Poco garantiti di Cristina Giudici Il Foglio, 23 ottobre 2025 Il Garante dei detenuti di Milano, Pagano, spiega il “sudoku umano” del carcere. Sistema al collasso: celle strapiene, detenuti costretti a passare ore chiusi, suicidi e diritti calpestati. Servono decentramento, differenziazione dei circuiti, sorveglianza dinamica e più attività trattamentali. Solo così il carcere potrà uscire dal suo tragico paradosso. Il Guardasigilli Nordio? In estrema sintesi incongruente perché garantista nella teoria e securitario nella prassi di governo. Chi si lamenta dell’assetto carcerario? “Tutti (per ragioni diverse) formano un coro diffuso che, privo di uno spartito comune, produce una penosa cacofonia degna del finale del film Prova d’orchestra di Fellini”. I funzionari che forzano le norme sui metri quadri di spazio vitale nelle celle per non essere di nuovo condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Burocrati della contabilità umana, “abbiamo imparato a far quadrare i conti con il metro, ma non con la coscienza”. Il piano carceri del governo? Insensato perché l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere il carcere inutile, non ampliarlo; è provato che più carceri si creano e più cresce il numero dei detenuti. L’aspirazione del neo garante dei detenuti del Comune di Milano, Luigi Pagano, già vicecapo del Dap ed emblema del garantismo, non è cambiata: perché il sistema penitenziario ha perso mille e più occasioni per realizzare riforme rimaste inapplicate. Infatti Pagano ha appena pubblicato un saggio che si intitola: La rivoluzione normale. Se proprio di un carcere abbiamo bisogno (edizioni San Paolo) per ribadire i suoi principi. “Ci vogliono amnistia e indulto per poter ricominciare da capo”, ci ha detto. In cima alla sua agenda per tenere d’occhio le condizioni dei detenuti milanesi, compresi i minori del Beccaria, c’è il tema dei temi: la riduzione del sovraffollamento alla base di tutte patologie delle carceri e del record dei suicidi. Come? Ribaltando la situazione attuale che ha reso le galere “un servizio di welfare per chi non si può permettere di scontare la pena all’esterno: migranti irregolari, tossicodipendenti, persone con problemi psichiatrici. Complessivamente in tutto il paese ci sono oltre 100 mila persone in carico all’ufficio per l’esecuzione penale esterna, mentre in carcere ce ne sono oltre 8 mila definitivi che devono scontare solo 1-2 anni di condanna e non possono uscire”, spiega. Nominato nel settembre scorso, Pagano ha avviato la fase esplorativa di una situazione drammatica, dato che le cifre del sovraffollamento milanese sono più o meno queste: a San Vittore, da sempre il nodo più dolente, 1.161 detenuti di cui 92 donne e 745 stranieri (capienza 702), a Opera 1.379 ristretti di cui 432 stranieri (capienza 918 posti). Si salva o quasi la casa di reclusione di Bollate dove ci sono 1.387 persone fra cui 175 donne e 522 stranieri (capienza 1.270). Che fare in attesa dell’agognata rivoluzione che dovrebbe rendere il carcere una extrema ratio e non un tragico paradosso? “Mettere a sistema una rete di associazioni e istituzioni per riportare i diritti dei detenuti al centro dell’agenda politica; invece, tranne per alcune eccezioni come Bollate, i carcerati passano la maggior parte delle loro giornate chiusi in cella”, chiosa. “E anche potenziare la figura educativa degli agenti di rete finanziati dalla Regione Lombardia, che costituiscono un ponte per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti”. Il ruolo di Pagano è consultivo perché può monitorare, segnalare anomalie, collaborare con le istituzioni. E per lui che è sempre stato dall’altra parte della barricata, nella condizione di agire e decidere, non è facile limitarsi a fare raccomandazioni. Ma parte avvantaggiato per la sua profonda conoscenza di un sistema che grazie anche ai decreti Sicurezza “ha trasferito i problemi di ordine pubblico all’interno delle celle”. Anche per questo ha sentito il bisogno di fare una sorta di libro bianco sulle mancate occasioni per riformare il sistema a causa dei numerosi sabotaggi politici bipartisan. Sottolineando le parole chiave del cambiamento di quello che è diventato un “sudoko umano” (così Pagano definisce la politica penitenziaria di incastro fra spazi e numeri di persone): decentramento, ossia più autonomia ai provveditorati regionali che interagiscono con le risorse e istituzioni sul territorio; differenziazione dei circuiti; sorveglianza dinamica che non si limiti al controllo; maggiori attività trattamentali per rispettare il dettato costituzionale sulla funzione riabilitativa. Tutte cose urgenti che si possono fare se si riduce il sovraffollamento, però. Così si torna alla casella di partenza descritta nell’ultimo paragrafo del suo libro: “Un carcere fuorilegge che non può pretendere di insegnare il rispetto delle norme a chi le ha trasgredite ed è ? lesivo sia per i detenuti sia per il personale”. Lasciamo gli affetti a chi è in carcere di Vittorio Feltri Il Giornale, 23 ottobre 2025 A proposito delle “stanze dell’amore” per i detenuti. Il nostro sistema giuridico non prevede né la tortura né la pena di morte. Togliere ogni affetto a un essere umano per anni è una forma di tortura. Non per il condannato soltanto, ma anche per chi lo ama, pur senza aver fatto nulla di male. Chi è in carcere ha perso la libertà, non la dignità. E in una democrazia civile, che tale vuole restare, questo fa tutta la differenza del mondo. Il termine affettività non è un eufemismo, bensì una realtà complessa, che riguarda non soltanto il rapporto tra coniugi, ma anche quello tra genitori e figli, tra fratelli, tra familiari che, pur non avendo commesso alcun reato, subiscono una pena collaterale. È bene ricordare che nelle carceri italiane vivono ogni giorno bambini nati da madri detenute, che non possono essere privati del contatto con un padre. È davvero questo che vogliamo chiamare scandalo? La nostra Costituzione, alla quale sono affezionato assai più che a certi rigurgiti punitivi, stabilisce che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Non a caso si parla di “rieducazione”, non di “vendetta”. E se è vero che chi ha commesso un reato deve pagare, è altrettanto vero che deve farlo in un contesto dignitoso, umano, civile, che gli consenta, se lo desidera, di ricostruirsi come persona e rientrare nella società. Ebbene, se un detenuto mantiene un legame con la moglie, con i figli, con i genitori, con l’amore, con la tenerezza, è già meno solo. E un uomo meno solo è anche, potenzialmente, un uomo meno pericoloso, meno disperato, meno incline alla recidiva. Se ciò ti sembra poco, fidati: nelle carceri italiane, dove si muore due volte a settimana per suicidio, non lo è affatto. Il vero scandalo non sono certo le stanze dell’affettività. Lo scandalo sono le celle sovraffollate, l’assenza di acqua calda, i topi nei bagni, i letti a castello arrugginiti, i turni di aria ridotti, i detenuti stranieri ammassati senza mediazione culturale, la radicalizzazione islamista che cresce nel silenzio, i corsi scolastici inesistenti e la mancanza di psicologi nonché la carenza di agenti, agenti che vivono un disagio spaventoso sul posto di lavoro. Questo è il vero problema. Le carceri e la giustizia sedici anni dopo la morte di Stefano Cucchi di Riccardo Morgante politicamag.it, 23 ottobre 2025 Il caso Cucchi resta una ferita aperta nel corpo vivo della giustizia italiana. Nonostante i processi, le sentenze, le condanne definitive, quella ferita non si è mai rimarginata. Stefano non è morto per caso. È morto per mano di chi avrebbe dovuto proteggerlo, anziché brutalizzarlo. Ricordarlo oggi non significa solo tornare sulla sua vicenda, ma ribadire che le ingiustizie, le pene arbitrarie e la violenza non possono trovare spazio nello Stato di diritto. I fatti del 15 ottobre - La data di oggi, 22 ottobre, è simbolica. Non è solo un anniversario: è il punto d’arrivo di una vicenda che affonda la sua brutalità in giorni precedenti. Sedici anni fa Cucchi moriva, ma la sua condanna a morte era già stata scritta qualche giorno prima, il 15 ottobre 2009, presso il Parco degli Acquedotti, a Roma. Trovo profondamente ingiusto, infatti, ricordare una persona soltanto per il momento della sua fine. Per questo, in questo spazio, scelgo di ricordare le sofferenze di un ragazzo di 31 anni che, da quel giorno, ha subito un’ingiustizia che nessuno Stato civile dovrebbe tollerare. Quel 15 ottobre, una pattuglia dei Carabinieri in servizio nella zona Appio Claudio, composta dagli agenti Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo, Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernardo e Gaetano Bazzicalupo, fermò Cucchi per un sospetto di spaccio di sostanze stupefacenti. Dalla perquisizione emersero venti grammi di hashish suddivisi in dodici pezzi, tre involucri di cocaina, una canna e due compresse - farmaci che Stefano assumeva per l’epilessia. Le sue condizioni di salute, fino a quel momento, non destavano particolare preoccupazione. Ma una volta portato in caserma, le cose cambiarono. Le immagini del pestaggio - Le immagini di Stefano all’obitorio le conosciamo tutti: un corpo martoriato, segnato da violenze evidenti, da traumi compatibili con un pestaggio. Il volto tumefatto, un occhio rientrato, la mascella e le vertebre fratturate. Lesioni che non potevano essere autoinflitte, come confermarono i periti. A tutto questo si aggiunsero denutrizione, disidratazione e abbandono durante i giorni successivi all’arresto. Il “whistleblower” del caso Cucchi - Il 4 aprile 2022, la Cassazione emise sentenza: i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati condannati a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. In quel lungo percorso processuale sono stati coinvolti anche alcuni medici dell’ospedale Pertini, responsabili di omissioni e negligenze durante il ricovero di Stefano. Il caso Cucchi, infatti, non è soltanto la storia di un pestaggio dentro una caserma. È l’emblema di un sistema Stato fatto di complicità e silenzi, di un apparato che tentò in ogni modo di depistare, occultare, riscrivere i fatti. Non si trattò solo di un delitto commesso da uomini in divisa, ma di un meccanismo istituzionale che cercò di proteggere se stesso. Come ricordò il Procuratore Generale della Cassazione, i referti medici dell’equipe del Pertini rappresentarono “un capitolo clamoroso di sciatteria e trascuratezza dell’assistenza riservata a Cucchi”. Eppure, non tutti scelsero il silenzio. Tra le divise dell’Arma ci fu un uomo che non riuscì più a convivere con il peso di ciò che sapeva: Riccardo Casamassima, carabiniere, il whistleblower del caso Cucchi. Fu lui a rivelare ai magistrati che Cucchi era stato picchiato, e che all’interno della caserma si stava costruendo un muro di menzogne fatto di falsi verbali e testimonianze manipolate. La sua deposizione fu decisiva. Le parole di Casamassima riaprirono le indagini e contribuirono in modo determinante alle condanne del 2022. Il destino di Casamassima - Ma dire la verità non è mai indolore. Casamassima è stato sottoposto a trasferimenti, isolamento, incarichi marginali, sanzioni disciplinari e note di demerito. Oggi possiamo dirlo senza esitazione: Riccardo Casamassima ha pagato a caro prezzo il suo coraggio. Il coraggio di rappresentare al meglio la divisa che, con onore, ha portato addosso. Cucchi nell’Italia di oggi - Stefano non morì il 22 ottobre di sedici anni fa: morì ogni giorno dopo, ogni volta che qualcuno tentò di riscrivere la verità per insabbiare la giustizia. Morì ogni volta che un politico infangò la sua memoria, riducendo la sua vita a una questione di tossicodipendenza. Morì ogni volta che nessuno si scusò per le ingiurie rivolte alla sua persona, al suo corpo, alla sorella, alla famiglia, sempre resiliente nella richiesta di giustizia. Stefano è ogni detenuto che subisce quotidianamente condizioni carcerarie disumane. Stefano è Francesco De Leo, un uomo di oltre 260 kg deceduto pochi giorni fa nel carcere torinese Lorusso e Cutugno, ignorato, barbarizzato, abbandonato dalle istituzioni. Stefano è ogni uomo e ogni donna che, di fronte all’insostenibilità della detenzione, preferisce mettersi una corda al collo. Stefano non è soltanto una lezione di umanità, ma è il monito che lo stesso dolore, la stessa violenza che lui subì tra le mura della caserma e tra le sbarre di Regina Coeli, viene sopportata ogni giorno da migliaia di persone nelle nostre carceri. Stefano, alla fine, non è mai morto, perché con lui sono rimaste tutte le contraddizioni e le ingiustizie del nostro sistema. Giustizia riparativa: siglati i protocolli per gestire i Centri gnewsonline.it, 23 ottobre 2025 Il ministero della Giustizia ha sottoscritto ieri i protocolli di intesa con Regioni, Province e Comuni, distribuiti su tutto il territorio nazionale, che istituiranno e gestiranno 36 Centri per la giustizia riparativa. Il Ministero si è avvalso delle 26 Conferenze locali per la giustizia riparativa, operanti presso ciascun distretto di Corte d’Appello. Dopo una accurata ricognizione delle esperienze esistenti, si sono formalmente impegnati i Comuni di Bari, Bologna, Reggio Emilia, Brescia, Bergamo, Cagliari, Caltanissetta, Catania, Firenze, L’Aquila, Genova, Taranto, Messina, Milano (per due centri), Monza, San Fermo della Battaglia, Lecco, Napoli, Palermo, Terni, Matera, Velletri, Roma, Salerno, Novara, Torino, Venezia, Verona