Carceri sempre più blindate: sulle attività esterne decide il Dap di Angela Stella L’Unità, 25 ottobre 2025 I Garanti: “la circolare rischia di mettere la pietra tombale sulle iniziative di inclusione”. La domanda per portare dall’esterno una attività in carcere andava presentata al direttore dell’istituto penitenziario e la trasmetteva al magistrato di sorveglianza per l’autorizzazione. Adesso deciderà il Dap a Roma. In un momento in cui le carceri sono sempre più sovraffollate e i suicidi non si fermano, arriva una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a sfiancare lo spirito di chi vive e lavora dietro le sbarre. Datata 21 ottobre e firmata da Ernesto Napolillo a capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento va a modificare l’iter “delle richieste di provvedimenti autorizzativi degli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo che si intenda realizzare presso gli istituti penitenziari” prevedendo che “per i soli istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta sicurezza, Collaboratori di giustizia, 41 bis) l’autorizzazione per gli eventi di carattere trattamentale, anche se previsti per i soli detenuti allocati nel medesimo istituto al circuito cd. Media sicurezza, dovrà sempre essere richiesta a questa direzione generale”. Inoltre la richiesta dovrà pervenire “con congruo anticipo” e contenere necessariamente i seguenti dati: dati, spazi utilizzati, durata dell’iniziativa, lista dei detenuti da coinvolgere, elenco dei nomi e dei titoli dei partecipanti della comunità esterna, parere della Direzione. Per le attività rivolte a soli detenuti di Media sicurezza reclusi in carceri dove non ci sono altri circuiti le competenze “rimangono in capo ai provveditorati regionali”. Spiegato in parole più semplici: fino a prima della circolare, la domanda per portare dall’esterno una attività in carcere andava presentata al direttore dell’istituto penitenziario in cui si sarebbe voluto operare che esprimeva parere sull’istanza e la trasmetteva al magistrato di sorveglianza per l’autorizzazione. Adesso non sarà più così perché a decidere sarà il Dap a Roma. “È la fine della partecipazione della comunità esterna alle iniziative culturali e ricreative promosse (dalla comunità esterna) nelle carceri. Dalle celle chiuse alle carceri chiuse è un attimo. Un balzo all’indietro di più di quarant’anni”: ha commentato Stefano Anastasia, Garante dei diritti dei detenuti del Lazio. Secondo Paola Cervo, magistrato di sorveglianza a Napoli, “dopo la circolare del Dap dell’Alta Sicurezza dello scorso febbraio ne arriva un’altra con la medesima efficacia segregante. Significa chiudere il carcere all’esterno, significa creare ulteriore tensione oltre a quella già presente a causa del sovraffollamento”. Per la giudice “si rischia da un lato di trasformare i nostri istituti di pena in vere e proprie polveriere e dall’altro lato di disincentivare con tutta questa burocrazia chi dall’esterno vuole partecipare al percorso di rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare che esiste giurisprudenza di Cassazione e di Corte Costituzionale per cui anche i reclusi al 41 bis vanno rieducati”. Stigmatizza l’iniziativa anche Giovanni Zaccaro, Segretario della corrente dell’Anm, AreaDg: “È triste e penoso che a 50 anni dalla riforma Gozzini l’amministrazione penitenziaria burocratizzi i tentativi di aprire il carcere all’esterno. Siamo dinanzi ad un pessimo segnale”. Infine per Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza dei Garanti, la circolare “rischia di mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale negli istituti, in particolare per il circuito di Alta Sicurezza. Tale circolare dà anche una certezza di una scarsa contezza reale dei contesti carcerari, trasforma le autorizzazioni della Magistratura di Sorveglianza in orpelli, elementi ancillari. Ci sono iniziative trattamentali di Cooperative, Associazioni, Enti Locali e non si comprende la gestione diretta della Direzione generale degli istituti con i circuiti di Alta Sicurezza. Ma allora i Direttori e i responsabili del PRAP sono semplici amministratori di condominio?” si chiede sarcasticamente Ciambriello. Intanto l’incontro di presentazione a Torino della proposta di Legge “Sciascia-Tortora” già previsto per ieri presso la Casa Circondariale Lorusso Cutugno si è tenuto invece presso la Fondazione dell’Avvocatura Torinese Fulvio Croce. “Una decisione tardiva e incomprensibile del Provveditorato regionale del Piemonte dell’Amministrazione penitenziaria ha infatti revocato l’autorizzazione che aveva permesso la presentazione della proposta di legge Sciascia-Tortora all’interno del carcere di Torino” hanno spiegato gli organizzatori (Amici di Leonardo Sciascia, Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora, ITALIASTATODIDIRITTO, Società della ragione, Unione delle Camere Penali Italiane) che concludono: “Le carceri italiane vivono un momento di crisi profonda, aggravata dal sovraffollamento, che si esprime nella tragedia di numerosissimi suicidi: le occasioni di apertura del carcere alla società civile - come quelle organizzate dalle nostre associazioni - dovrebbero essere considerate momenti preziosi di apertura verso l’esterno di un’istituzione altrimenti drammaticamente chiusa in se stessa. Perché impedire di parlare del carcere nel carcere?” Elena. Perché a chi si suicida in cella va restituito un nome di Antonio Maria Mira Avvenire, 25 ottobre 2025 Aveva 26 anni la 60esima persona che si è tolta la vita dietro le sbarre in questo anno tragico. Era detenuta a Sollicciano, in provincia di Firenze. Lo scorso 7 settembre le agenzie di stampa danno la notizia di un suicidio nel carcere fiorentino di Sollicciano. Il 60° suicidio in un carcere italiano dall’inizio dell’anno, un anno drammaticamente da record, il terzo in quello di Sollicciano. Si legge che si tratta di una donna di 26 anni. Niente di più. Come quasi sempre accade per i suicidi in carcere. Solo un numero in più, come ha deciso di morire, solo quel momento, niente sul prima, nessuna storia, nessun perché sulla drammatica scelta. Come se quel gesto, quella cella, potessero rappresentare tutta una vita. Il carcere ti toglie tutto, non solo la libertà. Ma, come dice il fondatore del Gruppo Abele e di Libera, don Luigi Ciotti, che proprio in carcere ha cominciato il suo impegno, “il primo diritto di una persona è quello al proprio nome”. Così nei giorni successivi scopro sui social che la ragazza si chiamava Elena Gurgu, rumena, arrivata in Italia ad appena 14 anni. Piena di speranza e di vita, ma la sua è stata una vita allo sbando tra droga, prostituzione, sfruttamento e carcere. La prima volta a 17 anni. E poi tanto corpo in vendita, per strada, sotto i ponti. Per italianissimi clienti pronti a comprarlo. E per strada anche dormiva. Ha un figlio che le viene tolto, come spesso accade a donne sbandate e sole come lei. Ma dopo quella decisioni lei sta sempre peggio. Sola, sempre più sola. Non riesce a stare neanche in comunità dove viene mandata in alternativa al carcere. Ma la cella si richiude per lei un anno fa, accusata dell’aggressione a un pensionato. Perché il crack, la terribile droga a prezzi stracciati ti straccia la vita, ti rende zombie, incoscienti e violenti. Ma Elena, quella vera, non quella “fumata”, non è così. In carcere sembra pian piano riacquistare fiducia, grazie a operatori e volontari. “Era una ragazzina alla ricerca disperata di affetto. Per tutta la vita si è sentita rifiutata”, ricordano. Il carcere può essere l’occasione, grazie a persone che le vogliono bene. Così scopre il teatro, si diverte in cucina imparando i piatti toscani, partecipa alla messa. C’è chi scommette su di lei, su questa ragazzina diventata troppo presto donna e finita nel buio della solitudine. Forse Elena vede una luce, sembra serena, dicono ora i volontari. Il giorno prima di suicidarsi scherza con la compagna di cella facendole le trecce. In realtà non ha retto. Il carcere è sempre carcere e lei ci deve stare altri 4 anni. Così si impicca appesa con un lenzuolo al balconcino della cella. Sul muro lascia scritta una frase “Elena vi saluta”. Il suo nome, la sua identità. Rivendicata fino all’ultimo. Al funerale solo 8 persone, operatori, volontari e il cappellano del carcere don Stefano Casamassima che così si rivolge a lei: “Qui attorno a te ci sono alcune persone che hanno saputo vedere il tuo desiderio di vita e di felicità, adesso siamo qui per affidarti al Padre, che conosce da sempre la tua dignità”. Pochi ma veri amici per Elena, fantasma in vita e fantasma in morte. “Non notiziabile”, diciamo noi giornalisti nel nostro crudo linguaggio. Ma è davvero così? Deve essere proprio così? Nessuna parola per i suicidi in carcere? Un morto in più - sempre se ce ne vogliamo accorgere - e si volta pagina. Invece “il carcere continua ad essere un luogo di disperazione per i detenuti e le detenute costretti in condizioni troppo spesso disumane e inaccettabili”, è stato il commento dell’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli che lancia un appello: “Torniamo a chiedere un impegno concreto, che alle parole seguano i fatti, perché le carceri siano veri luoghi di educazione, di riscatto, di speranza e non di morte”. Intanto i suicidi in carcere sono saliti a 65, ma sempre nessun nome, nessuna storia. In gran parte giovani, ventenni, l’età della speranza non della morte, di una vita davanti non di una vita da chiudere. Invece ci salutano e se ne vanno. Come Elena. Un volto e un nome dietro ogni fascicolo. “I magistrati in carcere come detenuti” di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 25 ottobre 2025 Roberto Capra: “A entrare al Lorusso e Cotugno oggi c’è da piangere. I giudici devono saperlo”. Doveva tenersi dentro il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, come previsto e già autorizzato dalle autorità penitenziarie. Ma a poche ore dall’apertura, il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte ha revocato il permesso, costringendo gli organizzatori a spostare il convegno alla Fondazione dell’Avvocatura Torinese Fulvio Croce. “Ci è stato fatto uno sgarbo immenso e inaudito”, ha dichiarato Emilia Rossi della Camera penale del Piemonte occidentale, coordinatrice di una delle due tavole rotonde. “È stata un’enorme scortesia istituzionale, senza alcuna motivazione seria. Avevamo ricevuto l’autorizzazione, poi ci è stata tolta all’improvviso”. Rossi, già garante nazionale dei detenuti, non nasconde l’amarezza: “È un momento drammatico per le carceri italiane. E anche questo episodio racconta molto della difficoltà di affrontare il tema con trasparenza”. Il convegno, intitolato “Conoscere per giudicare e vedere per condannare”, nasceva per discutere del progetto di legge “Sciascia-Tortora”, presentato in Parlamento da Amici di Leonardo Sciascia, Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora e Italia Stato di Diritto. Il testo propone un nuovo percorso di formazione per i magistrati, che unisca lo studio di testi fondamentali del pensiero giuridico con un’esperienza diretta in carcere: quindici giorni da vivere “come detenuti”, per comprendere cosa significhi privare qualcuno della libertà. Un modello già sperimentato in Francia. “Non è una proposta punitiva - spiegano i promotori - ma un modo per dare ai magistrati maggiore consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni”. Anche l’onorevole e avvocato Michele Vietti ha espresso stupore per la decisione dell’Amministrazione penitenziaria: “Conoscere per giudicare è un titolo assolutamente condivisibile. Per giudicare bisogna conoscere. Ma non so come conciliare questo principio con la revoca dell’autorizzazione. Forse non hanno piacere che si conosca. Non è un buon segno”. Il convegno, pensato per svolgersi nel luogo simbolo della pena, è diventato così l’ennesima occasione mancata. “In carcere non c’è nessun detenuto senza un provvedimento di un magistrato”, ha ricordato l’avvocato Roberto Capra, presidente della Camera Penale del Piemonte e della Valle d’Aosta, intervenuto al dibattito. “Ecco perché non è possibile che chi giudica non conosca il penitenziario. Se entriamo in una delle sezioni del Lorusso e Cutugno, c’è da piangere: fatiscenza, sovraffollamento, mancanza di servizi essenziali. Fattori che