Il Dap chiede miracoli a chi lavora in carcere già oltre ogni limite di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2025 La direttiva per i direttori e agenti penitenziari riconosce le criticità del sistema, ma scarica sugli operatori la responsabilità di un sistema al collasso. Mentre il sovraffollamento non cala e i suicidi continuano - siamo alla 68esima persona ristretta che si toglie la vita, mentre muore un detenuto di 265 chili in attesa di un letto adeguato - c’è un passaggio della nota che il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha inviato la scorsa settimana ai direttori degli istituti che rivela, più di ogni statistica, lo stato di sofferenza del sistema carcerario italiano. È quando emerge che “non è ulteriormente tollerabile che il personale di Polizia addetto alla vigilanza diventi il prevalente presidio di contenimento di problematiche che traggono origine da ritardi nell’erogazione dei servizi, da mancate comunicazioni, da difetti di coordinamento”. Tradotto: le aggressioni quotidiane agli agenti, i danneggiamenti, le rivolte sono colpa di disfunzioni organizzative. E chi deve risolverle? Gli stessi direttori e funzionari che operano in emergenza permanente, con organici decimati e istituti che ospitano il doppio dei detenuti previsti. La nota GDAP n. 0435332. U - trasmessa per conoscenza anche alle organizzazioni sindacali e firmata dal vertice del Dap - è un documento denso, che nelle sue cinque pagine offre un’analisi lucida delle criticità del sistema penitenziario italiano. Ma è anche un testo che rivela, tra le righe, una contraddizione stridente: chiede più presenza, più efficienza, più coordinamento a un personale che già lavora oltre ogni limite sostenibile. E lo fa in un contesto - quello del sovraffollamento cronico - che viene citato quasi en passant, come una variabile esogena da “attenuare” con la buona volontà operativa. Il cuore della direttiva è chiaro: ogni inefficienza organizzativa - un ritardo nella consegna degli effetti personali, un’incertezza nell’organizzazione di colloqui, una lentezza nella gestione sanitaria - diventa “terreno fertile per malcontento e conflittualità”. Da qui l’insistenza sull’accoglienza come momento cruciale. “L’ingresso in istituto rappresenta un momento ad altissima criticità, nel quale si gioca la prima percezione del detenuto rispetto al contesto in cui vivrà”, si legge nel documento. L’obiettivo dichiarato è nobile: trasformare l’accoglienza da “routine priva di attenzione” a “processo dinamico, concreto e continuativo”. Si chiede all’Ufficio matricola e alla Sorveglianza Generale di “garantire fin dal primo contatto una sistemazione alloggiativa appropriata e la tempestiva attivazione delle misure organizzative necessarie”. Ed è proprio qui, su questa richiesta di “sistemazione alloggiativa appropriata”, che la direttiva del Dap si scontra con una realtà che rasenta il grottesco. Perché come si garantisce una sistemazione “appropriata” quando gli istituti penitenziari presentano oramai un sovraffollamento che si attesta al 135 percento? Come si offre un’accoglienza dignitosa quando i nuovi giunti vengono sistemati in celle già oltre ogni limite, quando mancano i materassi, quando gli spazi vitali si misurano in decimetri quadrati anziché in metri? Il funzionario dell’Ufficio matricola che legge questa direttiva e poi guarda le celle sovraffollate del suo istituto deve provare un senso di straniamento totale. Gli si chiede di garantire “fin dal primo contatto” una sistemazione appropriata in un luogo dove l’appropriatezza è ormai un lusso impossibile, dove la dignità abitativa è stata sacrificata sull’altare di politiche penali sempre più repressive e mai compensate da investimenti strutturali. Si chiede inoltre che “il funzionario giuridico- pedagogico deve incontrare il detenuto nell’immediatezza, non limitandosi a raccogliere dati burocratici, ma svolgendo un’azione di osservazione diretta”. L’immagine è suggestiva: il funzionario che si prende il tempo per conoscere davvero il nuovo arrivato, che ne intercetta “bisogni, fragilità e potenziali fattori di rischio”. Ma quanti sono questi funzionari? Con quale rapporto rispetto alla popolazione detenuta? E con quale tempo materiale, se devono anche garantire - come richiesto dalla stessa nota - “una presenza costante nelle sezioni detentive, a stretto contatto con la popolazione detenuta”? Un capitolo particolarmente delicato della direttiva riguarda la gestione sanitaria, definita “uno dei fronti più sensibili e delicati, spesso fonte di tensioni che sfociano in eventi critici”. Il tono qui si fa ancora più prescrittivo: “È indispensabile che il ricorso ai trasferimenti esterni venga circoscritto ai soli casi indifferibili e documentati da certificazioni puntuali”. Si denuncia la frequenza dei “cosiddetti pendolarismi ospedalieri per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza”. E si chiede al medico penitenziario di “assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita”. Qui il documento tocca un nervo scoperto e lo fa con una formulazione che oscilla pericolosamente tra razionalizzazione necessaria e compressione del diritto alla salute. Da un lato è vero che alcuni trasferimenti ospedalieri potrebbero essere evitati con una maggiore efficienza dell’assistenza interna. Dall’altro, però, la richiesta suona come un invito a stringere i cordoni della borsa sanitaria in un contesto - quello penitenziario - già pesantemente deficitario. Come si concilia la richiesta di “valorizzare le risorse interne” con la cronica carenza di personale medico? Il medico penitenziario che deve decidere se chiamare o meno il 118 si trova ora investito di una responsabilità ancora maggiore: non solo deve valutare la gravità clinica, ma deve anche chiedersi se sta contribuendo a quei “pendolarismi ospedalieri” che il Dap considera eccessivi. È una pressione psicologica non da poco, che rischia di tradursi - nei fatti - in una maggiore reticenza nel ricorrere a strutture esterne, con tutto ciò che questo può comportare per la salute dei detenuti. Ed eccolo, finalmente, il tema del sovraffollamento. Compare nel documento, introdotto quasi timidamente: “Il sovraffollamento costituisce un fattore moltiplicatore di tensioni, che rende complessa la gestione della quotidianità detentiva”. Si ammette dunque l’evidenza: il sovraffollamento esiste, è un problema, complica tutto. Ma la soluzione proposta è disarmante nella sua insufficienza: “In simili condizioni, diventa ancora più urgente che tutti gli operatori - giuridico-pedagogici, sanitari, amministrativi - condividano il lavoro con la Polizia penitenziaria rendendosi disponibili in modo visibile e fattivo facendosi carico di colloqui diffusi e spiegazioni dirette”. In altre parole: siccome c’è il sovraffollamento, dovete lavorare ancora di più e meglio. Non una parola su come ridurre il sovraffollamento. Non