e Padova; la Provincia di Latina e le Regioni Marche, Calabria (per entrambi i distretti giudiziari del territorio), Lazio e Trentino-Alto Adige/Südtirol; per complessivi 29 Comuni, 1 Provincia e 4 Regioni. Per l’istituzione dei Centri, tali enti attingeranno agli elenchi di soggetti idonei predisposti dalle Conferenze locali, così da garantire il rispetto dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) stabiliti in materia nel luglio scorso dal ministero della Giustizia in collaborazione con la Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie. Il percorso di attuazione della riforma prevede ora che gli enti territoriali preposti alla gestione dei Centri siano dotati delle risorse a ciò destinate dall’art. 67, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. I Centri per la giustizia riparativa sono infatti finanziati annualmente mediante le risorse, pari a 8,9 milioni di euro, stanziate nell’apposito capitolo di bilancio. Il prossimo passo sarà pertanto la ripartizione di tali fondi, da effettuarsi con decreto del Ministro della Giustizia, adottato di concerto col Ministro dell’Economia e delle Finanze, acquisito il parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, presieduta dal Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie. Dopo un lavoro complesso e articolato si avvicina la fase conclusiva di un percorso che ha richiesto quasi quattro anni di impegno. Dalla legge delega del 2021 a oggi, sono stati adottati oltre dieci tra decreti legislativi, decreti ministeriali e intese in Conferenza unificata per dare forma a un innovativo modello, complementare a quello della giustizia tradizionale, radicato nelle comunità territoriali e capace di dialogare efficacemente con il sistema giudiziario. Con spirito pragmatico e in collaborazione con gli enti territoriali e l’ANCI, si sono trovate soluzioni equilibrate che garantiscono il rispetto degli standard qualitativi senza penalizzare i territori. L’obiettivo è assicurare a tutti i cittadini, ovunque risiedano, l’accesso alla giustizia riparativa. Il ddl penale bis di Nordio destinato a restare nel libro dei sogni di Errico Novi Il Dubbio, 23 ottobre 2025 I piani del guardasigilli ostacolati dalla separazione delle carriere ma anche da altre leggi già lasciate “in freezer”. Che Carlo Nordio avesse in animo di proporre un “ddl penale bis”, una riforma più strutturata del processo, è ormai noto, ed era stato più volte dichiarato dal guardasigilli. Ieri sull’argomento, di cui più volte ci si è occupati anche su queste pagine, è tornato il Fatto quotidiano. Con un ampio servizio e molti dettagli. L’articolo riferisce non solo e non tanto del “core business” originariamente individuato per un nuovo eventuale disegno di legge del guardasigilli, vale a dire le misure cautelari, ma altri aspetti pure importanti. Dall’obbligo di avvisare il difensore, in caso di perquisizioni, con un anticipo tale da consentire all’avvocato l’effettiva presenza sul luogo delle operazioni, alla delicatissima materia della tempestiva iscrizione a registro, da parte dei pm, delle persone indagate. Si tratterebbe davvero di una riforma penale nel senso più ampio del termine, tenuto conto che su diversi altri aspetti non avrebbe senso rivedere, a così breve distanza, le novità introdotte dalla legge Cartabia (la legge 134 del 2021, poi perfezionata con il decreto legislativo 150 del 2022). È un progetto ambizioso. Molto. Che bisserebbe e completerebbe il lavoro iniziato con il primo ddl penale di Nordio, la legge 114 del 2024, che pure ha introdotto norme di civiltà come l’effettivo divieto di ascolto delle conversazioni fra indagato e assistito, l’interrogatorio preventivo e i parziali limiti all’impugnabilità delle assoluzioni, oltre ad aver abolito l’abuso d’ufficio, reato più disfunzionale che utile. Il guardasigilli, già nel maggio 2023, dunque prima ancora di ottenere il definitivo via libera alla riforma penale del 2024, aveva appunto istituto una nuova commissione di studio “ad hoc”, e l’aveva affidata a un magistrato, come quasi sempre avviene: il capo del suo Ufficio legislativo di via Arenula, Antonio Mura. Come documentato ieri dal Fatto, il gruppo di lavoro ha concluso il proprio approfondimento e tirato giù una bozza, non ancora esaminata dal ministro. Ma la verità è che il progetto rischia di non vedere mai la luce. E le ragioni sono politiche, ma anche di carattere strettamente pratico. Come riferito sul Dubbio dal Valentina Stella a fine agosto, e come più volte prefigurato su queste pagine da diversi mesi, il centrodestra, ma soprattutto il governo e, più di tutti, Giorgia Meloni e Alfredo Mantovano, sono molto preoccupati dall’idea di fornire all’Anm, e al centrosinistra, il pretesto per “denunciare” una presunta “politica dell’impunità”. Dare concretezza al diritto del difensore di assistere alle perquisizioni, con norme di salvaguardia per proteggere i documenti da acquisire, non sarebbe in realtà un assist ai delinquenti, ma un atto di civiltà. Solo che la propaganda avversaria parlerebbe, legittimamente anche se a torto, di intenti filocriminali. Non se ne può fare nulla perché in gioco c’è la separazione delle carriere, dossier che val bene il sacrificio di altre riforme. Se passasse la leggenda che Nordio e Meloni, con le loro leggi, vogliono aiutare i furfanti (e sarebbe paradossale, visto che il governo di centrodestra ne ha combinate, casomai, di tutti i colori nella direzione opposta, basti pensare al reato di resistenza passiva), sarebbe facile sostenere, nella campagna per il referendum sulle “carriere”, che lo stesso “divorzio” giudici-pm rientra in un’unica scellerata deregulation. È la propaganda, bellezza, e Nordio deve rassegnarsi. Certo, in teoria potrebbe mettere mano al suo “ddl penale bis” dopo l’eventuale vittoria alla consultazione confermativa sulle carriere separate. Ma il tempo non ci sarà: di provvedimenti da “scongelare” in fretta e furia, entro le Politiche 2027, c’è una lista già troppo lunga: dalla prescrizione all’ormai romanzesca “legge Smartphone” di cui si dà ampiamente conto nel giornale di oggi. Tutti provvedimenti già approvati da anni, ormai, in una delle due Camere, e che sarebbe assurdo non licenziare in via definitiva. Sull’ineluttabilità della situazione è sorta ieri una polemica a distanza, con Nordio che ha diffuso un comunicato contro il Fatto e in particolare contro il collega autore del retroscena. Contestazione esagerata, visto che, se pure una forzatura letterale c’era, la si trovava piuttosto nel titolo che nell’articolo. Ma certo, una cosa indiscutibile Nordio, nel comunicato, l’ha detta: la commissione per la nuova riforma penale “è composta in gran parte da magistrati, molti dei quali sfavorevoli alla riforma che stiamo facendo”. Verissimo: 28 fra giudici e pm contro appena 9 fra avvocati e accademici. Il che può solo confermare l’estrema difficoltà dell’impresa, pur lodevolissima, che il ministro della Giustizia si era proposto di realizzare. Ultima notazione: norme come il vincolo a iscrivere l’indagato a registro non appena ne emergano i presupposti, o come la facoltà, concessa al gip, di retrodatare l’iscrizione, sono idee che solo un campione di garantismo come Nordio poteva prospettare, almeno nel centrodestra. Ma è tutto lì, nel ddl dei sogni. Che tale resterà qualora non fosse Nordio il guardasigilli anche nella prossima legislatura. Femminicidi, il ddl va avanti e divide. Anche la magistratura di Elisa Messina Corriere della Sera, 23 ottobre 2025 Il disegno di legge verso la Camera. Contraria l’Anm. Ma Roia serve a far crescere il senso di condanna civile. Mentre la cronaca registra il caso della 62enne accoltellata dall’ex marito a Milano, il ddl sul nuovo reato di femminicidio, che prevede l’ergastolo, va avanti nel suo iter legislativo e si avvia verso un’approvazione unanime alla Camera, come avvenuto al Senato nel luglio scorso. Ma non mancano le voci critiche nell’opposizione, nella magistratura e fra le organizzazioni dei centri antiviolenza: tra queste D.iRe, la più grande rete nazionale di Centri anti violenza (“Cav”), ha disertato l’audizione in Commissione Giustizia rilasciando un comunicato che accusa la maggioranza di voler fare demagogia. “La violenza sulle donne non si combatte con misure “riparatorie” utili solo a colpire la pancia dell’opinione pubblica”, dice la presidente Cristina Carelli. Qual è, se c’è, il fianco scoperto del ddl femminicidio che lo rende attaccatile da sinistra? Nella magistratura, un giudizio favorevole è quello di Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, che ne sottolinea il valore simbolico e culturale “perché non abbiamo una definizione giuridica di cosa si intende per femminicidio in Italia e perché la fattispecie penale può rappresentare un momento di ulteriore sensibilizzazione sociale nel contrasto alla violenza di genere. Non solo intervento di inasprimento sanzionatorio, dunque, ma una legge che può far crescere il senso di condanna civile”. La legge punisce ma educa, anche. Può funzionare come deterrente? Non lo pensa il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi, sentito in Commissione: “Quello dell’aumento di pena non è un calcolo che il femminicida fa: il rapinatore magari può valutare se vale la pena compiere quel reato a fronte del rischio di tanti anni di carcere, ma non il femminicida. Anche perché il 34% degli autori di questo crimine poi si suicida, come rilevava la relazione della Commissione parlamentare sul femminicidio”. “Resto convinta che la legge sia un passo necessario, ma non risolutivo - spiega Valeria Valente, senatrice pd, ex presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio. Nessuna nuova fattispecie di reato e nessun inasprimento di pena da soli rappresentano un deterrente senza un processo di formazione degli operatori e senza un processo culturale che abbatta stereotipi e pregiudizi con i quali si continua a giustificare l’autore della violenza e a colpevolizzare la donna che la subisce. Detto questo, sarebbe un errore non vedere anche nella norma penale la forza di sostenere le evoluzioni sociali e culturali in corso. E stato così in passato per il delitto d’onore o la violenza sessuale, è così oggi per il reato di femminicidio”. Insomma, l’aumento delle pene è ok, ma la maggioranza, dice Valente, deve dimostrare di voler andare oltre l’aspetto solo repressivo: “Perché la battaglia contro la violenza si fa insieme, invece il governo ha un atteggiamento strabico: da una parte scrive il ddl femminicidio, dall’altro porta avanti un emendamento che vieta l’educazione sessuo-affettiva alle scuole medie. Siamo pronti nuovamente a sostenere il ddl sul femminicidio, ma almeno ritirino l’emendamento”. Indipendenza a rischio, ecco perché dico no alla separazione delle carriere di Paolo Auriemma* Il Dubbio, 23 ottobre 2025 La maggioranza, quasi la totalità, dei magistrati ha scioperato pochi mesi fa per la proposta di riforma costituzionale, oggi in fase molto avanzata sulla separazione delle carriere che spezza la unicità della magistratura. Perché lo hanno fatto, convintamente e in modo così corale? Si tratta di persone attente - nelle proprie capacità-, questo è il loro compito alla tutela dei diritti ed alla risoluzione delle liti, generalmente stimati, considerati equilibrati e seri. Ma hanno posto in essere questa forma estrema di protesta, anzi di proclamazione dei valori in cui credono. Non meritano almeno che ci si chieda perché lo hanno fatto? Cercare di spiegarlo richiede, da parte di chi vuole comprenderlo, una apertura mentale ed una voglia di capire, quindi, chi ha pregiudizi politici, chi crede che i magistrati siano una casta che vuole solo conservare privilegi o intendano fare una protesta politica, può smettere di leggere quanto scrivo. Perché se la nostra Costituzione del 1948 - che ora si intende modificare - creò un assetto secondo il quale giudici e pubblici ministeri condividono la stessa carriera (stesso concorso, possibilità di passare da giudice a pm e viceversa sia pur già oggi in casi eccezionali, stesso organo di governo autonomo così da sottrarli ad influenze politiche e di gruppi di pressione esterne, persino da sollecitazioni gerarchiche - la cosiddetta indipendenza interna), una fondata ragione doveva pur esserci. E le ragioni sono sia di natura istituzionale che di natura politica. Sotto il primo profilo, cioè quello che riguarda l’assetto ed il ruolo istituzionale del magistrato, certamente la ragione per cui storicamente in Italia i giudici ed i pubblici ministeri fanno parte da sempre dello stesso ordine (e detta collocazione è stata confermata anche dalla Costituzione repubblicana) è data proprio dal ruolo che il pubblico ministero svolge. Ciò che viene chiesto al pubblico ministero infatti non è una generica difesa della collettività, compito proprio della polizia intesa come funzione svolta dai vari organismi preposti (polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza, ecc.), ma una ricerca imparziale della verità attraverso un rigoroso rispetto delle regole, l’applicazione delle leggi conformemente alle indicazioni che si possono trarre dalla Costituzione e dalla normativa europea. Il pubblico ministero, insegna la Corte costituzionale, “non fa valere interessi particolari, ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale dell’osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia”. L’espressione “cultura della giurisdizione” è infatti il concetto su cui ruota l’intero sistema giudiziario. Può essere definita anche come capacità di non farsi condizionare per gli esiti del processo, forza di procedere secondo le regole anche se il risultato non è quello che ci si aspettava o che non viene percepito come giusto dalla collettività. Ma sempre quello indicato dal Legislatore che lo ha scritto nella Legge. La Costituzione del 1948 ha infatti voluto un pubblico ministero che applicasse la legge come organo di giustizia, e che, come il giudice, avesse la legge come unico faro. Un pubblico ministero “all’americana”, portatore di interessi particolari (quelli del governo federale, dello Stato in cui è stato eletto o designato, ecc. - quante volte nei film americani abbiamo ascoltato la espressione “lo Stato contro Tizio imputato”), è solo organo di accusa e non ha certo necessità di essere imparziale. Cosa che non è nel nostro Paese dove la parola stessa pubblico ministero - ci si rifletta indica un soggetto che tutela la intera collettività, ivi compreso l’imputato. Ancora maggiore preoccupazione desta il secondo profilo, quello più strettamente politico, vale a dire il timore che, se non oggi, domani, le garanzie di indipendenza del pubblico ministero, una volta operata la separazione dai giudici, potrebbero venir meno creando i presupposti perché l’attività del pubblico ministero sia politicamente indirizzabile dalla maggioranza politica di turno, magari usata come arma contro chi è scomodo al potere di turno. Queste le considerazioni che fece anche chi scrisse la nostra Costituzione. Durante il fascismo il pubblico ministero dipendeva non solo dal ministro della Giustizia, ma indirettamente anche dal ministro dell’Interno da cui dipendevano gli organi di polizia e ciò causò distorsioni gravissime nel sistema giudiziario. Anche per questo il Costituente del 1948 volle sanare questi danni confermando una carriera unica con un unico organo di garanzia - il Consiglio superiore della magistratura posto sotto la diretta presidenza del Capo dello Stato - a tutela della autonomia e dell’indipendenza della magistratura tutta, estendendo così ai pubblici ministeri anche formalmente le medesime garanzie previste per giudici. Ed ancora, perché non scrivere nel nuovo articolo della Costituzione (che si vuole modificare) che il pubblico ministero gode delle stesse garanzie di indipendenza del giudice? Tutto questo genera una legittima preoccupazione non - come si tende a far credere - per presunti privilegi dei magistrati (quali sarebbero?) ma per una modifica dell’assetto istituzionale che, in tempi anche brevi, potrebbe finire per incidere significativamente sui diritti di ogni cittadino. Val la pena correre un tal pericolo? I magistrati, con la propria protesta hanno voluto sollevare questa domanda. Ed ognuno dovrà elaborare la propria risposta nella consapevolezza delle ricadute che una riforma, che si allontana dalle regole poste dal Costituente del 1948, potrebbe avere. *Procuratore di Rieti Giornalisti e leggi sbagliate: la libertà di stampa non si difende con le scorciatoie di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 ottobre 2025 Difendere la libertà di stampa non significa difendere la libertà di diffamazione ma difendere il diritto di cronaca come fondamento democratico. La “legge Ranucci” di Travaglio non serve, rischia di essere pericolosa per la stessa libertà che si vuole difendere. Enrico Costa ha ragione a dire, lo ha detto ieri sul sito del Foglio, che non si difende la libertà di stampa inventando scorciatoie legislative o norme “identitarie”. Il disegno di legge promosso da Marco Travaglio come “legge Ranucci”, nato sull’onda dell’emozione per il vile attentato al giornalista di Report, a cui va ancora tutta la nostra solidarietà, è una di quelle idee che sembrano nobili ma che, se approvate, rischiano di essere pericolose per la stessa libertà che dichiarano di voler difendere. Prevedere che chi fa causa per diffamazione a un giornalista, e la perde, debba pagare la metà del risarcimento richiesto significa introdurre una disparità di trattamento che non c’entra nulla con la libertà di stampa e molto con la confusione tra diritto di informare e licenza di diffamare. Costa ricorda un principio semplice: la “lite temeraria” è già prevista dal nostro ordinamento. Non serve una norma ad hoc, e men che meno una che stabilisca privilegi di categoria. Il punto non è proteggere i giornalisti in quanto tali, ma difendere il diritto di cronaca come fondamento democratico, garantendo al tempo stesso che chi diffama risponda delle proprie parole. Le due cose non si contraddicono. In Italia le norme sulla diffamazione andrebbero riviste da tempo: abolire il carcere per i giornalisti, rafforzare il diritto di rettifica, dare più peso alla responsabilità editoriale. Ma a bloccare ogni riforma sono sempre state, ricorda Costa, le bandierine corporative di chi preferisce agitare simboli invece di cambiare davvero le regole. Ecco perché il suo richiamo è utile: chi oggi si straccia le vesti - giustamente - per difendere Ranucci e la libertà di stampa dovrebbe ricordarsi di farlo sempre, anche quando a tentare di imbavagliare i cronisti sono certi magistrati che, con richieste economiche sproporzionate, provano a far chiudere i giornali. Difendere la libertà di stampa significa difenderla sempre, anche da chi, con le migliori intenzioni, rischia di soffocarla. Caiazza: “Dai giornalisti silenzio sulle querele temerarie dei magistrati” di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 ottobre 2025 L’ex presidente dei penalisti: “Nel dibattito sui limiti alle querele temerarie c’è un grande assente: il potere giudiziario. Per il giornalismo italiano la magistratura è solo una fonte di notizie, alle quali viene garantito un carattere di inconfutabilità”. “Quando si parla del potere che intimidisce i giornalisti si parla di qualsiasi potere fuorché di quello giudiziario”. Intervistato dal Foglio, Gian Domenico Caiazza, avvocato penalista e già presidente dell’Unione camere penali, individua il grande assente nei richiami alla difesa della libertà di stampa lanciati dalla manifestazione tenutasi a Roma dopo il caso Ranucci. Tutti uniti contro le querele temerarie dei “potenti”, identificati però esclusivamente nei politici. Nessun cenno alla valanga di diffide, querele e azioni civili che ogni giorno piove sulle teste dei cronisti da parte dei magistrati. “Per una stampa libera serve una politica responsabile. Le istituzioni devono fare in modo che i giornalisti possano fare il loro lavoro”, ha detto per esempio il leader del M5s Giuseppe Conte. Come se le “istituzioni” siano rappresentate soltanto dalla politica. Anche Marco Travaglio, nel rilanciare la proposta di una legge che possa limitare le querele temerarie contro i giornalisti, ha detto che “non ci deve essere immunità per i giornalisti, ma nemmeno per i politici che querelano quando si scrive di loro ma poi diffamano i giornalisti”. Eppure, nota Caiazza, “non c’è ragione di escludere dall’uso temerario della querela e dell’azione civile un potere come quello giudiziario, che fa un uso importante di questi strumenti con un peso specifico superiore a qualunque altro cittadino: essere raggiunti da una querela di un magistrato, che sarà valutata da colleghi del magistrato stesso, naturalmente porta con sé un peso non indifferente”. Per l’ex presidente dei penalisti, tutto ciò “è la conseguenza di un gravissimo limite culturale, secondo cui i giornalisti sono i cani da guardia del potere, ma in questa nozione di potere non rientra il potere giudiziario”. Un paradosso, visto che parliamo del potere potenzialmente più incisivo di tutti sulla libertà dei cittadini. “Le grandi inchieste non riguardano mai l’operato di un magistrato, di un ufficio di procura o di un giudice, se non in casi coraggiosi ed eccezionali”, dice Caiazza. “Per il giornalismo italiano il potere giudiziario è solo una fonte di notizie, alle quali viene garantito un carattere di inconfutabilità. È impensabile, infatti, che il beneficiario di informazioni riservate su indagini in corso si interroghi sulla fondatezza o sulla correttezza di quelle indagini. Così, ciò che sostengono i magistrati diventa il Verbo”. Non a caso, chi si permette di rintracciare aspetti contraddittori negli atti di indagine o di mettere in risalto l’esito, molte volte fallimentare, ottenuto sul piano processuale da certe indagini roboanti, viene sempre più spesso raggiunto da diffide o querele da parte dei pubblici ministeri titolari di quelle indagini. “Chi osa fare inchieste sui magistrati e sui risultati delle loro indagini si becca una querela e viene visto come un nemico della magistratura”, afferma Caiazza. Il diritto di cronaca e di critica sembra non valere soprattutto per i pm, che si sentono diffamati persino se un giornalista, di fronte a una sfilza di assoluzioni, si permette di parlare di fallimento dell’impianto accusatorio. “Il pm è considerato la cosiddetta ‘parte imparziale’, un’assurdità tipica della cultura inquisitoria. Si sostiene che il cittadino deve sentirsi garantito dal pm, che essendo pubblico ufficiale è tenuto a fare un vaglio preventivo della fondatezza delle indagini. Sono discorsi che sentiamo fare pure da presidenti dell’Anm. Tanto che uno si chiede a cosa servano mai il giudice delle indagini preliminari e il giudice dell’udienza preliminare, che sono le due figure deputate a controllare la legittimità dell’operato del pm. Purtroppo sappiamo che il vero motivo per il quale è necessaria la separazione delle carriere è proprio il fallimento dell’ufficio gip/gup”, conclude Caiazza. Smartphone, stop ai sequestri indiscriminati di Valentina Stella Il Dubbio, 23 ottobre 2025 Una sentenza della Cassazione ribadisce l’importanza della proporzionalità nell’acquisizione dei dati. Mentre il ddl Zanettin rallenta a colpi di emendamenti. Mentre alla Camera la proposta di legge sui limiti ai pubblici ministeri nel sequestro degli smartphone è arenata a causa di divergenze all’interno della stessa maggioranza, la Cassazione ha emesso una sentenza (n. 33657 del 13 ottobre 2025) con cui in sostanza si bacchetta un pubblico ministero per aver disposto il sequestro di un telefonino e del suo contenuto senza una adeguata motivazione e in maniera sproporzionata, e non preoccupandosi di bilanciare l’atto con il diritto alla segretezza e riservatezza. Insomma, nel momento in cui in Parlamento si accapigliano i garantisti di Forza Italia con i reazionari di Fratelli d’Italia, mentre la Lega resta a guardare, la giurisprudenza di legittimità pone dei freni alla esorbitanza di certa magistratura requirente che pure si è lamentata durante le audizioni col legislatore per voler introdurre nel codice di rito una previsione normativa volta maggiormente a tutelare la privacy di noi cittadini. Ma vediamo nel dettaglio. Tutto nasce da un ricorso a Piazza Cavour presentato da, procuratore della Repubblica di Bergamo contro un’ordinanza del Tribunale che, accogliendo una istanza di riesame presentata da un difensore, ha annullato un decreto di perquisizione e sequestro emesso dal pm e ha disposto la restituzione del telefono cellulare sequestrato e della copia forense eventualmente già estratta alla persona interessata, peraltro non indagata. Il Tribunale del riesame aveva rilevato “il difetto di motivazione del decreto impugnato”, sia in ordine “al vincolo di pertinenzialità tra i dispositivi telefonici oggetto del sequestro e il reato”, sia in ordine “alla finalità di apprendere la totalità dei dati informatici”. Inoltre, il Tribunale aveva ritenuto che il sequestro avesse violato il principio di proporzionalità della cautela reale, poiché era stato disposto sui telefoni cellulari “senza esplicitazioni delle ragioni che imponessero la necessità di estenderlo a tutti i dati informatici in esso presenti, così esorbitando le esigenze di indagine e finendo per incidere sulla prospettata esigenza probatoria, che assume una connotazione esplorativa non consentita”. Il pm aveva proposto ricorso per Cassazione. Se da un lato, tra le varie eccezioni, aveva riconosciuto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, nel caso di sequestro probatorio, “occorre illustrare le informazioni oggetto di ricerca e indicare il perimetro temporale dei dati di interesse”, dall’altro lato ha osservato “che questa attività può essere effettuata soltanto nella fase esecutiva alla presenza delle parti e dei consulenti, mentre al momento delle operazioni di perquisizione e sequestro, la polizia giudiziaria deve limitarsi ad apprendere il dispositivo, quale “mero contenitore”, posto che qualsiasi estrazione immediata nel suo contenuto comporterebbe una manipolazione indebita”. La Cassazione ha però ritenuto infondato il ricorso sotto diversi profili. La seconda sezione penale ha criticato l’operato del pm per aver omesso nel suo decreto di perquisizione di “precisare le ragioni per le quali è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo; indicare i criteri che devono presiedere alla selezione dei dati informatici, mediante l’enucleazione di “parole chiave” e delle ragioni della perimetrazione temporale, eventualmente più ampia di quella indicata nell’imputazione provvisoria; indicare, infine, la tempistica necessaria all’estrapolazione dei dati ritenuti