non possono essere ignorati”. Alla base della proposta c’è la lezione di Leonardo Sciascia, che dopo l’arresto di Enzo Tortora scrisse della responsabilità di chi giudica e della necessità di “conoscere per capire”. Perché dietro ogni fascicolo ci sono volti, storie, persone: l’errore giudiziario non è un concetto astratto ma un rischio reale. “Magistrati 15 giorni in carcere”, la proposta Obbligo formativo per i magistrati in tirocinio di trascorrere 15 giorni in carcere. Per conoscere i luoghi dove potranno decidere di inviare i colpevoli di reati. Inserimento negli studi da magistrato della letteratura dedicata al ruolo della giustizia e del diritto penitenziario. Sono i due articoli della proposta di legge Sciascia/Tortora, che continua il percorso nelle principali città italiane, iniziato nel maggio 2024 alla Camera dei deputati, proseguito nel carcere di San Vittore nel giugno 2025 e ora in via di calendarizzazione alla Commissione Giustizia della Camera. Il 25 ottobre si è svolto a Torino, alla Fondazione dell’Avvocatura Torinese Fulvio Croce, un convegno di illustrazione della proposta. Le prossime tappe saranno Brescia e poi Palermo e Napoli. “Il grande consenso che stiamo raccogliendo accresce la nostra speranza per un rapido avvio del dibattito parlamentare, che consenta l’approvazione della legge prima della fine della legislatura -hanno detto Simona Viola, Presidente degli Amici di Leonardo Sciascia e Guido Camera, Presidente di ItaliaStatodiDiritto- Questa proposta valorizza la formazione di una magistratura capace di calarsi appieno nella realtà carceraria, per poter decidere con tutta la necessaria autorevolezza ‘in nome del popolo”. Sul Corriere della Sera, il 7 agosto 1983, Leonardo Sciascia lanciò la proposta, per i magistrati, di trascorrere almeno tre giorni con i detenuti. Nemmeno due mesi prima era stato arrestato Enzo Tortora, inizio di un doloroso percorso fino alla proclamazione d’innocenza. L’Associazione Amici di Sciascia, assieme ad altre organizzazioni come ItaliaStatodiDiritto, la Fondazione Enzo Tortora, la Società della Ragione hanno scritto il progetto di legge che ha avuto l’adesione di Della Vedova e Magi (+Europa) e ha poi ottenuto il sostegno della maggioranza delle forze politiche con la firma di parlamentari come Mulè, Boschi, Serracchiani, Bonelli, Lupi, Quartapelle, Carfagna, Giachetti ed Enrico Costa. Ed è stato posto all’attenzione del ministro Nordio. Numerose personalità dei mondi carcerari, della giustizia e universitari, esponenti della cultura, del mondo dell’informazione, hanno firmato una petizione, rivolta ai Presidenti dei due rami del Parlamento, affinché venga la più presto calendarizzata la discussione. Fra i nomi più noti, Franco Coppi, Carlo Ginzburg, Marco Boato, Raffaele Della Valle, Giulio Ferroni, Luigi Manconi, Filippo La Porta, Calogero Mannino. All’evento di Torino hanno partecipato Emilia Rossi, Camera Penale del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta, Maurizio Riverditi, Ordinario di diritto penale Università di Torino, Elisabetta Piccinelli, Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Cuneo, Roberto Capra, Presidente Camera Penale del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta, Monica Formaiano, Garante del Piemonte delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Diletta Berardinelli, Garante delle persone private della libertà personale di Torino, Franco Corleone, Presidente onorario Società della Ragione, Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, Presidente Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora, Anna Rossomando (PD), Benedetto Della Vedova (+Europa), Ivan Scalfarotto (Italia Viva), Michele Vietti (UDC). L’Italia aumenta le stanze per l’intimità in carcere ma è indietro rispetto all’Europa euronews.com, 25 ottobre 2025 Il ministero della Giustizia ha identificato 32 penitenziari che hanno spazi idonei per le stanze per l’intimità, già attive in almeno cinque carceri italiane. Dalla pratica sono esclusi i detenuti al 41-bis. L’Italia vuole aumentare il numero di “stanze dell’amore” in carcere. È ciò che emerge dalla risposta di luglio del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a un’interrogazione parlamentare di Italia Viva. Il ministero sta preparando le linee guida per attuare il diritto all’affettività nelle carceri italiane, ha affermato Nordio, aggiungendo che dei 189 istituti penitenziari italiani, 32 hanno spazi idonei per le stanze per l’intimità, mentre 157 non ne hanno aree adeguate. Le stanze per l’intimità sono camere dove le persone detenute possono incontrare i partner senza essere sorvegliati. Si tratta di una pratica già attiva in diversi Paesi europei, come Austria, Danimarca, Svizzera, Francia e Germania. In Italia ci sono almeno cinque stanze per l’intimità - Le stanze già attive in Italia sono almeno cinque, secondo l’Associazione Antigone, una no profit che si occupa di diritti dei detenuti. Le prime stanze sono state aperte a Terni e Parma ad aprile e nei mesi successivi sono state allestite anche a Padova e Trani. Da novembre sarà attivato uno spazio anche a Torino. Si tratta di stanze con un letto, bagno, doccia e televisore. Nel caso del penitenziario di Terni, sono stati i detenuti a ristrutturare uno spazio per adibirlo agli incontri intimi, aggiungendo un murale di cuori e cigni. È lì che lo scorso aprile un detenuto ha potuto incontrare la compagna per due ore, nella prima visita intima da quando nel 2024 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto all’affettività in carcere. I detenuti al 41-bis sono esclusi dalle stanze per l’intimità - Nordio ha specificato che nel futuro si prevedono “criteri di priorità” da assegnare ai detenuti che non hanno permessi premio, non lavorano all’esterno del carcere, sono detenuti da più tempo o scontano condanne più lunghe. Il ministro ha precisato che le stanze per l’intimità non saranno accessibili ai detenuti al 41-bis, il regime di carcere duro previsto per reati di associazione mafiosa, terrorismo o eversione. Saranno esclusi anche i detenuti sottoposti al regime di “sorveglianza particolare” perché ritenuti pericolosi per gli agenti e gli altri detenuti. Gli incontri intimi in carcere sono riservati a coniugi o partner stabili - I colloqui intimi sono riservati al “coniuge, alla parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente”, secondo le linee guida emanate ad aprile dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Il Dap ha stimato che sono più di 16mila i detenuti che potrebbero essere beneficiari del diritto agli incontri, anche se gli spazi disponibili rimangono insufficienti. Secondo l’Osapp le stanze per l’intimità gravano sul lavoro degli agenti - Le richieste dei detenuti per avere spazi dedicati all’intimità sono tante, ma non mancano le critiche. Secondo la garante dei detenuti del Piemonte, Monica Formaiano, le stanze per l’intimità rischiano di gravare sul lavoro degli agenti penitenziari. Sarebbe opportuno, secondo la garante, istituire permessi premio come alternativa. Anche l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria (Osapp) ha criticato l’allestimento di una stanza per l’intimità a Torino, affermando che la gestione dello spazio rappresenta un onere aggiuntivo per il personale penitenziario, che si potrebbe evitare con dei permessi premio. L’uso delle stanze per l’intimità in Europa è una pratica consolidata - L’uso di stanze per le visite intime dei detenuti è una pratica già consolidata in altri Paesi europei, anche se non esiste una normativa comune dell’Unione europea al riguardo. La Germania prevede appositi miniappartamenti per “visite a lungo termine”, che durano circa tre ore e sono dedicate a detenuti condannati a lunghe pene. Si tratta di spazi che mirano a mantenere stabili le strutture familiari dei detenuti. La pratica delle stanze per l’intimità è stata oggetto di critiche nel Paese dopo che nel 2010 un detenuto ha ucciso la propria compagna durante una visita. I Paesi Bassi permettono le visite una volta al mese, mentre in Francia il carcere Le Havre le consente una volta all’anno. I detenuti francesi hanno a disposizione piccoli appartamenti, a volte situati all’esterno delle aree di detenzione. Lo stesso avviene nel penitenziario “La Stampa” in Svizzera, dove le visite intime si svolgono in un edificio esterno. Austria e Croazia prevedono colloqui di quattro ore ogni settimana. Il carcere croato femminile di Požega ospita quattro stanze dedicate alle visite intime delle detenute con i partner. Al contrario, in Slovenia le stanze per l’intimità sono riservate solo agli uomini. In quasi tutti i Paesi la buona condotta in carcere è un requisito indispensabile per accedere agli incontri con i partner. E il segretario Anm disse: ormai regna la giustizia-show di Valentina Stella Il Dubbio, 25 ottobre 2025 Processo mediatico come insensata giustizia anticipata, l’indagato da considerare innocente, magistrati che giustamente indagano su altri magistrati. Concetti banali ma che se espressi dal numero due dell’Anm assumono una certa rilevanza, in questo particolare momento, ossia a pochissimi giorni dall’approvazione definitiva della separazione delle carriere al Senato e quindi dall’avvio della campagna referendaria. Una presa d’atto dell’esistente che serve alla magistratura per allontanare da sé vari spettri capaci di minarne l’immagine in questi mesi invernali ma molto caldi dal punto di vista politico. A parlare ai microfoni di Radio Cusano Campus è appunto Rocco Maruotti, Segretario Generale del ‘sindacato’ delle toghe. Il tema è quello dell’inchiesta bis di Garlasco. Dice Maruotti, tra l’altro pure pubblico ministero a Rieti: “La magistratura fa il suo lavoro, lo fa anche quando indaga su magistrati, e in questo caso un pezzo di indagine riguarda anche l’ex procuratore aggiunto di Pavia. Questo dimostra che la magistratura non fa sconti”. Il riferimento è a Mario Venditti accusato di aver ricevuto del denaro per scagionare Andrea Sempio. Insomma la magistratura avrebbe gli anticorpi anche per cercare al suo interno chi non rispetta le regole. Un messaggio funzionale a minare la tesi di chi sostiene che le toghe costituiscano un soggetto corporativista che difende sempre se stesso come una vera casta. Maruotti poi prosegue sostenendo che “stiamo assistendo ad un processo mediatico con una giustizia senza processo, celebrata sui giornali o sulle televisioni. È una giustizia anticipata, in cui si va alla ricerca di una verità senza avere i mezzi per poter dire qualcosa di sensato”. E a farne le spese in questo momento è appunto Andrea Sempio, la cui vita è stata stravolta e passata al setaccio senza neanche che vi sia stato un rinvio a giudizio. E anche in quel caso sarebbe inopportuno, perché è nel processo che si forma la prova. Maruotti poi rassicura che nonostante la pressione mediatica il giudice rimane impermeabile: “Al magistrato si chiede di riuscire a decidere senza farsi influenzare dalle pressioni esterne, dalle passioni del pubblico e da quello che viene deciso in anticipo sui programmi televisivi. I magistrati fanno questo, anche quando è sgradito al popolo come più volte successo in passato, il giudice ha la forza di decidere a prescindere da quello che il pubblico si aspetta, perché applica la legge”. E su questo è lecito avere dei dubbi perché il giudice è umano, ha le stesse paure di tutti noi: chi può mettere la mano sul fuoco che un giudice resti impassabile alle pressioni esterne e decida in scienza, coscienza e diritto quando potrebbe rischiare anch’egli un linciaggio mediatico o addirittura una ispezione ministeriale per una sentenza non gradita? Comunque Maruotti ha concluso: “Il lavoro dei giornalisti è doveroso, va rispettato il diritto di cronaca ed è giusto che il pubblico venga informato. Ma bisogna sempre considerare il principio di non colpevolezza, quando parliamo di un indagato parliamo di un innocente. Viviamo, giustamente, in un sistema garantista” tuttavia “l’errore fa parte della vita e anche i magistrati possono sbagliare”. Il riferimento è alla possibilità che si verifichi un errore giudiziario, considerato fisiologico nel sistema perché legato alla fallibilità del magistrato. Un discorso, quello di Maruotti, che verrà molto probabilmente riproposto