Carcere e responsabilità di Marco Cafiero* progettouomo.net, 24 ottobre 2025 Da poco sono Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Genova, ma da quaranta anni mi aggiro nei meandri della Giustizia, un labirinto di strade tra intervento e ideologia che oggi determina un forte scollamento con la gente, sfiduciata, alterata, disillusa, piena di paure e insicurezze. Nessun intervento va nella strada della sicurezza, anche i più severi moniti del Governo non fanno che creare consenso in un elettorato che, comunque, si affida perché diversamente non saprebbe che fare. Alla presentazione locale del rapporto di Antigone sulle carceri mi sono permesso di affermare che il problema non sta nella classe dirigente ma nelle persone che declinano ogni responsabilità nei confronti di un problema che se trovasse soluzione porterebbe un diffuso benessere collettivo. Non si tratta di ecumenismo ma di ragionare su quello di cui abbiamo veramente bisogno, uscendo dalla logica egocentrica che ci attanaglia per andare oltre il personale ed occuparci della Comunità di cui facciamo parte. Non siamo più abituati a sentirci parte di una realtà che permea le nostre vite fatte di relazioni. Non sappiamo più cosa sia la relazione e come vada declinata per raggiungere un benessere sociale. Il Carcere è diventato un luogo di isolamento eterno che non si esaurisce nella durata della pena ma si protrae all’infinito determinando recidive e sensazioni di abbandono. Nemmeno le Comunità Terapeutiche, un tempo ritenute dalle famiglie la panacea, sono in grado di rompere quella deriva che la permanenza carceraria ha determinato. Non è totalmente corretto attribuire al Governo in carica la responsabilità della deriva del sistema, caso mai è possibile spalmarla su tutta la classe politica che si è alternata senza riuscire a modificare alcunché; credo sia da attribuire principalmente all’atteggiamento di coloro che chiedono sicurezza nei confronti di chi infrange la regola, di chi determina quella frattura che la Giustizia Riparativa vorrebbe ricomporre vincendo la resistenza proprio di chi avrebbe interesse alla sua affermazione e al pieno funzionamento di un paradigma relazionale frutto di un pensiero responsabile. È paradossale, lo so, per questo da venti anni mi occupo di riparazione con la voce di uno che grida nel deserto senza essere davvero ascoltato. Oggi, tanti si sentono in grado di capirne la valenza con il pericolo di trasformare un valore in un investimento. Ma la comprensione riposa nell’aver osservato i cambiamenti sociali frenetici degli ultimi anni ed esserci arrivati solo perché l’Europa ci ha imposto di attuare un sistema illuminato. La Giustizia Riparativa di cui molti si fregiano di aver realizzato, ha richiesto anni di sacrifici culturali ancora non pienamente realizzati. Anni in cui ci siamo dovuti affrancare da un modello retributivo, ma ancor più da quello riabilitativo che, pur rispondendo alla logica costituzionale, ha continuato a determinare sovraffollamento, suicidi e condizioni di vita impossibili all’interno degli Istituti La denigrazione dell’avversario politico, caratteristica del nostro Paese da sempre, si traduce in un insulto tra elettori, tra connazionali, che declinano ogni responsabilità e si rifiutano di ragionare su ciò che davvero conviene loro, invece di attaccarsi a ideologie che non hanno senso. Occorre una mediazione politica che abbassi la soglia del conflitto sul tema del Carcere e della Giustizia. Non so se riuscirò davvero a fare qualcosa per i detenuti anche perché leggo che tutti hanno in mano la ricetta, io non credo di averla, mi permetto solo un suggerimento: uscire dal sale dei convegni dove gli addetti ai lavori, quasi omogeneamente indirizzati politicamente, si lagnano di ciò che fa l’altra fazione, e andare per le strade a parlare con le persone di giustizia, di inclusione, di accoglienza, di condivisione. Di sedersi davanti a persone che non ci garantiscono di pensarla come noi, ma che possiamo convincere quanto meno a riflettere. Saranno loro a darci la soluzione delegittimando tutte le nostre ideologie e tecniche buoniste. È questo l’unico modo di produrre cambiamento. Un’ultima riflessione riguarda il lavoro. La nostra è una repubblica fondata sul lavoro. Oggi si parla di lavoro per i detenuti per ridurre la recidiva e favorire l’inclusione. Sembra che abbiamo scoperto l’acqua calda ma sono anni che ne parliamo, da quando ero studente per cui direi davvero molti. Di lavoro per i detenuti non si deve parlare, si deve produrre! Gli enti pubblici si facciano carico di diffondere e promuovere la cultura dell’accoglienza e dello scambio esperienziale, di parlare non alla pancia della gente, non alla testa, ma al cuore perché se non si ricordano dove sta possiamo dirgli che è a metà strada tra la testa e la pancia. Questa è responsabilità sociale, questa è Comunità educativa che pensa, poi soffre e, infine ama. *Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Genova Interrogazione parlamentare sulle carceri al collasso, la maggioranza diserta l’aula di Angela Stella L’Unità, 24 ottobre 2025 Ad immortalare plasticamente l’indifferenza della maggioranza verso i problemi dell’esecuzione penale è il senatore del Partito Democratico Filippo Sensi che ieri ha fotografato e condiviso sui social un emiciclo vuoto mentre il vice ministro della giustizia, Francesco Paolo Sisto, rispondeva ad una interrogazione parlamentare del senatore dem Michele Fina sulla situazione del carcere di Teramo e in generale in tutto il Paese. “Il carcere continua ad essere un luogo di mera afflizione e poca o nessuna possibilità di riabilitazione, solo espiazione generalizzata e mortificazione” ha denunciato Fina che ha proseguito: “Sembra di avere a che fare con un buco nero che ingoia ogni briciolo di umanità in barba alle leggi e all’intelligenza. È il caso della casa circondariale di Teramo in località Castrogno. Naturalmente non parlo di una eccezione ma di quella che è la normale, malsana condizione di tanti istituti di pena nel nostro Paese. La struttura, costruita nel 1986 e mai ristrutturata, versa in condizioni di grave fatiscenza e letteralmente ‘imprigiona’ oltre 400 detenuti destinati ad aumentare, a fronte di un massimo previsto di 255 unità e 174 agenti, a fronte dei 221 previsti”. A ciò si aggiunge il fatto che “le docce comuni, sebbene dispongano di acqua calda, nel periodo estivo sono difficilmente utilizzabili a causa del razionamento del servizio idrico e che le stanze della caserma destinate all’alloggio del personale non sono dotate di alcun comfort e sono ammobiliate con arredi fatiscenti”. Infine, “sono numerose e ripetute le infiltrazioni d’acqua dal tetto del padiglione detentivo e della caserma degli agenti, le quali rendono praticamente inutilizzabili diverse camere e locali ad uso comune e causano sovente blackout elettrici, che ostacolano anche gli interventi per improvvise esigenze nei piani alti dell’istituto, serviti dall’ascensore”. Che ha intenzione di fare il Ministro Nordio? Ha chiesto il senatore. A rispondere ci ha pensato il numero due di Via Arenula, Sisto che è arrivato addirittura a sostenere che il governo Meloni “ha dato risposte straordinarie ed energiche all’emergenza del sovraffollamento, ma anche soluzioni che noi riteniamo adeguate, proporzionali e lungimiranti ai problemi strutturali, trascinati da anni, del sistema penitenziario”. Salvo poi dover ammettere che “presso la casa circondariale di Teramo risultano presenti 463 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare pari a 255 posti disponibili complessivi, con un rapporto presenti-posti regolamentari disponibili pari al 183 per cento”. Tuttavia, rassicura Sisto, “non si registrano violazioni dei parametri minimi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), in quanto la maggior parte dei detenuti (453) si trova in spazi superiori ai 4 metri quadrati, mentre gli altri ristretti hanno a disposizione fra i 3 e i 4 metri quadrati (sentenza Torreggiani, nota all’interrogante)”. Insomma va tutto bene…nel mondo parallelo ideato dal Ministero della Giustizia. Carceri italiane, il diritto alla vita sessuale non è una concessione di Ivana Marrone collettiva.it, 24 ottobre 2025 Nonostante la sentenza della Consulta, solo poche strutture penitenziarie del nostro Paese hanno spazi dedicati alla vita affettiva dei detenuti. Sono ancora pochissime, appena tre o quattro, le cosiddette “stanze dell’amore” attivate nelle carceri italiane, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale del gennaio 2024 che ha riconosciuto il diritto alla vita affettiva e sessuale come un diritto fondamentale della persona detenuta. A ricordarlo è Susanna Marietti, dell’Associazione Antigone, che denuncia la lentezza con cui l’amministrazione penitenziaria sta applicando la pronuncia della Consulta: “La Corte ha chiarito che si tratta di un diritto, non di un’aspettativa né di una concessione. Eppure l’amministrazione continua a ragionare in termini di disciplina, non di diritti. Tra i criteri di accesso ai colloqui riservati, ad esempio, c’è l’assenza di rapporti disciplinari: ma un diritto non si contratta”. Solo 32 istituti su 189 hanno individuato spazi idonei per i colloqui intimi, ma soltanto una manciata li ha effettivamente allestiti. “La stessa Organizzazione mondiale della sanità riconosce che una vita sessuale sana è parte integrante della salute complessiva dell’individuo. Il diritto alla salute, come quello alla dignità, non si perde con la detenzione. È urgente che le carceri italiane si adeguino ai principi costituzionali”. Antigone è un’associazione italiana nata nel 1991 che si occupa di tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Da anni monitora le condizioni di vita nelle carceri, promuove riforme legislative e si batte per il rispetto dei diritti umani delle persone detenute. Morire senza cure in carcere: ucciso dalla tubercolosi a 27 anni di Federica Pennelli Il Domani, 24 ottobre 2025 “Entrato nel carcere di Poggioreale in buona salute, ne è uscito in fin di vita”. Il caso di Alhagie Konte: la procura ha aperto un’indagine e disposto il sequestro delle cartelle cliniche relative ai ricoveri. Per l’avvocata Esposito è rilevante che “la notizia del decesso non è stata comunicata ufficialmente né ai familiari né agli operatori che lo seguivano”. Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale: “Il carcere è un buco nero, è una bomba ad orologeria. La politica tace, fa solo passerella”. Nelle carceri italiane si continua a vivere in condizioni di grave sovraffollamento. In apnea, senza fiato e senza giuste condizioni detentive. In un contesto sempre più oppressivo e lesivo della dignità delle persone detenute, anche il diritto alla salute è continuamente disatteso: in carcere si continua a morire per mancate cure. Come a Poggioreale, dove il tasso di sovraffollamento raggiunge il 139 per cento e, dall’inizio dell’anno, si sono registrati due suicidi e venticinque tentativi di suicidio. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un fascicolo a seguito della morte di Alhagie Konte, un ragazzo di 27 anni originario del Gambia, deceduto pochi giorni fa all’ospedale “Cotugno” per una tubercolosi in stato molto avanzato. Il giovane era detenuto presso il carcere di Poggioreale, e nelle ultime settimane avrebbe lamentato dolori ed uno stato fisico di estrema sofferenza. È arrivato all’ospedale “Cardarelli” solo dopo che i suoi compagni di cella lo avrebbero accompagnato in medicheria. Una volta ricoverato è stato subito palese che le sue condizioni di salute fossero gravissime. Il trasferimento all’ospedale Cotugno, specializzato in malattie infettive, è stato un estremo tentativo di salvargli la vita, ma Alhagie è morto dopo 6 giorni. Il Movimento Rifugiati e Migranti di Napoli, di cui Alhagie aveva fatto parte, chiede verità per la morte del ragazzo gambiano, in particolare chiedono di fare piena luce sul fatto che vi sia stata assistenza sanitaria per il giovane nel carcere di Poggioreale. La Procura ha disposto il sequestro delle cartelle cliniche e della salma, su cui sarà effettuata l’autopsia. Lucia Esposito è l’avvocata che sta seguendo il caso di Alhagie Konte, insieme al Movimento rifugiati e migranti di Napoli. Ed è lei che a Fanpage.it ripercorre le tappe del calvario del 27enne fino alla sua morte. “Da quello che sappiamo lui era in buona salute - spiega - sappiamo che svolgeva attività lavorativa nel carcere, una circostanza che denota il fatto che non fosse considerato una persona socialmente pericolosa, visto che per essere autorizzati bisogna avere una condotta eccellente”. Ed è qui che c’è il primo mistero di questa tragica vicenda. Alhagie era un lavorante, quindi non era considerato pericoloso ed anzi, era considerato un detenuto affidabile. Ma nel mese di luglio viene sottoposto al regime di isolamento. Non se ne conoscono ancora le cause, ma è proprio dopo il periodo di isolamento, all’inizio di settembre, che Alhagie mostra uno stato di salute molto grave. “Da quello che sappiamo aveva tosse, muchi, gonfiori - spiega l’avvocata Esposito - dalle testimonianze che abbiamo raccolto, lui avrebbe chiesto aiuto medico, ma sembrerebbe che non gli sia stato fornito”. Alhagie sta sempre peggio e lo notano anche i compagni di cella, proprio loro, da quanto raccolto dalle testimonianze del legale, avrebbero raccontato di aver portato il ragazzo in medicheria. “Solo dopo l’arrivo in medicheria viene disposto il ricovero al Cardarelli - spiega la Esposito - ma le condizioni erano ormai critiche. Se tutte queste cose dovessero essere confermate si potrebbe andare a delineare un quadro di grave negligenza sanitaria, nei confronti di un soggetto giovane entrato in carcere in buona salute”. Ed è quello che dovrà scoprire la Procura di Napoli che al momento vede il fascicolo direttamente nelle mani del procuratore capo Nicola Gratteri. Gli esiti dell’autopsia potranno chiarire innanzitutto la data del contagio da tubercolosi, condizione fondamentale per capire cosa sia avvenuto tra le mura del carcere di Poggioreale e se ci sia stato o meno la necessaria assistenza sanitaria. Alhagie aveva conosciuto tra il 2017 ed il 2018 gli attivisti del Movimento rifugiati e migranti di Napoli, quando era ospite di un centro di accoglienza nella zona di Piazza Garibaldi. Ben presto era