rilevanti”. Gli ermellini a supporto delle motivazioni della sentenza hanno ricordato come, secondo la giurisprudenza della Corte, “è illegittimo il decreto di sequestro probatorio di un telefono cellulare con il quale il pm acquisisca la totalità dei messaggi, filmati e fotografie ivi contenuti, senza indicare le ragioni per le quali, ai fini dell’accertamento dei reati ipotizzati, si rende imprescindibile la integrale verifica di tutti i predetti dati e si giustifica, nel rispetto del principio di proporzionalità, un così penetrante sacrificio del diritto alla segretezza della corrispondenza”. Inoltre, in tema di sequestro probatorio di documenti informatici e telematici contenenti dati sensibili è stato anche precisato che “l’obbligo motivazionale del provvedimento ablatorio può dirsi adempiuto qualora, tenuto conto del momento processuale in cui è stato adottato, nonché delle peculiari esigenze di accertamento del reato, il pubblico ministero abbia indicato in maniera specifica, ancorché concisa, le ragioni determinanti la necessità di una limitazione temporanea alla disponibilità esclusiva dei dati da parte del destinatario del provvedimento ablatorio”. Infine, il decreto del pm, al fine di consentire una adeguata valutazione della proporzionalità della misura sia nella fase genetica che in quella esecutiva, “deve illustrare le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e omnicomprensivo o, in alternativa, le specifiche informazioni oggetto di ricerca, i criteri di selezione del materiale informatico archiviato nel dispositivo, con la giustificazione dell’eventuale perimetrazione temporale dei dati di interesse in termini sensibilmente difformi rispetto ai confini temporali dell’imputazione provvisoria e i tempi entro cui verrà effettuata tale selezione, con conseguente restituzione anche della copia informatica dei dati non rilevanti”. Puglia. Le carceri e le sorti degli ultimi di Lorena Saracino L’Edicola del Sud, 23 ottobre 2025 Anche il carcere di Trani scoppia. Dopo quello di Lecce che “ospita” - mi si perdoni la parola - 1403 detenuti su una capienza di 798; quello di Foggia, 670 reclusi a fronte di una capienza di 360; quello di Brindisi, 230 presenze per 152 letti; o quello di Taranto, 500 posti letto per 797 detenuti. A Lucera e San Severo siamo ben oltre il doppio dei detenuti. Scoppiano. Questa è la parola corretta. Senza esagerazioni. Quanto vogliamo continuare ad ignorare questa devastante fotografia? Dal caldo nei nostri salotti vogliamo provare a preoccuparci del fatto che chi ha sbagliato deve solo pagare il debito con la società, non essere crocifisso? Di certo, quando si parla di carceri il pericolo di una retorica pelosa è dietro l’angolo. Ma qui, non si tratta di innalzare le insegne dell’esercito della salvezza, qui si tratta del rispetto del dettato costituzionale e delle funzioni dello Stato. E hanno colpito diritto allo stomaco le parole, di qualche giorno fa, di uomini dello Stato, come Ruggero Damato, segretario regionale del sindacato di polizia penitenziaria che ha detto: “Il carcere di Lecce è una vera e propria discarica umana”. Si, il dirigente sindacale ha usato proprio queste parole. E ne ha specificato il senso: i detenuti sono ammassati come sacchi e in una situazione di totale promiscuità. Che in carcere sappiamo bene tutti cosa voglia dire. “Una bomba ad orologeria”, ha spiegato, in cui gli agenti di polizia penitenziaria “sono i nuovi schiavi di Stato”, lasciati in balia di detenuti sempre più violenti. Per quanto tempo, allora, vogliamo continuare a girare la testa dall’altra parte. Pensate ai giovani, che magari hanno commesso reati minori, come ne usciranno? E quanta rabbia si porteranno addosso. Liguria. Seconda Chance dà lavoro ai detenuti. “Già 25 occupati, è come una nuova vita” di Alessandra Rossi Il Secolo XIX, 23 ottobre 2025 Cresce l’attività dell’associazione. Benefici per le imprese che assumono. I referenti: “La Regione ha 1,5 milioni di euro per la formazione professionale, le grandi aziende si facciano avanti”. Poco più di un anno fa Seconda Chance, associazione no profit nata nel 2022 su intuizione della giornalista Flavia Filippi e operative in tutta muoveva i primi passi in Liguria. L’obiettivo era, ed è tuttora, quello di far conoscere alle imprese locali i benefici della legge Smuraglia che comporta agevolazioni a chi assume anche part-time o a tempo determinato detenuti ammessi al lavoro esterno. Con un attivo “porta a porta” dei suoi instancabili volontari, le storie di chi ha potuto beneficiare di una seconda opportunità per riscattare la propria vita sono aumentate, passando da numeri che potevano essere contenuti in una mano a ben venticinque. E altre dodici potrebbero, nel giro di un mese, essere assunte. Letto così, il risultato appare sorprendente. Purtroppo, la diffusione delle opportunità lavorative per i detenuti continua a procedere con estrema lentezza. Ed è [fui che entra in gioco una realtà come Seconda Chance. Gli incontri, le riunioni, i colloqui portati avanti dall’associazione sono condensati in un file Excel: dietro quelle note, si nascondono nomi, luoghi di provenienza detentiva, destinazioni di lavoro, tipologie di impiego ed esito di quella seconda possibilità che è stata offerta. Storie cambiate nell’arco di pochi mesi, passate dall’assenza di orizzonti alla prospettiva di un futuro diverso. Si ha ora nell’edilizia, nel verde, nelle Rea. nei ristoranti, negli alberghi: “Il nostro obiettivo sottolinea Stella Ghersina, tra le referenti liguri di Seconda Chance è di creare una vita nuova, non di limitarsi ad assegnare un impiego”. Per questo l’associazione sta cercando di muoversi per alzare anche il livello professionale dei detenuti: “Ci sono tantissimi progetti di corsi da portare in carcere, ma servono risorse - spiega a tal proposito - potrebbe essere interessante capire come verranno utilizzate le risorse appena stanziate dal ministero della Giustizia alla Regione Liguria, vale a dire oltre 1 milione e mezzo di curo, per la formazione professionale dei detenuti e lo sviluppo di competenze in laboratori realizzati e attrezzati allo scopo”. Seconda Chance sarebbe disponibile per lavorare assieme all’ente, al mondo imprenditoriale e a quello penitenziario in una sorta di “cabina di regia” volta ad impiegare al meglio tali fondi. L’idea, suggerisce Luca Pizzorno, anche lui referente dell’associazione no profit, è di “alzare il tiro, coinvolgere i grandi imprenditori del territorio, dal porto alle grandi opere, passando per altre realtà macro che operano in Liguria, alfine di creare nuove e migliori opportunità”. Attualmente con Seconda Chance operano aziende come Amplia, Airplanet, catene di fast fauci conte Mc Donald’s, Burgur King, ma anche imprenditori più piccoli che hanno scelto di conoscere questa realtà e offrire un’opportunità. “Nella volontà di professionalizzare i detenuti non siamo volontari, siamo collaboratori sottolinea Pizzorno persone pragmatiche e preparate che vogliono fare rete per ottenere un risultato che soddisfi tutti”. Seconda Chance ha già un protocollo di collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che riconosce “la qualità dell’intervento capace di attivare, su diversi distretti del territorio, positivi accordi con il mondo dell’imprenditoria al fine di attuare percorsi di inserimento lavorativo extra murario a beneficio di persone detenute”. Se il mondo penitenziario si è quindi già accorto di questa grande opportunità, ora è il turno di quello imprenditoriale di aprire gli occhi e coglierne i benefici. Roma. A due settimane dal crollo di Regina Coeli, nelle carceri la situazione è “un gran casino” di Nicolò Zambelli Il Foglio, 23 ottobre 2025 Il crollo di parte del tetto ha causato circa 300 detenuti sfollati, trasferiti in altre strutture come Rebibbia. Dalla cella, Gianni Alemanno dedica la pagina del suo “diario” a questa situazione. Valentina Calderone: “La situazione è in stallo”. “È tutto un gran casino”. Non usa mezzi termini Valentina Calderone, la garante dei diritti delle persone private della libertà nel comune di Roma, nel descrivere la situazione nelle principali carceri a due settimane dal crollo di una parte del tetto di Regina Coeli. I fatti: lo scorso 9 ottobre una parte del soffitto del principale carcere della capitale è crollato, nella zona conosciuta come “seconda Rotonda”, luogo nel quale transitano ogni giorno centinaia di operatori e detenuti. Nessun ferito, ma l’incidente ha causato la chiusura della zona e lo sfollamento di centinaia di detenuti, inevitabilmente trasferiti in altre strutture. Da quel giorno il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si è messo in moto, ma i lavori per ripristinare una parvenza di normalità sono ancora lenti e rognosi. “Non so dare tempistiche ma so che il lavoro non sarà terminato in tempi brevi, c’è di mezzo la sovraintendenza”, spiega al Foglio Calderone. Eppure il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, precipitatosi sul luogo dell’incidente il giorno stesso, aveva assicurato che i lavori “sarebbero partiti da subito per cercare di ripristinare il prima possibile la cupola oggetto del crollo”. Dopo più di due settimane il buco è ancora lì. E dentro alle carceri scoppia il caos. Dopo il crollo circa trecento detenuti sono rimasti “senza dimora” e sono stati trasferiti in altre strutture. Quella principale è il secondo carcere romano per grandezza, Rebibbia, e da una delle celle l’ex sindaco capitolino Gianni Alemanno oggi dedica una pagina del suo “diario di cella” proprio a questa situazione: “Il sottosegretario Delmastro si è affrettato a minimizzare, ma la realtà è ben diversa: circa 300 detenuti sono stati trasferiti in altri carceri”, scrive. E aggiunge qualche numero: “Dal momento del crollo, tutti i nuovi arrestati di Roma (circa 40-50 persone al giorno), invece di finire a Regina Coeli, saranno sistematicamente dirottati a Rebibbia”. “È un macello”, commenta Calderone. Un evento imprevisto ma non improbabile ha infatti complicato una situazione già drammatica: “A Rebibbia Nuovo complesso il sovraffollamento è drammatico: ci sono 1.600 detenuti per soli 1.068 posti disponibili”, dice la garante. Con il dirottamento necessario a causa dell’incidente con ogni probabilità si andrà ad aggravare la situazione a Rebibbia, luogo nel quale qualche giorno prima del crollo, il 23 settembre, il sindaco Roberto Gualtieri aveva tenuto un consiglio comunale straordinario proprio per affrontare i temi legati al sovraffollamento nelle prigioni. Un’iniziativa “importante e coerente”, aveva detto dopo aver chiuso l’Assemblea, che nel corso della seduta ha approvato sette ordini del giorno “molto concreti”. “Bisognava fare qualcosa”, aveva detto la presidente Svetlana Celli. Poi l’incidente. Nel suo “diario”, Alemanno tira in ballo il governo e il “piano carceri” annunciato qualche mese fa, che punta a costruire nuove carceri per poter accogliere tutti i detenuti. L’ex sindaco di Roma scrive: “Non aveva ragione Nordio, purtroppo avevamo ragione noi. Il piano e gli altri ‘palliativi’ messi in campo non avrebbero risolto il sovraffollamento, ma l’avrebbero aggravato”, ha scritto. “I frutti di questo piano devono ancora iniziare a vedersi - continua Calderone - le misure non hanno avuto alcun risultato”. A intervenire sulla questione è stata anche la vicepresidente del Senato e membro della commissione Giustizia del Pd Anna Rossomando: “Nordio risponde solo con interventi annunciati di edilizia straordinaria ed emergenziale, ma da Regina Coeli arriva la dimostrazione che non viene curata neanche la manutenzione ordinaria, con ripercussioni su altre carceri, come Rebibbia”, ha detto al Foglio, annunciando un pacchetto di proposte per la manovra che aiutino quantomeno a “attenuare” la situazione. La fase è quindi di stallo. E mentre il tempo passa si intercettano le storie di persone che di punto in bianco, per colpa di un incidente, si sono ritrovare trasferite in un’altra struttura, abbandonando consuetudini, routine e reti sociali costruite nel corso del tempo. E se già di per sé questo rappresenta un trattamento difficile da comprendere, la situazione è ancora più grave per i detenuti indirizzati verso percorsi psicologici importanti, che di punto in bianco si ritrovano a doversi interfacciare con realtà diverse e disorientanti. In questi casi è utile ricordare gli appelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che anche nel corso dell’estete ha ricordato come la questione delle carceri oggi rappresenti “una vera emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi”. Roma. Trasferiti in ciabatte e senza avviso: denuncia della Garante sui detenuti spediti in Sardegna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2025 Dopo il crollo nel carcere romano 103 detenuti sono stati spostati di notte in condizioni sommarie. Irene Testa ha scritto al procuratore generale di Cagliari: procedura che viola le linee guida del Dap? Il crollo del tetto della Casa circondariale romana nel primo pomeriggio del 9 ottobre ha scatenato una reazione a catena che la garante della Sardegna per i diritti dei detenuti, Irene Testa, non ha esitato a qualificare come “scelta politica” più che come gestione dell’emergenza. In una comunicazione trasmessa la scorsa settimana al Procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, Irene Testa delinea un quadro che va ben oltre