stamattina in Cassazione, dove si terrà l’assemblea dell’Anm, primo evento di lancio della campagna in vista del referendum della prossima primavera. Da un lato la magistratura deve fare i conti con la nuova inchiesta su Garlasco e con le conseguenze che potrebbe avere su di essa. Sarà facile cavalcarne l’onda da parte dei favorevoli alla riforma costituzionale per sostenere più fortemente che i magistrati sbagliano, mandano forse in galera degli innocenti come Alberto Stasi, fanno uscire le veline dalle procure trasformando l’indagato “in un morto che cammina” (Cit. Giorgio Spangher) e quindi vanno riformati. Dall’altro lato questo spunto servirà a Maruotti per ribadire un concetto già espresso in passato per contestare la modifica dell’ordinamento giudiziario: “La verità è che non si vuole accettare il fatto che il giudice piuttosto che portato ad appiattirsi sulle tesi del pm è fallibile e che l’infallibilità del giudice dell’ultimo grado di giudizio è solo una convenzione che ci siamo dati. Come ha scritto in una sentenza il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Robert Jackson: “Noi non abbiamo l’ultima parola perché siamo infallibili, ma siamo infallibili perché abbiamo l’ultima parola”. Certo quello dell’errore giudiziario è argomento che nulla ha a che vedere col testo del ddl costituzionale targato Nordio e Meloni ma che comunque verrà usato in questi mesi come corollario per minare l’autorevolezza della magistratura. Non dimentichiamo che il guardasigilli, al termine della proiezione delle prime due puntate della serie Portobello dedicata a Enzo Tortora, aveva dichiarato che “il magistrato che sbaglia deve cambiare mestiere”. E quindi bene ha fatto Maruotti ad ammettere che un problema esiste e che il processo mediatico svilisce la presunzione di innocenza di un indagato. Un meccanismo questo che per anni è stato alimentato proprio da un travaso di informazioni dalle procure alla stampa, spesso negato dalla stessa magistratura. Ma che invece Maruotti tratteggia perché è inevitabile negarlo. E una autocritica non può che fare bene all’Anm. Parodi: “Non siamo contro il Governo, ma la riforma della giustizia mina l’equilibrio dei poteri” di Alessandro De Angelis La Stampa, 25 ottobre 2025 Il presidente dell’Anm: “La nostra campagna per il no senza politici”. “Chi, un modo o nell’altro, la butta in politica fa un grave torto alla discussione referendaria. Nostro compito sarà quella di tenerla nel merito su quale modello di giustizia vogliamo”. Ci dice così il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, che oggi a Roma, di fatto, aprirà la sua campagna del “no” alla riforma della giustizia nel corso di un’assemblea nazionale aperta a personalità esterne non politiche. Avete escluso i politici dai vostri comitati del no. Il soggetto politico dunque siete voi? “Esattamente l’opposto. Siccome molti tendono a ricondurre il dibattito a una dimensione politica, i nostri comitati autonomi sono un modo per starne alla larga. E per porci su un terreno squisitamente costituzionale in rappresentanza di quei valori che, a nostro giudizio, dovrebbero essere traversali”. Come fate a non essere percepiti “contro” il governo che ha varato la riforma? “Siamo contro la riforma, non contro il governo. Sin dall’inizio noi siamo andati a parlare, nel merito, con tutti i partiti sottoponendo loro la nostra idea di giustizia. Non essere etichettati come forze di opposizione è sempre stata la nostra principale preoccupazione”. Però il governo sostiene che non riesce a governare per colpa vostra e le opposizioni dicono che Giorgia Meloni vuole pieni poteri... “Sono consapevole del rischio inevitabile di politicizzazione, e anche di strumentalizzazione delle nostre posizioni. Come Anm non possiamo impedirla ma possiamo stare nel dibattito con un punto di vista autonomo”. Cosa risponde a chi critica i magistrati perché stanno facendo iniziative nei tribunali che “sono la casa di tutti”? “I tribunali sono di tutti, perché la giustizia è di tutti. Ma sono anche i luoghi di lavoro di magistrati e avvocati. Ed è diritto di ogni lavoratore quello di manifestare il proprio pensiero nei luoghi di lavoro. Anche qui vanno evitate le strumentalizzazioni”. Questa è l’unica grande riforma approvata dal governo. La vostra debolezza nell’opinione pubblica la rende un terreno facile? “Vede, è accaduto questo. Di questa riforma se ne parla da anni. Ha animato le intenzioni di molti, ma non è mai stata approvata. Se avviene ora è senza dubbio perché c’è stata una progressiva erosione dell’immagine della magistratura”. Anche per colpa della magistratura stessa... “In parte sì. Ma a mio giudizio conta soprattutto il fatto che nel ventennio che abbiamo alle spalle si è determinata - o sarebbe meglio: voluta - una costante delegittimazione dei magistrati”. Anche lei fa la vittima? “No, mi limito a dire che in parecchi hanno concimato un terreno che dà questi frutti”. Cioè questa riforma sta al senso comune, come la riduzione dei parlamentari all’antipolitica... “Rende l’idea. Per questo il referendum può rappresentare l’occasione per ristabilire le priorità. La giustizia non funziona come servizio: quantità, risorse, efficienza. Non perché ci sono i giudici politicizzati. Il problema viene da lontano”. Le faide interne su Garlasco, la sentenza choc su Macerata. Il “racconto” non dipende solo dagli altri... “È chiaro che ci sono episodi che impattano sull’opinione pubblica. Però le chiedo: le pare possibile che le reti generaliste siano ossessivamente presenti per una vicenda dolorosa ma privata, con un’attenzione e una copertura raramente viste prima?” L’interesse pubblico c’è, indubbiamente... “Bisogna distinguere tra l’interesse pubblico e interesse per il pubblico. Quando qualcosa di eccentrico viene enfatizzatizzato, il meccanismo serve per delegittimare e, in questo caso, per creare un’aurea negativa attorno all’immagine della magistratura. Qui si parla di malagiustizia già nelle indagini preliminari” Nino Di Matteo ha lasciato l’Anm denunciando logiche correntizie, che dunque permangono. Anche questa è enfatizzazione? “Le logiche correntizie sono un discorso generico, se fatto così, ai limiti della formula di stile. Esistono diverse sensibilità. Bisogna vedere se, nel manifestarsi, portano a risultati negative. Parliamo di fatti concreti e specifici, non di formule vuote”. Quelle logiche hanno portato allo scandalo Palamara... “Nessuno ha mai negato che quella vicenda sia stata grave e dolorosa. Ma attenzione, anche in questo caso a non buttare con l’acqua sporca anche il bambino”. Con lei è cambiato l’andazzo? “Quello scandalo non rispecchia l’atteggiamento generale della magistratura, a meno che non si voglia farne una caricatura. Ma voi pensate davvero che, su oltre novemila magistrati, la maggior parte si occupi di queste cose? La maggior parte, glielo assicuro, lavora in silenzio”. Separando le carriere si rischia di creare uno squilibrio tra poteri dello Stato? “Lo squilibrio deriva dall’insieme della riforma. Il nodo centrale è il ruolo dei “due Csm” introdotti. Qui c’è il vero attacco all’equilibrio dei poteri. Più che di separazione dei poteri l’assetto proposto è garanzia della separazione dal potere, come dice Flick, in quanto si svuota il principio fondamentale di rappresentatività”. Però scusi, nella riforma i giudici non vengono messi sotto il controllo del governo... “Non direttamente Ma nel momento in cui crei un corpo di duemila pm che si autogovernano, prima o poi su questo squilibrio il governo dovrà intervenire per controllare”. Quindi non c’è una minaccia oggi ma un rischio domani? “Quello che potrà verificarsi è una eterogenesi dei fini, per risolvere la quale - non lo dico io, ma autorevoli giuristi - potrebbe rendersi necessario un intervento dell’escutivo sulla magistratura requirente”. Sta dicendo che, per paradosso, si dà troppo potere ai pm? “Esatto. Un pm svincolato dai giudici nel momento organizzativo diventa un corpo di duemila samurai - come qualcuno ha scritto- o superpoliziotti. Si rompe un equilibrio che, pure tra molte difficoltà, è stato espressione concreta della nostra democrazia”. Il rischio è che la vostra appaia una battaglia corporativa... “Se la riforma sarà approvata i magistrati guadagneranno lo stesso, avranno le stesse ferie, le stesse possibilità. Ditemi dove è la difesa del privilegio o l’interesse corporativo. La mia vita non cambierà, cambierà il tipo di giustizia per i cittadini Il dibattito sulla riforma della giustizia fra convinzioni e dubbi di Giulia Basso Il Piccolo, 25 ottobre 2025 Il dibattito sul discusso tema al convegno organizzato a Trieste da Forza Italia. Il vicepremier Tajani in un videomessaggio: “Giudici imparziali e tempi ridotti”. Il dibattito sulla riforma della giustizia si apre con un video e un passaggio di testimone. Prima Silvio Berlusconi, poi Antonio Tajani: l’origine e il presente di Forza Italia che si alternano sullo schermo del DoubleTree by Hilton a Trieste. “Il processo è già una pena, bisogna cambiare”, dice il Cavaliere come se fosse ancora in Parlamento. Poi tocca al vicepremier: “Finalmente ci sarà il diritto a giudici imparziali. Mettiamo in soffitta la proposta giustizialista di Bonafede”. Il coordinamento regionale di Forza Italia ha scelto questo montaggio per lanciare il proprio convegno sulla separazione delle carriere: dalla battaglia storica di Berlusconi al referendum costituzionale ormai a un passo. Tajani rivendica: “La riforma riduce i tempi del processo, rimette il cittadino al centro”. Fuori, Trieste si prepara ai festeggiamenti di domenica per il ritorno all’Italia. Dentro, la giustizia divide ancora. Il viceministro Francesco Paolo Sisto spiega la geometria del nuovo processo: “Un triangolo isoscele, il giudice alla cima, alla base difesa e accusa equidistanti”. Il sorteggio dei membri del Csm libererà i magistrati dal peso delle correnti: “Non dovranno più iscriversi per fare carriera”. Salta invece l’intervento in diretta del vicepremier Tajani, che avrebbe dovuto collegarsi per l’occasione. Oliviero Drigani, già presidente delle Corti d’Appello di Trieste e Bologna, interviene con parole nette: “Ho gravi perplessità sui contenuti della riforma”. Per 44 anni ha fatto il magistrato mantenendo “la barra al centro”, anche come pubblico ministero: “Cattivissimo, duro e puro”. E riconosce: “Questa riforma ce la siamo voluta un po’ noi. Non saremmo arrivati a questo punto se non ci fossero state fughe in avanti che menomano l’imparzialità del Consiglio. Il sistema ci viene a chiedere il conto”. Non c’è nulla di eversivo, ammette. “È un momento di vittoria della democrazia: gli altri poteri vengono a regolare diversamente i rapporti”. Ma sulla separazione non cede e teme lo scontro dopo il voto: “Il dividere, il separare mi fa paura. Intorno a un tema che dev’essere unificante, è il caso di avere due gruppi armati che si confrontano?”