diventato un’attivista anche lui. E sono proprio i suoi compagni e le sue compagne a denunciare pubblicamente questa storia, chiedendo di sapere la verità. “Noi vogliamo sapere come sia possibile che sia entrato in carcere in buona saluta e ne sia uscito in fin di vita” spiega a Fanpage.it Mariema Faye, del Movimento rifugiati e migranti di Napoli. “Abbiamo molti interrogativi da porre, ed il primo è come sia possibile che la morte di Alhagie sia stata comunicata ai familiari solo molti giorni dopo” sottolinea. Ed è lo zio, Alhagie Sangateh, il fratello della madre, a confermare a Fanpage.it come ha scoperto della morte di suo nipote. “Alhagie prima di entrare in carcere era in uno stato di salute perfetto - ci dice - l’amministrazione del carcere non mi ha mai chiamato per informarmi della sua morte, l’ho saputo da un ragazzo che alcuni giorni dopo la sua morte mi ha telefonato, mi ha detto Alhagie è morto”. Sono state date tutte le cure del caso ad Alhagie Konte? Cosa si è fatto per curarlo dalla tubercolosi? Ma non solo. “Ci chiediamo, accertato che Alhagie è morto di una malattia infettiva, tutte le persone che sono state a contatto con lui sono state avvisate? Sono stati sottoposti a test? Dobbiamo immaginare che ci possa essere un focolaio di tubercolosi a Poggioreale?” si chiede Mariema Faye. Alaghie avrebbe avuto diritto anche alle misure alternative, il giudice infatti nel suo caso aveva anche disposto glia arresti domiciliari. Ma nel frattempo il ragazzo aveva perso la residenza e quindi non c’era possibilità di indicarne una dove poter fare la detenzione domiciliare. “Noi sappiamo che le carceri soffrono di sovraffollamento - spiega Faye - questo potrebbe essere mitigato dalle misure alternative, ma Alhagie come molti cittadini stranieri in Italia, una volta entrato in carcere ha perso anche la residenza, e non aveva nessun posto dove fare i domiciliari. Ci sarebbero delle comunità predisposte, che poi tracciano dei percorsi di reinserimento in società con il detenuto, ma anche queste sono sempre piene. Di fatto non è stato possibile far esercitare un diritto ad Alhagie, una decisione che era stata già presa anche dal giudice”. Avrebbe dovuto fare i domiciliari e reinserirsi in società, invece in poco più di due mesi la sua vita è finita tragicamente e dolorosamente, con la tubercolosi che lo ha divorato. Non si sa perché da lavorante, quindi da detenuto con condotta eccellente, sia finito in isolamento. Non si sa se e quando abbia ricevuto cure. Di fatto sappiamo solo che è entrato sano ed è uscito morto. Lavoro per i detenuti, tre tappe per il bonus fiscale alle aziende di Diego Paciello e Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2025 Il 31 ottobre la scadenza per presentare agli istituti la richiesta di credito d’imposta, entro il 15 novembre gli atti al Dap. Tre scadenze: il 31 ottobre, la prima, e poi 15 novembre e 15 dicembre. Si rinnova così attraverso queste date l’appuntamento annuale per le aziende che intendono assumere lavoratori sottoposti a carcerazione. Una possibilità introdotta dalla legge Smuraglia (legge 193 del 2000) che prevede alcune agevolazioni fiscali e contributive rivolte alle imprese che scelgono di assumere detenuti o internati negli istituti penitenziari, nonché soggetti ammessi al lavoro all’esterno secondo quanto previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, e persone in semilibertà. Il punto di partenza, prerequisito fondamentale, è che per accedere ai benefici fiscali e contributivi l’azienda deve in primo luogo stipulare una convenzione con l’istituto penitenziario di riferimento, garantire un contratto di lavoro subordinato di una durata minima di 30 giorni, assicurando una retribuzione conforme a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali. Ma quanti sono i detenuti lavoratori? I numeri - Attualmente, stando al secondo report Recidiva zero realizzato dal Censis per il Cnel, le persone in carcere che possono lavorare sono 21.235; di queste la parte più consistente, ovvero 18.063 persone, lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, il resto invece, pari a 3.172 detenuti, per aziende e cooperative esterne. Fra le tipologie di lavoro in cui sono impegnati i lavoranti detenuti, si registra, dunque, una concentrazione nei servizi d’istituto (il 70,7% è impegnato in questa tipologia), mentre il 5,4% lavora in istituto per conto di cooperative o imprese, il 5,3%, essendo in regime di semilibertà, lavora in proprio o per conto di datori di lavoro esterni e il 5% si occupa della manutenzione dei fabbricati. Una ripartizione che fotografa un percorso ancora tutto da compiere, se pur all’interno di un contesto in miglioramento. Negli ultimi vent’anni, dal 2004 al 2024 infatti il numero totale dei detenuti lavoranti è passato da 14.686 (pari al 26,6% dei detenuti) a 21.235 appunto (pari al 34,3%). La disaggregazione dei dati al livello regionale e per tipologia di lavoro segnala, in primo luogo, una maggiore opportunità di lavoro in regioni come il Trentino-Alto Adige, con un livello di coinvolgimento sul totale dei detenuti della regione pari al 71,2%, in Friuli-Venezia Giulia (52,5%), in Toscana (50,3%). Più lontano dal dato medio nazionale (34,3%) il tasso di partecipazione di regioni come la Basilicata (23,5%), il Lazio (26,8%), la Campania (26,9%). I benefici fiscali - Le imprese, che assumono detenuti o internati ai sensi dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, possono cioè ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 520 euro mensili, che si riduce a 300 euro mensili in caso di assunzione di semiliberi. Per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo parziale, il credito d’imposta spetta in misura proporzionale alle ore di lavoro prestate. Il credito d’imposta spetta, inoltre, se il rapporto di lavoro è iniziato mentre il soggetto era “ristretto”, per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti e internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno e per i 24 successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti e internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno. Gli stessi sgravi si applicano alle imprese che svolgono attività di formazione a condizione che, al periodo di formazione, segua l’immediata assunzione per un tempo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione per il quale l’impresa ha fruito dello sgravio. Le scadenze - Per poter usufruire del credito d’imposta, le aziende convenzionate con gli istituti devono presentare, entro il 31 ottobre di ogni anno, un’apposita istanza alla direzione dell’istituto, indicando l’ammontare complessivo del credito d’imposta di cui intendono fruire per l’anno successivo, includendo nella somma anche il periodo post detentivo e quello dedicato all’attività di formazione. Le direzioni inviano successivamente le istanze ai provveditorati regionali i quali, a loro volta, devono inoltrarle al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria entro il 15 novembre. Quest’ultimo, entro il 15 dicembre, determina l’importo massimo spettante a ogni singolo soggetto richiedente e trasmette all’agenzia delle Entrate l’elenco degli aventi diritto con l’ammontare degli sgravi concessi a ciascuna azienda beneficiaria. L’elenco viene poi pubblicato sul sito www.giustizia.it. I vantaggi contributivi - Le aziende, inoltre, possono beneficiare di una riduzione del 95% sia delle quote a proprio carico sia di quelle a carico dei lavoratori relative alle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute ai detenuti o internati assunti. Tali sgravi contributivi si applicano anche per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore assunto per i detenuti e internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno - a condizione che l’assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno - e per i 24 successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno sempre a condizione che il rapporto di lavoro sia iniziato mentre la persona era in carcere. Il rimborso degli oneri derivanti dalla riduzione della contribuzione è effettuato sulla base di apposita rendicontazione da presentare all’Inps, che provvede al riconoscimento del rimborso in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande da parte dei datori di lavoro. Nel Mezzogiorno tirocini e corsi per detenuti che cercano lavoro di Fulvio Fulvi Avvenire, 24 ottobre 2025 Il lavoro è l’unica risposta adeguata al profondo malessere di chi è costretto a vivere dietro le sbarre nell’inedia quotidiana, troppo spesso in preda alla solitudine interiore. Ma avere un’occupazione rappresenta anche una speranza concreta di reinserimento nella società quando, scontata la pena, si tornerà fuori. È necessario però abbattere gli impedimenti legati allo stigma che accompagna quasi sempre chi esce da uno stato di reclusione, ritenuto per ciò stesso inaffidabile, impreparato se non addirittura pericoloso. Secondo un recente Report del Cnel, infatti, oggi lavora soltanto il 34,3% dei ristretti nelle carceri italiane, la maggior parte dei quali (l’85% nel 2024) è alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria (per i servizi d’istituto, ad esempio) mentre il resto è suddiviso equamente (il 5%) tra chi esegue la manutenzione dei fabbricati, chi lavora all’interno della struttura carceraria per conto di aziende e cooperative oppure, trovandosi in regime di semilibertà, è impiegato all’esterno presso fabbriche, imprese o uffici. Per un detenuto trovare lavoro è quindi una strada impervia e piena di ostacoli. Ma non impossibile. Lo dimostrano le iniziative della Fondazione con il Sud legate al bando “Evado a lavorare”: gli ultimi otto progetti selezionati e finanziati con quasi tre milioni di euro coinvolgeranno nei prossimi mesi 500 persone detenute in 24 strutture penitenziarie situate in Basilicata, Campania, Puglia e Sicilia. Saranno avviati 200 tirocini formativi e attivati circa 120 nuovi posti di lavoro esterno. Senza dimenticare la cura di tutti gli aspetti che riguardano i bisogni sociali che dovranno affrontare i singoli soggetti impegnati nelle diverse attività: la casa, la salute, l’inclusione. Verranno messi in atto, sui territori di competenza, supporti abitativi e psicologici per la gestione delle emozioni. L’obiettivo dei progetti è quello di offrire concretamente “una seconda chance” ai detenuti ponendo al centro la loro persona. Previsti percorsi di formazione professionale con il rilascio di specifiche qualifiche nei settori dell’agricoltura, dello spettacolo, dell’alimentare, dei servizi alla persona, socio-assistenziali ed educativi. Corsi e tirocini riguarderanno anche la cantieristica navale e il restauro delle imbarcazioni. Si è tenuto conto del fabbisogno lavorativo delle imprese (cooperative sociali partner e realtà profit dei territori) con la possibilità, in una seconda fase, al termine della formazione, di trovare un’occupazione stabile. I progetti saranno realizzati grazie anche all’apporto di oltre cento organizzazioni che comprendono enti pubblici, fondazioni e diocesi. “Sempre più spesso ci troviamo davanti a notizie che ci raccontano di persone che nelle carceri si tolgono la vita o compiono atti di autolesionismo - afferma Stefano Consiglio, presidente della Fondazione con il Sud - il lavoro, ma anche tutta la rete di servizi di accompagnamento professionale e di supporto emotivo e personale, sono certamente strumenti imprescindibili per restituire dignità al tempo trascorso in carcere, oltre a ridurre drasticamente il rischio di recidiva che si verifica nel 70% dei casi tra chi non lavora e solo nel 2% tra chi ha vissuto un’esperienza lavorativa durante il periodo di detenzione, che nello stesso tempo beneficia anche di ricadute positive sull’autostima e sul benessere”. La Fondazione con il Sud è un ente non profit privato nato nel 2006 dall’alleanza tra le fondazioni di origine bancaria e il mondo del Terzo Settore e del volontariato, per promuovere le infrastrutture sociali nel Mezzogiorno, cioè percorsi di coesione e buone pratiche di rete per favorire lo sviluppo delle aree dove si riscontra un maggiore disagio. A beneficiare delle iniziative intraprese dal nuovo bando di “Evado a lavorare” (il terzo di un più vasto progetto) saranno reclusi scelti negli istituti di pena delle province di Potenza, Napoli, Caserta, Benevento, Barletta-Andria-Trani e Catania. Ambiente e sociale: nuova giornata Plastic Free per i detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 24 ottobre 2025 Solo cinque mesi fa oltre 400 volontari, fra cui 114 detenuti che avevano beneficiato di un apposito permesso premio, hanno pulito e rimosso quasi quattro tonnellate di plastica e rifiuti in 12 città italiane. Domani nuova mobilitazione: l’organizzazione impegnata nel contrasto all’inquinamento da plastica, Plastic Free Onlus, e l’associazione del terzo settore dedicata al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, Seconda Chance, hanno organizzato infatti un’altra giornata di impegno per curare l’ambiente e promuovere il reinserimento sociale. Il nuovo appuntamento li vedrà convergere, come sempre, in parchi, spiagge, strade e aree urbane già individuate. Qui, armati di sacchi, guanti, utensili e tanta buona volontà e rinvigoriti da un comune impegno sociale, volontari e detenuti lavoreranno ancora, fianco a fianco, alla pulizia dell’ambiente. Stavolta sono 14 le città che ospiteranno e beneficeranno dell’iniziativa: Varese, Ferento (VT), Napoli, Marina di Massa, Cagliari, Teramo, Vasto, Pescara, Torino, Sabaudia (LT), Reggio Calabria, Prato, Caltagirone (CT) e Padova. E 16 gli istituti penitenziari che metteranno a disposizione detenuti disposti a dare una mano nella cura dell’ambiente e ai quali la magistratura di sorveglianza ha concesso un apposito permesso premio per farlo Torino, Ivrea, Varese, Padova, Massa, Prato, Viterbo, Frosinone, Vasto, Teramo, Pescara, Napoli Secondigliano, Locri, Laureana di Borrello, Caltagirone e Cagliari. “Dopo i risultati straordinari di maggio, abbiamo deciso di rimetterci subito in moto”, spiega Flavia Filippi, presidente e fondatrice di Seconda Chance. “Queste giornate non sono semplici azioni di pulizia, ma esperienze di comunità. Detenuti, volontari, educatori e cittadini si ritrovano insieme a condividere gesti concreti di rispetto e solidarietà. È così che il reinserimento diventa