il contingente: non è questione di capienza, sostiene implicitamente, ma di come è stata gestita l’urgenza. Centotré detenuti, trasferiti da Regina Coeli verso quattro istituti penitenziari sardi (26 ad Alghero, 20 a Uta, 31 a Oristano- Massama, 26 a Sassari- Bancali) in orari notturni, con tempi di preavviso minimi - secondo alcune testimonianze raccolte: venti minuti - e senza alcuna comunicazione preventiva alle famiglie dei ristretti. È questo il punto di partenza della denuncia della Garante. Ma il dato che emerge dalla narrazione è la modalità operativa di quella che viene descritta come una “procedura emergenziale”. Prima della partenza dall’istituto romano, distribuiti sacchi di plastica ai detenuti con l’invito di raccogliervi gli effetti personali. Alcuni trasferiti sono stati imbarcati su un aereo della Guardia di Finanza indossando ciabatte e accappatoio, arrivando nelle strutture sarde vestiti così. Non è un dettaglio retorico: è lo specchio di una gestione che non ha previsto nemmeno le minime dotazioni organizzative per una operazione di questa portata. Le strutture sarde, inoltre, non avevano ricevuto informazioni anticipate sulla “tipologia” di detenuti che avrebbero dovuto ospitare. Durante la notte successiva all’arrivo, è stato il personale penitenziario delle isole a improvvisarsi negli spazi: recuperare celle, reperire lenzuola, coperte, contattare le famiglie nel buio più totale. Una gestione interamente reattiva, mai preventiva. Qui emerge lo scenario di fondo. La Casa di reclusione di Alghero, alla data della visita della garante (12 ottobre), ospitava 168 detenuti con una capienza regolamentare inferiore e soli 70 agenti della Polizia penitenziaria. Quell’istituto, per la sua vocazione a “trattamento intensificato”, aveva storicamente ospitato circa 80 detenuti, permettendo di coniugare il lavoro e lo studio all’interno delle mura. L’immissione di altri 26 corpi negli spazi comporta, non è difficile intuirlo, un sovvertimento dell’assetto interno con rischi diretti sulla sicurezza. Sassari era già al 120% di riempimento prima dell’arrivo dei nuovi trasferiti, con una “cronica carenza di personale penitenziario” nelle aree medico- sanitarie e nei ranghi della Polizia. Ciò che più acutamente Irene Testa mette a nudo è la contraddizione tra ciò che è avvenuto e le direttive della stessa amministrazione penitenziaria. La nota della GDAP del 13 ottobre (numero 435332. U) inviata ai Provveditori regionali e ai Direttori - documento che dunque arriva dopo i fatti già citati - recita con chiarezza: “Il trasferimento rappresenta una delle fasi più sensibili della vita detentiva. Se mal gestito, non risolve i problemi ma li sposta altrove, aggravando il senso di sradicamento del detenuto e creando ostilità nella sede di destinazione. Ogni trasferimento deve essere comunicato con congruo anticipo alla nuova sede, garantendo la contestuale consegna del bagaglio e delle spettanze economiche”. Le modalità, prosegue il documento ufficiale, devono rispettare “i principi di progressività e trasparenza: ogni percezione di arbitrio alimenta rancore e conflittualità, con inevitabili ricadute sulla sicurezza interna”. Questo è il grimaldello su cui Testa costruisce la sua contestazione. Le procedure attuate per i 103 detenuti di Regina Coeli sembrano configurarsi come l’esatto contrario di quanto l’amministrazione stessa prescrive. Non è dato sapere se i trasferimenti siano definitivi o temporanei, se vi sia una data di scadenza, se sia previsto un potenziamento degli organici. Testa solleva il problema senza fornire risposte, ma puntando il dito: l’emergenza non può giustificare violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti. Per questo ha trasmesso gli atti al Procuratore generale, chiedendo di “approfondire la regolarità delle procedure di trasferimento attuate dall’amministrazione penitenziaria”. È la logica della garanzia: verificare, cioè, se il diritto sia stato rispettato anche quando il caos epidermico della situazione potrebbe suggerire una tolleranza maggiore. Non lo è, sostiene la garante. E il Procuratore, ricevuta la comunicazione, avrà questo compito, ovvero valutare se le procedure abbiano configurato una violazione, sfruttando la contingenza come alibi procedurale. Milano. Violenze nell’Ipm Beccaria: indagati per omessa denuncia Don Burgio e Don Rigoldi La Stampa, 23 ottobre 2025 Il cappellano e l’ex cappellano del carcere minorile di Milano sono accusati di essere “consapevoli delle violenze” sui detenuti. Don Claudio Burgio e don Gino Rigoldi - rispettivamente il cappellano e l’ex cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano - sono tra gli indagati nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Milano per le presunte violenze e torture che hanno posizionato l’istituto penale al centro di uno scandalo. Il reato contestato è omessa denuncia. I due storici cappellani dell’istituto penale minorile e volti noti del terzo settore milanese - Don Gino è presidente della Fondazione che porta il suo nome e di Comunità Nuova Onlus, don Burgio guida la comunità penale minorile di Vimodrone “Kairos”, secondo quanto riporta oggi La Repubblica sono nell’elenco dei 51 indagati della maxi inchiesta. I due sarebbero stati “consapevoli delle violenze”, si legge nell’informativa di 900 pagine della Squadra mobile agli atti del fascicolo delle pm Rosaria Stagnaro e Cecilia Vassena. Il loro ruolo è in corso di approfondimento. Entrambi, a verbale, hanno raccontato di non aver mai avuto contezza che dentro il Beccaria si consumassero questi episodi violenti. Al centro delle indagini, tortura e botte sui detenuti: sono 33 i ragazzi che la procura vuole sentire davanti a un giudice, per cristallizzare i loro racconti. Ferrara. Detenuta trans vittima di violenza sessuale. Il ministro: “Il video non conferma i fatti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2025 Dopo la denuncia di violenza sessuale nel carcere di Ferrara, il ministro della Giustizia chiarisce in Parlamento la posizione del Dap. Attivato il protocollo codice rosso e disposto il trasferimento in una sezione specializzata. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in riposta a una serie di interrogazioni presentate da Movimento 5 stelle, Azione, Pd e Avs, ha sostenuto che la detenuta avrebbe fornito due versioni differenti dei fatti riferite a giorni diversi. Parliamo di una donna transgender, ricoverata a fine giugno dopo aver segnalato una violenza sessuale all’interno della casa circondariale di Ferrara. La comunicazione ufficiale ha inoltre precisato che “la visione della videosorveglianza non confermava quanto da lei dichiarato”. Malgrado queste considerazioni, il ministero ha comunque segnalato la vicenda alla Procura della Repubblica. Riguardo al trasferimento dalla sezione “Orione” di Reggio Emilia, il ministero ha spiegato che la persona aveva creato “problematiche che ne hanno via via reso incompatibile la sua permanenza” in quella struttura specializzata. Una motivazione che non chiarisce completamente le ragioni della decisione né affronta le richieste di tutela avanzate dalla donna. La denuncia è stata formalizzata il 24 giugno. Dopo essersi rivolta all’infermeria, la detenuta è stata trasferita in ospedale dove è stato immediatamente attivato il protocollo previsto per i casi di violenza sessuale (codice rosso). Sin dal suo arrivo all’Arginone, lei afferma di aver chiesto di essere trasferita in una struttura più idonea alle sue necessità. Non era la prima volta che la detenuta cercava una soluzione. Era stata già trasferita a fine marzo dalla sezione “Orione” di Reggio Emilia, uno degli spazi dell’amministrazione penitenziaria dedicati alle persone transgender. La direzione del carcere di Ferrara ha risposto con misure immediate e articolate. Sono state disposte “grande sorveglianza attiva e passiva” sulla detenuta, un divieto di incontri con il resto della popolazione detenuta, la segnalazione al servizio psicologico interno e l’avvio delle procedure sanitarie previste dalla legge per i casi di violenza sessuale. Le autorità penitenziarie hanno inoltre valutato i rischi di autolesionismo e suicidio, attivando percorsi dedicati di sostegno e assistenza. Un capitolo significativo della vicenda riguarda la ripresa della terapia ormonale per la transizione, interrotta durante la detenzione all’Arginone. Il Dap ha disposto il trasferimento della detenuta al carcere di Belluno, una delle sole sei strutture italiane dotate di una sezione specializzata per persone transgender. Il trasferimento è stato ufficialmente giustificato con la necessità di garantire cure mediche e condizioni di detenzione più adeguate alle esigenze della donna transgender. Una scelta che, almeno sulla carta, rappresenta un passo verso l’uguaglianza di trattamento, sebbene sollevi interrogativi sulla qualità della gestione della sicurezza. Genova. Carcere di Marassi, allarme del Garante per il Serd: “Infermieri sostituiti da cooperative” genova24.it, 23 ottobre 2025 Saracino: “Drastica riduzione del numero di ore, a rischio le prestazioni per 250 detenuti tossicodipendenti”. Il Garante dei detenuti lancia l’allarme per il servizio infermieristico del Serd per i tossicodipendenti nel carcere di Marassi. Da fonte sindacale risulta infatti che da novembre gli infermieri Asl, che hanno lunga esperienza e formazione specifica, saranno sostituiti da personale di una cooperativa, che ha giocoforza un elevato tasso di rotazione. “Il progetto di esternalizzazione del servizio infermieristico a personale delle cooperative - afferma il garante regionale Doriano Saracino - prevede inoltre una drastica riduzione del numero di ore. Tutto ciò avrà ripercussioni sul servizio”. Il garante teme infatti una limitazione delle prestazioni erogabili nei confronti dei pazienti tossicodipendenti e alcoldipendenti detenuti ed invita la Direzione di Asl 3 a rivedere il progetto. Da circa quindici anni il Serd interno al carcere di Marassi è sempre stato costituito da un medico dedicato e da personale infermieristico Asl, che assicura il servizio sette ore al giorno dal lunedì al venerdì, mentre il personale infermieristico dei Serd territoriali copriva le esigenze dei fine settimana. La presenza di un’assistente sociale dedicata ai pazienti seguiti dal Serd, una volta garantita cinque giorni alla settimana, è stata progressivamente ridotta a due giorni alla settimana. Il garante ricorda infine che oltre 250 detenuti del carcere di Marassi sono in carico al Serd in quanto tossicodipendenti, e che il servizio infermieristico non si riduce alla mera somministrazione del metadone. Si chiede ancora Saracino: “Come potrà personale senza una formazione specifica farsi carico di tutti i vari aspetti che la cura di pazienti tossicodipendenti comporta, tanto più in un ambiente complesso quale il carcere?”. In un momento in cui il capoluogo ligure vive una nuova emergenza droga, tanto che le associazioni chiedono un commissario ad hoc, il garante ricorda come i problemi della città si riversino sul carcere e viceversa. “Occorre contrastare l’afflusso di sostanze in carcere - conclude Saracino - e ciò avviene non solo controllando l’offerta, e quindi l’ingresso e lo smercio di stupefacenti - ma agendo sul piano della domanda, facendosi carico dei nuovi giunti in carcere ed intercettando fin dal principio chi ha problemi di dipendenze, aumentando il dialogo con i servizi territoriali liguri e non solo, curando i rapporti con gli uffici per l’esecuzione penale esterna, le comunità terapeutiche, e altri enti, e non ultimo potenziando la sezione a custodia attenuata per tossicodipendenti presente a Marassi”. Per questo Saracino invita la Asl a confrontarsi sul tema nelle sedi regionali dedicate alla salute e agli interventi sociali in carcere. Prato. Dieci detenuti della Dogaia ripuliscono gli orti pubblici La Nazione, 23 ottobre 2025 Sabato a Viaccia la manifestazione di Seconda Chance e Plastic Free onlus. Insieme a loro ci saranno anche alcuni educatori del carcere e familiari. La lotta all’inquinamento ambientale diventa una ‘palestra’ di educazione civica e di inclusione grazie all’iniziativa promossa per sabato da Plastic Free Onlus, l’organizzazione impegnata nel contrasto all’inquinamento da plastica, e Seconda Chance, associazione del Terzo Settore dedicata al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Così una decina di detenuti della Dogaia saranno impegnati sabato a partire dalle 10 a ripulire gli Orti urbani di Viaccia insieme ad alcuni operatori dell’area educativa del carcere e ad alcuni familiari. In contemporanea, in Toscana, altri volontari e detenuti in permesso premio della Casa circondariale di Massa si ritroveranno sulla spiaggia del Bagno Rap per un intervento di pulizia del litorale. L’appuntamento toscano arriva dopo il grande successo dell’iniziativa di maggio, che aveva visto oltre 400 partecipanti - tra cui 114 detenuti in permesso premio - rimuovere 3,7 tonnellate di plastica e rifiuti in 12 città italiane, sempre con la medesima finalità di un impegno condiviso per l’ambiente che diventa anche occasione di crescita, responsabilità e reinserimento sociale. Due iniziative che uniscono mare e città: “Dopo i risultati straordinari di maggio, abbiamo deciso di rimetterci in moto - spiega Flavia Filippi, presidente e fondatrice di Seconda Chance -. Queste giornate non sono semplici