. Franco Dal Mas inquadra la riforma come “il completamento dell’articolo 111 sul giusto processo, indicato in Costituzione e poi lasciato cadere”. Sul consenso parlamentare afferma: “Comunque ci sarà il referendum e le parti si annullano davanti alla volontà popolare”. Massimiliano Fedriga porta il dibattito sull’efficienza: “Dobbiamo interrogarci sui tempi della giustizia”. Offre la collaborazione della Regione e lancia: “L’incertezza normativa è un vulnus democratico. Torniamo all’equilibrio che serve a cittadini e imprese”. Sandra Savino rivendica: “Trent’anni fa Berlusconi questo aveva previsto. Una giustizia giusta serve come volano dell’economia”. Sul palco, oltre al procuratore generale Carlo Maria Zampi e al presidente degli Avvocati Alessandro Cuccagna, c’è anche il sindaco Roberto Dipiazza che rivendica il suo primato, facendo sorridere la platea: “In tutti questi anni da sindaco non ho mai avuto problemi con la giustizia”. Stavolta non ci sono le leggi del Cav a giustificare il blitz delle toghe nella politica di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2025 Forse non è un inedito assoluto. Non è nuova, la magistratura, nel denunciare l’aggressione mediatica ai giudici. Lo ha già fatto in precedenti occasioni. Sia quando le sentenze non assecondavano “le passioni del pubblico”, come le definisce giustamente il segretario del “sindacato”, Rocco Maruotti, sia quando i magistrati in generale, pm inclusi, sono finiti sotto inchiesta come l’ex procuratore di Pavia Mario Venditti. È una scoperta, però, per l’associazione presieduta da Cesare Parodi, constatare che la furia cieca della giustizia-spettacolo può comportare un grave handicap nella battaglia referendaria sulla separazione delle carriere. Si sente scoperto, l’ordine giudiziario, e assai memo popolare, nella campagna per il No alla riforma Nordio, quel “No” che le toghe sperano salti fuori dall’urna della consultazione confermativa. Sia appunto perché un caso alla Garlasco relega i magistrati fra le categorie non sempre gradite all’opinione pubblica, sia perché sfidare la politica in una competizione elettorale vera e propria è un inedito assoluto, questo sì, per l’Anm e le sue correnti. Già due settimane fa a Genova, al congresso delle toghe progressiste di “Area- Dg”, la magistratura si era misurata con l’altezza di una sfida mai sperimentata prima. A dispetto di una narrazione entrata nella memoria di chiunque segua la politica, non c’è paragone fra le battaglie condotte dall’Anm in passato e la trincea del referendum sulla riforma Nordio. Intanto c’è una difficoltà intrinseca nell’attacco a una legge costituzionale approvata dal Parlamento secondo le procedure previste dall’articolo 138. Ma soprattutto, la magistratura italiana si trova per la prima volta di fronte a una campagna politica pura, a una ricerca di consenso fra i cittadini che non sia intrecciata con le vicende giudiziarie. Non ci si lasci ingannare dall’epopea dello scontro fra Anm e centrodestra berlusconiano dei decenni passati. È vero che anche all’epoca erano in ballo modifiche dell’ordinamento, come la riforma Castelli del 2005, o del rito penale. Ma c’era pur sempre un avversario, il Cavaliere appunto, a cui era facile contestare l’ispirazione ad personam di quelle leggi. Il fatto che gli avversari del centrodestra, magistrati inclusi, potessero denunciare, negli interventi legislativi, una volontà (a volte reale e non solo presunta) di salvare il capo, di difendere il capo del governo da indagini e processi, bastava a giustificare l’intrusione dell’Anm nella contesa politica. Le toghe erano legittimate, insomma, a una triangolazione con il centrosinistra proprio perché dietro la materia del contendere c’erano vicende giudiziarie vere e proprie. Sebbene si trattasse di una situazione del tutto anomala, sebbene il protagonismo attribuito ai magistrati a partire dagli anni Novanta fosse scaturito dallo strappo di Mani pulite, il gioco, all’epoca, era più facile. C’era una strada spianata dalle contraddizioni, vere e presunte, di una certa parte politica. Stavolta è tutto diverso. E a intuirlo subito, con indiscutibile lucidità, è stato proprio un magistrato della progressista “Area”, Marco Patarnello, poi eletto nel “parlamentino” (lo chiamano, con una certa sovietica enfasi, “Comitato direttivo centrale”) dell’Associazione magistrati. Prima di essere massacrato da raffiche di anatemi, Patarnello aveva in realtà espresso, sulle chat togate, una verità semplicissima: Giorgia Meloni è un avversario assai meno vulnerabile, per la magistratura, perché non ha guai giudiziari. È evidente: stavolta non c’è un Berlusconi stritolato dalle grane processuali (spesso ascrivibili a una logica di accanimento, certo), e quindi non si è di fonte a un governo e a una maggioranza parlamentare delegittimati nel riformare la giustizia. Stavolta è chiaro a tutti, e certamente agli elettori, che Giorgia Meloni e il suo ministro Carlo Nordio mettono mano alle carriere dei magistrati per ragioni in ogni caso diverse dall’interesse personale in senso stretto. Ci saranno logiche, per la presidente del Consiglio, riconducibili magari al fatto di essere la prima esponente di destra al vertice di un governo repubblicano. C’è dunque in gioco l’esigenza di acquisire una legittimazione e un riconoscimento attraverso una riforma costituzionale. Ma se l’Anm andasse a raccontare che Meloni e Nordio vogliono il “divorzio” fra giudici e pm per salvarsi da qualche processo, gli elettori minimamente informati si farebbero una grassa risata. È chiaro dunque che stavolta i magistrati si lanciano nell’agone politico senza rete. Sono davvero una parte in lotta come le altre. Non sono i salvatori della patria scesi temporaneamente dall’empireo giudiziario per disarmare quei manigoldi dei politici che, oltre a essere processabili, hanno pure la almeno apparente sfrontatezza di cucirsi riforme su misura. Stavolta non è così: ci si batte in campo aperto. Come un qualsiasi partito (e qui si vede con chiarezza l’altra anomalia). Ecco, visto che è così, quel certo nervosismo che serpeggia fra le correnti e che oggi, all’assemblea dell’Anm in Cassazione, potrebbe manifestarsi ancora, ha una spiegazione più che logica: la magistratura associata ha deciso di scendere in un campo nel quale è oggettivamente fuori contesto. Sembra abbastanza insensato che un corpo di alti funzionari dello Stato si batta per fermare una legge approvata dall’organo costituzionale che, nello Stato, rappresenta la sovranità popolare. Un assurdo. Che ora, anche nelle analisi e nelle contraddizioni interne all’Associazione magistrati, viene inevitabilmente fuori. Trieste. Il viceministro della Giustizia: “Dare dignità e speranza ai detenuti” di Alessandro Martegani rtvslo.si, 25 ottobre 2025 Francesco Paolo Sisto, ha compiuto ieri una visita nel carcere di Trieste, una delle tante strutture carcerarie sovraffollate in Italia, teatro in passato di rivolte e suicidi. Sisto ha sottolineato gli sforzi del personale per ridurre al minimo i disagi e ribadito l’importanza di un percorso che dia dignità e speranza ai detenuti sulla possibilità di avere un ruolo una volta usciti dal carcere. Il viceministro ha evidenziato il sovraffollamento della struttura, una situazione purtroppo abbastanza comune in Italia, paese che ha il poco invidiabile record di detenuti che si tolgono la vita in carcere dopo Francia e Regno Unito. A livello nazionale, sono detenute 63.120 persone, fra cui 20 mila stranieri, a fronte di 46.609 posti disponibili, ma in realtà i posti sono anche meno, perché nel conteggio sono inclusi quelli non operativi a causa di guasti ai locali o alle strutture. Assicurare condizioni di vita, anche sanitarie, dignitose all’interno del carcere e soprattutto fornire delle prospettive ai detenuti una volta tornati in libertà: sono i due temi su cui insiste il viceministro della Giustizia, ed esponente di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto, a Trieste per parlare di riforma della giustizia, ma anche di carceri. Sisto ha iniziato la sua visita a Trieste proprio dalla Casa circondariale di via Coroneo, incontrando anche la direttrice dell’istituto penitenziario, Selena Marchiuri. Il viceministro ha evidenziato il sovraffollamento della struttura, una situazione purtroppo abbastanza comune in Italia, paese che ha il poco invidiabile record di detenuti che si tolgono la vita in carcere dopo Francia e Regno Unito. A livello nazionale, sono detenute 63.120 persone, fra cui 20 mila stranieri, a fronte di 46.609 posti disponibili, ma in realtà i posti sono anche meno, perché nel conteggio sono inclusi quelli non operativi a causa di guasti ai locali o alle strutture. Anche il carcere di Trieste, ha detto Sisto, “ha una notevole dose di sovraffollamento, ma devo essere sincero: la direttrice, la Polizia penitenziaria, tutto il personale stanno facendo uno sforzo titanico per poter adeguare un palazzo inadeguato. Gli spazi sono angusti, siamo ai limiti del rispetto della sentenza Torreggiani (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 2013), che prevede almeno tre metri quadri per detenuto. Ci sono difficoltà oggettive per spazi, disponibilità e situazioni trattamentali. Un istituto che non abbia dei percorsi trattamentali non svolge fino in fondo quello che è il suo compito”. “Qui ce ne sono tante di attività: ho visto un personale giovane, determinato, preparato. Non c’è un campo sportivo, però siamo in città e non c’è possibilità di ampliamento. Nonostante tutto sembra che si faccia quello che si deve fare: la Polizia penitenziaria è molto determinata ma anche serena, c’è un clima di garbo, di rispetto della dignità del detenuto”. “La sanità - ha aggiunto - è un altro grande problema: sono convinto che un detenuto curato dal punto di vista sanitario sia un detenuto che sta sicuramente meglio, che si sente in qualche maniera protetto. Qui c’è ancora da fare qualcosa, ma, come è noto, la sanità non è di competenza ministeriale bensì della Regione, e io parlerò con il Governatore per cercare di capire se questa situazione può essere obiettivamente migliorata”. “Bisogna evitare che il detenuto percepisca il carcere come un ghetto, come un luogo inferiore rispetto all’esterno. Se non diamo al detenuto la possibilità di comprendere che questo è soltanto un momento di passaggio verso il ritorno nel tessuto sociale, significa che non facciamo per bene quello che la Costituzione ci impone”. “C’è un percorso di privazione della libertà, ma mai della dignità, verso una rieducazione che significhi che il detenuto, quando mette piede fuori dal carcere, deve uscire - se non migliore - perlomeno non peggiorato”. L’emergenza carceraria è un fenomeno nazionale, che si trascina da decenni in Italia: “Questo - ha detto il viceministro - è un governo che forse per primo si è occupato direttamente del tema carceri: a parte il decreto che abbiamo stilato sulla necessità di riprendere in mano il problema carcerario, c’è il Commissario per l’edilizia carceraria, Marco Doglio, che sta lavorando seriamente a 60 progetti di ristrutturazione e di riedificazione, compresi quei moduli che contribuiranno, all’interno degli stessi carceri, a offrire nuove occasioni trattamentali. Non è un caso che la sentenza della Corte costituzionale sull’affettività carceraria sia nata in questo momento: c’è una grande sensibilità. Il Governo non farà amnistie o indulti, perché siamo convinti che non siano rieducativi. Il tasso di recidiva dopo amnistie e indulti è altissimo, invece il lavoro è quello che consente di ridurlo al 2 per cento. Su questo stiamo facendo grandi investimenti, anche nei rapporti con imprese private, per provare a dare al detenuto una chance effettiva di recupero del proprio rapporto con la collettività”. “Per far fronte al sovraffollamento nel carcere di Trieste, ha spiegato Sisto, bisogna vedere “se siano possibili delle risistemazioni degli spazi, cosa che stiamo facendo in tanti istituti. Ci porremo il problema anche per Trieste, cercando di evitare che sulla città arrivino nuovi flussi. La direttrice mi diceva che molti vanno e vengono, escono e rientrano, non si sa dove mandarli e non ci sono le stanze di sicurezza. C’è anche un flusso di urgenza e probabilmente questo influisce negativamente sull’indice di sovraffollamento, che - ripeto - è il vero problema delle carceri”. “Io dico sempre che bisogna evitare due fenomeni: lo sdegno e la depressione. Il detenuto che vive male, che non ha condizioni igieniche soddisfacenti, che ha una brutta sanità all’interno del carcere, sviluppa sdegno e quindi le rivolte diventano una sorta di protesta contro il luogo in cui vive. La depressione invece nasce quando non hai prospettive. Se non c’è un percorso trattamentale che ti dà l’idea che al di fuori c’è qualcosa da fare e che puoi fare, la depressione può comportare anche gesti autolesivi, ma in questo luogo mi sembra che queste attenzioni ci siano”. Milano. La lettera dei detenuti di Opera: “Viviamo in condizioni indegne” di Benedetta Maffioli milanopavia.news, 25 ottobre 2025 Un carcere al limite, dove la dignità rischia di restare chiusa dietro le sbarre. È quanto emerge dal sopralluogo effettuato venerdì 24 ottobre alla casa di reclusione di Opera dalla deputata del Partito Democratico Silvia Roggiani, e dal consigliere comunale Alessandro Giungi, dopo la lettera-denuncia scritta dai detenuti e inviata al magistrato di sorveglianza. Un documento durissimo, che parla di acqua fredda nelle docce, infiltrazioni, sezioni umide, scarsa igiene e mancanza di cure sanitarie adeguate e cimici da letto. Nella lettera si fa riferimento anche al sovraffollamento: Opera ospita