reale: attraverso la fiducia, la partecipazione e l’impegno condiviso”. Le fa eco Lorenzo Zitignani, direttore generale di Plastic Free: “Le nostre giornate di pulizia ambientale nascono per sensibilizzare, ma anche per unire. Iniziative come questa dimostrano che l’associazionismo può essere un ponte tra mondi diversi, creando valore per l’ambiente e per le persone. Collaborare con Seconda Chance ci ricorda che cambiare è possibile, e che a far del bene non si sbaglia mai”. Il nuovo appuntamento riconferma il percorso comune avviato tre anni fa tra Plastic Free Onlus e Seconda Chance, quello di costruire comunità più pulite, solidali e inclusive. Un impegno che continua a crescere grazie alla collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, la magistratura di sorveglianza, i comuni, le aziende di igiene urbana, le associazioni locali e i volontari di tutta Italia. Ultimo step per la riforma della giustizia di Giuseppe Ariola L’Identità, 24 ottobre 2025 Il voto finale al Senato atteso per la prossima settimana. In concomitanza con l’arrivo della legge di bilancio al Senato, la riforma della Giustizia ha fatto un nuovo passo in avanti. La commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama ha infatti licenziato il provvedimento sulla separazione delle carriere in magistratura che approderà in aula la prossima settimana. L’ultimo passaggio parlamentare dei quattro previsti per il via libero definitivo alla riforma. Poi, sarà la volta del referendum confermativo che la maggioranza ha messo in agenda entro i primi tre mesi del prossimo anno. La volontà della maggioranza di fare in fretta - Le tempistiche confermano quindi la fretta della maggioranza di archiviare la separazione delle carriere in tempi stretti. E di farlo, almeno in Parlamento, senza attendere che la sessione di bilancio monopolizzi i lavori e l’attenzione prima al Senato e poi alla Camera. Non è infatti un caso che la legge costituzionale abbia ripreso il proprio iter non appena trascorsi i tre mesi necessari tra la prima e la seconda lettura presso la medesima camera. Raggiunti i tre anni di vita del governo è, d’altronde, arrivato il momento di portare a casa qualcosa di concreto, in particolare sul fronte delle riforme. E quella della Giustizia, nonostante animi un duplice scontro - quello politico tra maggioranza e opposizione e quello istituzionale tra governo e magistratura -, non presenta però i problemi tecnici di Premierato e Autonomia. Che non a caso sono ferme da tempo. Inoltre, è una riforma della quale si parla da anni, che è stata annunciata a gran voce in campagna elettorale e che il centrodestra ha reso una vera e propria bandiera identitaria. Insomma, uno di quei provvedimenti che dalle parti del governo mette tutti d’accordo. Un dato non da poco in un contesto che vede la manovra aver già fatto emergere diverse criticità all’interno della maggioranza. Al netto di quello che sarà l’atteggiamento in aula delle opposizioni, che anche in occasione della precedente lettura alla Camera hanno inscenato l’ennesima protesta, la prossima settimana il dossier relativo alla riforma della Giustizia sarà quindi archiviato. Verso il referendum - Poi inizierà la partita più delicata perché, a differenza di quelli in Parlamento, i numeri del referendum non sono affatto scontati. Governo e maggioranza si dicono certi di vedere la riforma confermata dalla consultazione popolare. Sul fronte opposto però, i partiti di opposizione e l’Anm si sono già da tempo attivati con i comitati per il ‘no’. L’obiettivo è mettere in piedi nei prossimi mesi una campagna referendaria non solo sulla separazione delle carriere, ma sull’intero operato del governo. Riforma della giustizia, la discesa in campo della magistratura “sembra” militanza politica di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 24 ottobre 2025 Comitati per il No, il delicato equilibrio tra l’indipendenza e la libertà politica dei magistrati. Nel dibattito apertosi attorno al ruolo dei magistrati nei comitati referendari, il nodo giuridico di fondo è uno: se tali comitati possano essere considerati “soggetti politici” e, in tal caso, se la partecipazione dei magistrati in carica a essi configuri una violazione del divieto costituzionale di appartenenza a partiti politici. La questione, sollevata da Enrico Costa e accennata anche dal professor Oliviero Mazza, tocca il cuore del rapporto tra indipendenza della magistratura e libertà di espressione politica dei singoli magistrati. Il punto di partenza è l’articolo 98, terzo comma, della Costituzione, secondo cui “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati”. La norma, dunque, non prevede un divieto automatico ma attribuisce al legislatore il potere di introdurlo. Tale potere è stato esercitato con il decreto legislativo n. 109 del 2006, che qualifica come illecito disciplinare l’iscrizione a partiti politici o la partecipazione “sistematica e continuativa” alla loro attività. La ratio è evidente: preservare l’imparzialità e l’apparenza di indipendenza della funzione giudiziaria, evitando che il magistrato appaia schierato su temi di natura politica. Parallelamente, le norme che regolano i referendum - gli articoli 75, 132 e 138 della Costituzione e la legge n. 352 del 1970 - prevedono la possibilità di costituire comitati promotori e comitati per il Sì o per il No, ossia organismi organizzati per sostenere una determinata opzione di voto. La disciplina successiva sulla comunicazione politica, in particolare la legge n. 28 del 2000 e le delibere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, li qualifica come “soggetti” della comunicazione politica, dotati di diritti e spazi nei mezzi di informazione analoghi a quelli dei partiti. È su questo piano che nasce la tensione: nel momento in cui un comitato referendario è considerato “soggetto politico” ai fini della propaganda e della comunicazione elettorale, la partecipazione attiva di magistrati in carica - soprattutto se sistematica, pubblica o dirigenziale - rischia di collidere con il divieto sancito dall’articolo 98 e dal decreto 109. Non esiste, va detto, una norma che equipari in modo esplicito i comitati referendari ai partiti politici. Tuttavia, la sostanza dell’attività di tali organismi è di natura politica: promuovono una linea, cercano consenso, organizzano eventi e comunicazione di massa per influenzare l’esito di una consultazione popolare. È dunque difficile negare che si tratti di soggetti che operano nel campo dell’azione politica organizzata. Da ciò consegue che, se un magistrato in servizio partecipa con continuità o ricopre ruoli pubblici all’interno di un comitato, la sua condotta possa essere interpretata come partecipazione politica rilevante ai fini disciplinari. La giurisprudenza costituzionale e disciplinare non offre ancora un precedente specifico su questo punto, ma la linea interpretativa più prudente è quella di estendere il concetto di “partecipazione sistematica” anche a forme associative o comitati che perseguano finalità politiche. In altre parole, il magistrato può certamente esercitare i propri diritti civili, ma non può farlo in modo tale da compromettere - anche solo in apparenza - la neutralità della funzione giudiziaria. Un conto è l’adesione personale a un’idea o la firma occasionale di un appello, altro è l’impegno continuativo in un organismo che svolge propaganda politica. Il tema si inserisce in un contesto più ampio, in cui la magistratura è chiamata a mantenere una rigorosa distanza dalle contese politiche, specie quando esse riguardano la struttura stessa della giurisdizione, come nel caso della separazione delle carriere. La partecipazione dei magistrati a un comitato che si schieri pubblicamente per una determinata opzione di voto rischia di trasformarsi, agli occhi dell’opinione pubblica, in un atto di militanza. Ed è proprio questo rischio reputazionale - prima ancora che disciplinare - a minacciare la fiducia dei cittadini nell’imparzialità dei giudici. Il confronto con altri ordinamenti conferma la delicatezza del tema. In Francia e Germania la partecipazione dei magistrati ad attività politiche è fortemente limitata, mentre nel Regno Unito le regole di condotta vietano qualsiasi coinvolgimento che possa compromettere la percezione di neutralità del giudice. L’Italia, con il meccanismo dell’articolo 98, si colloca in una posizione intermedia, affidando al legislatore e agli organi di disciplina la valutazione concreta delle condotte. In definitiva, la costituzione o l’adesione di magistrati a comitati referendari non è di per sé vietata, ma può divenire problematica quando l’attività del comitato assuma un profilo marcatamente politico e la partecipazione del magistrato sia pubblica e continuativa. È in quel momento che la linea di confine tra libertà personale e dovere d’imparzialità si assottiglia fino a scomparire. La questione, che unisce profili costituzionali, deontologici e reputazionali, merita dunque un approfondimento serio e non ideologico: non per limitare la libertà dei magistrati, ma per preservare - anche nelle forme della democrazia diretta - la credibilità della giurisdizione come potere terzo e indipendente. È nulla la condanna di giudici stranieri inflitta all’insaputa dell’imputato di Antonio Alizzi Il Dubbio, 24 ottobre 2025 Sentenza belga cancellata dalla Cassazione: l’italiano sotto accusa non aveva neppure nominato il legale. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato la sentenza con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva riconosciuto, ai sensi del decreto legislativo 161 del 2010, la condanna pronunciata dalla Corte d’appello di Anversa nei confronti di un imputato, accusato di associazione per delinquere e traffico internazionale di stupefacenti. Il riconoscimento della sentenza straniera - disposto dai giudici reggini il 15 luglio 2025 - era stato impugnato dalla difesa, che aveva lamentato due profili di illegittimità: la mancata traduzione in italiano della decisione belga e l’assenza di prove che l’imputato fosse stato effettivamente informato del processo svoltosi all’estero. Secondo il ricorso, nel fascicolo erano presenti “solo atti in lingua straniera”, compresa la copia della sentenza d’appello di Anversa. La Corte territoriale, tuttavia, aveva ritenuto che la traduzione fosse una mera facoltà, non un obbligo, limitandosi a esaminare il certificato trasmesso dall’autorità belga. Inoltre, l’imputato calabrese sosteneva di non essere mai stato citato in giudizio, nonostante avesse dichiarato domicilio a San Luca. A rappresentarlo in Belgio era stato l’avvocato Carlo Tiribelli, che - come lo stesso professionista aveva riferito - aveva agito “in assenza di formale mandato” . Il procuratore generale presso la Cassazione aveva chiesto l’annullamento con rinvio, condividendo in parte le doglianze difensive. La Suprema Corte, con sentenza depositata lo scorso 10 ottobre, ha effettivamente riconosciuto la fondatezza del secondo motivo di ricorso, censurando l’operato dei giudici d’appello calabresi. Nelle motivazioni, estese dal consigliere Massimo Ricciarelli (presidente Gaetano De Amicis), la Cassazione ha chiarito che il tema centrale è quello della conoscenza effettiva del processo da parte dell’imputato, condizione imprescindibile per il riconoscimento delle sentenze penali straniere. “Appare evidente il vizio che inficia la sentenza impugnata”, scrivono i giudici di legittimità, rilevando una “ragione di insanabile incertezza in ordine alle modalità di conoscenza del processo da parte dell’imputato”. Il Collegio osserva come il certificato trasmesso dall’autorità belga, redatto in lingua originale, contenesse indicazioni contraddittorie: da un lato, l’affermazione che l’imputato aveva avuto conoscenza del processo e fosse stato assistito da un difensore; dall’altro, l’assenza di qualsiasi prova che tale difesa fosse stata effettivamente da lui autorizzata. “La sentenza - si legge nel provvedimento - si fonda su un presupposto non corrispondente al vero e non dà risposta alle deduzioni difensive volte a prospettare l’inidoneità, a fini della conoscenza del processo, della mera circostanza che l’imputato fosse stato difeso dall’avvocato Tiribelli”. La Cassazione ha quindi ravvisato una violazione di legge in relazione al citato dlgs. 161/ 2010, che recepisce la decisione quadro 2008/ 909/ GAI sul riconoscimento delle condanne penali emesse da altri Stati membri. Tale disciplina, sottolinea la Corte, impone di verificare con precisione se l’imputato sia stato regolarmente informato e se la sua difesa sia avvenuta nel rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalle direttive europee e dalla Convenzione EDU. Sulla questione della traduzione, invece, la Suprema Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso: “È obbligatoria la traduzione del solo certificato e non anche della sentenza straniera”, ha spiegato la sesta sezione, richiamando l’articolo 12 del Dlgs. 161/ 2010. Tuttavia, ha aggiunto, nel caso in cui il certificato risulti “incompleto o manifestamente difforme”, la Corte d’appello può e deve richiedere la trasmissione della sentenza tradotta o di un nuovo certificato. Decreto di espulsione non tradotto, la conoscenza della lingua può presumersi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2025 Lo ha ribadito la Cassazione, con l’ordinanza n. 28132 depositata ieri. La mancata traduzione nella lingua madre dell’interessato - l’albanese - non invalida il decreto di espulsione dello straniero irregolare se vi sono elementi per presumere che comprenda l’italiano, come nel caso specifico l’aver lavorato tre anni nel Paese. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 28132 depositata oggi, dichiarando inammissibile il ricorso dell’extracomunitario. Secondo il Giudice di pace, che aveva respinto l’opposizione all’espulsione, la mancata traduzione in albanese “non costituiva una violazione di legge essendo sufficiente che il testo fosse espresso in una lingua conosciuta e ove non possibile in inglese, francese e spagnolo”. E allora “l’indicazione del testo in inglese ed in italiano non risultava incomprensibile posto che l’opponente, dopo alcuni anni di permanenza nel territorio italiano, era in grado di comprendere i tratti salienti del contenuto dell’atto qui impugnato e per le parti in cui non era in grado di comprendere sarebbe venuto in soccorso il testo redatto in lingua inglese”. Nel ricorso in Cassazione, lo straniero ha continuato a sostenere che la mancata traduzione ledeva il suo diritto di difesa e che era ammissibile solo nel caso in cui non fosse noto il paese di provenienza o la lingua fosse sconosciuta, elementi che certamente non ricorrevano per un cittadino albanese. Per la Prima sezione civile l’argomento non confuta le ragioni alla base della decisione: “la prova presuntiva della conoscenza lingua italiana - si legge nel testo - può essere desunta da parte del giudice del merito sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti”. E nel caso di specie il Giudice di Pace aveva ritenuto provato che il ricorrente comprendeva la lingua italiana, considerato che era stato in Italia per tre anni, ed era stato titolare di permesso di soggiorno per lavoro autonomo. Con riguardo poi all’altro motivo di ricorso, la Corte ricorda che l’espulsione prefettizia non è preclusa dalla pendenza di un procedimento penale, e lo strumento chiave è il nulla osta dell’autorità giudiziaria. Nel caso però in cui esso non sia stato formalmente richiesto lo straniero che ricorra contro il decreto di espulsione, e nei cui confronti penda un procedimento penale o che sia parte offesa nel medesimo, non può far valere, quale motivo di invalidità del provvedimento, la mancanza del nulla osta stesso. Egli, infatti, “non ha alcun interesse protetto alla denunzia di tale omissione, essendo detta previsione posta a salvaguardia delle esigenze della giurisdizione penale, mentre l’interesse dell’espulso all’esercizio del diritto di difesa e alla partecipazione al processo penale è tutelato dall’autorizzazione al rientro” contemplata dall’art. 17 del Dlgs n. 286 del 1998. Milano. Torture al Beccaria, indagati anche i cappellani: “Non denunciarono le violenze” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2025 Nel terremoto giudiziario che continua a scuotere il carcere minorile Cesare Beccaria di Milano, spunta una notizia che sorprende e toglie il fiato: don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio, gli ex cappellani dell’istituto, risultano indagati nell’inchiesta della procura. Per loro l’accusa è di omessa denuncia. Sarebbero stati consapevoli delle violenze ai danni dei giovani detenuti, eppure non le avrebbero comunicate alle autorità. Parliamo di ragazzi pestaggi quasi a sangue. “L’abbiamo ucciso, massacrato proprio”, dialoghi riportati nelle intercettazioni di alcuni agenti della polizia penitenziaria. Rigoldi in particolare aveva passato mezzo secolo dentro quelle mura, 52 anni come cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria dal 1972 fino al marzo di quest’anno. Non era una figura secondaria nelle cronache carcerarie milanesi: rappresentava invece l’immagine pubblica del riscatto, della speranza e del recupero. Nato nel 1939 nel quartiere di Crescenzago a Milano, Rigoldi ha lavorato come operaio prima di entrare in seminario all’arcivescovile di Venegono. Ordinato sacerdote nel 1967, nel 1972 chiese e ottenne di diventare cappellano del Beccaria. Quella che molti avrebbero considerato una missione temporanea divenne la sua vita intera. Nel corso dei decenni don Gino costruì una reputazione particolare dichiarando di non aver mai avuto “l’allergia per il giudizio”, convinto che quando si ascolta qualcuno bisogna “capire cosa gli è successo” piuttosto che condannare. La sua filosofia pastorale non si fermava alle messe domenicali e alle confessioni: iniziò a ospitare in casa propria i ragazzi che uscivano dal carcere senza un posto dove andare, un gesto spontaneo che lo rese visibile come uomo di fatti, non solo di parole. Nel corso degli anni 70 e 80, quando i giovani detenuti erano ancora principalmente italiani provenienti dal Sud, Rigoldi vide evolversi la composizione della popolazione carceraria: oggi il 90% è di origine araba. Proprio sulla base di questo cambiamento, don Gino sosteneva che educatori e istituzioni avrebbero dovuto “andare verso di loro e capire di cosa hanno bisogno”, incluso permettere loro di pregare nei loro riti, ritenendo che “quando pregano si tranquillizzano, cambiano proprio”. La sua visibilità pubblica crebbe negli anni. Ha ricevuto l’onorificenza di cittadino benemerito del Comune di Milano e di Cavaliere della Repubblica. Nel 2014 ha commentato il vangelo su Rai 1 nel programma “A Sua immagine” accanto ad altri preti di strada come don Luigi Ciotti fondatore di Libera. Nel marzo del 2024, Rigoldi ha rassegnato le sue dimissioni formali da cappellano, divenendo cappellano emerito, ma ha subito sottolineato “Ma non mollo il colpo”. A succedergli nel ruolo è stato don Claudio Burgio, fondatore e presidente dell’associazione Kayròs, che lo aveva affiancato da 19 anni nel servizio pastorale. A settantotto anni compiuti, Rigoldi ha lanciato l’idea di una comunità da realizzare da zero, un modello innovativo in cui accogliere i ragazzi che, dopo il compimento della maggiore età, si troverebbero isolati, spesso assegnatari di alloggi singoli. Ha visto in Francia il modello delle “jeunes maisons”: case che ospitano 15- 20 ragazzi e ragazze provenienti da comunità o senza casa, dove c’è un educatore e dove fanno tante attività culturali. Proprio alla luce di questo progetto, Rigoldi ha proposto con la Fondazione Don Gino Rigoldi di partecipare al bando comunale “Case ai lavoratori” che avrebbe permesso di ristrutturare degli alloggi e realizzare cento appartamenti. Aveva inoltre lanciato “Cambio Rotta”, un programma di raccolta fondi attraverso aste fotografiche di beneficenza per supportare attività a favore dei ragazzi dell’area penale del Beccaria. Nel giugno del 2024 ha inaugurato un’iniziativa del tutto nuova: aperture domenicali della chiesa del Beccaria alla cittadinanza, invitando i milanesi a partecipare a messe in cui potessero incontrare i giovani detenuti e abbattere stereotipi. Tutto questo fa della notizia dell’indagine, una vera e propria doccia fredda. Nel registro dei 51 indagati per le torture al Beccaria, quello di Rigoldi rappresenta forse il punto di massima contraddizione tra ciò che ha professato con passione e l’accusa contenuta negli atti. Ma indagato non vuol dire essere colpevole, e dovrà essere la procura a dimostrare se effettivamente ha omesso di denunciare. Di certo, da quello che era emerso dalle indagini, i ragazzi urlavano dal dolore per le botte ricevute. Non solo non ricevevano aiuto, ma rimanevano senza cibo e acqua. A questo ampliamento dell’inchiesta si arriva dopo gli arresti dell’anno scorso, quando il primo scossone aveva portato in manette 13 agenti della polizia penitenziaria con altre otto sospensioni dal servizio. Gli agenti risultavano accusati di maltrattamenti aggravati, tortura, lesioni e, per uno di loro, tentata violenza sessuale a danno di una dozzina di ragazzini a partire dal 2022. Tra i 51 nomi compaiono anche le ex direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti. A loro la procura contesta il concorso in maltrattamenti per non aver esercitato i poteri di controllo e vigilanza loro affidati, omettendo di fermare “le condotte reiterate violente e umilianti” perpetrate dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli altri indagati sono membri della polizia penitenziaria e personale sanitario. Tra questi figurano anche tre operatori sanitari accusati di aver redatto “referti falsi o concordati con gli agenti” per nascondere le lesioni riportate dai ragazzi. Sarebbero stati inoltre presenti durante alcune aggressioni senza intervenire o segnalare l’accaduto. I pestaggi e le violenze, secondo le ricostruzioni della procura, avvenivano in un ufficio dell’istituto e poi, quando iniziarono i lavori di ristrutturazione, si trasferirono in altre celle. Proprio quelle celle che i ragazzi definivano “di isolamento”, prive di telecamere: il posto perfetto per restare impuniti. I giovani venivano ammanettati e colpiti con bastoni, sottoposti a pestaggi collettivi studiati per non lasciare segni visibili sul corpo. Tra gli episodi più gravi agli atti: un ragazzo che aveva tentato il suicidio nel 2021, successivamente colpito con schiaffi al volto e calci alla pancia, poi rinchiuso in cella d’isolamento come punizione. Per dare struttura al processo che verrà, è stato fissato giovedì prossimo il maxi incidente probatorio richiesto dalla procura. Parliamo del meccanismo procedurale che serve a cristallizzare le testimonianze delle 33 presunte vittime. L’informativa della Squadra mobile conta 900 pagine di intercettazioni e acquisizioni di video sorveglianza interna all’istituto. L’inchiesta è stata sviluppata a partire dalle segnalazioni di chi stava vicino ai ragazzi. A contribuire alle indagini sono stati psicologhe dell’istituto, madri di ex detenuti e gli ex detenuti stessi che avevano bussato alla porta delle istituzioni per fermare quello che accadeva. Nel marzo del 2024, nulla di questo era ancora esploso pubblicamente. L’esplosione è arrivata tre settimane dopo con gli arresti di aprile: 13 agenti finiti in manette e otto sospesi. Mesi dopo, ad agosto, la procura ha depositato la richiesta formale di incidente probatorio e la lista degli indagati si è rivelata molto più lunga di quanto immaginato. Dai 42 di agosto ai 51 di oggi, una scoperta progressiva di responsabilità lungo tutta la catena di comando e di gestione dell’istituto. Il 30 ottobre segnerà un nuovo capitolo. Quello in cui i 33 ragazzi avranno il primo spazio strutturato e formale per raccontare quello che gli è stato fatto. Milano. Ipm Beccaria, l’amarezza di don Gino Rigoldi: “Mai assistito a torture o pestaggi” di Marianna Vazzana Il Giorno, 24 ottobre 2025 Il sacerdote, 50 anni passati in via Calchi Taeggi, è finito nell’inchiesta con don Claudio Burgio. “Lì dentro non c’era alcun ‘sistema’. Io vado avanti”. Le loro posizioni stralciate: probabile l’archiviazione. Don Gino Rigoldi e don Claudio Burgio, rispettivamente ex ed attuale cappellano del carcere minorile Beccaria, risultavano iscritti nel registro degli indagati per l’ipotesi di omessa denuncia nella maxi indagine su torture, violenze e maltrattamenti sui detenuti minorenni, ma non hanno ricevuto informazioni di garanzia. E la loro posizione è stata stralciata rispetto a quelle dei 42 indagati per i quali il 30 ottobre inizierà il maxi incidente probatorio con l’ascolto, nei mesi successivi, di 33 vittime per cristallizzare le dichiarazioni in vista dell’eventuale processo. Nelle oltre 900 pagine ci sono due nomi di indagati coperti da “omissis”. E dietro a quegli “omissis” ci sarebbero i nomi di Rigoldi e Burgio a cui non vengono, però, contestate le accuse mosse dai pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena agli ex vertici del penitenziario, tra cui le direttrici Cosima Buccoliero e Maria Vittoria Menenti. A queste viene imputato, infatti, di non aver impedito “le condotte reiterate violenti e umilianti” commesse dagli agenti ai danni di “numerosi detenuti”. Ossia un concorso omissivo nelle violenze. I due religiosi, invece, non avrebbero denunciato pur sapendo quanto accadeva. A loro, comunque, non sono stati “estesi”, come evidenziato in Procura, i maxi accertamenti testimoniali dell’incidente probatorio e, dunque, per la loro posizione arriverà una richiesta di archiviazione. “Quello che mi fa più male è che si metta in dubbio la correttezza della mia presenza nel carcere minorile Beccaria, dopo tutto il lavoro e l’impegno di oltre 50 anni di vita”. È il primo commento di don Gino Rigoldi, 86 anni il prossimo giovedì, lo storico cappellano dell’istituto penitenziario di via Calchi Taeggi che risultava indagato dalla Procura insieme a don Claudio Burgio (attuale cappellano, che da don Gino ha raccolto il testimone e con il quale ancora lavora fianco a fianco) con l’ipotesi di “omessa denuncia” in relazione ai presunti maltrattamenti, torture e violenze commesse ai danni dei giovani detenuti da parte di appartenenti della polizia penitenziaria. Don Gino, lei non sapeva nulla di questi presunti maltrattamenti? “No, nulla. Nessun ragazzo mi ha mai confidato di torture o maltrattamenti, né in carcere e neppure fuori, una volta uscito. E io resto in contatto con tantissimi di questi giovani, che scontato il periodo di detenzione cercano di costruirsi un futuro. Io ho già spiegato alla Procura, alcuni mesi fa, durante un’audizione durata tre ore, di non aver mai assistito a torture, a pestaggi, alla messa in pratica di metodi brutali come il legare ragazzi, né di aver mai saputo di questi presunti avvenimenti... Quel che è capitato davanti ai miei occhi, negli anni, è stato al massimo di veder tirare degli schiaffi, e sono sempre intervenuto in difesa dei ragazzi. Io ho risposto a domande specifiche, in Procura, ribadendo sempre le stesse cose. Non c’era un “sistema” o un meccanismo che scattava in maniera sistematica contro i ragazzi, di cui “tutti noi eravamo a conoscenza” e che tenevamo nascosto. Nulla di simile. E poi tengo a dire anche altro”. Cosa? “Che al carcere Beccaria, ogni giorno, entrano decine di esterni: educatori, persone di fondazioni, associazioni... Nessuno si è mai accorto di nulla? Gli episodi terribili che sono stati denunciati non erano certamente parte di un sistema che veniva applicato. E a me non sono arrivati alle orecchie neppure racconti di queste torture che sono poi state denunciate. Né, ripeto, i ragazzi mi hanno mai confidato nulla”. Lei ha poi appreso, sulla base delle ricostruzioni emerse dalle indagini, di episodi specifici. Facendo mente locale in un momento successivo, non ha pensato a particolari dettagli che avrebbero potuto rappresentare un campanello d’allarme? “C’è da specificare che in certi casi particolarmente gravi, per esempio dopo disordini che si verificano nelle celle, i ragazzi ritenuti “problematici” vengono trasferiti in altre carceri. Provvedimenti che vengono messi in pratica nel giro di poche ore, e neppure io riesco ad avere in quel momento un contatto con loro. E non c’è solo chi viene trasferito: ci sono anche ragazzi nuovi che entrano ogni giorno, di cui occuparsi. Tutto questo rende ancora più difficile sapere ciò che non viene neppure detto”. Andrà avanti nella sua missione? “Sì, io vado avanti. Continuerò a occuparmi del “dopo carcere”, aiutando i giovani che escono dal Beccaria a trovare un posto per dormire, ad