un accenno a politiche di deflazione carceraria, a maggiore ricorso alle misure alternative, a un ripensamento delle politiche penali che continuano ad alimentare la popolazione carceraria. Il sovraffollamento viene trattato come una costante immutabile, una sorta di calamità naturale alla quale adattarsi con maggiore efficienza organizzativa, come se fosse un evento meteorologico avverso e non il prodotto di precise scelte politiche e legislative. La direttiva del Dap ha il merito di nominare i problemi, di chiamare tutti - non solo la Polizia Penitenziaria - a farsi carico della gestione detentiva. Ha il pregio di riconoscere che “sicurezza e trattamento non sono due binari paralleli, ma due dimensioni inscindibili della vita penitenziaria”. Ma ha anche il limite, gravissimo, di scaricare sulle periferie del sistema - direttori, funzionari, operatori - la responsabilità di risolvere con maggiore efficienza problemi che hanno radici strutturali e politiche. Carcere, 294 giorni, 67 suicidi. Breve storia triste di un suicidio e mezzo a settimana di Guido Sola lapressa.it, 22 ottobre 2025 Questo carcere è pensato solamente per infliggere sofferenze nella perenne, inutile, sospensione della quotidianità. Questo carcere va ripensato. È sovraffollato. Certo. Ma è, anche e prima ancora, immobile. Questo carcere, oggettivamente, è un’istituzione sempre uguale a se stessa. Improntata a non-vita. Tutto ciò non può non produrre disperazione. È la disperazione, in ultima analisi, a condurre le persone che quotidianamente vi si trovano recluse a perdere la speranza. E, senza speranza, come noto, non possono esservi né vita né vite. Il problema, a conti fatti, non è il carcere. Perché il carcere è sempre esistito e, oggettivamente, deve esistere. Ma è questo carcere. Perché questo carcere è pensato solamente per infliggere sofferenze nella perenne, inutile, sospensione della quotidianità. Ciò detto: quando si ragiona di carcere, il sovraffollamento rappresenta sicuramente un problema con la P maiuscola. Per affrontare il quale la politica spesso propone la costruzione di nuove carceri. Come si diceva, il carcere è sempre esistito e, oggettivamente, deve esistere. Da questo punto di vista, se le carceri sono sovraffollate, come certamente sono, sarebbe effettivamente corretto anche costruire nuove carceri. Ciò non toglie, però, che il sovraffollamento rappresenti un problema che si dovrebbe affrontare anche dal punto di vista giuridico. Vale a dire potenziando i percorsi propri delle misure alternative alla detenzione. Che, peraltro, rappresentano gli unici percorsi riabilitativi davvero in grado di sterilizzare gli arcinoti fenomeni di recidiva connessi all’esecuzione intramuraria della pena. Anche da questo punto di vista, sinceramente, bisognerebbe riflettere seriamente sull’effettiva opportunità di potenziare consimili percorsi. Ciò anche nell’ottica, importante, di assicurare alla cittadinanza quella sicurezza sociale che giustamente la cittadinanza pretende e che questo carcere, non essendo capace di rieducare, non è in grado di assicurare. Diciamolo chiaramente: qualunque pena, per quanto severa possa essere, ha una fine, sopraggiunta la quale, benché non rieducato, il condannato dovrà comunque essere liberato, con tutte le conseguenze del caso. Ciò, soprattutto nell’ottica di un governo di destra, per sua natura così giustamente attento alla sicurezza della collettività, dovrebbe rappresentare una precisa consapevolezza. Una precisa consapevolezza negativa, sulla quale innestare altrettanto precise linee di azioni per il futuro atte a ripensare alla radice un’istituzione, il carcere, che, così impostata, si appalesa tanto inutile quanto costosa. Suicidi in carcere, per il ministro Nordio non è colpa del sovraffollamento di Andrea Sparaciari La Notizia, 22 ottobre 2025 Ma le statistiche raccontano altro. Per il ministro Nordio a togliersi la vita sarebbero i detenuti prossimi alla liberazione. Il sovraffollamento carcerario non determina i suicidi. È l’ultima perla regalata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Parlando al convegno della Fondazione Essilor Luxottica, il Guardasigilli ha infatti spiegato: “Molti suicidi dei detenuti avvengono, non all’ingresso in carcere, quando ti crolla il mondo addosso - ed in quel momento non vedi altra soluzione se non toglierti la vita -, ma quando le persone stanno per uscire”. “Rispetto ai problemi del sovraffollamento nelle carceri questo non ha alcuna relazione con i suicidi, come si legge sui giornali”, ha continuato Nordio, “Il sovraffollamento determina semmai l’aggressività, mentre è la solitudine che determina il suicidio, la disperazione, la mancanza di speranza”. In 16 mesi, 124 suicidi dietro le sbarre - Affermazioni smentite dai numeri elaborati dall’associazione Antigone in base ai dati del dossier di Ristretti Orizzonti e del Garante Nazionale dei detenuti: tra gennaio 2024 e maggio 2025 si sono tolte la vita in carcere 124 persone. Di queste, 53 erano state condannate in via definitiva (il 43% del totale), mentre 49 erano in attesa di primo giudizio (il 40%). Dieci persone avevano una posizione giuridica mista con almeno una condanna definitiva, mentre una persona aveva una posizione giuridica mista, ma senza alcun definitivo. Cinque erano le persone appellanti, due le ricorrenti. Una persona era internata in via provvisoria. Una persona era in misura di sicurezza presso una Rems. Per due persone non è stato possibile reperire informazioni relative alla posizione giuridica. L’ultimo a togliersi la vita, tre giorni fa, è stato un 29enne, di origine africana e affetto da disturbi mentali, nella Casa Circondariale di Ariano Irpino. Numeri che evidentemente sfuggono o non interessano a Nordio. Occhiali gratis per tutti - Che però ieri una buona notizia l’ha data, ovvero la firma di un protocollo d’intesa tra il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e Luxottica per l’avvio di un nuovo programma di visite oculistiche presso gli Istituti penali per i minorenni. L’iniziativa offrirà visite e occhiali da vista ai giovani detenuti, con l’obiettivo di favorirne il benessere, la dignità e il reinserimento sociale. Si tratta di quegli stessi detenuti minorenni ai quali il governo Meloni ha tagliato gran parte dei programmi di reinserimento e ne ha facilitato il passaggio nelle carceri per adulti, una volta divenuti maggiorenni. Ma possono consolarsi: in mezzo ai detenuti veri, gli ex minorenni potranno sfoggiare elegantissimi occhiali Luxottica. Nelle carceri italiane stanno aprendo le prime stanze dell’affettività di Salvatore Toscano L’Indipendente, 22 ottobre 2025 Nelle carceri italiane stanno aprendo le prime stanze dedicate ai colloqui intimi, in osservanza della sentenza della Corte Costituzionale che, quasi due anni fa, ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di affettività in carcere. Seguendo