infatti oltre 1.300 persone a fronte di 900 posti disponibili, con un organico di agenti ridotto quasi della metà rispetto a quello previsto: 360 contro i 620 necessari. Ma quello di Opera non è un caso isolato: le stesse criticità si ritrovano in molte strutture lombarde, a partire da San Vittore, e in gran parte delle carceri italiane, dove sovraffollamento, degrado e carenze di personale restano una ferita aperta per lo Stato e per i diritti umani. Il sopralluogo di oggi è stato accompagnato dall’associazione per i diritti umani Quei Bravi Ragazzi Family, che depositerà la lettera in Procura. Intanto alla Camera è stata presentata un’interrogazione per chiedere al Ministero della Giustizia verifiche urgenti sulle condizioni del carcere e un piano straordinario di manutenzione e potenziamento dei servizi. Milano. “Al Beccaria ho visto qualche schiaffo, ma mai torture. Le avrei subito denunciate” di Giampaolo Mannu milanotoday.it, 25 ottobre 2025 L’ex cappellano dell’istituto penale per minorenni, Don Gino Rigoldi, respinge le accuse di omessa denuncia dopo che 33 detenuti hanno dichiarato di avere subito violenze all’interno del carcere milanese. “Mai viste torture. Al massimo qualche schiaffo, ma sono sempre intervenuto. Se avessi saputo avrei subito denunciato”. A dirlo è don Gino Rigoldi, l’ex cappellano dell’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria, dopo che 33 detenuti hanno dichiarato di aver subito violenze all’interno della struttura. Secondo quanto appreso finora dalla stampa, tra gli indagati ci sarebbero anche l’attuale cappellano, don Claudio Burgio, e il suo predecessore, don Gino Rigoldi, che però respinge l’ipotesi di un’indagine nei suoi confronti. “Non abbiamo ricevuto alcun avviso da parte della magistratura, quindi escludo che don Claudio e io potremo essere indagati - dichiara il sacerdote, intervistato da Milano Today all’esterno del Beccaria -. Non ho mai saputo di torture o violenze, altrimenti lo avrei certamente denunciato. Magari ho assistito a qualche schiaffo, ma sono sempre intervenuto con decisione. Non credo tuttavia che esista un ‘sistema’ di maltrattamenti sistematici nei confronti degli ospiti dell’istituto. Mi sento di escluderlo con sicurezza”. Monza. “Non dimentichiamo il carcere”. Una fiaccolata verso Sanquirico di Dario Crippa Il Giorno, 25 ottobre 2025 “Dovevamo esserci, per renderci conto di quello che tutti ci accomuna, il desiderio di riscatto e redenzione. Per troppi il carcere di Monza è un corpo estraneo e invece è un pezzo della città” commenta monsignor Marino Mosconi, arciprete di Monza. Nell’anno del Giubileo, e della Speranza, che è il motto di questa edizione, giovedì sera il Decanato di Monza ha organizzato una “camminata luminosa” coi lumini dalla chiesa di San Rocco alla casa circondariale di via Sanquirico. Un centinaio di persone ha percorso le strade che portano a un luogo spesso dimenticato come la casa circondariale. E se alla serata non erano forse in tantissimi, c’erano presenze significative. Come quell’arciprete, appunto. Ma anche del cappellano del carcere don Stefano Vimercati, e tante persone che sono vicine alla struttura, dal Garante dei diritti delle persone private della libertà, l’ex senatore Roberto Rampi, al consigliere comunale, impegnato da anni come educatore in progetti per i detenuti, Paolo Piffer, al collega Pier Franco Maffè. Un saluto è stato portato anche dal sindaco Paolo Pilotto.A portare la sua testimonianza nel piazzale del carcere anche un ex detenuto, uscito lo scorso luglio, di origine ebraica, che ha parlato soprattutto di “aspettative e di speranze dopo la detenzione”. Il fil rouge della veglia missionaria scelto dal Decanato, che ha portato anche il suo coro giovanile a scandire riflessioni e preghiere. Il cappellano si è soffermato sulle condizioni difficili in un luogo dove si trovano a convivere circa 750 detenuti a fronte di 411 posti. E dove tra l’altro si è verificata proprio di recente la morte di un detenuto in circostanze su cui è stata aperta un’inchiesta. E se il cappellano ha raccontato che molti dei detenuti erano informati della camminata ed erano vicini col pensiero a chi vi ha partecipato, l’arciprete ha ricordato: “È importante che le persone sappiano di questo posto, che è parte della nostra società. In carcere ci sono tanti detenuti di origine araba? Gesù parla a tutti, l’esperienza umana e il desiderio di speranza riguardano tutti. Gesù è morto per noi, ma questo non ci rende esclusivi”. Roma. Tatuaggi nel carcere di Rebibbia: un libro per promuovere corsi per detenuti di Stefania Piras Il Messaggero, 25 ottobre 2025 L’idea raccontata in un volume di Gabriele Donnini che parla di come e perché ci si tatua in cella (e perché è ancora vietato). Il più bravo a tatuare ha la lacrima disegnata sotto l’occhio. Anche se in carcere non si piange (“Lo fai di nascosto mentre scrivi alla famiglia: qui tutto bene, gioco a Tressette”). E non ci si può tatuare. È vietato, è considerato un atto autolesionistico. Per i detenuti, invece, è riappropriarsi dell’unico vero residuo di libertà che hanno: la pelle. Per questo ieri pomeriggio erano scettici ma incuriositi (13 su 1600 detenuti della sezione maschile) quando nell’auditorium di Rebibbia ha fatto capolino la possibilità di seguire un corso per imparare a tatuare in carcere. “Che poi sarebbe imparare un mestiere quando esci di qua”, spiega Gabriele Donnini che sul sogno di insegnare ai detenuti a fare tatuaggi in sicurezza ci ha scritto un libro: “Amomamma” (Meltemi, 198 pagine). E nel 2018, prima che scoppiasse la pandemia Covid, ci era anche riuscito: aveva ottenuto l’autorizzazione ad avviare dei corsi di formazione tra cui la possibilità di far conseguire 20 diplomi dentro il carcere di Rebibbia. Poi i contagi esplosero e non se ne fece più niente. Ieri, Gabriele è tornato alla carica, grazie alla presentazione del libro scritto insieme all’avvocata Paola Bevere e alla psicologa Daniela Attili. “I tatuaggi più potenti? Sono quelli sgrammaticati, le a senza acca”. Tipo questo: “Non ti fidar di me se cuor non ai”. Perché sono più autentici. Perché l’urgenza di prendere una lametta (o di squagliare una penna Bic per infilarci un ago rimediato chissà come e intingerlo in una sostanza che è esagerato chiamare inchiostro) e poi finalmente scriversi addosso, è più forte di tutto. Anche di chiedere al compagno di cella se si ricorda le regole di ortografia che dentro la cella figurano come una lingua stinta, o l’ennesima punizione ortopedica da sopportare. Vuoi mettere ritrovare l’identità provando il dolore della pelle che sanguina e che fa emergere una scritta solo tua? È rassicurante, “È come procurarsi ancora un po’ di disgrazia”, viene spiegato a quel pubblico che sa benissimo di cosa si parla e che forse sotto le tute nasconde tigri, squali, donne nude, rose, teschi, maledizioni, elfi hardcore, il muso del proprio cane abbandonato prima dell’arresto, una qualche speranza raggrumata che magari all’inizio si è pure infettata, tipo “Come te posso amà”. Si rischiano infiammazioni, epatiti ma anche l’Hiv e infezioni cardiache. “Basterebbe allestire un locale come un’infermeria”, spiega Cristiano Alessandro, immunologo della Sapienza che nel libro ha curato tutta la parte sanitaria. Che non è scontata in carcere, dove è difficile lavarsi e riconoscersi nell’immagine riflessa in un vetro (lo specchio non c’è). “I tatuaggi sono un’espressione della propria singolarità”, dice il garante regionale Stefano Anastasìa giunto dopo lunghi colloqui al regime 41bis. Fare i tattoo anche fuori, un giorno, chissà. “Alla fine ce sta chi se vole imparà, chi se vole migliorà”, risponderanno dal pubblico. Anche loro si troveranno come certi che si vedono e avanzano a passo lento per strada, lasciandosi dietro le porte blindate, carichi di buste della spesa con dentro oggetti messi insieme a caso. Gabriele li guarda e pensa ad alta voce: “Pensiamo davvero che possano tornare là fuori solo con i corsi di ceramica?”. Palermo. I detenuti delle carceri minorili diventano artisti, i loro lavori in mostra di Paola Pottino La Repubblica, 25 ottobre 2025 “Redivivus arte e riciclo in mostra” è il progetto promosso da Corepla che ha permesso a ragazzi dai 14 ai 17 anni di rivisitare grandi capolavori dell’arte: l’esposizione resterà allestita fino a domenica dalle 11 alle 18 a Palermo in corso Vittorio Emanuele. Di Mirò, Picasso, Van Gogh, Banksy, Veermer, Munch, Dalì e Klimt, probabilmente non conoscevano neanche l’esistenza. Ma grazie al progetto “Redivivus arte e riciclo in mostra”, promosso da Corepla, con il patrocinio del ministero della Giustizia e curato dall’associazione Mani e Mente, i giovani detenuti delle carceri minorili della Sicilia si sono scoperti piccoli artisti. Grazie all’utilizzo della plastica riciclata e poi colorata, i ragazzi, dai 14 ai 17 anni, hanno così rivisitato 19 grandi capolavori dell’arte, in mostra da oggi fino a domenica, dalle 11 alle 18, a Palazzo Drago Ajroldi, in via Vittorio Emanuele. La ragazza con l’orecchino di perla è diventato così un mosaico colorato nel quale i piccoli quadrati di plastica, perfettamente allineati, hanno dato nuova vita al celebre dipinto di Johannes Veermer. Stessa cosa per I girasoli di Vincent van Gogh: colori e proporzioni sono del tutto simili all’originale ben più famoso. “I ragazzi hanno lavorato in piccoli gruppi - spiega Romina Scamardi di Mani e Mente, curatrice del progetto - ed è capitato che un’opera iniziata, ad esempio, nell’Istituto minorile di Caltanissetta, fosse poi completata a Palermo. Il lavoro è stato collettivo e i risultati sono stati sorprendenti”. Il progetto ha anche un forte valore ambientale grazie al riciclo degli imballaggi in plastica raccolti da Corepla. L’anno scorso sono stati installati nell’Isola 75 eco compattatori Recopet (di cui 39 a Palermo 39) e in un anno sono state raccolte oltre 3,5 milioni di bottiglie di plastica. “Un numero importante - dice Giovanni Cassiti, presidente di Corepla - che ci ha colpito molto. Noi da più di un anno stiamo incrementando la raccolta di plastica in Sicilia e una piccola parte l’abbiamo data per la realizzazione di questo progetto. Il quadro, nel caso di questi giovani, rappresenta uno strumento per guardarsi dentro, ma anche fuori e comprendere che è sempre possibile avere una chance per diventare qualcosa di bello”. L’arte ha sempre una valenza terapeutica per tutti, in particolare per i soggetti svantaggiati. “Grazie alla pittura si è riuscito a ottenere risultati pregevoli - aggiunge Letizia Balsamo, funzionaria pedagogica del Centro per la giustizia minorile per la Sicilia - e inoltre la cosa importante è che i ragazzi hanno visto il prodotto finito. Nella nostra esperienza professionale quello che conta nei laboratori che organizziamo è infatti il compiacimento degli stessi giovani per i risultati ottenuti”. Dopo Palermo, Redivivus arte e riciclo in mostra proseguirà il suo viaggio a Caltanissetta dal 21 al 23 novembre e, a gennaio, a Catania, continuando a raccontare come l’arte e la sostenibilità possano diventare strumenti concreti di rinascita. Festival della Gentilezza, oggi la seconda giornata: ecco gli ospiti e gli orari di Peppe Aquaro Corriere della Sera, 25 ottobre 2025 Da ieri e per tutta la giornata di oggi (dalle 9.15 alle 18.30), in diretta streaming sul sito del Corriere. Più di 40 ospiti tra incontri, talk e tavole rotonde, nella sala Buzzati del “Corriere”, in via Balzan 3. Benvenuti al “Festival della Gentilezza”, organizzato dal magazine 7 con Fondazione Amplifon e il patrocinio del Comune di Milano. Perché parlare di gentilezza? Ieri, dopo i saluti iniziali di Barbara Stefanelli, direttore vicario del Corriere e direttore di “7”, di Susan Holland, presidente di Amplifon, e l’editoriale di Dacia Maraini, nel corso della tavola rotonda - condotta da Nicola Saldutti -, gli ospiti, tra i quali, Mario Calabresi, giornalista e scrittore, Ferruccio de Bortoli, presidente Fondazione Corriere della Sera, e Maria Cristina Ferradini, consigliere delegato Amplifon, hanno provato a rispondere nel nome di una “Rivoluzione della gentilezza”. Poi è toccato alla gentilezza come meditazione (con Palijin Tuka Rinpoce, guida spirituale dei Mandala-centro studi tibetano di Milano) e all’arte (con Valerio