avere una formazione professionale, a trovare un lavoro, a ottenere i documenti di cui necessitano. Il mio obiettivo è evitare che ci ricaschino, che non tornino a commettere reati. Continuerò, nonostante quei “dubbi” che generano sofferenza”. Bolzano. Dalla cella al campo da calcio. Kekuta: “Così mi sento libero” di Linda Baldessarini Corriere dell’Alto Adige, 24 ottobre 2025 La storia di un giovane del Gambia, detenuto a Bolzano. Si allena con la squadra dell’Excelsior. Quando Ceesay Kekuta calcia un pallone, tutto il resto scompare. Il rumore delle chiavi, le porte di ferro, persino il tempo. “Quando gioco mi sento libero”, dice con un sorriso timido ma deciso. Ha 28 anni, viene dal Gambia e il calcio non è solo un gioco: è il filo che tiene insieme i pezzi della sua vita. Partito da casa da giovanissimo, inseguendo il sogno di diventare calciatore, ha attraversato Senegal, Mauritania, Mali, Algeria e Libia. “Ho visto cose che non si dimenticano - racconta - ma il mio pensiero era sempre uno: arrivare in Europa, giocare, avere una possibilità”. Poi il mare, l’approdo in Italia e il difficile cammino dell’accoglienza. Arrivato a Bolzano trova anche modo di allenarsi in alcune squadre giovanili, non di giocare però perché nonostante l’aiuto di tutti non riesce ad ottenere i documenti necessari. Poi arriva un passo falso: una sera non rientra in tempo al centro d’accoglienza, resta a festeggiare con i compagni di squadra e perde così il posto. All’inizio non capisce fino in fondo la gravità della situazione, anche per via delle difficoltà con la lingua, e si ritrova in strada, senza un posto dove dormire. Qui entra in contatto con connazionali che, pur accogliendolo, lo portano gradualmente su strade sbagliate. “Io non ero capace di spacciare - racconta Kekuta con un sorriso amaro e ironico - ma purtroppo avevo cominciato ad assumere sostanze, quelle ti cambiano, così ho cominciato con i furti”. Diversi arresti e un cumulo di pene gli valgono una condanna di sei anni, già per metà scontata. Oggi Kekuta vive la sua detenzione nel carcere di Bolzano, dove ha trovato un contesto capace di guardare oltre l’errore. “Kekuta è arrivato con la sua storia sulle spalle, con tanta voglia di fare e di rimettersi in gioco”, racconta Nicola Gaetani, educatore del carcere, che insieme alle colleghe Cristina, Eleonora e Luciana lavora ogni giorno per costruire percorsi di reinserimento. E il progetto pensato per Kekuta lo ha riportato finalmente sul campo da calcio: quello della squadra dell’Excelsior, sostenuta in questa occasione anche dal Dipartimento di Responsabilità Sociale della Lega Nazionale Dilettanti di Bolzano. “Per noi è stato naturale accogliere questa proposta - spiega Massimo Antonino, dirigente dell’Excelsior - perché la nostra squadra ha da sempre un’anima sociale. Non andiamo a cercare le persone fragili, intendiamoci, ma apriamo la porta a chi bussa con passione. Il calcio è anche calore umano, e in campo tutti sono uguali”. “Dare una nuova opportunità a chi ha sbagliato non è mai il lavoro di una sola persona, ma di una squadra - spiega Gaetani - Ognuno contribuisce a modo suo: c’è chi lavora sugli aspetti educativi, chi sul reinserimento, chi sull’ascolto quotidiano. È un lavoro silenzioso, ma prezioso. Perché ogni piccolo passo avanti, per noi, è una vittoria condivisa”. Poi aggiunge con tono riflessivo: “Lavorare in carcere è impegnativo, perché ogni storia ti mette davanti a qualcosa di diverso. Kekuta, come altri, è arrivato da lontano, con ferite e speranze. Noi proviamo a far sì che queste speranze trovino una direzione concreta, anche, come in questo caso, attraverso lo sport. Perché non si tratta solo di dare regole - spiega Gaetani - ma di creare possibilità. E il calcio, in questo senso, è uno strumento potentissimo: insegna disciplina, fiducia, rispetto. E restituisce un senso di appartenenza”. L’Excelsior non si è tirato indietro. “Abbiamo deciso di riservare, in ogni stagione, un posto in squadra per una persona inviata dal carcere - annuncia Antonino - È un impegno che vogliamo portare avanti e speriamo che altre società sportive facciano lo stesso. Perché lo sport non è solo competizione: è una possibilità concreta di riscatto”. Per ora Kekuta si allena con costanza insieme ai compagni dell’Excelsior. Le partite ufficiali arriveranno presto, appena sarà pronto il suo cartellino. Questa volta non è solo una speranza, ma una realtà in attesa di compiersi. Nel frattempo, continua a studiare, a lavorare e a coltivare quella passione che lo tiene in equilibrio. “Qui dentro ho trovato persone buone, che mi hanno ascoltato davvero. Mi hanno fatto capire che non è tutto finito, che posso ancora fare qualcosa di buono. Quando finirò la pena - dice - voglio solo poter lavorare, avere un posto dove dormire e vivere con dignità e, spero, correre su un campo da calcio, perché è lì che mi sento libero davvero”. Novara. Una finestra sul mondo del carcere: ciclo di incontri per il Giubileo 2025 diocesinovara.it, 24 ottobre 2025 Nei mesi di novembre e dicembre la Caritas diocesana propone un ciclo di incontri dedicati al mondo del carcere, con al centro il tema della giustizia riparativa. La proposta si inserisce nel solco dell’Actio Emblematica della diocesi di Novara per il Giubileo 2025 “Spazi di Speranza”, annunciata dal vescovo Franco Giulio durante la festa patronale di San Gaudenzio. Il progetto realizzato da Caritas è stato concordato con le direttrici dei due istituti (con una popolazione carceraria di circa 70 detenuti a Verbania e 170 a Novara), a seguito di un’attenta analisi dei bisogni. Prevede la ristrutturazione e l’allestimento di spazi progettati per ospitare laboratori artigianali, corsi di formazione e momenti di socialità, con l’obiettivo di promuovere l’autonomia e il benessere psicofisico dei detenuti. Entro Natale, saranno consegnati i materiali raccolti dalla Caritas (che ha dedicato al progetto la Quaresima di solidarietà 2025) alle due strutture carcerarie. Il ciclo di incontri - Accanto a questo intervento concreto, Caritas Novara propone anche un percorso per “aprire una finestra sul mondo del carcere e per far sì che le nostre comunità siano attente e solidali a queste realtà”. È organizzato in collaborazione con il centro di Giustizia riparativa di Bergamo “Incontra”. Ogni serata proporrà un approccio diverso: cinema, teatro, laboratori e confronti con i relatori. Qui il programma completo: https://www.diocesinovara.it/wp-content/uploads/2025/10/EventiSpazi-di-Speranza.pdf Palermo. Torna “Sabir”, il festival della società civile del Mediterraneo Il Domani, 24 ottobre 2025 L’undicesima edizione del festival si terrà a Palermo dal 23 al 25 ottobre presso i Cantieri culturali alla Zisa. Tanti i temi della tre giorni tra cui l’esternalizzazione delle frontiere, i diritti delle persone migranti, la Palestina e la libertà di informazione. Torna il festival Sabir giunto oramai alla sua undicesima edizione. Il festival della società civile del Mediterraneo si tiene a Palermo dal 23 al 25 ottobre. Tra i temi centrali di questa edizione l’esternalizzazione delle frontiere e diritti delle persone migranti, libertà di informazione nei contesti di guerra, cittadinanza e nuove generazioni, clima e migrazioni forzate, giustizia per la Palestina e solidarietà internazionale, linguaggi dell’arte e della cultura come strumenti di resistenza. Gli eventi si svolgeranno ai Cantieri Culturali alla Zisa, con appuntamenti diffusi nei vari spazi, tra cui Circolo Arci Tavola Tonda, Spazio Franco, Averna Spazio Open e Tre Navate. Tutti gli spazi del Festival sono accessibili e privi di barriere architettoniche. Durante la tre giorni ci saranno incontri internazionali, seminari, formazioni, spettacoli, talk e concerti per raccontare il Mediterraneo come spazio di diritti, giustizia e libertà di movimento. Il Festival Sabir è organizzato da Arci in collaborazione con A Buon diritto, Acli, Altreconomia, Arcs, Asgi, Caritas italiana, Carta di Roma, Cgil, Ucca, Unire. Tra le novità di questa edizione c’è la collaborazione con il Festival delle Letterature Migranti e la 56° sessione del Tribunale permanente dei Popoli, che si terranno in concomitanza con il Festival Sabir, sempre negli spazi dei Cantieri Culturali alla Zisa. Numerosi gli appuntamenti dedicati alla riflessione e al confronto culturale, dalle Lezioni mediterranee, curate da Alessandro Vanoli, che dialogherà con Francesca Anichini e Renata Pepicelli per proporre approfondimenti su storia, archeologia e attualità delle migrazioni, al dialogo tra Christian Raimo e Mackda Ghebremariam Tesfau su scuola, democrazia e cittadinanza. Ogni sera il Festival proporrà spettacoli e concerti dedicati al dialogo tra culture, tra questi ricordiamo Flo - Brave ragazze (giovedì 23), Alfio Antico + Go Dugong (venerdì 24), Murubutu live con band e TÄRA (sabato 25) e la performance del Palestinian Circus e a P.O.V. - Point of View del progetto Amunì (sabato 25). Le mostre e installazioni realizzate in collaborazione con Ecomuseo Mare Memoria Viva e Cantieri Meticci completeranno il percorso artistico del Festival. Anche in questa edizione torna Sabir Teens, il programma dedicato ai ragazzi dai 15 ai 20 anni, con laboratori e incontri sui temi della salute mentale, dell’ambiente e del benessere collettivo. Uno spazio di ascolto e partecipazione per le nuove generazioni del Mediterraneo. Qui il programma completo: https://www.festivalsabir.it/ Democrazia, gli errori a sinistra di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 24 ottobre 2025 Le nuove sfide per il mondo progressista. Quale strada percorrere? Dalla scelta dipendono l’identità e il programma È importante puntare su proposte concrete e accettare la pluralità. Dopo l’accostamento fatto da Elly Schlein tra l’attentato a Sigfrido Ranucci e l’”estrema destra” al governo, con conseguente proclamazione della “democrazia a rischio”, è forse giunto il momento che la sinistra italiana, i suoi politici e i suoi elettori, i suoi intellettuali e i suoi giornalisti, decidano una buona volta in che Paese pensano di abitare. Se nell’Italia reale - e cioè in un Paese mediamente democratico, mediamente amante della pace; mediamente maschilista (ma pure femminista); mediamente interessato all’eguaglianza ma attaccato alle diseguaglianze che ci fanno comodo; in un Paese con un diffuso tasso di evasione fiscale e d’inosservanza delle regole (peraltro distribuito in egual misura tra i cittadini di destra e di sinistra) - oppure in un altro Paese, in un’altra Italia. Cioè nell’Italia dei loro discorsi di oppositori duri e puri: un’infelice contrada dove per l’appunto la democrazia è a rischio, dove ai più, dunque, non importerebbe nulla della libertà, di pensare, dire, scrivere, leggere o vedere quello che gli pare, non interesserebbe molto continuare a votare per il partito che vogliono, o se invece preferiscono essere spiati e intercettati dal potere, essere governati da un governo di potenziali oppressori o di politici mediamente democratici. È importante per la sinistra decidere in quale Paese vive, decidere che cosa è l’Italia di oggi. Infatti dalla risposta dipende una questione cruciale: la sua identità politica stessa, e di conseguenza anche la sua offerta elettorale. Dipende cioè se la sinistra si considera essenzialmente come la sola speranza rimasta della democrazia italiana, come il fulcro del nuovo necessario Cln all’insegna di una “nuova Resistenza”, o se invece, più modestamente (realisticamente?) essa pensa di doversi dotare di un programma elettorale, diciamo così normale. Un programma, per capirci, tipo quale politica estera adottare e con quali alleanze, chi tassare e quanto, quali investimenti pubblici promuovere, cosa fare riguardo all’immigrazione o alla sicurezza e altre questioncelle del genere. E con tale programma invece di rischiare di andare a via Tasso andare alle urne. È opportuno farsene una ragione: la democrazia obbliga tutti a una cosa sgradevolissima. Ad accettare l’idea che esistono gli “altri”, i quali hanno quasi sempre il vizio di non pensarla come noi senza che ci sia verso di fargli cambiare idea. E per giunta non la pensano come noi anche se nessuno li obbliga, e magari non ci guadagnano niente. Eppure è così. Ma non è frutto della reazione alle porte: è il carattere misteriosamente multiforme dell’umanità. Sicché se si vuole arrivare a prendere tutti insieme una decisione non c’è che un’alternativa: o la guerra civile o contarsi. Cioè la democrazia: accettare l’esistenza degli altri e delle loro idee sperando, se si perde, nel prossimo giro e cercando di esserci con idee e proposte più convincenti di quelle dell’avversario. È precisamente quest’idea competitiva della democrazia, di una gara dove i valori e i programmi più diversi sono tutti eguali ai nastri di partenza - nel senso che ciascuno ovviamente pensa che i propri siano i migliori ma in realtà non esiste alcuna misurazione oggettiva che possa comprovarlo - è questa idea che la sinistra ha difficoltà ad accettare. Perché essa è convinta che, a differenza di quelli dei suoi concorrenti, i propri valori, le proprie proposte, solo essi sono dalla parte del giusto. Per una ragione che spazza via ogni dubbio: perché sono eticamente superiori, aspirano al bene, sono espressione del bene contro il male, come del resto essa stessa ama pensare di essere. Mentre agli avversari, si capisce, è riservata in ogni caso la sgradevole parte di rappresentanti del male. L’eticizzazione della politica, la tendenza della sinistra a concepire la politica come lotta tra il bene e il male, è un’eredità della sua convinzione - mille volte smentita dai fatti ma che importa? - di essere dalla parte della storia, di marciare all’unisono coi tempi, di essere la rappresentante per antonomasia del progresso (ciò che ha anche il vantaggio di lasciare agli avversari lo scomodo ruolo di rappresentare, altrettanto per antonomasia, il regresso, la reazione, il buio delle tenebre contro il sol dell’avvenire). Ma l’eticizzazione della politica se può servire benissimo quando si arriva agli estremi, quando il male c’è veramente e perciò serve commuovere le folle per portarle sulle barricate, quando invece si vivacchia nel tran tran democratico, come noi più o meno vivacchiamo, allora sortisce un solo effetto: di ridurre la politica a declamazione. Cioè di mettere