l’esempio degli istituti di Padova e Terni, il Lorusso e Cotugno di Torino si doterà, a partire dal primo novembre, di una stanza per gli incontri affettivi. Questi ultimi, proprio come per i colloqui, potranno essere richiesti dai detenuti una volta al mese, per una durata di un’ora. L’utilizzo del locale, privo della supervisione della polizia penitenziaria, è disciplinato da ordinanze interne che si rifanno alle linee guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP). Secondo quanto stabilito da quest’ultimo, non potranno accedere alla misura i reclusi sottoposti a isolamento sanitario o a regime di 41bis e coloro che hanno commesso durante la detenzione un’infrazione disciplinare o violato la legge, possedendo ad esempio microtelefoni o sostanze stupefacenti. “L’ordinamento giuridico tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l’essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice”. Così si era espressa la Corte Costituzionale nel gennaio del 2024, con una sentenza che, richiamando la funzione educativa della pena, la serenità della famiglia e la salute psicofisica del detenuto, ha scardinato un tabù della società italiana: l’affettività in carcere. La sentenza, oltre ad avvicinare l’Italia a diversi Paesi europei, ha sancito che il detenuto ha il diritto di incontrare riservatamente non soltanto il coniuge, ma anche la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente, riferendosi dunque anche alle coppie di fatto o omosessuali. Il primo istituto penitenziario ad adeguarsi alla strada tracciata dalla Consulta è stato quello di Terni, seguito da Padova e Torino. Le stanze dedicate agli incontri intimi sono arredate con un letto e annessi servizi igienici, non sono chiudibili dall’interno e la sorveglianza del personale di polizia penitenziaria è limitata all’esterno del locale. L’accesso da parte dei detenuti è regolamentato da ordinanze interne, compatibili con le disposizioni del DAP. Quest’ultimo è stato criticato dal sindacato di polizia OSAPP per il suo lavoro “fulmineo nell’applicare la sentenza della Corte Costituzionale e nell’organizzare l’intimità con una velocità che stupisce”. Dagli ultimi dati disponibili, la platea di potenziali beneficiari dei colloqui intimi è di circa 17mila detenuti. Sono esclusi quelli sottoposti a regime di 41bis e coloro che sono stati sospesi con sostanze stupefacenti, telefoni cellulari e oggetti atti a offendere. Per chi ha commesso un’infrazione disciplinare l’accesso è inibito per almeno sei mesi. L’ultima previsione, come rilevato da una parte della dottrina, rischia di attribuire alla misura una funzione disciplinare: sospendere un diritto in caso di infrazione introduce infatti una logica premiale, quando non apertamente punitiva. Con Nordio solo nuovi reati di Don David Maria Riboldi L’Unità, 22 ottobre 2025 Il 22 ottobre del 2022 il Governo Meloni faceva il giuramento al cospetto del Presidente Mattarella. La memoria mi ha riportato a quell’intervista al neo ministro della Giustizia, che attendevo con trepidazione. Tanti amici, tra avvocati e magistrati, mi avevano acceso alte aspettative su di lui. L’avevo vista, subito. Fuori dal Quirinale. Ora, riascoltandola a distanza di tre anni fa un po’ effetto. Si può trovare il video su Raiplay. Disse così (trascrizione mia): “La velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati; quindi bisogna eliminare questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali: questo non è vero, l’abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto 40 anni il pubblico ministero”. Il 31.10.22, nove giorni dopo, il primo consiglio dei ministri. Il primo nuovo reato: rave-party. Sulla conta, condotta da L’Unità del 16.10, il numero totale dei nuovi reati ammonta a 48. In tre anni. Alcuni con un certo sensazionalismo, come l’aver introdotto la parola ‘femminicidio’ nel codice penale, dandogli un articolo tutto suo. Un amico avvocato mi ha detto che il codice penale a lui in uso ha avuto 9 edizioni in questi 36 mesi. Nove. Ma, titoloni a parte, da depenalizzare a introdurre 48 nuovi reati… ne passa. Ma ve lo ricordate il ministro Nordio subito dopo il giuramento al Quirinale? Diceva che avendo fatto per 40 anni il magistrato sapeva che non serve moltiplicare le leggi penali (andatevelo a vedere su Raiplay). Hanno introdotto 48 nuovi reati. In tre anni. Per carità: un governo eletto ha il diritto e il dovere di portare avanti una linea di politica corrispondente al voto. E la linea detta ‘securitaria’, che l’attuale esecutivo sta portando avanti, non sembra disattendere la sua base. Sembra anzi trovare il plauso della temperie culturale odierna: basta frequentare i social. Stupiscono queste affermazioni, pronunciate quasi un annuncio programmatico, appena fuori dal colle, con tutto quel che è venuto dopo. Chissà dove avrà ‘sciacquato i panni’ il ministro, per ritrovarci tre anni dopo a una foce ben diversa dalla sorgente. Comunque il neo ministro sosteneva che la depenalizzazione velocizzi la giustizia. Un tema assai caro a chi lo precedette: la ministra Cartabia. Che non a caso iniettò grandi forze lavorative nei tribunali con l’ufficio del processo: 16.000 nuovi operatori, destinati allo smaltimento dell’arretrato e alla velocizzazione del nuovo. Per aiutare i magistrati a navigare nel mare di carte in cui sono quotidianamente sommersi. Anche la scelta di offrire uno sconto di pena di 1/6 per chi accetta la condanna di primo grado ha piallato - e di molto - il numero di ore lavorative in aula. Depenalizzare sarebbe stata una mossa indubbiamente in continuità con queste scelte. Non certo in continuità coi precedenti governi, perché, alla fin fine, aumentare i reati piace. Certo non a tutti, o almeno non a tutti con tanta recidività come l’attuale. Ma depenalizzare avrebbe significato un cambio di passo significativo. Avrebbe. Aggiungiamo che all’affermazione: “bisogna eliminare questo pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali” mi partì spontaneo un battimano. Perché il problema non è il cosa - ossia la sicurezza, che nessuno vuol veder diminuire - ma il come. Come si fa a fare sicurezza? Mettendo più gente in galera (aumentando le leggi penali) o aiutandola a uscire? Non che le cose si elidano, ma noi ad oggi dove investiamo le risorse della collettività? Una scelta l’abbiamo fatta. E se il primo a dire che dovremmo investire di più sulla figura - tutta lombarda - degli agenti di rete, che facciano da ponte tra il dentro e il fuori le mura, è Massimo Parisi, vuol dire che di strada ne abbiamo da percorrere. Il numero due del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a un recente convegno a Milano sui 50 anni dell’Ordinamento Penitenziario ha infatti ribadito la forte incidenza statistica sulla diminuzione della recidiva di reato di inserimenti lavorativi e progetti di dimissioni dai penitenziari. Dicendo addirittura che si dovrebbero