azioni di pulizia, ma esperienze di comunità. Detenuti, volontari, educatori e cittadini si ritrovano insieme a condividere gesti concreti di rispetto e solidarietà. Il reinserimento diventa reale: attraverso la fiducia, la partecipazione e l’impegno condiviso”. Una visione che si integra con la missione di Plastic Free, come sottolinea Lorenzo Zitignani, direttore generale dell’organizzazione: “Le nostre giornate di pulizia ambientale nascono per sensibilizzare, ma anche per unire. Iniziative come questa dimostrano che l’associazionismo può essere un ponte tra mondi diversi, creando valore per l’ambiente e per le persone”. La mobilitazione di sabato rappresenta una nuova tappa del percorso avviato tre anni fa tra Plastic Free Onlus e Seconda Chance, che continua a crescere grazie alla collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, la Magistratura di Sorveglianza, i Comuni, le aziende di igiene urbana, le associazioni locali e i volontari di tutta Italia. Ancona. “Ricomincio da me”, l’impegno di Bosch Italia per il reinserimento dei detenuti di Cristina Sgobio boschpress.it, 23 ottobre 2025 Il carcere di Montacuto, ad Ancona, ha ospitato la quarta edizione di Ricomincio da me. L’iniziativa, ideata dalla Corporate Academy Bosch TEC, punta a favorire la crescita personale e professionale dei detenuti e facilitarne l’inserimento nel mondo del lavoro, in particolare nel settore della climatizzazione residenziale. Il progetto è realizzato in collaborazione con Seconda Chance, associazione impegnata nel reinserimento sociale dei detenuti con il supporto del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), e con i partner Gi Group e LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners. Grazie alla collaborazione con la divisione Home Comfort di Bosch Italia, l’edizione di Ancona, così come quella di Torino svoltasi a febbraio 2025, ha avuto l’obiettivo di trasmettere ai detenuti le competenze necessarie per avviarli alla professione di installatori di impianti di climatizzazione residenziale, una figura molto richiesta dal mercato del lavoro. 19 partecipanti, con un fine pena ravvicinato, hanno avuto così la possibilità di svolgere un corso di 82 ore che ha combinato formazione tecnica (introduzione al mercato, tipologie di impianti, pratica di installazione), sviluppo di soft skills utili per la propria crescita personale e competenze trasversali come tecniche di vendita, negoziazione, gestione del cliente. Terminato il percorso di formazione, Gi Group contribuirà ora a dare nuove prospettive ai detenuti, creando un vero e proprio ponte con il mondo del lavoro e delle imprese. Ricomincio da me nasce con l’obiettivo di restituire fiducia e motivazione a persone temporaneamente escluse dalla società educativa, formativa e produttiva, fornendo strumenti concreti per acquisire maggiore consapevolezza delle proprie capacità e agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro, per costruire un nuovo futuro ricominciando da se stessi. Dalla sua attivazione nel 2024, il progetto ha coinvolto oltre 60 detenuti in quattro differenti edizioni, erogando un totale di oltre 300 ore di formazione. Le prime due edizioni, realizzate presso le case circondariali di Monza e Como, hanno visto la partecipazione di 30 detenuti che, grazie al percorso di formazione appositamente strutturato, hanno acquisito le competenze per diventare specialisti eBike. La terza edizione, invece, che si è svolta presso il carcere di Torino, ha coinvolto 14 detenuti per avviarli alla professione di installatori di impianti di climatizzazione residenziale. Ricomincio da me si inserisce tra le iniziative di responsabilità sociale portate avanti da Bosch. L’azienda, che fa capo ad una Fondazione di pubblica utilità, agisce infatti nella convinzione che solo operando in modo responsabile a livello economico, ambientale e sociale si possa migliorare la qualità della vita delle persone e salvaguardare il benessere delle generazioni presenti e future. Bologna. Seac, il 24 e il 25 ottobre convegno nazionale “La pena e le leggi” agensir.it, 23 ottobre 2025 “La pena e le leggi”: è il tema del convegno nazionale del Seac - Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario che si svolgerà a Bologna il 24 e il 25 ottobre. L’incontro sarà strutturato in 3 sessioni. La prima, venerdì 24 ottobre, presso la casa circondariale Rocco D’Amato, si aprirà alle 9.15 con gli interventi di Maria Chiara Niccolai, presidente del Seac, p. Vittorio Trani, cappellano della casa circondariale di Regina Coeli a Roma, Rosa Alba Casella, direttore della casa circondariale Rocco D’Amato. Sono previsti i saluti di Silvio Di Gregorio, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, e Antonio Ianniello, garante delle persone private della libertà di Bologna. Dalle 10.30 alle 13 si approfondirà il tema “La pena e le leggi - Il Decreto Sicurezza e l’impatto sul carcere”, con Massimo Niro, ex magistrato, membro del Seac nazionale, Emilio Santoro, professore di Filosofia del Diritto all’Università di Firenze, Marco Imperato, sostituto procuratore della Repubblica di Bologna, Maria Letizia Venturini, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna. Modera e coordina Elisabetta Laganà del Seac nazionale. Sono previsti interventi di detenuti e volontari. La seconda sessione si terrà nella Sala Farnese di Palazzo D’Accursio, dalle 15 alle 18.30, e il focus sarà “Il decreto Caivano e gli Ipm”. Intervengono Riccardo Turrini Vita, garante nazionale persone private della libertà, Matteo Lepore, sindaco di Bologna, Sofia Ciuffoletti di Altro Diritto Firenze, Claudia Giudici, garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Emilia Romagna, Giuseppe Chiodo, direttore dell’Ipm di Casal del Marmo, p. Filippo Ivardi Ganapini, missionario comboniano della Comunità di Castelvolturno. Modera e coordina Maria Coviello del Seac nazionale La terza sessione si terrà abato 25 ottobre, dalle 9 alle 13, e verterà su “La Giustizia e la speranza”. Si aprirà con un messaggio di saluto registrato del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Interverranno p. Marcello Matté, cappellano della Casa circondariale Bologna, Giorgio Pieri della Comunità Papa Giovanni XXIII, mons. Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi, Emilia Rosa Palavera, professore di Diritto penale all’Università degli studi di Urbino. Modera e coordina Luisa Prodi del Seac nazionale. Previsti interventi dei volontari. Trento. “Non mangio da due giorni”. E il giudice lo lascia libero di Marzia Zamattio Corriere del Trentino, 23 ottobre 2025 Senzatetto ruba al supermercato baguette e cioccolata per 30 euro. L’uomo è un 52enne rimasto disoccupato che da un anno vive per strada. Il legale: “Non ha più avuto un impiego ma è pronto a lavorare”. Da oltre un anno dorme per strada. Una situazione difficile per il 52enne straniero, regolarmente in Italia da anni e residente a Trento, a lungo impiegato come addetto alla sicurezza. Finché non ha perso il lavoro e si è trovato, da solo, a doversi arrangiare per sopravvivere. Arrivando a rubare. “Per fame”. Così si è giustificato l’uomo affiancato dall’avvocata Veronica Manca, ieri mattina, davanti al giudice per le indagini preliminari Enrico Borrelli, spiegando il furto di baguette e cioccolata, oltre ad altri generi alimentari, tentati in due supermercati della città sabato pomeriggio. Bottino tentato per complessivi 30 euro. Nessuna misura cautelare L’uomo, durante la direttissima di ieri mattina nel tribunale di Trento, ha raccontato la sua versione dei fatti, spiegando che non mangiava da due giorni e che aveva fame. Ecco perché, il 52enne sarebbe entrato prima in un supermercato della città per prelevare dagli scaffali alcuni generi alimentari ma poi sarebbe stato fermato dal direttore dell’esercizio, tentando poco dopo un secondo furto sempre per recuperare alimenti da consumare, compreso una baguette e della cioccolata, ma anche qui è stato scoperto. L’uomo è quindi stato denunciato e arrestato in flagranza di reato dai carabinieri con l’accusa di furto e rapina impropria (per aver spintonato durante uno dei due tentativi di furto). Ieri mattina, il giudice Borrelli ha convalidato l’arresto ma senza l’esigenza di misura cautelare per l’attenuante della particolare tenuità del fatto. Una seconda chance L’uomo, che conosce diverse lingue, verrà introdotto verso progetti specifici con i servizi sociali o all’interno di una comunità per aiutarlo a trovare nuovamente una collocazione nella società. Come spiega la difesa “non è più riuscito a trovare un lavoro alla sua età, ha rubato per fame ma è pronto a lavorare”. Una seconda chance. Cagliari. Genitori detenuti e figli minori. Esito scenico con i burattini e la festa di Halloween cagliaripost.com, 23 ottobre 2025 Proseguono le attività di Liberi dentro per crescere fuori, il progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile che ha come destinatari principali i minori e le minori, figli di persone detenute nella Casa Circondariale Ettore Scalas di Uta o sottoposte a pene alternative. Domenica 26 ottobre, alle 18, alla Domus Claudia di Sestu in via Parrocchia 80, si terrà l’esito scenico del laboratorio di costruzione e animazione di burattini Le mani che muovono i sogni, organizzato dall’associazione Prohairesis e curato da Rauhl Bernardelli, maestro burattinaio dell’associazione Le Compagnie del Cocomero di Sestu. Il laboratorio, iniziato a dicembre 2024 e concluso a fine giugno 2025, ha visto la costruzione e messa in scena di burattini da parte di minori dagli 11 ai 13 anni, proseguendo una tradizione artistica che la famiglia Bernardelli porta avanti da tre generazioni. L’impegno nei mesi di laboratorio darà vita allo spettacolo Pierina e il Lupo, con un gruppo di attori composto da giovani allievi attori della compagnia assieme ai minori, figli di persone detenute, che stanno seguendo il progetto Liberi dentro per crescere fuori. Lo spettacolo, della durata di circa 60 minuti, è rivolto a bambini e ragazzi dai 5 ai 14 anni e alle loro famiglie. Per proseguire in questo lavoro di promozione dei legami affettivi e di momenti di normalità all’interno del contesto detentivo, il giorno seguente, lunedì 27 ottobre, a partire dalle 14, all’interno del carcere di Uta, la sala incontri sarà addobbata a tema Halloween e animata da truccabimbi, dolcetti e tanta musica, grazie all’organizzazione di Exmé&Affini. Ospiti speciali saranno gli Arkeos, gruppo musicale cagliaritano che proporrà i grandi successi della musica italiana, per un pomeriggio di allegria e condivisione. L’obiettivo del progetto è offrire ai minori, che spesso affrontano sfide emotive e sociali uniche legate allo stigma, alla separazione e al trauma, un canale non verbale per esprimere e dare forma a emozioni complesse, difficili o dolorose che troppo spesso non emergono. È dimostrato che questo tipo di attività sono utili allo sviluppo dell’autostima, alla concentrazione e alla disciplina; incentivano la socializzazione e il lavoro di gruppo, migliorano o si creano condizioni per migliorare o ristabilire il legame genitoriale. La realizzazione del progetto Liberi dentro per crescere fuori vede impegnate le cooperative sociali cagliaritane Elan (capofila), Exmè & Affini, Panta Rei Sardegna, Solidarietà Consorzio; Casa delle Stelle, la Casa circondariale Ettore Scalas di Uta, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sardegna (Uiepe), il Servizio Politiche Sociali Abitative e per La Salute del Comune di Cagliari, l’associazione Prohairesis e Aragorn S.r.l. Migranti. Il Consiglio di Stato ha annullato il decreto appalti per i Cpr di Rete No Cpr L’Unità, 23 ottobre 2025 Il Consiglio di Stato, su ricorso di alcune associazioni, ha annullato il decreto del Ministero dell’Interno del 4 marzo 2024, cui si devono uniformare i capitolati di appalto di gestione dei vari Centri per il rimpatrio, quanto a dotazioni di personale e fornitura di servizi da parte del gestore privato scelto dalla Prefettura di riferimento. Ciò in quanto il contenuto di tale decreto non sarebbe idoneo a tutelare le persone con vulnerabilità psichiatrica o sottoposte a trattamento farmacologico (in primis le persone tossicodipendenti), anche con riferimento alla necessità di contenere atti di autolesionismo e rischi di suicidio. La cosa ha determinato quindi la perdita di efficacia della regolamentazione di riferimento attualmente posta alla base degli appalti di gestione dei singoli Cpr, in attesa della sua sostituzione con altra che recepisca le osservazioni di cui sopra. Non possiamo non apprezzare il risultato ottenuto. Ricordiamo che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 96 dello scorso luglio, ha imposto una regolamentazione dell’intera materia Cpr, senza sortire al momento alcun effetto. Si è avuta notizia di qualche legale che invocando detta pronuncia abbia ottenuto il rilascio del proprio assistito, con problemi di salute. Maè davvero una buona idea pretendere e ottenere misure specifiche per la detenzione delle persone con vulnerabilità psichiatrica o comunque fragili? Oppure, ottenere che vi sia un presidio per questi ultimi all’interno dei Cpr finirà per consacrare definitivamente la deriva manicomiale dei Cpr? C’è il rischio concreto che con il pretesto di tale presidio venga definitivamente sdoganata la presenza - in un luogo che è tutto tranne che un luogo di cura - di persone