Berruti intervistato da Roberta Scorranese) cercare delle risposte al tema principale della due giorni, “Essere gentili per provare a cambiare sé stessi e il mondo”; magari ricordandosi che c’è gentilezza anche tra nonni e nipoti, come ha spiegato Beppe Severgnini a fine giornata. Ed oggi? Ben 21 gli appuntamenti, dalle 9.15 alle 18.30: dal professore di Fisica che piace ai giovani, Vincenzo Schettini, all’editorialista del Corriere, Walter Veltroni, il quale, insieme allo psicologo Marco Crepaldi, affronterà il fenomeno Hikikomori (i giovani che si ritirano socialmente e si isolano in casa), entrambi intervistati da Manuela Croci. A proposito di “Gentilezza che fa bene alla salute mentale”, la conversazione (dalle 18.00) tra Claudio Mencacci, neuroscienziato, e Barbara Stefanelli, aggiungerà un importante tassello alla giornata, subito dopo esserci chiesti “Se può esserci un futuro gentile?”, attraverso le parole di don Mazzi, fondatore della comunità Exodus, intervistato da Alessandro Cannavò. Ed ancora: se la gentilezza va premiata, mostrarla su un set cinematografico o a scuola, non cambia molto. Proprio per questo, l’attrice Cristiana Capotondi e il professore ed editorialista del Corriere, Alessandro D’Avenia, saranno nominati ambasciatori della gentilezza. Ma in questo sabato di gentilezza, intenso e grande come un “Mappamondo” (è il manifesto simbolo del festival realizzato da Emilio Isgrò) gli appuntamenti e gli incontri non finiscono qui. Don Ciotti con gli studenti: “Vangelo e Costituzione contro ingiustizia e guerre” di Angelica Malvatani Il Resto del Carlino, 25 ottobre 2025 Il sacerdote simbolo della lotta alle mafie e di Libera ha incontrato i ragazzi “Bisogna essere al servizio della libertà e andare contro l’indifferenza”. La libertà è la più esigente delle responsabilità, è qualcosa che si può difendere solo stando insieme. Sono solo alcune delle parole che don Luigi Ciotti ha lasciato in eredità agli studenti del fermano, prima a Porto Sant’Elpidio e ieri a Fermo, per dire a tutti che il Vangelo e la Costituzione sono i due riferimenti che ci devono guidare: “Il primo sta dalla parte degli ultimi, dei poveri. La Costituzione ci dice che non ci devono più essere disuguaglianze né guerre”. Bisogna porsi al servizio della libertà, andare oltre l’indifferenza, il prete antimafia per eccellenza non si stanca mai, parla per ore coi giovani: “Le mafie sono ladre di libertà, dividono le persone dai diritti, dai sogni e dalle aspirazioni. L’omertà uccide la libertà e la speranza, oltre che la giustizia”. Ricorda dell’appuntamento che aveva con Giovanni Falcone per un caffè, un incontro che non c’è mai stato perché il giudice è stato ucciso: “Non esiste un elenco delle vittime di mafia, ne abbiamo fatto uno noi di Libera e abbiamo pensato ai 120 bambini che sono stati coinvolti in qualche guerra di mafia. Ma tante donne, uomini, hanno perso la vita e non sapremo mai la verità. C’è chi ha visto e sa, non possiamo restare spettatori inermi”. Un incontro voluto dall’associazione Famiglia nuova con le sedi di Fermo, Civitanova e Amandola, presenti sempre le istituzioni, il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro, ha sottolineato: “Un simbolo dell’antimafia come don Ciotti ospite di Famiglia Nuova proprio nel giorno in cui la Polizia di Stato e le Forze dell’Ordine assestano vari arresti alla criminalità locale. Un bel giorno per Fermo e per i ragazzi all’auditorium Pertini dove sono ospitate iniziative per la nostra comunità, tutto l’anno”. Il presidente della Provincia, Michele Ortenzi, ribadisce: “Nel mio intervento di saluto ho voluto ricordare le parole di don Ciotti al funerale di don Franco Monterubbianesi, il visionario prete fondatore della Comunità di Capodarco: “Ci ha ricordato che ‘ha unito cielo e terra perché amava il vangelo senza dimenticare la costituzione’. Parole importanti che devono guidarci. Cosa è la libertà, come possiamo declinarla se pensiamo per davvero al Vangelo e alla nostra Costituzione? Non siamo liberi se chi è vicino a noi non lo è, la libertà va raggiunta e vissuta insieme”. Gino Cecchettin agli studenti: “Ho eliminato ira e collera, saper gestire le emozioni è importante” di Christian Gaole Corriere di Verona, 25 ottobre 2025 Gino Cecchettin ieri era al liceo Maffei per parlare di educazione sessuale e affettiva nelle scuole, tema di stretta attualità in seguito alla decisione del ministro dell’istruzione Valditara di impedirne la discussione nelle aule scolastiche. Ospite ieri mattina al liceo più antico d’Italia, a conclusione dell’iniziativa CampBus, che da sei anni porta la cultura digitale nelle scuole e che ha fatto tappa, la quarta e ultima di quest’anno, nell’istituto veronese, il papà di Giulia, uccisa l’11 novembre 2023 da Filippo Turetta, ora in carcere a Montorio, insieme alla psicologa e psicoterapeuta Lara Pelagotti, ha spiegato ai ragazzi l’importanza dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, impegno che sta portando avanti con la Fondazione Giulia Cecchettin. Proprio con la sua realtà Gino si sta battendo affinché questa materia trovi un posto tra i banchi di scuola. “Rivedo mia figlia in voi”, ha detto agli studenti riuniti in aula magna. “Non sono qui per rivivere i fatti del femminicidio di Giulia - ha proseguito - ma per parlare dei sentimenti e di quello che sta dietro a una storia così. Venire a patti con la parola morte, per voi giovani, non è l’argomento migliore, ma in questo caso si tratta di una ragazza della vostra età che amava vivere, che ha fatto il liceo classico”. E ancora: “So quanto ho sofferto e continuo ad amare Giulia anche se non c’è più. L’unico modo per continuare a farla vivere è parlare di lei, perché ha fatto tanto e ha lasciato altrettanto. Lei faceva stare bene chi aveva intorno e da papà non mi sono rassegnato, perché quello che è successo mi dà la possibilità di continuare a sensibilizzare tutte le persone che incontro riguardo un problema che è cogente. Saper gestire le emozioni è importante. Io sono riuscito a eliminare tutte le emozioni negative, quali l’ira e la collera, nei confronti di Filippo”. Pelagotti ha poi coinvolto gli studenti in un esercizio di visualizzazione con l’obiettivo di analizzare le sensazioni che pervadono ogni giorno i giovani e i meno giovani: “Identificate un’emozione che vi preoccupa e trasformatela in un oggetto. Ora immaginate di essere seduti su una panchina, potete decidere se lasciare l’oggetto o portarlo con voi”. Cecchettin ha deciso di lasciare un riccio di mare che aveva sotto la maglia e portare con sé una sciarpa fredda, come rappresentazione della solitudine che lo accompagna ma che lo avvicina a Monica, la moglie che ha perso un anno prima della figlia e a Giulia. Venendo al tema dell’educazione affettiva nelle scuole, sia Cecchettin che Pelagotti sono in disaccordo col Ministero dell’Istruzione che ha impedito l’insegnamento di queste discipline: “Le istituzioni sono spesso distanti da quello che accade nella società reale”. Il preside del Maffei, Roberto Fattore, ha sottolineato: “Non possiamo non confrontarci con questo tema se vogliamo davvero essere una realtà che promuove l’apprendimento e che promuove la crescita”. Stati Uniti. Tendopoli da 10mila posti ciascuna come carceri per migranti, il progetto via di Marina Catucci Il Manifesto, 25 ottobre 2025 L’ultima trovata della Sicurezza nazionale: materiali della marina militare e 10 miliardi di fondi federali. Il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, Dhs, attraverso la marina, sta stanziando 10 miliardi di dollari per facilitare la costruzione di una rete di centri di detenzione per migranti sparsa in tutti gli Stati Uniti. Ad affermarlo è la Cnn che cita delle sue fonti, secondo le quali l’accordo con la marina servirebbe a velocizzare la costruzione dei centri, visto che l’amministrazione Trump sta lavorando per arrestare “un numero record di migranti” per i quali avrà bisogno di maggiori spazi di detenzione. La costruzione di alcune di queste strutture dovrebbe iniziare già il mese prossimo. Secondo le fonti della Cnn l’obiettivo è che le strutture ospitino fino a 10mila persone ciascuna, e si prevede che saranno costruite in Louisiana, Georgia, Pennsylvania, Indiana, Utah e Kansas. È probabile che questi nuovi centri di detenzione saranno costituiti principalmente da tende e che potrebbero essere basate su strutture preesistenti di proprietà della marina. Il Dhs ha usato spesso delle “strutture morbide” per gestire l’afflusso di migranti, e l’aumento degli arresti per immigrazione ha fatto aumentare la richiesta di spazi di detenzione per trattenere le persone in attesa di procedure legali e, potenzialmente, di espulsione. L’Immigration and Customs Enforcement, Ice, che a sua volta utilizza le carceri locali per trattenere le persone che arresta, ha già finanziato circa 41mila posti letto per ospitare temporaneamente i detenuti. Il responsabile delle frontiere della Casa Bianca, Tom Homan, ha dichiarato di voler raddoppiare questo numero, e di volerlo fare in fretta. Gli Stati Uniti si sono trovati a gestire un’emergenza carceri auto indotta, che va ad appoggiarsi al cronico sovraffollamento delle prigioni Usa, che aveva portato ad appaltare ai privati la costruzione e la gestione dei penitenziari. A luglio l’Ice ha ottenuto dal Congresso dei finanziamenti aggiuntivi per 45 miliardi di dollari per la costruzione di nuove strutture di detenzione. Una di queste strutture è stata costruita presso la base militare di Fort Bliss, in Texas e, secondo quanto riferito, viola decine di standard federali sulla detenzione. D’altronde quando si va di fretta non si può andare troppo per il sottile, e i numeri degli arresti dei migranti si vanno ad aggiungere a quelli dei fermi degli americani che protestano per l’invio della Guardia nazionale e delle retate dell’Ice. Portland in testa. Parlando dalla Casa Bianca Trump ha promesso che “si prenderà cura” di Portland dove, secondo lui “tutto sta bruciando fino alle fondamenta. È più un’insurrezione che altro”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso di Trump è stata la protesta dei 45 membri dei Portland Sage Singers, in coro di cantanti Lgbtq dai 55 anni in su, il più anziano dei quali ha 90 anni. I cantanti, vestiti con dei poncho impermeabili rosa, si sono ritrovati di fronte alla sede dell’Ice di Portland per cantare canzoni di protesta. Questo a Trump è sembrato davvero troppo, ed ha rinnovato la promessa-minaccia di inviare la Guardia Nazionale nella facinorosa Portland. La cosa non è scevra di conseguenze. Mentre scriviamo i giudici federali di Portland e di Washington, D.C. stanno tenendo udienze proprio sulle battaglie legali relative all’invio di truppe della Guardia nazionale, con Trump che cerca di ampliare il più possibile quello che era un uso raro dell’esercito per scopi interni. A Portland, gli avvocati del Dipartimento di giustizia hanno chiesto alla giudice Karin Immergut, nominata da Trump, di revocare il secondo dei suoi due ordini che limita i tentativi di inviare le truppe in città. Immergut aveva emesso due diverse ordinanze restrittive temporanee, bloccando l’uso della Guardia Nazionale dell’Oregon, e successivamente estendendo il divieto a tutte le unità federalizzate provenienti da altri Stati, come la California e il Texas, con cui Trump aveva tentato di aggirare l’ordine. La nona Corte d’Appello ha sospeso la prima ordinanza restrittiva, dando ragione a Trump e consentendo il dispiegamento delle truppe della Guardia nazionale dell’Oregon. Resta da decidere il destino della seconda ordinanza. Stati Uniti. Isolamento e aborti: il dramma delle detenute straniere di Elena Molinari Avvenire, 25 ottobre 2025 Ammanettate, legate ai sedili durante il trasporto, tenute in isolamento, private di vitamine e cure prenatali, malnutrite e costrette a interventi medici senza consenso. Non dovrebbero esserci donne incinte nei centri di detenzione dell’Ice (l’agenzia frontaliera americana). Ma da quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca a gennaio con l’intento a realizzare la più grande espulsione di immigrati della storia americana, gli agenti non hanno avuto scrupoli ad arrestare donne gravide, ignorando le linee guida in vigore dal 2021. Ora l’American Civil Liberties