il dire al posto del fare, la retorica al posto del ragionamento, le parole vuote al posto delle proposte concrete. Ma la retorica e il grido non hanno mai aperto la via del successo a nessuno. Sono una droga che molto spesso uccide. Tra accuse e “difese” ecco la verità (certificata) sulla libertà di stampa di Emilio Minervini Il Dubbio, 24 ottobre 2025 Qual è lo stato di salute della libertà di stampa in Italia? Secondo Schlein pessimo. Almeno in base a quanto dichiarato dalla segretaria del Partito Democratico lo scorso 18 ottobre al congresso del Partito Socialista Europeo ad Amsterdam. “La democrazia è a rischio, la libertà di stampa è a rischio quando l’estrema destra è al governo - ha detto Schlein, che ha espresso - solidarietà a uno dei più famosi giornalisti d’inchiesta del mio Paese, Sigfrido Ranucci, perché ieri c’è stata una bomba davanti a casa sua”. Lo scorso 16 ottobre un ordigno composto da un chilo di tritolo è stato fatto deflagrare di fronte all’abitazione di Pomezia del direttore della trasmissione Report, distruggendo la sua auto e danneggiando pesantemente quella della figlia. Pronta è arrivata la replica della presidente del Consiglio Meloni con un post su X in cui ha redarguito la leader Dem: “Vergogna Schlein, diffondi falsità in giro per il mondo”. Meloni nel corso del suo intervento alla Camera di mercoledì è tornata sulle dichiarazioni fatte da Schlein. “Il segretario del principale partito di opposizione ha affermato in un contesto internazionale che in Italia è a rischio la libertà e la democrazia perché governa l’estrema destra e ha subdolamente collegato queste affermazioni all’attentato subito dal giornalista Sigfrido Ranucci”. Nell’ordinamento italiano la libertà di stampa è tutelata dall’articolo 21 della Costituzione, per il quale è prevista la riserva di legge e riserva di giurisdizione, in cui si stabilisce che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21 co. 1) e che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure” (art. 21 co. 2) e nei successivi quattro commi vengono indicati i casi legittimi di limitazione o divieto d’esercizio della libertà in oggetto. Manca, ad oggi, il recepimento nell’ordinamento italiano della Direttiva Ue 2024/ 1069, la cosiddetta Direttiva SLAPP. Uno strumento utile a capire quale sia il livello di libertà di stampa in Italia, e non solo, è il World Press Freedom Index, indice creato dalla Ong parigina Reporters sans frontiers nel 2002 che monitora la libertà di stampa in 180 Paesi in tutto il mondo, attribuendo a ciascun Paeseun punteggio da 0 a 100, per fare un esempio la Norvegia occupa il primo posto con 92.31 punti mentre al fondo della classifica si trova l’Eritrea a quota 11.32. Il calcolo del punteggio si basa sul monitoraggio effettuato dalla stessa RSF e su un questionario, composto da 87 domande, che ogni anno (in primavera) viene inviato ai corrispondenti del RSF, giornalisti, ricercatori, esperti legali e attivisti dei diritti umani, che comprende domande su: pluralismo; ambiente, indipendenza e autocensura dei media, cornice normativa, trasparenza e infrastrutture. In base ai risultati dei questionari ad ogni Paese viene assegnata una categoria tra: situazione buona, situazione soddisfacente, situazione problematica, situazione difficile, situazione molto seria. L’indice riguarda unicamente la libertà di stampa e non misura né la qualità del giornalismo né la violazione dei diritti umani in generale. In questa classifica l’Italia si posiziona al 49’ posto nel 2025 con un punteggio di 68.01 (per dare un’idea gli Stati Uniti sono al 55’ con 65.48) perdendo tre posizioni rispetto all’anno precedente. Dall’insediamento del governo Meloni l’italia ha scalato 9 posizioni, passando dal 58’ posto nel 2022 all’attuale 49’. Nonostante il buon risultato la scheda Paese redatta da RSF indica diverse criticità legate alla libertà di stampa nello stivale, come ad esempio il caso Paragon in cui i cellulari del direttore e di un giornalista di FanPage sono stati infettati dal software di sorveglianza Graphite. “La libertà di stampa in Italia continua ad essere minacciata dalle organizzazioni mafiose, in particolare nel sud del Paese, come anche da parte di vari, piccoli gruppi di estremisti - si legge nella scheda sul sito del WPSI - I giornalisti denunciano anche tentativi messi in atto dai politici di limitare la loro libertà di coprire casi giudiziari tramite l’introduzione della “legge bavaglio” oltre all’utilizzo di azioni legali tese a bloccare la partecipazione pubblica (le cosiddette SLAPP ndr)”. RSF segnala che a livello economico i media italiani sono sempre più dipendenti dagli introiti pubblicitari e dal finanziamento pubblico, fenomeno causato dalla diminuzione graduale di copie vendute e traffico sui siti, il cui “risultato è una crescente precarietà che mina pericolosamente il dinamismo e l’autonomia del giornalismo”. Rispetto al quadro normativo invece viene registrato “un certo grado di paralisi legislativa che frena l’adozione di disegni di legge proposti per tutelare e migliorare la libertà di stampa”, come “le numerose procedure SLAPP” che “limitano la libertà giornalistica”. Nel bienno 2022/ 2023 “il numero più elevato di casi è stato registrato in Italia, con il 25,5% dei casi totali” secondo quanto rilevato dallo studio “Casi SLAPP aperti nel 2022 e 2023”, richiesto dalla Commissione Ue sull’incidenza delle azioni legali strategiche nell’Unione. A febbraio del 2024 il Parlamento europeo ha approvato con 546 voti favorevoli, 47 contrari e 31 astensioni la Direttiva Ue 2024/ 1069 il cui obiettivo è garantire la protezione dell’Unione contro le cause legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica di persone fisiche e organizzazioni che lavorano su temi di interesse pubblico quali i diritti fondamentali, le accuse di corruzione, la protezione della democrazia o la lotta alla disinformazione. Sul tema è intervenuto il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Bertoli, durante l’audizione del 24 settembre scorso presso la XIV Commissione Affari Europei sulla legge di delegazione europea di recepimento delle Direttive emesse dall’Unione. Bertoli ha evidenziato che nella proposta di legge manca la Direttiva 2024/ 1069. “Riteniamo importante che tale Direttiva venga recepita con una norma specifica e non nell’ambito di una legge più vasta. Essa, infatti, disegna un quadro di principia tutela della libertà di espressione e dell’autonomia e l’indipendenza dei giornalisti, con un particolare riferimento a quelli investigativi. L’ambito di applicabilità delle norme operative riguarda, tuttvia, le azioni giudiziarie intimidatorie su temi transfrontalieri e/ o da stati extra Ue. Nell’occasione, riteniamo indispensabile estendere le stesse tutele anche all’ambito nazionale”. Associazioni, reti e Ong: “Il 25 ottobre in piazza contro il riarmo e per la giustizia sociale” di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 24 ottobre 2025 Lunga la lista delle sigle del terzo settore che parteciperanno alla manifestazione promossa dalla Cgil a Roma. “Meno spese militari, più risorse a welfare, lavoro, scuola e sanità”. Lunga la lista delle associazioni che aderiscono alla manifestazione nazionale indetta dalla Cgil per il 25 ottobre a Roma sotto lo slogan Democrazia al lavoro. “Per aumentare salari e pensioni, Per dire No al riarmo, Per investire su sanità e scuola, Per dire No alla precarietà, Per una vera riforma fiscale” sono i temi che il sindacato porta in piazza e che sono sottoscritti dagli aderenti, ognuno anche con le proprie peculiari motivazioni. Bastano pochi esempi per comprendere quanti siano i motivi che spingono alla mobilitazione. Anpi: “Democrazia in pericolo” - L’Associazione nazionale partigiani italiani parla, nelle sue motivazioni all’adesione, della “crisi sociale, attestata dalla esplosione delle diseguaglianze. C’è una deriva bellicista, comune all’intera Ue. C’è una crisi della democrazia, sul piano inclinato di una sempre maggiore propensione di comportamenti, decisioni e leggi autoritarie”. Quindi l’Anpi, ribadendo “la natura antifascista della Repubblica e la necessità di difendere e finalmente attuare in modo pieno i principi costituzionali” appoggia la manifestazione per “invertire la pesante tendenza in atto, puntando sulla crescita della partecipazione popolare e dando una speranza di futuro al Paese”. Stop Riarm Europe: “No all’economia di guerra” - La Campagna europea, che riunisce oltre 500 organizzazioni politiche e sociali tra le quai la Campagna Sbilanciamoci, Arci e Fondazione Perugia Assisi, fa sapere che sarà in piazza con la Cgil “contro il ricatto del riarmo”, “per dire no all’economia di guerra, alimentata nella legge di bilancio con 23 miliardi di spese militari in più nei prossimi 3 anni, e che, in base al Piano di riarmo Ue da 6.800 miliardi entro il 2035, lieviteranno in l’Italia fino a circa 960 miliardi nei prossimi 10 anni”. Stop Riarm Europe ricorda come tali “risorse preziose saranno sottratte allo stato sociale e indirizzeranno le politiche economiche e industriali del nostro Paese verso una conversione bellica, continuando inoltre a finanziare il genocidio e l’apartheid in Palestina tramite la vendita e l’acquisto di tecnologia militare da Israele”. “Invitiamo tutte e tutti a partecipare per dire no al ricatto del riarmo affinché nessuno sia costretto a scegliere tra il diritto al lavoro e la giustizia sociale e ambientale - concludono -. Un tranello simile a quello già sperimentato con la contrapposizione tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro e di cui abbiamo visto le drammatiche conseguenze”. Greenpeace: “Contrastiamo la crisi climatica” - Anche l’associazione non governativa Greenpeace che si batte per proteggere l’ambiente motiva la sua adesione alla manifestazione affermando che “nei documenti di bilancio del Consiglio dei ministri il governo Meloni prevede un aumento notevole delle spese militari nei prossimi anni, in linea con le richieste di Trump e della Nato, ma più armi non significa più sicurezza”. Greenpeace chiede al governo “di lavorare per la pace, di fermare la corsa al riarmo e di investire in diritti, scuola, sanità e contrasto alla crisi climatica”. Forum disuguaglianze diversità: “Basta bonus” - Il Forum fondato sette anni fa, tra gli altri, dall’ex ministro Fabrizio Barca, si rivolge invece al governo anche per sottolineare altre storture, legate alle proprie tematiche, affermando che l’esecutivo “non può continuare a pensare che erogare bonus monetari, peraltro simbolici e categoriali, sia un modo per affrontare il problema delle disuguaglianze sociali nel nostro Paese. Una prassi che viene mantenuta nella totale sottovalutazione dell’entità delle crescenti disuguaglianze e del progressivo impoverimento, e della necessità di non trascurare un’adeguata infrastruttura di servizi sociali”. È per questo che il Forum disuguaglianze e diversità ha deciso di aderire alla manifestazione del 25 ottobre a Roma insieme ad altre decine di associazioni, reti, organizzazioni non governative e di cittadini per dire “no al riarmo e sì alla giustizia sociale”. Tutte le adesioni - Questa è la lista delle associazioni che hanno annunciato la partecipazione/adesione: Anpi, Arci, Sbilanciamoci, Forum Disuguaglianze Diversità, Rete dei Numeri Pari, Libertà e Giustizia, Libera contro le mafie, Global Movement to Gaza, UDU, Rete Studenti Medi, Rete della Conoscenza, Link, coordinamento universitario, Unione degli Studenti, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Auser, Sunia, Federconsumatori, Coordinamento Democrazia Costituzionale, Greenpeace, Rete No Bavaglio, Rete Italiana Pace e Disarmo, Campagna Stop Rearm Europe, Asc - Associazione scenografi italiani, 100 autori Associazione dell’autorialità Cinetelevisiva, Anac Associazione nazionale autori cinematografici, AMC, Associazione Montatori Cinematografici, A.N.T.E.Pa.C Associazione nazionale truccatori e parrucchieri cineaudiovisivo, AFS Associazione nazionale autori della fotografia di scena, Asc, associazione scenografi, costumisti ed arredatori, Associazione socialisti in movimento Stallo sull’iter del fine vita, opposizioni all’attacco: “La destra fa ostruzionismo” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 24 ottobre 2025 Lo sprint mormorato per settimane non c’è stato. Al contrario, la legge della maggioranza sul fine vita si arena di nuovo al Senato. I lavori riprenderanno verosimilmente dopo il via libera della Manovra, e comunque non prima che la Corte Costituzionale si pronunci sulla legge regionale della Toscana impugnata dal governo. A comunicare il rinvio è stato il meloniano Francesco Zaffini, presidente della commissione Affari sociali, che ieri ha certificato lo stallo nel corso della seduta delle commissioni riunione Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama: senza i pareri della commissione Bilancio sul testo base e sulle proposte di modifica - ha spiegato il senatore FdI - “non posso procedere” all’esame degli emendamenti. “Ho anche inviato una lettera sollecitando il parere” al presidente della quinta Commissione Nicola Calandrini (FdI), ha sottolineato Zaffini, ma il vero nodo è al Mef, che “in questo periodo è stato impegnato sulla legge di Bilancio”. L’impedimento sarebbe dunque tecnico, dal momento che il ddl sulla morte medicalmente assistita firmato da Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Ignazio Zullo (FdI) prevede un impegno di spesa. Ma per le opposizioni si tratta soltanto di scuse: il centrodestra, ragiona il Pd, rallenta i lavori perché non riesce a sciogliere i troppi nodi irrisolti. A cominciare dal ruolo del Servizio sanitario nazionale, che Fratelli d’Italia vuole escludere del tutto dai percorsi di fine vita per ciò che riguarda la strumentazione, le prestazioni del personale sanitario e l’erogazione del farmaco letale. “L’ostruzionismo della maggioranza sul fine vita trova infinite vie. Ora ci si nasconde dietro l’assenza di un parere della commissione Bilancio per procrastinare la discussione sine die. Uno stallo umiliante del parlamento, ostaggio di una maggioranza incapace, divisa, e pertanto inadeguata ad affrontare in modo serio ed equilibrato un tema così sentito dall’opinione pubblica”, è l’attacco lanciato dai senatori dem Alfredo Bazoli e Sandra Zampa. Dello stesso parere la senatrice