costituire degli istituti per il reinserimento sociale e lavorativo: i ‘consigli di aiuto sociale’ previsti dall’Ordinamento Penitenziario e mai attuati. Per fare sicurezza. Più agenti di rete, più educatori, più ponti con il fuori. Per fare sicurezza. Quella sicurezza che solo un ‘pregiudizio’ ci farebbe ritenere sia garantita dalle leggi penali. Citazione autorevole. Dalle ‘grida’ iniziale sembrava si volesse realizzare sicurezza depenalizzando. Si è seguita la strada opposta. Chissà che ci sia tempo per prendere la via di Damasco e assistere a una caduta da cavallo. Il femminicidio non si batte con il populismo penale di Società della Ragione Il Manifesto, 22 ottobre 2025 Per la Giornata internazionale della donna 2025 il Governo Meloni ha presentato il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio, approvato dal Senato e ora alla Camera (ddl n. 2528). Il ddl femminicidio è l’ultimo di una serie di provvedimenti che affrontano la violenza di genere con politiche senza risorse, incapaci di prevenirla. Si tratta di norme penali che inaspriscono le sanzioni: usi simbolici del diritto penale, ispirati a panpenalismo e securitarismo. L’assenza di risorse significa mancanza di investimenti nell’educazione al rispetto e nel contrasto alla cultura patriarcale. La nuova fattispecie autonoma è stata corretta al Senato introducendo i concetti di “controllo”, “possesso”, “dominio”, “rifiuto di instaurare o mantenere un rapporto affettivo”, “limitazione delle libertà individuali della donna”. Correttivi però insufficienti: resta la fattispecie autonoma, la pena obbligata dell’ergastolo e il riferimento alla donna in una logica binaria. L’articolo si inserirà nel Codice penale di Rocco, che ancora recita “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Il paradosso è evidente: si nomina il femminicidio, ma se non rientra nel nuovo articolo 577-bis, la morte della donna viene ricondotta all’uccisione di un uomo. Siamo consapevoli della gravità della violenza maschile contro le donne, ma anche dell’inefficacia degli strumenti penali se non accompagnati da un cambiamento culturale e della necessità di contrastare il cattivismo penale con politiche sociali e di supporto. L’idea di codificare il “femminicidio” come reato autonomo, punito con l’ergastolo obbligatorio, nasce da una volontà simbolica più che giuridica. Si poteva intervenire con una circostanza aggravante nell’articolo 577, come accade per altri omicidi aggravati. Invece si è scelta la pena perpetua automatica, che nega proporzionalità e individualizzazione. Una simile norma non tutela le donne: costruisce solo un diritto penale manifesto, che esibisce severità più che garantire giustizia. Dietro la promessa di protezione si nasconde un populismo penale che confonde la lotta alla violenza con la ricerca di consenso. Anche le norme procedurali mostrano come la finalità del ddl sia enfatizzare il paradigma vittimario, introducendo un’impropria interlocuzione con la persona offesa sulla pena, trasformando il reato in un affare privato. Chi uccide una donna non è un “mostro” separato dal mondo: è il prodotto della stessa normalità patriarcale che vogliamo trasformare. Come ha ricordato Grazia Zuffa, il penale tende a “mostrificare” il colpevole, tracciando una linea tra normalità e anormalità. Questa dinamica, amplificata da una deriva del femminismo punitivo, rischia di trasformare il femminicida nel simbolo assoluto del male patriarcale. Così la pena diventa vendetta, non giustizia. L’articolo 575 del Codice penale recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore a ventuno anni.” Nel 2025 è inaccettabile che il valore della vita sia espresso al maschile. Sostituiamo “uomo” con “persona”. Solo così la legge parlerà il linguaggio dell’eguaglianza reale. Per questo ci rivolgiamo alle Deputate per chiedere: 1. di non approvare senza modifiche il ddl n. 2528; 2. di eliminare l’ergastolo come pena obbligata; 3. di sostituire nel Codice penale “uomo” con “persona”; 4. di eliminare l’interlocuzione con la persona offesa nella richiesta di applicazione della pena; 5. di cancellare l’estensione dell’anno di osservazione ai condannati e la riduzione dei permessi premio ai minori; 6. di eliminare la previsione delle dichiarazioni dei congiunti per la concessione dei benefici penitenziari. Gli italiani sanno tutto dei femminicidi compiuti, nulla sulla cultura che li genera di Rosamaria Fumarola Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2025 Per assicurarsi pubblico i media prediligono una lettura superficiale, capace di sollecitare un interesse morboso ma non di far comprendere i meccanismi profondi. Con cadenza quotidiana apprendiamo della morte di almeno una donna per mano del proprio uomo, veniamo a conoscenza dei particolari macabri del delitto e ne seguiamo le vicende giudiziarie, senza che però nessuno di noi comprenda davvero la sostanza dei fatti e men che meno gli aspetti psicologici profondi dei protagonisti, forse perché la natura della divulgazione mediatica lo impedisce o forse perché la priorità non è quella di informare i cittadini, ma di tenere in piedi il circo mediatico. Gli italiani sono convinti di essere adeguatamente informati e non comprendono come mai la strage delle donne più che diminuire, tenda a crescere. Esiste a tal proposito una responsabilità di chi gestisce la politica dei mezzi di informazione, che per assicurarsi l’attenzione del pubblico prediligono una lettura superficiale, capace di sollecitare un interesse morboso ma non di indurre a comprendere i meccanismi profondi che generano i fatti. Tuttavia non esiste un modo per governare il reale se non conoscendolo, resta pertanto da domandarsi a che gioco si stia giocando se per combattere il fenomeno dei femminicidi i programmi di approfondimento ospitano commentatori in grado a malapena di esprimere una propria opinione. Dolersi, manifestare cordoglio alle famiglie delle vittime sono atti più che legittimi, ma non in grado da soli di disinnescare i meccanismi che portano certi uomini alla violenza verso le donne. È evidente che l’informazione a cui la maggioranza del pubblico accede, per inconsistenza ed inutilità è incapace di produrre una cultura diversa. È infatti impossibilitata ad indurre una riflessione che non sia preda di reazioni esclusivamente emotive. La cultura maschilista e patriarcale ha dogmi e pratiche di cui si serve per perpetuarsi e che non sono scalfiti da leggi che garantiscono la parità tra uomini e donne. Di tali componenti i media non parlano mai, eppure porre i giusti interrogativi a professionisti seri, che hanno dedicato la loro vita a comprendere cosa scateni la violenza omicida degli uomini non sarebbe complicato. Ciò permetterebbe di fare luce davvero su ciò che è all’origine di tante tragedie, scoprendo ad esempio che un uomo violento è stato durante la propria infanzia accusato di essere troppo debole