Union (Aclu), insieme ad altri gruppi per i diritti umani, ha denunciato la tragica situazione delle gestanti rinchiuse nelle celle dell’Ice, e chiesto la fine della loro detenzione. “Ci sono diversi casi di donne che hanno subito aborti spontanei durante la detenzione e hanno persino riferito di essere state portate d’urgenza in ospedale con emorragie vaginali e incatenate. Altre hanno avuto infezioni pericolose”, si legge nella lettera inviata al direttore dell’agenzia, Todd Lyons. Un caso è quello di Lucia, rilasciata dalla Border Patrol con un braccialetto elettronico alla caviglia. Settimane dopo, gli agenti dell’Ice l’hanno arrestata di nuovo a casa sua, nonostante avesse rispettato l’appuntamento di routine con le autorità per l’immigrazione. Incinta al primo trimestre, ha chiesto più volte di vedere un medico, ma non è stata visitata fino a diverse settimane dopo, quando ha iniziato a sanguinare copiosamente e ad avere crampi nel cuore della notte. Non è stata portata dal medico fino a metà del giorno successivo ed è stata lasciata sola in una stanza, sanguinante, senza cibo né antidolorifici, per diverse ore. Quella sera ha avuto un aborto spontaneo e ha dovuto ricevere una trasfusione, ma è stata riportata a un centro di detenzione della Georgia, dove ha continuato ad avere dolori addominali e forti emorragie per un mese. Un’altra donna, Alicia, che viveva in Louisiana con la figlia e il figlio, cittadino statunitense da quasi un decennio, ha avuto un aborto spontaneo durante la detenzione nel centro di Basile. Senza il suo consenso, è stata sottoposta a un esame uterino invasivo che le ha causato un dolore lancinante. È stata poi riportata al centro di detenzione, dove ha trascorso due mesi soffrendo di emorragie e un intenso dolore. Lo scorso luglio è stata deportata nel suo Paese d’origine, dove è stata ricoverata per una grave infezione derivante dal periodo di detenzione. Non si sa quante donne in gravidanza siano trattenute dalle autorità per l’immigrazione perché l’Amministrazione non riferisce questi dati al Congresso, nonostante l’Ice sia tenuto a fornire ogni sei mesi informazioni dettagliate sulle circostanze di ciascuna donna incinta detenuta. A settembre l’organizzazione per la difesa dei diritti delle donne Women’s Refugee Commission ha creato uno strumento per segnalare i casi noti di donne incinte, e continua a ricevere denunce di casi che mettono a rischio la salute delle donne e dei loro bambini. Il trattamento delle prigioniere gravide è una delle ragioni che hanno spinto alcune città americane, a maggioranza democratica, a dichiararsi “santuari” per gli immigrati e a rifiutarsi di collaborare con le autorità federali nell’individuare e arrestare stranieri senza documenti, soprattutto se vivono da anni negli Stati Uniti o fanno parte di categorie vulnerabili. L’Amministrazione ha minacciato queste giurisdizioni, come Chicago e Los Angeles, di azioni legali, tagli ai finanziamenti e sanzioni. Ma a nove mesi dall’inizio della seconda Amministrazione Trump, le pressioni hanno prodotto pochi risultati tangibili, e i leader democratici locali hanno raddoppiato gli sforzi per impedire la cooperazione con gli agenti federali dell’immigrazione. Una sola città, infatti, Louisville, in Kentucky, ha finora abbandonato le sue politiche di protezione. Medio Oriente. Chi è Marwan Barghouti? Per Israele è un terrorista, per i palestinesi un eroe di Greta Privitera Corriere della Sera, 25 ottobre 2025 “Con lui ci sarebbe la pace: crede nella soluzione dei due Stati”. Da 23 anni in carcere, condannato a cinque ergastoli con l’accusa di essere il mandante di cinque omicidi, Barghouti si è sempre dichiarato innocente. La sua scarcerazione è stata più volte al centro delle trattative, ma non si è mai concretizzata. Ora Trump dichiara: “Deciderò se farlo liberare” Qadura Fares ha un rimorso. È il 2004. Dalla sua cella, Marwan Barghouti annuncia di volersi candidare per sfidare Abu Mazen, nelle elezioni presidenziali palestinesi del 2005, dopo la morte del leader Yasser Arafat. La notizia agita la base di Fatah. “Abu Mazen sapeva che eravamo amici e mi ha chiesto di andare nella prigione israeliana di Hadarim per convincerlo a ritirarsi”, racconta l’ex ministro dei Detenuti dell’Autorità palestinese, dalla sua casa di Silwad - “città della resistenza” - a nord-est di Ramallah. Fares chiede di incontrarlo nell’ufficio del direttore “perché non sopportavo di vederlo dietro le sbarre”, spiega mentre si accende la quinta sigaretta. “Abbiamo litigato. Gli ho detto “ma se ti votano cosa puoi fare per la Palestina dalla cella?”. E lui mi ha risposto: “E Abu Mazen dalla Muqata?”. Sorride: “Marwan aveva ragione. In questa ultima tregua ci avevamo creduto, ma la sua ennesima non scarcerazione è un colpo al cuore”. Da 23 anni in carcere, condannato a cinque ergastoli con l’accusa di essere il mandante degli omicidi di quattro israeliani e un monaco greco, Barghouti si è sempre dichiarato innocente. Per Israele è un terrorista, per i palestinesi è un eroe della resistenza, l’uomo in grado di riunire il popolo. Il suo nome rispunta ogni volta che ci si siede ai tavoli per firmare accordi tra il governo israeliano e l’Anp o Hamas. Quel “Barghouti” fa dentro e fuori dalle liste dei prigionieri da liberare negli scambi, nelle concessioni, nelle trattative: ma la storia si ripete e la sua cella non si apre. “È sempre stato temuto, tanto dai governi israeliani, soprattutto da Netanyahu, quanto dalla leadership palestinese: chiedono di liberarlo, ma quando non succede non lottano per reclamarlo”, continua Fares. “Con lui ci sarebbe la pace: crede nella soluzione dei due Stati”. In passato alcuni leader israeliani hanno intravisto in Barghouti la possibilità di un dialogo. Era il 2006. Hamas aveva appena preso il potere a Gaza e Ehud Olmert guidava Israele. In un tentativo di arginare l’ascesa del gruppo islamista, il governo israeliano teneva stretti contatti con Abu Mazen: l’intento era quello di rafforzare l’Anp contro Hamas. Amir Peretz, ministro della Difesa, dichiarò a una radio che si stava considerando il rilascio di Barghouti, mai avvenuto. Stessa sorte nel 2008. Centocinquanta i prigionieri palestinesi liberati da Olmert e anche qui, per un attimo, la speranza che fosse nella lista. È entrato e uscito anche in quella del 2011, dove 1.027 prigionieri palestinesi - tra cui Yahya Sinwar, l’architetto del 7 ottobre - sono stati scarcerati in cambio di Gilad Shalit, il caporale dell’esercito rapito da Hamas. Dichiarava il laburista Benjamin Ben-Eliezer, allora ministro per le Infrastrutture: “Barghouti è il miglior interlocutore che possiamo avere per raggiungere un accordo di pace”. Anche dalla cella, in tutti i sondaggi supera qualunque altro leader palestinese. Nel checkpoint di Kalandia, confine militarizzato tra Gerusalemme e la Cisgiordania, il suo volto è un graffito sul muro, accanto a quello di Arafat. I due leader sono esposti vicini in tutte le bancarelle dei mercati di Ramallah. L’ultima volta che è stato visto, è apparso in un video dove, smagrito e invecchiato, veniva umiliato dal ministro di estrema destra Itamar Ben Gvir, che ieri è di nuovo tornato in una prigione per mostrare, orgoglioso, le condizioni dei detenuti, e a invocare per loro la pena di morte. La famiglia denuncia le gravi torture che Barghouti starebbe subendo. Si chiedono: sarà Donald Trump a liberarlo? Turchia. Orhan Pamuk: “La letteratura non salva né ferma i crimini. E troppa etica la uccide” di Giulio D’Antona La Stampa, 25 ottobre 2025 È difficile, per lo meno in letteratura, stabilire linee di confine. Lo è sempre stato e, forse, oggi lo è un po’ di più. È difficile parlare di letteratura occidentale, orientale, di geografia, di confini politici, di confini e basta. Gli spostamenti delle masse umane lo hanno reso, quasi certamente, obsoleto. Che lo si voglia o no, la società globale è la realtà nella quale viviamo e la globalità penetra le vite e le loro espressioni artistiche. Il romanziere turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006, vive sul confine ormai solo geografico tra due continenti, l’Europa e l’Asia. Lo ha esplorato e osservato svanire. Lo ha studiato, e come accade agli studiosi che comprendono a fondo i fenomeni, ora che non c’è più, non gli manca. Proprio per questa sua natura di scrittore del confine svanito, guardare all’interezza dell’opera di Pamuk fino a oggi diventa importante per cogliere un po’ di quella consapevolezza che lui ha coltivato negli anni e vedere la tensione geografica sciogliersi, le lingue e le culture fondersi. Mondadori ha raccolto molta della narrativa di Pamuk in due volumi che compongono il primo Meridiano (Opere scelte, con una cronologia curata dallo stesso autore, un’introduzione di Giampiero Bellingeri e le ricerche sui testi affidate a Tina Maraucci) a lui dedicato. Circa quattromila pagine - da La casa del silenzio a Il mio nome è rosso, passando per l’autobiografia Istanbul - che sottolineano nettamente la mescolanza ormai compiuta tra oriente e occidente e offrono alla narrativa un ruolo diplomatico, se non risolutore, per lo meno chiarificatore. La letteratura è salvifica? “Non scrivo per la salvezza del mondo, e non credo che la letteratura abbia questo potere. Può avere una forza enorme, ma non è nata per risolvere i problemi dell’umanità. Nella vita esiste una gerarchia di importanze, e la letteratura non è al vertice. Le atrocità accadono, e noi continuiamo a scrivere libri. In Turchia, ad esempio, la democrazia è finita. Se osi dire qualcosa, ti mettono in prigione. E la gente mi chiede: “Signor Pamuk, perché scrive romanzi su persone sull’amore e sull’erotismo quando intorno accadono orrori?”. Ha una risposta? “No, rifiuto questa domanda. In un’intervista del 1964 veniva domandato a Jean-Paul Sarte: “A cosa serve la letteratura in Biafra, dove la gente muore di fame?”. Ha dato una risposta che oggi può sembrare un po’ colonialista, ma che è vera. “In Biafra non hanno bisogno di letteratura, ma di cibo”. Continueremo a leggere Proust, continueremo a scrivere romanzi, anche se ci sentiamo impotenti davanti a quello che sta accadendo a Gaza o alla repressione in Turchia”. Non è una sconfitta? “Lo è eticamente. Mi sento umiliato dal fatto di non poter fare molto, ma continuo a scrivere dei sogni di chi ama e delle visioni di chi vive. La letteratura non serve a combattere i crimini del mondo: serve a dare forma ai sogni, anche quando fuori regna la violenza”. Però resta rilevante… “In un certo senso sì. Quest’estate, ad esempio, sono stato invitato a un festival letterario in Turchia. Pochi giorni prima, il sindaco di Istanbul - che aveva ricevuto più voti di Erdo?an - era stato imprigionato con un pretesto politico. Mi sono chiesto: “Cosa faccio? Se partecipo e parlo di quello che è successo, la sicurezza del festival potrebbe essere in pericolo, ma, se taccio, mi sentirò colpevole e ipocrita”. Cosa ha fatto? “È stato uno degli organizzatori del festival a illuminarmi, facendomi notare che il fatto stesso di vivere a Istanbul e di scriverne è già un messaggio politico. Ed è vero. Vivere in Turchia, insegnare all’università, scrivere nella mia lingua, è un gesto politico. Potrei rimanere a New York, dove insegno, ma scelgo di tornare a casa, tra la mia gente, e questa è la mia presa di posizione. La letteratura non risolve i problemi: li mette a fuoco. Il solo atto di scrivere in modo diverso è già una forma di resistenza. Non scrivo romanzi politici, ma libri che rivelano le contraddizioni della società, che le ammettono e le includono”. È importante? “Certo, anche chi opprime ha un punto di vista, e una letteratura non ipocrita deve comprendere anche questo”. E la funzione morale? “Troppa etica uccide la letteratura. Quando i miei studenti, leggendo I demoni di Dostoevskij o Padri e figli di Turgenev, commentano “questo personaggio è cattivo”, “quest’altro tratta male le donne”, io li fermo. La letteratura non è fatta per giudicare moralmente. È un’arte delle connessioni, della comprensione. Ci permette di entrare nella mente di persone che non ci piacciono, di comprendere - non giustificare - persino i personaggi “politicamente scorretti”. Quando scrissi Neve, molti mi accusarono di essere un islamista. Ma non lo sono: sono un