di Avs Ilaria Cucchi, che ha menzionato anche le discussioni relative al Centro di coordinamento nazionale dei Comitati etici territoriali, di cui si è discusso anche nelle audizioni della scorsa settimana con il presidente Carlo Maria Petrini. “La destra se ne deve fare una ragione, l’unico soggetto istituzionale e pubblico in grado di garantire lo stesso trattamento, la dignità dei malati e che non ci siano differenze legate alle possibilità economiche dei singoli è il Servizio sanitario nazionale. Qui gli unici che devono fare dei passi in avanti sono i senatori della destra”, ha detto Cucchi. Mentre Zaffini ha definito l’atteggiamento delle opposizioni “poco condivisibile”, perché mosso da convinzioni “prettamente ideologiche”. E ciò nonostante la maggioranza, a parere del presidente della Commissione, abbia “stravolto” le proprie posizioni per “assecondare” le richieste della minoranza. Il dialogo, insomma, al momento gode di ottima salute. E i relatori respingono al mittente le accuse: da parte del centrodestra non c’è alcun ostruzionismo, né ci sono divergenze tra gli alleati. Ma considerando che “la commissione Bilancio è intasata di responsabilità per quanto riguarda la legge di Bilancio - ha spiegato Zanettin credo sia irrealistico che si possa votare il provvedimento prima dell’udienza dei primi di novembre della Corte” sul caso della Toscana. Che stabilirà se la materia è di competenza dello Stato o delle Regioni, che con il via libera della Consulta potrebbero seguire a ruota il modello già scelto anche dalla Sardegna. Migranti. Processo per la morte di Moussa Balde: il Cpr di Torino come “uno zoo” di Rita Rapisardi Il Manifesto, 24 ottobre 2025 Il processo per la morte di Moussa Balde prosegue e a rafforzare il quadro che sta uscendo dalle testimonianze (tra cui quella rilasciata da Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà dell’epoca, che ha definito il Cpr di Torino un “vecchio zoo”) arriva il Consiglio di Stato. Il processo per la morte di Moussa Balde prosegue e a rafforzare il quadro che sta uscendo dalle testimonianze (tra cui quella rilasciata da Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà dell’epoca, che ha definito il Cpr di Torino un “vecchio zoo”) arriva la sentenza del Consiglio di Stato. Moussa Balde finisce in detenzione amministrativa a maggio 2021, nella notte tra il 22 e il 23 si uccide impiccandosi, all’interno di quello che veniva chiamato “ospedaletto”, formato da dodici piccole celle, delle “gabbie pollaio” le definì all’epoca Palma che nel 2018 produsse una relazione in cui chiedeva la chiusura del centro, e che ora davanti al giudice descrive quella torinese come “la peggiore situazione d’Europa”. Moussa non doveva neppure finire in quel Cpr, denuncia la famiglia: l’uomo era stato infatti brutalmente aggredito mentre faceva l’elemosina a Ventimiglia da tre italiani per motivi razziali, e poi isolato nelle cellette, senza possibilità di comunicare all’esterno. Nel processo sono imputati di omicidio colposo Annalisa Spataro e l’ex dirigente medico del centro, Fulvio Pitanti, per la mancata sorveglianza sanitaria. In queste settimane di processo è emersa l’assenza totale di regolamentazione: tutto all’interno del centro di corso Brunelleschi era lasciato al caso e alla discrezionalità di chi si trovava in quel momento. I Cpr in Italia sono appaltati a società private che vincono gli appalti alla migliore offerta, tagliando su ogni tipo di servizi e sul personale, anche sanitario, che c’è all’interno. Le risorse disposte dal capitolato del ministero dell’Interno non sono sufficienti a coprire i costi, quello stesso capitolato che indica le disposizioni da seguire nella gestione dei centri e che come conferma la sentenza del Consiglio di Stato, è totalmente carente dal punto di vista sanitario e di tutela della vita. La sentenza che il Consiglio di Stato ha emanato il 7 ottobre evidenzia l’inadeguatezza di questi centri di detenzione amministrativa per stranieri senza documenti, e annulla lo schema di capitolato d’appalto utilizzato per la loro gestione. Asgi e Cittadinanzattiva hanno impugnato il decreto del ministero dell’Interno che è alla base dell’esistenza di tutti i Cpr e che li organizza al loro interno, evidenziando come in quel documento manchino degli standard minimi in tema di sanità e prevenzione dei suicidi. “Non è richiesta una formazione specifica per i medici, c’è poco personale, e mancano procedure operative per il personale sanitario, ad esempio nei casi di tentato suicidio - spiega l’avvocata Ginevra Maccarone, che si occupata, tra gli altri, del ricorso -. Abbiamo contestato il capitolato che è quello su cui poi i privati gestiscono i centri, rilevando il fatto che è estremamente generico su salute e tutela della vita”. In primo grado il Tar del Lazio aveva sostenuto il documento ministeriale, senza però entrare a fondo della questione. “L’ordinamento penitenziario è invece molto specifico. Ad esempio mentre per i tentativi di suicidio esistono procedure per evitare che si verifichino decessi, nei Cpr non è previsto niente”, spiega Maccarone, facendo anche riferimento all’uso indiscriminato di farmaci, somministrati senza regolamenti e controlli sanitari minimi. “È necessario imporre degli standard soprattutto agli operatori privati che tentano di massimizzare i profitti”. Nei Cpr ogni aspetto della vita delle persone è appaltato ai privati che vincono le gare dal valore di milioni di euro. Anche la sanità, tema della sentenza, che nelle carceri spetta al Sistema sanitario nazionale, nei Cpr è in mano ai privati che agiscono secondo la regola del risparmio, non avendo neppure il ministero che offre loro un rigido regolamento entro il quale rientrare. Su questi temi a dicembre 2024 era arrivato anche un rapporto del Comitato di prevenzione alla tortura del Consiglio d’Europa (citato dal Consiglio di Stato) che analizzava i centri di Milano, Gradisca, Potenza e Roma. Il quadro che l’organizzazione per i diritti umani aveva tracciato non lasciava dubbi: il Cpt aveva riscontrato diversi casi di maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza da parte del personale di polizia, senza che questi abusi venissero poi registrati e ci fosse una valutazione. Migranti. “Io, sopravvissuto, vi dico che quel memorandum porta solo morte” di Ibrahima Lo Avvenire, 24 ottobre 2025 La lettera-denuncia di Ibrahima Lo, studente e attivista, che si è salvato dalle atrocità dei lager libici. “L’accordo Roma-Tripoli è contro la dignità delle persone, chiedo all’Italia di non collaborare più a questa catena di violenza”. Caro direttore, sono Ibrahima Lo, un giovane di ventisei anni, originario del Senegal e residente in Italia da un decennio. Con questa lettera ad “Avvenire”, rivolgo un appello alle Autorità italiane in qualità di cittadino residente, scrittore e attivista, ma soprattutto come testimone diretto di una crisi umanitaria che interpella l’etica e i valori fondanti della nostra Repubblica. È in nome dei valori di umanità e responsabilità che ritengo doveroso rivolgermi a Voi, quali organi decisionali e morali della Repubblica, affinché le mie riflessioni sul concetto di dignità umana e sul futuro della nostra Nazione possano trovare ascolto e considerazione, nella speranza di individuare insieme ipotesi operative che portino beneficio a tutti coloro che vivono in questo Paese. La questione che mi sta più a cuore è il Memorandum d’Intesa Italia-Libia. Sono sopravvissuto alle atrocità che si consumano quotidianamente all’interno dei cosiddetti “lager libici”. Porto nel mio vissuto, nella memoria e sul corpo i segni indelebili di quella violenza, ferite che il tempo non potrà mai cancellare completamente. Negli anni, ho preso la ferma decisione di trasformare questi segni in un messaggio di speranza, un monito affinché il cuore di ogni cittadino non si rassegni all’indifferenza. Da questa profonda necessità è scaturita la mia attività di scrittore, e il mio primo libro, intitolato eloquentemente Pane e Acqua, ne è la prima, lacerante testimonianza. Nonostante la notorietà degli orrori in Libia, si osserva con profonda inquietudine come l’Italia continui a cooperare in questa catena di violenza, inviando motovedette a criminali libici che ogni giorno intercettano e imprigionano persone. Si continua inoltre a sostenere chi in mare ostacola le navi della Civil Fleet - come le recenti aggressioni subite da Mediterranea Saving Humans e Sos Méditerranée - il cui unico crimine è quello di salvare vite in pericolo nel Mar Mediterraneo. È imperativo, Onorevoli Istituzioni, riconoscere che nel Mare Nostrum si sta consumando una guerra. Non si tratta di un conflitto in cui risuona l’eco delle bombe o si vedono carri armati, ma di una guerra silenziosa e di sterminio, dove le vittime sepolte sotto il livello del mare possono comporre interi cimiteri. Pur mantenendo una distanza fisica, ogni giorno bambini, donne e uomini urlano chiedendo aiuto prima di annegare, ma queste urla restano inascoltate. Ho vissuto l’orrore di questa condizione quando avevo sedici anni, a bordo di un gommone insieme ad altre centodiciannove persone. La Libia è un luogo dove la violenza è sistematica, dove le donne vengono stuprate quotidianamente, dove regnano paura e disperazione. Il mio secondo libro, La mia voce, raccoglie storie che narrano la cruda realtà di queste esperienze. L’Italia, mantenendo questo accordo, si trova in una posizione di potenziale complicità: si continua a finanziare, accogliere e collaborare con criminali che perpetuano la cattura di persone nel mare e nel deserto, le rinchiudono nei lager e le uccidono fisicamente e psicologicamente, trattando la vita umana non come un bene sacro, ma come un “gioco”. In Libia non esistono né democrazia, né sicurezza, né libertà; esiste solo una violenza disumana. Ne sono testimoni le cicatrici sul mio corpo, che continuano a “sanguinare” non solo per il trauma personale, ma perché mi ricordano costantemente le persone assassinate davanti ai miei occhi, la violenza inaudita inflitta nei lager libici a uomini, donne e bambini. Le mie cicatrici portano con sé i loro nomi. È una responsabilità che dobbiamo onorare, operando affinché quelle voci soffocate possano, un giorno, cantare tra i banchi di scuola o divenire nuove, preziose risorse per un Paese come il nostro, che ha sempre saputo onorare l’accoglienza. Il Memorandum, Onorevoli Rappresentanti, non risolve il problema dell’immigrazione, ma uccide l’umanità, generando solo più morti nel Mediterraneo e lasciando ferite che non guariranno mai. Ringraziando per la Vostra cortese attenzione e per la considerazione che vorrete riservare a queste mie parole, porgo i miei più sentiti e cordiali saluti. Il fallimento dell’Onu e l’alternativa possibile di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 24 ottobre 2025 Ottanta anni fa, il 24 ottobre 1945, all’indomani delle due spaventose guerre mondiali, è entrata in vigore la Carta dell’Onu, con la sua promessa di pace. Una promessa non mantenuta, dato che l’Onu non è riuscita a impedire nessuna delle tante guerre che in questi otto decenni hanno insanguinato l’umanità. Il suo lento logoramento, fino all’odierno fallimento, si è aggravato con la fine della guerra fredda. Con il crollo del muro di Berlino e con l’implosione dell’Urss avrebbe potuto aprirsi un’era di pace. Venuto meno il “nemico” con la fine del comunismo sovietico, non avevano più senso le alleanze militari, inclusa la Nato, che avrebbe potuto sciogliersi, unitamente allo scioglimento, se l’avesse proposto la superpotenza Usa allora incontrastata, di tutti gli eserciti nazionali. Si sarebbe attuato l’auspicio formulato da Emanuele Kant nel 1795, e l’Onu avrebbe potuto rifondarsi come una Federazione mondiale basata sulla pace e sull’uguaglianza dei popoli e delle persone. È invece accaduto esattamente il contrario. L’Occidente ha vissuto l’89 come una vittoria e come una sconfitta del suo nemico storico. Ma non è riuscito a rimanere privo del nemico. È andato perciò alla ricerca di nuovi nemici, primo tra tutti il terrorismo, in grado di sorreggere la sua corsa a sempre nuovi armamenti, la sua concezione unilaterale delle relazioni internazionali, il suo suprematismo rispetto alle periferie povere del mondo. Il diritto internazionale è stato frattanto da più parti sistematicamente violato. Oggi prevalgono apertamente la legge del più forte, la logica del nemico e il disprezzo per il diritto. Basti pensare all’intera vicenda palestinese e alle parole sprezzanti nei confronti dell’Onu e del suo segretario Guterres pronunciate da Trump e da Netanyahu. Siamo in presenza, in breve, di un fallimento del ruolo di garanzia del diritto, nell’ordinamento internazionale, ma anche all’interno delle nostre democrazie. Si tratta di un terribile paradosso. Nel momento in cui le catastrofi e le sfide globali - il mondo in guerra, i pericoli di un conflitto atomico, il riscaldamento climatico, la crescita delle disuguaglianze e il dramma dei migranti - richiederebbero un aumento del ruolo del diritto quale sistema di limiti imposti ai poteri selvaggi degli Stati e dei mercati, si è prodotto il fenomeno diametralmente opposto: una tendenziale involuzione autocratica dei sistemi politici; la loro sostanziale subordinazione ai poteri economici e finanziari globali, sempre più identificati con pochi multi-miliardari; il sostanziale negazionismo delle emergenze globali da parte di questi nuovi padroni del mondo e, insieme, il crollo, fin quasi alla scomparsa, del ruolo delle Nazioni Unite. Nel convegno sulla crisi dell’Onu che si svolgerà oggi a Roma, in via Panisperna 207, abbiamo opposto a questa crisi la possibilità di un’alternativa. Il fallimento dell’Onu ha mostrato i limiti della carta del 1945 e dalle tante carte internazionali dei diritti umani. Quelle carte sono fallite - e non potevano non fallire - per due ragioni. La prima è stata la loro mancanza della forza vincolante che è propria delle odierne costituzioni avanzate, cioè di una loro rigida sopraordinazione alle fonti statali, e la conseguente impunità delle loro violazioni sistematiche. La seconda è stata la mancata previsione di adeguate garanzie e istituzioni di garanzia dei diritti di libertà e dei diritti sociali in esse proclamati. I principi della pace e dell’uguaglianza e i diritti fondamentali stipulati in tante