verso le donne. Si potrebbe insegnare agli uomini, non solo alle donne, a riconoscere i segni con cui il maschilismo si manifesta, per essere capaci di respingerlo. Tutelare le donne è infatti sacrosanto, ma il lavoro più difficile per proteggerle davvero riguarda gli uomini e la consapevolezza di sé che hanno. Bisognerebbe comprendere che la spettacolarizzazione della tragedia pone in ombra la natura vera dei protagonisti, che salgono agli onori della cronaca non per meriti, ma per una violenza agita o subita. È necessario guardare i carnefici per quello che sono e che solo poche trasmissioni si impegnano a fare emergere. Basta visionare in tv il processo per la morte della giovane Giulia Cecchettin, per cogliere l’essenziale e cioè che aldilà di ogni giudizio soggettivo il suo assassino è un individuo senza qualità, privo della capacità di mantenere un rapporto con la giovane vittima. Turetta lo sapeva e non lo accettava. A farne le spese è stata Giulia. Esisteva una via diversa per ricucire la ferita aperta del proprio fallimento? Certo, andava però cercata. Cambiare ciò che non si è capito è una partita persa in partenza. Non si comprende perciò la ragione per cui l’Italia, per tramite della sua dirigenza politica, respinga ancora il progetto di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole. L’immobilismo culturale ed il portato maschilista a cui condanna le nuove generazioni, anche grazie ad una informazione malata, non potranno che perpetuare sine die lo stesso tragico copione per il quale si verseranno ancora colpevoli lacrime di coccodrillo. Femminicidi: le leggi ci sono, si lavori di più sulla prevenzione di Giuseppe Anzani Avvenire, 22 ottobre 2025 Il castigo, di sua natura, si occupa del “dopo”. La vita va difesa “prima” potenziando tutti gli strumenti a disposizione. Le continue cronache di femminicidio sono dolore e sgomento. La coscienza collettiva è pervasa dalla riprovazione unanime, eppure resta desolata e impotente. Il primo approccio, reattivo e persino rabbioso, va diretto alla lotta: “ma non ci sono leggi a frenare questi crimini?”. Certo che ci sono, e non da ieri. È del 2011 la Convenzione di Istanbul “sulla prevenzione della violenza contro le donne e la lotta contro la violenza domestica”, firmata dai Paesi membri del Consiglio d’Europa. In Italia speciali misure penali sono state inserite dalla legge 119 del 2013, sui “maltrattamenti”, lo stalking e gli atti persecutori, le violenze; e poi la legge sul “codice rosso” del 2019, e poi la legge 168 del 2023; fino al disegno di legge n. 1433, approvato dal Senato nel luglio scorso e trasmesso alla Camera, per punire il femminicidio con l’ergastolo. Ma produce frutto questa linea di lotta? I delitti non cessano, i castighi non dissuadono, i processi non sembrano frenare le morti violente di genere. Ancora intorno al centinaio di vittime all’anno, in prevalenza per mano assassina del partner o dell’ex. Sarà la voglia di ergastolo a far cessare d’incanto la tragedia, o c’è altro da fare? Sul piano giuridico e sociale c’è ancora da mettere a punto la prevenzione. Il castigo, di sua natura, si occupa del “dopo”; la vita va difesa “prima”. Ciò significa potenziare gli strumenti di protezione e di soccorso, le reti di aiuto, i centri anti-violenza, le case rifugio. E anche i dispositivi di cautela, i braccialetti elettronici e l’intervento delle forze dell’ordine in tempo reale. Ma neanche questo è decisivo. Necessario, sì, indispensabile impedire alla malerba di crescere nel prato, ma sono le radici che vanno strappate dal fondo. E le radici della violenza sulla donna “in quanto donna” fanno i conti con l’idea assassina che è la “mia” donna, mio possesso, mia cosa, oggetto di cui non posso essere derubato per il suo sottrarsi a me, e se lo fa non deve esserci più, né per me né per lei. Questo il probabile impasto del delirio omicida, esplorato sotto il profilo psicologico. Circa le spinte criminose che nascono dalla fine di una relazione, in soggetti che vendicano l’umiliazione del rifiuto, studi recenti ravvisano una dipendenza affettiva patologica, incapace di tollerare la frustrazione derivante dall’abbandono, vissuto come un affronto distruttivo. Quando le cronache rivelano crudeltà inaudite, vien da pensare che l’aggressore nega alla vittima la sua stessa identità, la disumanizza. La prevenzione di queste tragedie non può limitarsi ai dintorni delle relazioni affettive intossicate, che scambiano per amore il “possesso”. Deve cominciare prima, molto per tempo, fin dall’infanzia, fin da quell’apprendimento spontaneo che nel cuore dei figli registra la comunione di vita dei genitori, nel rispetto reciproco e nel dono di sé, oppure soffre il guasto della disunione e del disamore. Poi nella scuola, fin da subito, una positiva educazione al rispetto reciproco, ponendo a base d’ogni relazione il concetto della eguale dignità personale. Poiché ogni “altro” non è un “non-io” ma un altro “io”; ed è per sé quel che io sono per me. E che il desiderio d’amore è cammino da percorrere per fare di sé stessi un dono. Frattanto, anche alla società intera va chiesto un cambiamento culturale profondo. L’eguaglianza proclamata nelle leggi va tradotta nella vita concreta. Non sono sicuro che si tratti di una questione arcaica di patriarcato: oggi il “padre di famiglia” sembra ai sociologi una figura così sbiadita, evanescente, al punto che parlano di “eclissi del padre”. La rivoluzione culturale è più radicale, tocca tutti, uomini e donne, e riguarda una scelta di vita che in un celebre saggio Erich Fromm chiamò L’arte di amare. In fondo, per i cristiani è l’abc del Vangelo, è il comandamento nuovo, nuovo e perenne. Contro ogni discriminazione che offende l’eguale dignità dell’uomo e della donna non c’è solo la Costituzione italiana: c’è una Costituzione pastorale della Chiesa universale che, nel Concilio Vaticano II, dice che “ogni genere di discriminazione circa i diritti fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso (ecco il punto! ndr), della razza, del colore, della condizione sociale, della lingua o religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio”. Ddl minori, ok alla Camera. Giachetti: “Norma frutto della sindrome di Bibbiano” di Simona Musco Il Dubbio, 22 ottobre 2025 Sei anni dopo “Angeli e Demoni” il Parlamento approva una legge per normalizzare la sfiducia nei servizi sociali: più controlli sugli affidi ma nessuna prevenzione rispetto ai maltrattamenti. Cento trentuno sì, zero contrari, opposizioni astenute. La Camera ha approvato il ddl in materia di tutela dei minori in affidamento, norma voluta dalla ministra della Famiglia Eugenia Roccella e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio che ha l’obiettivo di prevenire e ridurre il ricorso a periodi prolungati di permanenza dei minori presso istituti o a situazioni di affidamento “sine die”, in cui i minori vengono allontanati