con questo tipo di disagio, che invece lo stesso Regolamento Nazionale del 19 maggio 2022 all’art. 3 esclude che possano essere detenute in CPR: quindi, con un netto peggioramento rispetto alla situazione attuale. Migranti. Don Mattia Ferrari: “Noi disobbedienti? No, facciamo obbedienza civile” di Daniela Preziosi e Tommaso D’Elia Il Domani, 23 ottobre 2025 Il prete imbarcato sulle navi di Mediterranea: “Noi li soccorriamo, loro ci salvano. Le persone che praticano l’accoglienza si sentono salvate da questi incontri, restituiscono il significato profondo della vita”. “Al primo naufrago che ho incontrato in mare ho chiesto: da dove vieni? Mi ha risposto: dall’inferno”. “Papa Francesco ci ha aiutato, papa Leone XIV sta già facendo scelte importanti verso le persone migranti che subiscono forti ingiustizie”. “Il quinto incontro mondiale dei movimenti popolari è un processo avviato con papa Francesco. In tante parti del mondo questi movimenti hanno iniziato a camminare insieme. Tra queste parti del mondo c’era Buenos Aires, dove l’arcivescovo Bergoglio aveva vissuto in prima persona questo accompagnamento. Quando è diventato papa, ha deciso di avviare un processo in cui questi percorsi potessero confluire, in una dinamica continua fra locale e universale”. Don Mattia Ferrari è il coordinatore dell’incontro. Parla dal palazzo occupato di Spin Time, a Roma, dove coordina una meravigliosa convergenza - dalle Americhe, dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa - di attivisti, comunità organizzate e lavoratori che lottano per “Tierra, Techo, Trabajo” (terra, tetto e lavoro). Quattro giorni di dibattiti. Nel pomeriggio di giovedì 23 confluiranno in un pellegrinaggio giubilare, da Spin Time al Vaticano. Dove saranno ricevuti per la prima volta da papa Leone XIV. Don Mattia è anche il prete che va in mare con la piattaforma Mediterranea Saving Humans. “In mezzo al mare sono stato due volte, l’ultima l’anno scorso, nel 2024. Poi da poco siamo stati, con Luca Casarini, a inaugurare la nuova nave”. Quando incontrate naufraghi, qual è il suo ruolo? Nelle missioni, le operazioni di soccorso sono estremamente delicate, si è divisi in team. Nel primo momento deve intervenire il team rescue, quello del primo soccorso. Poi subentra il team sanitario, e poi la guest coordination, l’accoglienza degli ospiti a bordo. Ed è lì che si inserisce il nostro lavoro, dopo che le persone soccorse hanno ricevuto la prima urgente visita medica, e chi ha le ferite più gravi è stato curato. Si raccolgono le prime informazioni, si cominciano a costruire relazioni. I salvati sono sempre, o quasi, di religione diversa dalla sua. A che serve in mare un prete cattolico? Nelle missioni di soccorso in mare incontriamo tante religioni: cristiani cattolici, cristiani protestanti, ortodossi, musulmani. Molte di queste persone vengono da paesi in cui le differenze si vivono. Molti, appena iniziano a parlare, ci raccontano di rapporti di fraternità che ci sono fra loro, cristiani, musulmani. La presenza di un prete, ovvero della Chiesa, non è vista in senso ideologico. Un musulmano non ti chiede perché lì c’è un prete e non un imam, perché quando alla base c’è la fraternità, non si sente escluso per questo. ll nostro mondo occidentale si perde in dibattiti ideologici, ma prima viene la vita, e poi le idee. Prima viene il valore politico delle relazioni. La mia prima volta in missione era il 2019, ero presente quando ci fu il secondo soccorso. All’epoca c’era un clima culturale difficile, la nostra nave veniva chiamata la nave dei centri sociali. Non lo era? Per carità, è anche la nave dei centri sociali, ma non solo. Avevo preoccupazione. Anche paura, non ero mai stato in mare così. Però da subito abbiamo sperimentato che la nostra forza sono le relazioni. In un contesto durissimo, in mezzo al mare, con compagni di viaggio diversissimi, ma uniti da relazioni forti. ll vostro lavoro di salvataggio di persone, è nella sostanza un reato per la nostra legge. Minimo è favoreggiamento, come l’accusa su cui Luca Casarini e altri stanno subendo a Ragusa in queste ore. Perché? Si sovrappongono vari piani. Da una parte c’è una criminalizzazione della solidarietà che oggi è diventata un fatto culturale prima che politico, e non solo per i migranti. Si va sempre più delineando un mondo individualista, affascinato dagli autoritarismi. La solidarietà è quanto di più sovversivo ci sia. Gli autoritarismi si sono sempre eretti sul motto “me ne frego”, la solidarietà si basa sul motto “I care”. Che è il suo rovescio. Ma si sovrappongono altri piani: le persone spesso hanno paura dell’immigrazione, perché in una società individualista, le altre persone, tanto più se hanno qualche differenza da te, ti spaventano. È qui che si deve collocare la politica: deve guidare e accompagnare il popolo nel proprio sviluppo umano integrale, non inseguire la paura per il consenso. Sono passati binomi falsi: come immigrazione-sicurezza. Qualsiasi studio dimostra che il binomio è invece esclusione sociale-sicurezza. Lavorare per la sicurezza è importante. Dunque dobbiamo lavorare per l’inclusione, perché una società in cui le persone non sono emarginate è anche molto più sicura. Le vostre missioni son un pull factor per l’immigrazione? Altra cosa smentita da qualsiasi dato. La verità è che spesso il numero di partenze è più alto quando non ci sono navi in mare. E comunque è come dire che le persone guidano in modo spericolato perché tanto ci sono le ambulanze. Il vero push factor, il fattore di spinta, è la disumanità che i migranti vivono in Libia. E ora anche in Tunisia. Quelle persone sono arrivate lì per lavorare, non era l’Europa la meta principale. Ha ragione Piantedosi, voi arrivate a ridosso delle acque libiche? In mare agiamo nel pieno rispetto della legalità, ci è stato riconosciuto dalle molte inchieste. Non entriamo in acque libiche, entriamo nella zona Sar libica, che sono acque internazionali. Quando ci è stato detto di farci coordinare dalla cosiddetta Guardia costiera libica, ci siamo rifiutati, siamo stati indagati e poi la procura stessa ha chiesto l’archiviazione perché ha riconosciuto che l’ordine che ci era stato dato cozzava contro il diritto internazionale. Se uno dà un ordine sbagliato, noi disobbediamo. Per questo in realtà noi diciamo che “andiamo a fare un’opera di obbedienza civile”, non disobbedienza. Usiamo anche un’altra espressione: “Facciamo obbedienza civile e disobbedienza morale”. Non la morale della Chiesa, ma quella del “me ne frego”. Affermiamo la morale della solidarietà. Papa Francesco ha aiutato Mediterranea. Oggi, con Leone XIV, cambierà qualcosa? Papa Francesco ci ha aiutato moltissimo però, a onor del vero, dopo. È stata la Chiesa a iniziare ad aiutarci. Quando abbiamo cominciato ad aver relazioni con papa Francesco, avevamo già relazioni con circa 70 vescovi del Mediterraneo. Parrocchie, Scout. Quando è arrivato Francesco, già tutta la Chiesa si stava muovendo con noi. Tanto che quando Francesco è morto, non siamo rimasti soli. Di papa Leone conosciamo la storia. In questi primi mesi di pontificato ha già dato segnali chiari. È importante come si sta muovendo negli Usa, dove tutta la Chiesa sta svolgendo un’azione bellissima di solidarietà e fraternità verso le persone migranti che stanno subendo forti ingiustizie. Cos’è il mare, oggi, per lei? Quando ci troviamo in mezzo al mare, dopo i soccorsi, l’umanità è in una sorta di condizione primordiale. Il dato profondo è la fraternità: ti ritrovi con persone provenienti da tutto il mondo unite, che si abbracciamo. Ti chiedi come è possibile che al mondo ci siano tutte queste guerre, un sistema economico così ingiusto con alcuni che si arricchiscono a spese degli altri. Noi li soccorriamo, loro ci salvano. Le persone che praticano l’accoglienza si sentono salvate da questi incontri che restituiscono il significato profondo della vita. In mare non hai nulla ma capisci che per noi esseri umani la ricchezza enorme e profonda sono le relazioni. Qual è stata la prima persona che ha visto in mare? Il mio primo soccorso, vedemmo una barca. Lontana, con il binocolo. Arrivammo vicini con la barca a vela, quella di appoggio alla Mare Ionio, perché avvicinarsi con la nave grande sarebbe pericoloso. Uno di noi chiese “Where are you from?”, uno di loro rispose “From hell”, dall’inferno. Lei è uno degli “attivisti” intercettati. Si è fatto un’idea di chi sia la spia? Ho poche risposte, ma molte domande. Di Luca Casarini, Beppe Caccia e David Yambio, si sa chi è stato, sono stati i servizi segreti, lo ha detto il Copasir. Ma perché? David è stato spiato sul cellulare intestato a me, che gli ho dato perché quel telefono è uno strumento di solidarietà, di trasmissione delle voci, delle storie dei migranti, all’Europa, ai movimenti e alle istituzioni. Perché si spia la solidarietà? Perché la solidarietà è diventata sovversiva. Invece sul telefono di Francesco Cancellato e sul mio la relazione del Copasir dice che non sono stati i servizi. E allora chi? Non siamo interessati allo scontro politico ma alla riconciliazione, ma il presupposto della riconciliazione è la verità. Ci interessa un incontro con le istituzioni. Ad oggi ancora non c’è stato. Da quando la solidarietà è diventata sovversiva? Il mondo brucia: o ci mettiamo insieme e riscopriamo un significato profondo della nostra esistenza, oppure bruceremo tutti con il mondo. I segnali sono importanti, dalle guerre al cambiamento climatico. Se vogliamo salvarci dobbiamo prenderci per mano. E fermare l’incendio. Migranti. Tunisia, il prezzo della frontiera: così i soldi italiani finanziano la repressione di Saied di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 23 ottobre 2025 Il paese nordafricano è diventato un laboratorio di repressione finanziato con fondi europei e italiani. Lo dimostra anche l’ultimo rapporto di Avocats Sans Frontières “Prigioni a cielo aperto”. Solo da Roma sono arrivati 40 milioni in quattro anni, mentre nel paese il regime è sempre più forte. Dietro il calo degli sbarchi provenienti dalla Tunisia c’è una realtà che non viene rappresentata nelle statistiche del Viminale sugli arrivi in Italia. Dietro ogni numero c’è una storia, fatta di violenze e repressione con la complicità delle istituzioni italiane. Sono storie che passano in secondo e terzo piano nella propaganda di governo che continua a vantare a ogni occasione utile il segno meno davanti ai numeri del ministero. Lo scenario tunisino sta diventando sempre più preoccupante. Il paese nordafricano è diventato un laboratorio di repressione finanziato con fondi europei e italiani. Alle prove presentate da diverse inchieste giornalistiche internazionali si aggiunge il rapporto “Prigioni a cielo aperto” realizzato da Avocats Sans Frontières che documenta - dati alla mano - come la cooperazione tra Roma, Bruxelles e Tunisi non ha fatto altro che legittimare il regime repressivo del presidente Kais Saied con l’obiettivo di fermare le partenze ma a discapito di violazioni di diritti umani che sono all’ordine del giorno. In un solo anno, le intercettazioni in mare sono aumentate del 45 per cento, mentre le partenze verso l’Italia sono crollate dell’80 per cento. Ma insieme ai numeri ufficiali crescono anche le denunce: respingimenti collettivi, deportazioni nel deserto, arresti di massa. In questo scenario preoccupante l’Italia svolge un ruolo di primo piano. Negli ultimi vent’anno le autorità hanno non soltanto hanno garantito finanziamenti milionari alla Tunisia, accompagnati da mezzi marittimi e terrestri, ma hanno anche addestrato la Guardia costiera tunisina diventata nel mentre sempre più violenta con i migranti subsahariani e i cittadini tunisini. Dal 2020 al 2024 i fondi italiani hanno superato i 40 milioni di euro, destinati alla riparazione e all’acquisto di motovedette, fuoristrada e sistemi di sorveglianza. Ogni incremento di partenze, spiega il rapporto, è seguito da nuove forniture o protocolli: una catena che lega gli aiuti alla capacità di “contenere” i flussi. Questo trend è riscontrabile più volte. A ogni aumento delle partenze, ci sono nuovi accordi economici. È accaduto nel 2011, poi nel 2017 e l’ultima volta in piena pandemia nel 2021. I soldi forniti dal governo italiano non sono legati a un meccanismo di controllo che possa verificarne l’utilizzo. Ma, si legge nel rapporto, non mancano indizi e prove che alcuni dei mezzi europei e italiani siano stati impiegati nelle intercettazioni e nei respingimenti eseguiti dalla guardia costiera tunisina a largo delle sue coste. E alcune delle intercettazioni si trasformano in tragedie: il naufragio di Sfax del 5 aprile 2024, ricostruito da immagini satellitari e testimonianze, sarebbe avvenuto durante una manovra di speronamento, eseguite dalla guardia tunisina. C’è un altro ruolo di primo piano svolto dall’Italia e più nello specifico dalla premier Giorgia Meloni che è quello di mediatrice per conto di Saied all’interno delle istituzioni dell’Unione europea. Dopo diverse visite di stato a palazzo Cartagine, il governo Meloni ha facilitato le trattative tra Tunisi e Bruxelles che hanno portato poi il 16 luglio del 2023 alla firma del Memorandum of Understanding dal valore complessivo di un miliardo di euro. L’accordo, presentato come “partenariato globale”, prevede 105 milioni per la gestione delle frontiere, 150 milioni di aiuti macrofinanziari e il resto dei finanziamenti