è il mantra che risuona da Palazzo Widmann.