dalle loro famiglie. Una norma nata sull’onda lunga del caso Bibbiano, un’inchiesta sconfessata nelle aule di Tribunale, ma che la politica usa ancora come spauracchio, cavalcandone le fake news. Per perseguire lo scopo, il disegno di legge propone due azioni principali: un monitoraggio tempestivo e efficace del fenomeno e il rispetto delle procedure di tutela già esistenti per i minori. Il testo del disegno di legge si compone di tre articoli: il primo integra la legge n. 184 del 1983 sull’affidamento dei minori, introducendo l’istituzione di due registri, quello delle famiglie affidatarie, delle comunità di tipo familiare e degli istituti di assistenza pubblici e privati, e quello dei minori collocati in queste strutture. La gestione di questi registri sarà regolata da un decreto del ministro della Giustizia entro sei mesi. Il secondo articolo istituisce un osservatorio nazionale presso il dipartimento per le politiche della famiglia, che avrà il compito di analizzare i dati e segnalare eventuali situazioni improprie di collocamento dei minori, oltre a promuovere ispezioni da parte delle autorità competenti. Il terzo disciplina le disposizioni finanziarie, prevedendo che le spese per l’istituzione dell’osservatorio e la gestione dei registri possano essere finanziate attraverso il Fondo per le politiche della famiglia. La discussione ha registrato l’intervento della deputata 5 Stelle Stefania Ascari, che ha citato proprio il caso Bibbiano. “Non possiamo più accettare che decisioni così delicate siano influenzate da teorie prive di validazione scientifica o da approcci rigidi e disumani - ha dichiarato -. Le conseguenze di questi errori le abbiamo viste, le abbiamo toccate. Il “caso Bibbiano” ha scosso la coscienza del Paese, ricordandoci che quando si perdono equilibrio e umanità il sistema diventa terreno di dolore e ingiustizia”. Di quali teorie non scientifiche parli la deputata 5 Stelle non è dato sapere, dal momento che il caso Bibbiano si è chiuso con le assoluzioni degli imputati e nessuna teoria antiscientifica è stata dimostrata. Mentre antiscientifica si è dimostrata - secondo la Cassazione - la teoria di una lesione tramite la psicoterapia. Ma non solo: era proprio una teoria antiscientifica (questa certificata) che sulla scorta di quel caso il governo M5S-Lega stava per approvare, quella sindrome di alienazione parentale - oggi rilanciata sotto altre vesti - che rappresenta spazzatura pseudoscientifica e che solo la caduta di quel governo ha scongiurato. Il testo reintroduce di fatto un concetto, travestito dalle migliori intenzioni: la centralità della famiglia, anche a scapito dei minori. Gli effetti di quella campagna - culminata nello slogan “Parlateci di Bibbiano” - sono stati infatti profondi: hanno delegittimato un intero sistema di protezione dell’infanzia che, pur tra molte difficoltà, funzionava. Un concetto espresso chiaramente dal deputato di Italia viva Roberto Giachetti. L’inchiesta “Angeli e Demoni”, ha evidenziato, è il “convitato di pietra” del dibattito e con questo disegno di legge la risposta istituzionale si concentra “su strumenti di controllo piuttosto che su politiche di sostegno e prevenzione”. Un approccio difensivo, “segnato dalla persistente sindrome da Bibbiano: più monitoraggi, ma meno interventi concreti per sostenere i bambini e le famiglie in difficoltà. “Qui dentro sarebbe arrivato il momento che molti chiedessero scusa per quello che è accaduto a Bibbiano - ha sottolineato Giachetti -. Lo voglio ricordare: è stato un grande bluff”. E anzi la vicenda giudiziaria ha “dimostrato l’esatto opposto: come i servizi sociali funzionassero bene”. Nessun aumento vertiginoso di affidi, smentito documentalmente durante il processo. E “il marasma suscitato da “Angeli e Demoni”“ ha provocato l’effetto che la politica, in quelle settimane, dichiarava di voler scongiurare: la crescita del ricorso alle comunità rispetto agli affidi, con un’impennata dei costi sociali ed umani, “dal momento che il ricovero nelle case famiglia costa sette volte in più rispetto all’affido”. Ciò perché l’inchiesta ha di fatto scoraggiato gli aspiranti affidatari a farsi avanti. Finito il processo e “assolto” l’operato dei servizi sociali, dunque, “il risultato è stata la distruzione di un sistema di welfare che funzionava”. L’affido familiare, ha evidenziato Giachetti, “nasce come strumento di sostegno alla genitorialità, non come misura sostitutiva o punitiva nei confronti delle famiglie di origine”. Un intervento temporaneo di aiuto e accompagnamento rispetto al quale gli affidi sine die “rappresentano una distorsione”, dovuta al fatto che in Italia non c’è possibilità di adozione aperta. La norma, ha aggiunto, rischia di tradursi in più burocrazia e meno tutela reale, più controlli e meno sostegno concreto alle famiglie affidatarie e a quelle di origine. “Un vero rilancio dell’affido dovrebbe passare per il rafforzamento dei diritti e dei poteri delle famiglie affidatarie - ha evidenziato Giachetti -, oggi quasi inesistenti, affinché possano esercitare con continuità e dignità il loro ruolo educativo. Ancora una volta si corre dietro a proclami altisonanti di voler proteggere i minori, tutelare i fragili indifesi, proclami che nascondono l’antico disco rotto Dio, Patria e Famiglia, tradendo l’intento dichiarato di voler mettere al centro la persona minorenne che smette di essere portatore di un suo interesse e di un suo diritto soggettivo diventando proprietà e diritto esclusivo dei genitori, dunque degli adulti”. Il ddl, ha confermato il deputato renziano, è proprio “il triste completamento” di quel percorso iniziato con gli arresti di Bibbiano, con gli slogan urlati in aula, che hanno portato allo smantellamento della tutela dei minori e del Tribunale per i minorenni, “fiora all’occhiello della civiltà giuridica italiana che metteva al centro il migliore interesse della persona minorenne su ogni cosa - ha aggiunto Giachetti -. Ed è triste, se non pericoloso, vedere dopo sei anni e mezzo tramutati in proposte legislative i pilastri di quella inchiesta che si è rivelata priva di fondamento”. Giachetti ha ricordato un dato, evidenziato, tra l’altro, dalla Commissione istituita all’epoca dall’allora ministro Alfonso Bonafede: l’Italia è tra i Paesi d’Europa coi numeri più bassi di affido. E non necessariamente ciò rappresenta un bene, potendo essere indice di una scarsa capacità di intervento. “Se ci fosse la minima consapevolezza di come opera un servizio sociale si capirebbe che l’allontanamento è tenuto sempre come ultima spiaggia, anche quando serve in maniera urgente - ha aggiunto il deputato -. Il motivo per cui siamo arrivati a istituire quello obbrobrio giuridico degli affidi sine die è perché si interviene troppo poco, troppo tardi, dando pochissimi strumenti non solo per il recupero genitoriale, ma per capire se quei tempi di recupero sono adeguati ai tempi di