legato a riforme economiche richieste dal Fondo Monetario Internazionale. Ma per il momento, questi soldi servono a rafforzare l’apparato di sicurezza tunisino, che sta diventando sempre più violento nei confronti dei suoi cittadini. E anche qui non esiste un meccanismo pubblicato per tracciare l’uso dei fondi né una clausola che ne sospenda l’erogazione in caso di abusi. Come accaduto nel caso di alcuni dei pick-up dati dall’Ue, per esempio, che sono stati visti trasportare gruppi di migranti verso le zone desertiche di confine. L’altra faccia dei finanziamenti di Ue e Italia è il rafforzamento del regime tunisino e la legittimazione del presidente Kais Saied che dal 2021 a oggi ha eseguito un colpo di mano istituzionale accentrando su di se i poteri. Un accentramento che ha portato a una dura repressione interna non solo contro i migranti ma anche contro avvocati, attivisti, giornalisti e società civile. La repressione è aumentata a partire da febbraio 2023 quando davanti al Consiglio di Sicurezza nazionale, Saied ha accusato le “orde di migranti subsahariani” di essere una “minaccia demografica” per il paese. Parole che hanno innescato una campagna di violenze, rastrellamenti e deportazioni dei migranti verso le frontiere con la Libia. Persone lasciate a morire di stenti in mezzo al deserto senza cibo e acqua. Fatti documentati con testimonianze raccolte anche in altri articoli di Domani. Nel frattempo, il governo tunisino ha incarcerato centinaia di persone tra giornalisti, avvocati e attivisti tra cui Sonia Dahmani o Sherifa Riahi, in carcere solo per aver denunciato abusi o criticato la politica migratoria di Saied. Oggi in Tunisia, con la complicità dei soldi dell’Ue e dell’Italia, c’è un sistema che non si limita a respingere chi parte ma mette a tacere anche chi prova a raccontarlo. Medio Oriente. La Cpi non arretra: Israele deve far entrare l’Unrwa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 ottobre 2025 Nuovo intervento della Corte internazionale: fame usata come arma di guerra, illegale impedire l’accesso alle Nazioni unite. La decisione inchioda anche le tante cancellerie occidentali, dagli Stati uniti all’Italia, che bloccarono i fondi all’agenzia solo sulla base delle illazioni israeliane. La Knesset approva in prima lettura l’annessione della Cisgiordania. E i centristi votano sì, a metà. “Israele ha l’obbligo di riconoscere e facilitare i programmi di soccorso forniti dalle Nazioni unite e dai suoi enti, compresa l’Unrwa”. Sono le parole con cui il presidente della Corte internazionale di Giustizia (Cig), Yuji Iwasawa ieri nel primo pomeriggio ha riassunto i contenuti dell’ultima decisione emessa dal più alto tribunale del pianeta. A rivolgersi all’Aja era stata l’Assemblea generale delle Nazioni unite, dopo una serie di interventi politici e legislativi con cui Tel Aviv aveva realizzato un suo vecchio desiderio: sbarazzarsi dell’agenzia che, dalla Nakba in poi, tutela i rifugiati palestinesi e i loro discendenti, fornendo loro servizi sociali e culturali e - soprattutto - tenendo vivo il diritto inalienabile al ritorno nelle loro terre. L’occasione per cacciare l’Unrwa dai Territori palestinesi occupati di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est è arrivata il 7 ottobre 2023. Israele ha fin da subito avviato una durissima campagna diffamatoria contro l’agenzia, accusandola di legami con Hamas. A dicembre 2023 prese di mira dodici dipendenti gazawi, affermando di avere prove incontrovertibili della loro partecipazione all’attacco al sud di Israele. Comprò anche spazi sponsorizzati su Google così che il primo risultato della ricerca “Unrwa” conducesse a un sito del governo israeliano con nessuna prova ma tante illazioni. Bastò quello ai governi occidentali, dagli Stati uniti dell’allora presidente Biden all’Italia e al resto d’Europa, per interrompere immediatamente i finanziamenti a un’agenzia in crisi cronica da anni e in piena emergenza in quelli del genocidio. Solo mesi dopo alla spicciolata le cancellerie occidentali ripresero i finanziamenti, costretti dalla totale assenza di prove fornite da Tel Aviv e a seguito del primo intervento della Cig nel gennaio 2024 che - riconoscendo l’esistenza di un genocidio plausibile - intimava a Israele di garantire l’ingresso massivo di aiuti umanitari. Di decisioni ne seguirono altre, tutte chiarissime ma impotenti di fronte all’impunità di Israele che lo scorso anno ha definitivamente messo al bando l’Unrwa dal proprio territorio, impedendogli di lavorare nei Territori occupati, raggiungibili solo se Israele lo consente. La Corte lo ha ribadito ieri: l’Unrwa non ha legami con Hamas; Tel Aviv in quanto potere occupante illegale ha l’obbligo di facilitarne le attività e di rimuovere gli ostacoli all’ingresso di aiuti umanitari; la fame imposta a Gaza è un crimine di guerra e contro l’umanità. Una decisione politicamente pesantissima, che inchioda tante capitali, non solo Tel Aviv, tanto più davanti a un valico di Rafah ancora serrato (dal maggio 2024 non passa nemmeno un sacco di farina) e un numero di camion in ingresso dall’entrata in vigore della tregua assolutamente insufficienti ai bisogni di una popolazione stremata e affamata dalla carestia. La Cpi ha infine bocciato il “sostituto” inventato da Washington e Tel Aviv a inizio estate, la Gaza Humanitaria Foundation, meccanismo crudele di “distribuzione” degli aiuti che è servito a camuffare il reale obiettivo, la pulizia etnica del nord e il centro. Immediate le reazioni delle autorità israeliane che hanno definito la decisione “vergognosa” e accusato la Corte di “coltivare il terreno per il terrorismo”. In ogni caso Israele ignorerà anche tale sentenza. Lo ha fatto di nuovo ieri con un voto alla Knesset, giunto proprio mentre il vice presidente statunitense JD Vance incontrava il primo ministro Netanyahu: il parlamento - con 25 voti a favore e 24 contrari (il Likud ha disertato per togliersi dall’impaccio) - ha approvato in lettura preliminare il disegno di legge per l’annessione della Cisgiordania, l’estensione cioè della sovranità israeliana sull’intera West Bank. Una porzione dei territori palestinesi occupati nel 1967 dove Israele - sentenza della Corte internazionale del luglio 2024 - ha imposto un’occupazione illegale, un’annessione di fatto e un sistema di apartheid. Tra le feste dell’ultradestra, spiccava il voto dei cosiddetti centristi oppositori di Netanyahu: no all’annessione totale ma sì all’annessione di blocchi di colonie. Intanto a Gaza l’offensiva prosegue sotto altre forme. Ieri le autorità israeliane hanno consegnato trenta corpi di palestinesi morti in custodia. A oggi ne sono rientrati 195, di cui decine presentano i segni di torture, mutilazioni ed esecuzioni. Di nessuno si conosce l’identità, spetta ai familiari sperare di riconoscerne i tratti nei volti sfigurati. Prosegue anche il recupero dei corpi dei dispersi tra le macerie, a mani nude, come avviene ormai da mesi vista la distruzione sistematica da parte di Israele dei mezzi da lavoro e ricerca. Lo raccontava ieri il giornalista Hani Mahmoud: “Molte delle famiglie che tornano a nord usano le mani per cercare i resti dei propri cari nelle macerie delle case. Per molti è la prima volta dopo mesi nei campi sfollati. Tornano in quartieri ridotti a una pila di rovine e polvere”. Chi è il Mandela palestinese, l’uomo che Netanyahu teme di più e che da 23 anni è in carcere di Jacopo Fo Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2025 Per Israele liberare Marwan Barghouti sarebbe un grave problema e Hamas non piange per la sua mancata liberazione: è il suo più forte avversario. In questo scambio di prigionieri Israele ha liberato alcuni terroristi responsabili dell’uccisione di civili inermi ma non ha liberato Marwan Barghouti, il capo militare di Al Fatah, che ha sempre condannato le azioni armate contro i civili israeliani e contestato le accuse mosse contro di lui dal tribunale israeliano. Barghouti è il leader palestinese più acclamato e secondo molti osservatori vincerebbe una competizione elettorale. I media di regime hanno parlato poco del suo restare in carcere perché la sua esistenza dimostra che i palestinesi non sono tutti seguaci di Hamas e quindi - secondo Israele - degni di essere ammazzati. È scomodo ammettere che in Palestina esiste un vasto consenso verso un accordo su “due popoli due Stati”, unica possibilità per una vera fine del conflitto. Per Israele liberare Barghouti sarebbe un grave problema perché renderebbe evidente che la maggioranza dei palestinesi lo sostengono e sostengono la sua visione. E Hamas non piange per la sua mancata liberazione perché lo teme: è il più forte avversario. La posizione pacifista di Barghouti è molto chiara: ecco cosa scrisse in occasione della morte di Mandela, nel 2013: “La tua capacità di essere un simbolo di unificazione e un condottiero a partire dalla tua cella di prigioniero, tenendo nelle mani il futuro del tuo popolo mentre eri derubato del tuo stesso futuro, sono segni di un grande leader, eccezionale, e di una figura davvero storica. Io saluto il combattente per la pace, il negoziatore di pace e il costruttore di pace che tu sei, mentre sei nello stesso tempo il leader militante e l’ispiratore di una resistenza pacifica, il combattente senza tregua e l’uomo di Stato.” Come Mandela Barghouti iniziò la sua attività politica sostenendo la necessità di combattere con le armi il governo fascista israeliano e come Mandela si è reso conto che lo scontro militare non ha possibilità di vincere e decide di scegliere la via pacifista e puntare sull’isolamento internazionale del governo genocida israeliano. Questa strategia pacifista e non l’uso delle armi, ha permesso di sconfiggere il governo fascista sudafricano responsabile di terribili atrocità e crimini contro l’umanità. Se Usa e Israele avessero veramente intenzione di battere Hamas e arrivare alla pace, per prima cosa dovrebbero liberare Barghouti ma non vogliono la pace, vogliono la totale distruzione del popolo palestinese. Solo l’immensa mobilitazione mondiale e la forza dello sciopero degli acquisti delle merci degli amici di Netanyahu, li ha costretti a questa tregua, già più volte violata dall’esercito israeliano. Barghouti resta in carcere in condizioni disumane, ha subito torture e viene sotto alimentato e privato delle cure mediche. Turchia. Erdogan scatenato: chi sponsorizza la cultura Lgbtq andrà in prigione di Ferhat Inam* Il Dubbio, 23 ottobre 2025 La Turchia si trova di fronte a una nuova era di repressione che prende di mira la comunità Lgbtq+. Le dichiarazioni di Erdogan e dell’AKP sull’”imposizione Lgbt” fanno parte di una campagna pubblica che criminalizza le persone Lgbtq+ visibili. Il disegno di legge dell’11° Pacchetto Giudiziario mira a legalizzare tutto ciò. I testi del disegno non rappresentano solo una regolamentazione legale, ma un tentativo del governo di disciplinare corpi e identità. Il pacchetto prevede disposizioni come 1-3 anni di reclusione per “chiunque mostri o promuova comportamenti contrari al sesso biologico innato e alla morale pubblica”, 1,5- 4 anni di reclusione per persone che organizzano cerimonie di fidanzamento o matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’aumento dell’età per la transizione di genere a 25 anni e l’irrigidimento delle procedure mediche, e 3- 7 anni di reclusione con multa per il cambiamento di genere illegale. Questi articoli mirano a punire la visibilità e l’identità, legittimati dal discorso sulla “moralità” e sulla “protezione della famiglia”. La teoria degli apparati ideologici dello Stato di Althusser offre un quadro critico per comprendere la situazione in Turchia. Dall’istruzione ai media, dalla magistratura alla religione, tutti i meccanismi lavorano per produrre un cittadino uniforme: un modello eterosessuale, obbediente e nazionalista. Le persone Lgbtq+ sono codificate come fuori norma e ma strumenti legali per controllare corpi, desideri e amore. L’ 11° Pacchetto Giudiziario è l’ultimo capitolo della strategia di guerra culturale di Erdogan. La legge mira a dichiarare una comunità “immorale” ed escluderla dallo spazio pubblico; il problema non è proteggere la famiglia, ma riaffermare l’obbedienza. Ogni volta che in Turchia si menziona la parola “riforma”, una parte della società si inquieta. L’esperienza mostra che la “riforma” appare spesso come una nuova forma di oppressione legalizzata. L’11° Pacchetto Giudiziario non rappresenta la neutralità giudiziaria, ma la volontà ideologica del potere. Questa volontà cerca di controllare i corpi, criminalizzare l’identità e censurare l’amore. Tuttavia, la storia ci insegna che l’esistenza non può essere soppressa dalla legge. Le persone Lgbtq+ non sono il nemico di questo Paese: sono la sua coscienza. La nostra esistenza funge da termometro della capacità democratica della Turchia. Se lo Stato può sostenersi ignorandoci, quello Stato è già destinato al collasso. E se continuiamo a esistere nonostante tutta questa pressione, significa che la società è ancora salvabile. Oggi essere visibili, parlare, amare e resistere sono tutti atti politici. Perché in queste condizioni, semplicemente vivere è un atto di resistenza. Anche se leggi come l’11° Pacchetto Giudiziario prendono di mira individui Lgbtq+ e libertà sociali, la nostra esistenza e visibilità rimangono la forma più potente di resistenza. *Attivista per i diritti umani