romanziere. Ho solo cercato di immaginare come un islamista vedesse il mondo ed evidentemente ci sono riuscito visto che in tanti mi hanno creduto senza interrogarsi sul mio pensiero personale. La letteratura deve comprendere anche Donald Trump, capire perché milioni di persone lo votano. Se la riduciamo a una predica etica, la impoveriamo”. Lei sente di aver imparato qualcosa scrivendo? “Quasi tutto quello che c’è da sapere. Ma più di tutto, a non precludermi niente”. Circa quattromila pagine di Meridiano e cinquantadue… “Cinquantatré. Scrivo romanzi da cinquantatré anni”. Cinquantatré anni di scrittura lo testimoniano… “Studiavo architettura, volevo diventare il Le Corbusier turco, poi speravo di diventare un pittore, poi ho cominciato a scrivere. Sono un lavoratore ostinato: queste pagine sono la testimonianza di mezzo secolo di lavoro lento ma ambizioso. Scrivo dieci ore al giorno, eppure in un anno riesco a produrre solo centosettantacinque pagine che considero perfette”. Scrive ancora a mano? “Sempre. Con una penna stilografica e inchiostro nero. Il computer lo uso solo per le e-mail, per organizzare le interviste, per rispondere agli editori. A volte passo più tempo come “segretario di Orhan Pamuk”, che come scrittore. Il mio lavoro è fatto di disciplina e di isolamento. Quando sono a New York, abito a otto isolati dalla Columbia. Ogni mattina vado alla Avery library: scrivo per cinque o sei ore, poi mangio un panino e cambio posto”. Molto letterario… “Sì, mi sento come un personaggio di Thomas Bernhard: vago da posto all’altro, da una stanza all’altra, da una sedia all’altra, finché trovo la voce giusta”. È una forma di ascesi? “Forse sì. È la povertà della letteratura e insieme la sua etica: non servire nessuno, non essere utile a qualcosa, ma scrivere una bella pagina al giorno. Una pagina che giustifichi tutto il tempo speso, tutti i tentativi falliti, tutte le ore passate in solitudine. La verità è che vorrei essere giudicato per la bellezza dei miei libri”. Però un’etica ce l’ha… “Certo, come essere umano che vive in una società di esseri umani non posso farne a meno, e il mio cuore è a sinistra: potrei definirmi un liberale turco. Ma questo non significa che debba trasformare i miei romanzi in manifesti politici. A volte sento il dovere di prendere posizione, ovviamente, perché vivo nel mondo. Ma questo occupa il due per cento del mio tempo. Il resto lo dedico alla scrittura. Se non fosse così, non potrei fare il mio lavoro”. È difficile? “Scrivere è come camminare lentamente per ore. È pazienza, lavoro, fede. Sono un convinto secolarista, ma dico spesso che in tutti questi anni Dio mi ha protetto”. Da cosa? “All’inizio fu difficilissimo pubblicare in Turchia; poi, all’improvviso, ho cominciato a vincere qualche premio e i miei libri hanno cominciato a venire tradotti e le cose si sono fatte via via più facili. Non del tutto facili, ma migliori. In Turchia, per anni sono stato considerato un “ragazzo cattivo”. Ho criticato il governo, parlato degli armeni, della libertà di parola. E man mano che la mia fama cresceva confesso di essermi sentito in pericolo”. Ancora oggi? “Non più. Misuro così la mia fortuna: una volta avevo tre guardie del corpo, poi ne ho avute due, ora non ne ho più bisogno. La situazione politica resta terribile, ma a settantatré anni per lo meno non sono più nell’occhio del mirino”. Dipende anche dalla “nostalgia ottomana”? “La nostalgia ottomana non riguarda me, ma Erdo?an. È lui ad averla trasformata in un’arma politica. L’errore dei turchi secolari, quello del Partito Popolare Repubblicano e dei cosiddetti socialdemocratici, è stato disprezzare la cultura islamica e ottomana, considerandola arretrata. Si sono voltati verso l’Europa, hanno voluto essere moderni e occidentali, che da un lato è giusto, ma dall’altro gli ha fatto dimenticare che la cultura ottomana è anche una miniera di storie, di umanità, di dettagli. Io non ho guardato agli ottomani come a un simbolo dell’Islam, ma come a persone, esseri umani, non icone religiose. La moderna Repubblica turca ha represso l’eredità ottomana, e ciò che è represso ritorna sempre in un’altra forma”. La sua? “Io sono il “ritorno del represso” ottomano, ma in chiave postmoderna. Io non mi sento nostalgico, ma critico. La nostalgia ottomana del potere idealizza la brutalità dell’impero. Io non celebro l’imperialismo, ma la lingua, la pittura, la sensibilità”. Pensa che questi valori possano andare persi nelle traduzioni? “Le diverse lingue hanno dato nuova vita ai miei libri e mi hanno regalato una prospettiva su come i differenti argomenti toccano in maniera diversa i lettori. In Spagna, negli Stati Uniti, in Cina, in Francia, ogni paese mi legge in modo diverso. In Italia, per esempio, siete molto sensibili a temi che tocchino entrambi i nostri paesi: la pittura rinascimentale, l’arte che condividiamo”. Il Rinascimento è un punto di incontro? “Nel Rinascimento europeo nasce la prospettiva, è una rivoluzione dello sguardo. E questo dialogo tra oriente e occidente, tra pittura islamica e pittura italiana, ne è un simbolo. L’Italia, come la Turchia, è sempre stata un punto di interscambio culturale. In Italia ho conosciuto scrittori e amici preziosi. Ricordo con affetto Umberto Eco, che mi invitò a Bologna: trascorremmo una settimana insieme, tenendo lezioni e discutendo della forma romanzo. Era un uomo brillante, ironico, eccezionalmente divertente”. L’intreccio che ci accomuna è anche una forma di identità culturale… “Con i grandi flussi migratori, è difficile parlare di identità culturale. Probabilmente il concetto stesso è cambiato. Negli Stati Uniti, con Trump e la sua generazione, l’immigrazione è diventata un terreno di scontro, e così in Europa. Gli immigrati sono energici, pieni di desiderio di appartenenza, più vitali di chi li accoglie. E da questo nasce la nuova letteratura dell’identità che si pone domande fondamentali: “Chi sono io? Da dove vengo? Cosa significa vivere tra due mondi?”. Lei si è dato qualche risposta? “Non del tutto, ma nel tempo sono stato percepito come un esperto di identità. Sono turco, vivo tra Oriente e Occidente e ogni giorno ci faccio i conti”. Però ne ha fatto un tema per i suoi romanzi… “Certo, molti nascono proprio sul punto di tensione, sul confine. In La notte della peste i personaggi sono in quarantena e per me è una metafora della modernità imposta da Atatürk, della lotta tra scienza e fede. Quando vuoi salvare il tuo paese, devi essere moderno - ma il popolo non sempre crede nella modernità. È la stessa contraddizione che viveva Dostoevskij: era ingegnere, razionale, ma amava la sua gente, anche quando la odiava. Ne I demoni descrive gli “occidentalizzatori” come snob che disprezzano il popolo. Anch’io ho vissuto questa contraddizione. Sono stato attratto dall’occidente e al tempo stesso affascinato dalla mia cultura. È una doppia vittoria, ma anche una doppia sconfitta”. Con la globalizzazione, vince o perde? “Penso di aver sempre scritto per un mondo che vada oltre la Turchia. Un mondo globale. Paradossalmente, la globalizzazione ci ha resi tutti più consapevoli delle nostre differenze, ma anche più confusi. L’identità, oggi, è un campo di battaglia: si può perderla, cambiarla, reinventarla. Io credo che la letteratura serva proprio a questo - a capire le identità, non a fissarle. Il mio lavoro nasce da una tensione costante: tra ciò che la mia società reprime e ciò che la modernità impone; tra ciò che si è e ciò che si sogna di essere. E se continuo a scrivere, è perché questa tensione non si risolve mai”. Somalia. Nemici dello Stato o di Allah, tutti fucilati allo palo della giustizia di Sergio D’Elia L’Unita, 25 ottobre 2025 In Somalia tutto è volto alla guerra. Quella dell’esercito contro i terroristi nemici dello Stato. Quella degli Al-Shabaab contro gli infedeli nemici di Allah. È difficile distinguere i buoni dai cattivi nella terra del Corno d’Africa un tempo colonia italiana. Chi sono i buoni? I difensori armati della pace e della sicurezza internazionale? E chi sono i cattivi? I fanatici fautori della legge di Dio e del taglione? La legge e l’ordine che gli uni e gli altri invocano sono quelli che vigono in un deserto. Dove è stata fatta terra bruciata di una terra di per sé bruciata. La giustizia sommaria e la pena di morte uniscono buoni e cattivi, e li identificano. Tribunali militari e tribunali islamici non pongono tempo in mezzo tra il dire e il fare giustizia: il processo è sommario, la sentenza è spietata, l’esecuzione immediata. Fino a poco tempo fa il rito funebre della giustizia “legale” si svolgeva in un poligono di tiro presso l’Accademia di polizia Generale Kahiye nel quartiere di Hamar Jajab a Mogadiscio. Lì, vicino al mare, venivano fucilati nemici dello stato, militari infedeli e delinquenti comuni sin dai tempi di Siad Barre che lo aveva scelto come luogo di esecuzione proprio perché la gente del posto potesse assistere. I pali eretti dal regime militare mezzo secolo fa per legare i condannati a morte da fucilare sono sempre lì e i ragazzi che vanno al mare per fare il bagno li usano come pali di porte di un campetto da calcio improvvisato. L’ultima spiaggia della giustizia somala l’hanno inaugurata quattro mesi fa, nel quartiere di Gubadley. È nuova, ma il palo di legno simbolo delle esecuzioni, il Tiirka Caddaaladda, è lo stesso. Lì sono stati legati e sparati nel solo mese di agosto 12 membri o collaboratori di Al-Shabaab condannati per aver compiuto attentati esplosivi e omicidi mirati in tutta la Somalia. I nemici di Allah sono di ogni specie e in ogni luogo, e non sfuggono alla legge della sharia dei terribili Al-Shabaab. Cristiani e apostati dell’Islam, ladri, maghi e fattucchiere, adulteri, sodomiti e presunte spie al servizio del governo somalo, della forza militare dell’Unione Africana, della CIA e dell’MI6 inglese. Anche loro sono fucilati in pubblico, anche loro processati in via sommaria, anche loro legati a un palo e fucilati. Stato e antistato si specchiano nel modo uguale e contrario di fare giustizia: il palo della giustizia, la “colonna infame”, che incatena e marchia fedeli e infedeli, buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. La giustizia del palo non colpisce solo i nemici dello Stato o di Allah. La stessa fine rischiano di fare anche criminali comuni. Soprattutto in regioni come quella di Galmudug che ha una lunga e sanguinosa storia di conflitti tribali, spesso alimentati dalla competizione per la scarsità di pascoli e risorse idriche, vitali per le comunità pastorali nomadi della regione. Dove, il 9 ottobre scorso, hanno giustiziato un uomo che era stato riconosciuto colpevole di omicidio premeditato. Nuur Hirsi Warsame aveva compiuto il delitto a Dhagahbuur, un villaggio nel distretto di Guriceel, nella regione di Galgaduud. Aveva ucciso a colpi d’arma da fuoco Ahmed Wali Mohamed Salad nel luglio 2025. È stato messo a morte tramite fucilazione neanche tre mesi dopo. Nuur è stato condotto sul posto di un arrangiato poligono di tiro a bordo di un pick-up nuovo di zecca delle forze di sicurezza. All’arrivo, è stato accolto da funzionari della magistratura, esponenti del clero locale e parenti di vittima e carnefice. La famiglia della vittima ha negato il perdono e rifiutato il “prezzo del sangue”, il risarcimento in denaro della perdita subita. “Questo è un chiaro monito per chiunque stia considerando reati gravi come l’omicidio volontario”, ha dichiarato un portavoce dell’Ufficio del Procuratore Generale. “Il Galmudug è determinato a proteggere lo stato di diritto e a garantire la sicurezza pubblica”. Il condannato a morte è sceso dal furgone con le catene alle caviglie e le manette ai polsi. Non ha detto nulla, ha chiesto solo di pregare, in ginocchio, su una misera coperta a scacchi stesa per terra. Negata quella degli uomini, si è affidato alla misericordia di Allah e alla sua volontà, ha invocato il perdono e la pace per la sua anima. L’ultima immagine prima di essere fucilato lo ritrae bendato e legato a un palo piantato alla buona sulla sabbia dorata, tenuto in piedi da quattro sassi trovati lì intorno. In ogni lembo di terra somala dopo Siad Barre sembra non scorra più una goccia d’acqua, non cresca un filo d’erba. Tutto si è inaridito: il suolo, i cuori, la vita e financo la morte.