cura e sviluppo del bambino. Non bisogna prevenire gli allontanamenti, ma gli stati di abbandono e maltrattamento”. L’indipendenza dei giudici e l’ordinamento Ue di Giovanna De Minico* Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2025 L’indipendenza della magistratura con le sue garanzie è un j elemento di novità della Costituzione italiana rispetto allo Statuto albertino. E un valore protetto perché strumento essenziale per difendere libertà fondamentali e separazione dei poteri. Spiego l’affermazione: esistono due condizioni che ci rendono uguali davanti alla legge. I cittadini devono essere titolari degli stessi diritti e, in caso di loro lesione, devono potersi rivolgere a un giudice neutrale, cioè equidistante dalle parti in causa. Se spostiamo lo sguardo dal piano dei rapporti intersoggettivi a quello delle relazioni tra autorità, osserviamo che l’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato serve a dissuadere in via anticipata l’autorità sconfinante o riportarla ex post entro l’orto di casa. In sintesi, la magistratura indipendente - verso le autorità pubbliche diverse da sé; verso qualunque altro magistrato e verso le parti in causa - è come il caveau della Banca centrale europea: custodisce l’integrità delle due gambe su cui poggia lo stato di diritto, cioè libertà fondamentali e separazione dei poteri. Rivolgiamo ora lo sguardo all’ordinamento europeo che presenta un’ininterrotta continuità ideologica con la nostra Costituzione, continuità questa, disegnata negli artt. 2 e 19 Tue e 47 Carta dei diritti. Infatti, lo stato di diritto, che include anche l’indipendenza della magistratura, concorre come il tassello di un mosaico a comporre l’“identità dell’Unione” (art. 2), come già avviene nell’ordinamento interno. Anche sul piano dell’effettività si ripropone il rapporto mezzo/fine perché l’esistenza di una magistratura indipendente, artt. 19 Tue e 47 Carta, serve a garantire l’effettività dei valori costituzionali comuni, tra cui libertà fondamentali e separazione dei poteri, inclusi nell’espressione sintetica dell’art. 2. L’art. 7 Tue ha il compito di chiudere questo cerchio nel prevedere la decisione punitiva del Consiglio contro lo Stato, accusato di inosservanza della rule of law, in particolare di violazione dell’indipendenza della magistratura. Il punto di debolezza di questa delibera è il voto unanime, al netto dello Stato passibile di condanna. Come ogni voto unanime esso è paralizzabile dal veto di un singolo Stato, che potrebbe essere lo Stato amico di quello inadempiente, a sua volta in odore di essere sanzionato. Il Regolamento (Ue) 2020/2092 ha messo in campo ima robusta reazione al blocco dell’art. 7 con un rimedio leggero nel quorum, ma appesantito nella procedura. Il sistema del Regolamento funziona nel seguente modo: se uno Stato viola il principio di indipendenza dei giudici, determinando un pregiudizio al bilancio europeo, è sanzionabile dal Consiglio a maggioranza qualificata conia perdita dei fondi europei. La norma è sicuramente più agile del? Tue, perché è venuta meno l’unanimità, ma è più bizantino il suo perfezionarsi in quanto non ogni lesione all’indipendenza determina il mancato versamento del denaro, ma solo quelle che compromettono il corretto esercizio del bilancio. Ma il suo punto di maggiore criticità è nel destinatario finale della punizione. Quest’ultimo non è lo Stato che, pur perde il denaro promesso dalla Ue, ma i cittadini che non potranno goderne; cioè, se studenti, questi non accederanno ai programmi Erasmus, e se ricercatori, a quelli Horizon. Qui il legislatore europeo è stato strabico perché ha trasferito la sanzione dal trasgressore ai cittadini, puniti due volte: privati di un giudice indipendente dinanzi al quale far valere i loro diritti, ed estromessi dai benefici economici europei. A ciò si aggiunga un ulteriore danno, il flusso di denaro che corre tra chi dà e chi riceve si proietta verso un bene finale, che appena si intravede sullo sfondo: il progresso tecnologico e l’innovazione ambientale. Se si blocca questo movimento di grandezze economiche, lo Stato, già indietro rispetto agli altri Paesi per non avere giudici indipendenti, viene condannato all’arretratezza definitiva, perché non potrà prendere parte all’innovazione tecnica e alla rivoluzione ambientale. Cosa fare? Proponiamo un’interpretazione sostanziale dell’art. 7 Tue: come si esclude il voto dello Stato accusato di violare la rule of law, così si dovrebbe tenere fuori dal voto anche lo Stato gemello in odore di violazione in modo da evitare che si grattino la schiena a vicenda, buttando alle ortiche l’integrazione europea. Sarebbe opportuno che il governo Meloni riflettesse sulle ragioni europee dell’indipendenza della magistratura, in quanto la sua riforma della giustizia nel separare le carriere compromette irreversibilmente l’autonomia del potere giudiziario, perché assegna al super pm una posizione di illegittima supremazia sul magistrato giudicante, perché crea un quarto potere dello Stato, quello dei pm, perché divide il Csm, dequalificandolo con l’estrazione a sorte, e perché crea un suo duplicato nell’Alta Corte, rendendo inutile il primo. In sintesi, riporta le lancette del tempo allo Statuto albertino. *Università Federico II, Napoli Nino Di Matteo lascia l’Anm: “È ostaggio dalle correnti” di Errico Novi Il Dubbio, 22 ottobre 2025 Il magistrato della Procura nazionale antimafia si dimette denunciando le logiche correntizie. Polemiche anche per il comizio del “No” alla riforma delle carriere organizzato dall’Anm partenopea. Tempi duri per l’Anm. Ed è forse inevitabile, nel pieno della difficile battaglia contro la separazione delle carriere. Ma agli scivoloni contestabili direttamente al sindacato delle toghe, come il comizio allestito sabato scorso a Napoli per presentare il Comitato del No alla riforma (e sostenuto persino dal provveditore agli Studi della Campania, come riferito ieri dal Dubbio...), si aggiungono defezioni clamorose. È di ieri la notizia che il sostituto della Procura nazionale Antimafia Nino Di Matteo ha deciso di lasciare l’associazione. È stato lui stesso a darne notizia, con un tono amareggiato che lascia intravedere frizioni con i colleghi: “Nelle scorse settimane ho presentato le dimissioni dall’Anm. Ho, progressivamente nel tempo, maturato questa decisione con molta amarezza”, ha detto Di Matteo. “Non mi sento parte di un’associazione all’interno della quale continuano a trovare spazio logiche di appartenenza correntizia e di opportunità politica che non ho mai condiviso e che, in passato, anche da membro del Consiglio superiore della magistratura, ho cercato in tutti i modi di contrastare”. Un attacco durissimo, se si considera che proprio il superamento della “correntocrazia” è l’obiettivo principale indicato dal governo a sostegno della riforma Nordio. “Continuerò a titolo personale”, ha aggiunto comunque Di