carte internazionali sono perciò rimasti, letteralmente, sulla carta. L’alternativa consiste chiaramente nel superamento di questi due limiti. È un’alternativa radicale: il pericolo nucleare, l’inabitabilità della Terra tra crescenti e atroci sofferenze e il caos globale, oppure la rifondazione della carta dell’Onu e delle altre carte internazionali che introduca, come nel nostro progetto di una Costituzione della Terra, rigide garanzie dei principi in esse stabiliti. Queste garanzie sono tutte vitali: la previsione come crimini contro l’umanità della produzione e del commercio di tutte le armi, non solo di quelle nucleari ma di tutte le armi da fuoco, a tutela della pace e della sicurezza; un demanio planetario che sottragga al mercato e alla dissipazione i beni vitali della natura, come l’acqua potabile, le grandi foreste e i grandi ghiacciai; la trasformazione dell’Oms, dell’Unesco e della Fao in istituzioni in grado di garantire a tutti salute, istruzione e alimentazione di base; la garanzia del diritto di tutti gli esseri umani di circolare liberamente sulla terra; un fisco globale progressivo in grado di finanziare le istituzioni globali di garanzia e di impedire le odierne accumulazioni sterminate di ricchezze. Non si tratta di un’ipotesi utopistica. Si tratta della sola risposta razionale e realistica allo stesso dilemma che fu affrontato quasi quattro secoli fa da Thomas Hobbes, quando l’umanità non era dotata delle capacità di autodistruzione odierne. Neppure si tratterebbe di un ordinamento nuovo. Sarebbe l’attuazione di principi e diritti già scritti nelle carte internazionali vigenti: un’attuazione non solo giuridicamente dovuta, ma anche necessaria ed urgente, dato che da essa dipende, per la prima volta nella storia, la sopravvivenza dell’umanità. Noi, nella ruota del criceto, e la guerra che non finisce di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 24 ottobre 2025 A Gaza non c’è ancora la pace, mentre in Italia continua una zuffa politica con accuse e contraccuse che non offre alcun contributo e diventa una paradossale comfort zone ideologica alla quale rischiamo di abituarci. “The war is over”. La guerra è finita, ma non esattamente. Non a Gaza, dove Hamas - a colpi di kalashnikov ed esecuzioni sommarie degli “oppositori” - sta riempiendo il vuoto lasciato tra le macerie dall’esercito di Israele. Non in Italia, dove accuse e contraccuse tra schieramenti opposti si inseguono lasciandoci in balìa di una ruota di verità alternative che non porta da nessuna parte. È un po’ quella “stasi iperaccelerata” o “inerzia polare” di cui parla, sul piano della riflessione filosofica, Mauro Bonazzi (a pagina 31). La sensazione è che la ruota dei famosi criceti sia diventata una paradossale comfort zone ideologica: sappiamo che non contribuiamo ad alcun cambiamento, continuando ad azzuffarci, ma non doverci spostare - non dover abbandonare la nostra gabbietta - ci regala un sollievo inconfessato. Magari resta, sì, un residuo di cattiva coscienza: confidiamo però di abituarci, come si fa con il fischio costante dell’acufene. E così la guerra non finisce. Potremmo, nel disordine e nel dolore, tentare invece di salvare qualche frammento, pezzi sparsi, buoni per ricostruire. Parole che sono state pronunciate in questi giorni e che sono finite “missing in action”. Disperse sul campo di battaglia. Pierbattista Pizzaballa, cardinale, francescano, patriarca di Gerusalemme, ha chiesto una piccola cosa gigantesca. Che la tregua porti con sé, tra le falle di un accordo con troppi punti sospesi, l’inizio dell’anno scolastico per i bambini e le bambine di Gaza. Due anni sono stati bruciati dalla guerra, ma ora - ottobre 2025 - potrebbe essere il tempo giusto di una ripartenza. Via dalle strade polverose, dove li vediamo rincorrersi nei video che ci raccontano la Striscia, e dentro qualunque spazio che li protegga dalla mancanza di istruzione. Prima del 7 ottobre, data del pogrom che generò il conflitto, il sistema scolastico di Gaza (supportato dalle Nazioni Unite) era tra i più sviluppati della regione: garantiva ai 2,2 milioni di abitanti un tasso di analfabetismo bassissimo rispetto al mondo arabo (1,8 per cento nel 2022). Si contavano una dozzina di università o istituti di educazione superiore, di cui quattro a Gaza City. Ricominciare da lì - dai libri e dai computer, dalla ricostruzione fisica delle aule come dallo sviluppo di scuole digitali itineranti già avviate in questi mesi - significherebbe (anche) sottrarre braccia armate ai terrorismi futuri. In un fazzoletto di terra dove il 40% della popolazione ha meno di 14 anni e neppure il 3% raggiunge i 65. E ancora. Yair Lapid, capo dell’opposizione israeliana, l’unico leader che non sia entrato nella coalizione guidata da Benjamin Netanyahu, ha preso la parola alla Knesset (nel giorno della celebrazione di Trump, il 13 ottobre) e si è rivolto ai manifestanti proPal: non fatevi ingannare dalla propaganda, Hamas non è resistenza, bensì un’organizzazione di fanatici terroristi che non possono in alcun modo essere “condonati” se vi riconoscete nei valori liberali. Non giustificate i movimenti o i regimi integralisti in nome del progressismo: non sono soltanto un pericolo per la nostra sicurezza, rappresentano una minaccia morale e ideologica nelle vostre città. Possiamo scegliere il nostro angolo. E scendere dalla ruota delle parole inerti. Medio Oriente. Layan e i palestinesi in cella da anni senza accuse né processo di Nello Scavo Avvenire, 24 ottobre 2025 Fermata più volte per le attività studentesche, è finita nel “buco nero” delle prigionie indefinite. Più di tremila come lei. Layan ha 25 anni, gli ultimi due trascorsi in galera, senza accuse. Fino a una condanna a sette mesi, in un processo celebrato pochi giorni fa in sua assenza. È palestinese ed è cristiana. E come altri tremila non ha diritto di sapere quali prove ci siano contro di lei. Si chiama “detenzione amministrativa”, una prassi giudiziaria israeliana che consente di trattenere chiunque per un tempo indefinito. Come Layan Nasir, cristiana anglicana di Bir Zeit, a nord di Ramallah, bloccata nel 2023 poco dopo essersi laureata in Scienze della nutrizione. “È stata ingiustamente perseguitata per il suo pacifico e normale coinvolgimento nelle attività studentesche dell’Università di Bir Zeit”, hanno scritto i suoi genitori in una lettera inviata a papa Leone XIV. Non era il suo primo arresto. Il 7 luglio del 2021 era stata portata nella prigione di Ofer. Neanche in quella circostanza c’erano prove contro la ragazza, che venne interrogata perché partecipava alle attività di un blocco studentesco di sinistra. Layan, rivendicò il diritto di tacere e venne poi rilasciata, con la promessa che si sarebbero rivisti. Pochi giorni fa è stata nuovamente arrestata. In sua assenza è stato celebrato un processo di cui non si sa quasi nulla. Solo che è stata condannata a sette mesi perché il gruppo di studenti identificati nel 2021 è stato messo fuori legge da Israele, come la gran parte delle associazioni giovanili palestinesi. La pena avrebbe dovuto essere scontata da novembre, ma Laya Nasir è stata arrestata preventivamente. Nota per il suo impegno con la Ymca, l’associazione internazionale dei giovani cristiani fondata a Londra nel 1844, Nasir era stata catturata dopo il 7 ottobre 2023 dalle forze israeliane insieme ad altri coetanei neolaureati. Una serie di raid in risposta al massacro di Hamas, con cui però gli studenti detenuti anche secondo chi li accusa non hanno mai avuto a che fare. “Una persona viene trattenuta senza processo senza aver commesso alcun reato, con la motivazione che intende violare la legge in futuro”, spiegano da B’Tselem, il Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati. “Poiché questa misura ha natura preventiva, non ha limiti di tempo. La persona - chiariscono i legali di B’Tselem - viene detenuta senza alcun procedimento legale, sulla base di accuse che non le vengono rivelate”. I dati reali aggiornati nessuno li conosce. L’ultimo riferimento risale a dicembre 2024, quando il Servizio penitenziario israeliano (Ips) tratteneva 3.327 palestinesi in detenzione amministrativa. In Cisgiordania (esclusa Gerusalemme Est), la detenzione amministrativa è autorizzata dalle “Disposizioni di Sicurezza” israeliane contenute in una ordinanza che autorizza il comandante militare della Cisgiordania, o un altro comandante a cui sia stato delegato il potere di arresto, a sottoporre gli individui inizialmente a una detenzione amministrativa per un massimo di sei mesi consecutivi. Non servono accuse specifiche come il coinvolgimento a qualsiasi titolo in attività terroristiche. E il limite dei sei mesi è facilmente superabile. È sufficiente che il comando militare abbia “ragionevoli motivi” per ritenere anche in mancanza di prove che sia necessario “il mantenimento del detenuto in detenzione”, prorogando l’ordinanza di detenzione amministrativa per ulteriori sei mesi “di volta in volta”. In altre parole, “chi viene arrestato si trova di fronte ad accuse sconosciute senza possibilità di confutarle, senza sapere quando sarà rilasciato e senza essere incriminato, processato o condannato”, aggiunge B’Tselem. La detenzione di Layam Nasir, a lungo senza capi di imputazione, avrebbe potuto essere interrotta se lei e la famiglia avessero promesso di lasciare per sempre la Palestina. “Rimaniamo saldi nel nostro impegno verso questa terra, luogo di nascita della nostra fede - hanno scritto i genitori nella lettera inviata al pontefice -. Non emigreremo. Non ci faremo mettere a tacere. Siamo determinati a continuare a testimoniare Cristo proprio nel luogo in cui Lui ha camminato”. Mercoledì proprio a Bir Zeit una delegazione internazionale di una ventina di diplomatici si è recata a valutare lo stato delle violenze dei coloni israeliani. La delegazione è stata avvicinata da giovani israeliani armati che hanno cercato di allontanare i diplomatici, sotto gli occhi della polizia israeliana. Nessuno dei coloni armati è stato identificato né condotto al più vicino posto di polizia. Medio Oriente. Stampa e ong israeliane: “Tanti palestinesi detenuti torturati e maltrattati” di Lorenzo Santucci huffingtonpost.it, 24 ottobre 2025 Come conferma anche il Times of Israel, molti prigionieri catturati da Idf durante l’offensiva sono stati riconsegnati con evidenti segni di tortura e maltrattamento. Le prove in immagini molto aspre. Il ministro Ben Gvir ammette, e dice: “Ci vuole la pena di morte”. Omicidi, esecuzioni sommarie, torture sistematiche. È il resoconto offerto dai medici dell’ospedale Nasser di Khan Younis, dopo aver esaminato i corpi di alcuni prigionieri palestinesi rimpatriati da Israele. Su almeno 135 corpi erano evidenti “chiari segni di spari [esplosi] a distanza ravvicinata”, così come alcuni sono stati “schiacciati sotto i cingoli dei carri armati israeliani”. Il che rende ancor più difficile il loro riconoscimento. Nei sacchi in cui sono stati infilati non c’era alcun nome che permettesse l’identificazione della vittima: solo un codice. Dove siano state inflitte le torture non è dato sapere. Forse in carcere, a Gaza o durante l’attacco del 7 ottobre, quando, oltre ai miliziani di Hamas, anche molti civili gazawi hanno oltrepassato la barriera. Le immagini, viste anche da HuffPost, sono molto forti: uomini bendati agli occhi o al collo, con le mani legate dietro la schiena e i polsi incancreniti dalle manette, con evidenti ferite d’arma da fuoco alle gambe o al torace. Alcuni sono tornati a Gaza completamente nudi, altri con i pannolini. Tutti loro sembrano provenire dal carcere di Sde Teiman, nel deserto del Negev, un centro di detenzione tristemente noto per quanto accade al suo interno. A fare luce era stata un’inchiesta del Guardian, in cui si parlava di torture fisiche e psicologiche. I detenuti vengono ammassati in duecento dentro una gabbia, bendati e ammanettati, costretti a rimanere in piedi per ore o a sedersi sulle ginocchia. Alcuni di loro sono stati picchiati. Nell’altro spazio del carcere, l’ospedale, le persone vengono legate ai letti e private delle medicine di cui necessitano. La prova di tutto questo si ritrova sui corpi dei palestinesi restituiti. Secondo la prima fase dell’accordo, Israele ha dovuto riconsegnare 250 detenuti condannati e altri 1.700 arrestati dopo il 7 ottobre. Moltissimi di questi ultimi, scrive il Times of Israel, non sono accusati di alcun crimine, quindi non hanno subito alcun processo, ma sono stati tenuti in isolamento. Per il governo israeliano hanno qualche legame con il terrorismo; per i gruppi per i diritti umani e le agenzie dell’ONU sono stati presi per ottenere informazioni. In Israele, i prigionieri che si trovano in cella senza essere accusati di un reato sono almeno 2.700. Vengono trattenuti per sei mesi, spesso prorogati dopo udienze lampo di cinque o dieci minuti, durante le quali all’imputato non viene mostrata alcuna prova. In caso contrario, dovrebbero difendersi senza un avvocato, come accade nella maggioranza dei casi. La vita in carcere si svolge in isolamento, senza alcun contatto con il mondo esterno, neanche con i familiari. Dall’anno scorso, tuttavia, l’esercito israeliano ha approvato un piano per far entrare perlomeno gli avvocati, che prevede il passaggio intermedio attraverso alcune organizzazioni, come ad esempio Hamoked, che fornisce assistenza legale. Il problema è che la sua conoscenza al di fuori della Striscia è limitata, per cui solo una manciata di detenuti può beneficiarne. L’Idf fa muro di fronte alla richiesta di commentare quanto avviene nelle carceri. Ammette che ci sono indagini in corso per fare chiarezza, ma è difficile che portino a qualcosa, nel momento in cui è lo stesso ministro della Sicurezza, Itamar Ben Gvir, a vantarsi del trattamento riservato ai palestinesi in carcere. “La regola qui è che chiunque si sdraia sul pavimento viene picchiato”, afferma in un video in cui si vedono alcuni detenuti piegati in ginocchio, ammanettati dietro la schiena. A loro, dice, deve essere garantito “il minimo delle condizioni minime. Guarda, scatta una foto”, aggiunge Ben Gvir a chi lo riprende. “Il minimo delle condizioni minime”, ribadisce. E conclude: “Niente marmellata, niente cioccolato, niente televisione, niente radio, niente che fosse facile da prendere. Non bastasse, “ci deve essere un’altra cosa: la pena di morte”.