Matteo, “come ho sempre fatto (anche quando l’Anm preferiva restare silente) a esprimere le mie opinioni e a denunciare pubblicamente il grave pericolo che le riforme degli ultimi anni (a partire dalla riforma Cartabia e fino all’ultimo progetto di revisione costituzionale sulla separazione delle carriere) rappresentano, per la salvaguardia dell’indipendenza della magistratura, del principio di eguaglianza di tutti i cittadini innanzi alla legge, dell’efficacia dell’azione di contrasto alla criminalità e ad ogni forma di abuso nell’esercizio di pubblici poteri”. Della serie: no alla riforma costituzionale dei magistrati, ma no anche all’Anm che la riforma intende “depoliticizzare”. Un segnale che le toghe non possono accogliere come un auspicio, in vista del referendum sulle carriere separate. D’altra parte, come detto all’inizio, di passi falsi in vista della consultazione confermativa, il sindacato dei magistrati continua a commetterne. A proposito della circolare con cui il provveditore della Campania ha “esortato” i prèsidi a portare gli studenti dei licei all’evento organizzato sabato scorso dall’Anm Napoli, alcuni avvocati partenopei hanno fatto notare al Dubbio come nel 2014 l’aula Arengario che ha ospitato l’iniziativa delle toghe fosse stata negata agli avvocati per un evento giudicato dalla magistratura troppo “politico”. In effetti, nel giugno di 11 anni fa, l’Istituto italiano per gli studi delle politiche ambientali presieduto dall’avvocato Maurizio Montalto e il Coa partenopeo avevano chiesto la disponibilità della sala convegni ospitata nel Palazzo di giustizia per consegnare a padre Alex Zanotelli il premio “Nelson Mandela”. Nel corso della cerimonia, avevano annunciato gli avvocati, sarebbe stata consegnata anche una targa a Tony Sevillo “per il valore civile del suo impegno artistico”. Ma l’Ufficio speciale del Tribunale di Napoli, presidiato ovviamente da giudici, revocò l’autorizzazione a poche ore dall’evento. Motivo? “La premiazione è incompatibile con le finalità istituzionali del luogo”, giacché appunto, il riconoscimento a Zanotelli, in particolare, sarebbe stato “viziato” da un inopportuno carattere politico. Poi la cerimonia si tenne nella troppo piccola sala del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, dove neppure i magistrati hanno il potere di infliggere veti. La decisione dell’Ufficio speciale suscitò il dissenso persino del presidente del Tribunale Carlo Alemi, fra i giudici più apprezzati dall’avvocatura napoletana nell’ultimo mezzo secolo. Il precedente è tanto più sconcertante se si pensa che l’Anm sezione Napoli, sabato scorso, ha presentato appunto, nella stessa aula Arengario, il Comitato per il No al referendum sulla separazione delle carriere. Comitato che, secondo la legge, è un “soggetto politico”. Ma i “vizi”, in questo caso, per le imperscrutabili toghe partenopee, non c’erano. È l’indipendenza della magistratura, bellezza. Attentato a Ranucci, la nuova strategia della tensione di Vincenzo Vita Il Manifesto, 22 ottobre 2025 L’attentato al notissimo conduttore di una delle ultime oasi del servizio pubblico radiotelevisivo Sigfrido Ranucci è un salto di qualità negli attacchi all’informazione libera. Gli esecutori dell’azione omicida hanno utilizzato le modalità cui ricorre la criminalità quando vuole perseguire i suoi intenti mostruosi con una vera e propria cerimonia mediatica. Vale a dire, l’esibizione della crudeltà con un atto che rimanga ben impresso nell’immaginario collettivo. La memoria va immediatamente allo stragismo di cui è tristemente piena la storia italiana: mutatis mutandis, dall’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a quello tentato di Maurizio Costanzo, o all’incursione dinamitarda alla sede del manifesto nel dicembre del 2000. Si parla di pista albanese e di altro, chissà. La verità fa sempre male. Insomma, un invito ai media a parlarne, affinché sia chiaro il messaggio intimidatorio. Le indagini chiariranno - speriamo - se e quante complicità vi sono state: del resto, nello stesso luogo erano stati lasciati tempo fa dei proiettili, come un crudele antipasto. Ciò che risulta evidente, a prescindere dall’inchiesta, è il clima pesante che è stato costruito attorno a Report: accuse persino prima della messa in onda, record assoluto di querele (temerarie), insulti da scranni istituzionali. Se, guai a dirlo o a pensarlo, non si può tracciare qualche linea di congiunzione tra la destra al governo e ciò che è successo, tuttavia è evidente il contesto: attacchi costanti a chi dissente anche attraverso normative speciali, occupazione della Rai (Mediaset già gira intorno all’Esecutivo), disprezzo esibito verso i giornalisti rifiutandosi di farsi intervistare fuori dal fortino controllato da parte di Giorgia Meloni. Si è accennato alle querele temerarie, chiamate così perché hanno lo scopo prevalente di ricattare con richieste di risarcimenti milionari croniste e cronisti che osano mettere il naso nelle zone segrete del potere. Report è in cima alla classifica e solo dopo l’ignobile attentato il vertice della Rai si è degnato di esprimere solidarietà. Se davvero si intende difendere una delle ultime trincee del pluralismo, allora si restituiscano le puntate tagliate dal palinsesto, si ricollochi il lunedì la trasmissione anticipata alla domenica per frenarne gli ascolti, si chiuda positivamente la ferita del precariato. Quest’ultima questione, oggetto di una polemica ormai prolungata, si è connotata a sua volta di significati para-censori, essendo giornaliste e giornalisti contrattualizzati ma spediti nelle sedi regionali. È un modo apparentemente indolore per creare -invece- un doloroso indebolimento della struttura redazionale. E si introduca nella Legge di delegazione europea, in discussione alla Camera dei deputati, il recepimento della direttiva 2024/1069 Slapp (strategic lawsuit against public participation) che parla proprio delle querele. Come talvolta accade, l’avversario sopravvaluta le sue forze, come ci hanno insegnato maestre e maestri della sinistra. Forse è questo il caso, se si vede come è stata la risposta: dall’iniziativa immediata davanti al luogo di lavoro in via Teulada di Roma, alla presenza sabato scorso di un ampio spontaneo movimento della società civile nei pressi dell’abitazione di Ranucci a Pomezia, al dibattito al Parlamento europeo, alla piazza di ieri promossa dal Mov5Stelle nella piazza S. Apostoli di Roma. Ma non è sufficiente, a maggior ragione dopo le parole esplicite del Presidente Sergio Mattarella. Come da un paio di anni predica l’associazione Articolo21 (che l’ha riproposta nel corso della serata di Libera su Giancarlo Siani) è il momento di promuovere una grande manifestazione nazionale sul diritto all’informazione e la tutela del pensiero critico contro ogni omologazione. Potrebbe essere una importante scadenza della Via Maestra, cui si sta dedicando la Cgil insieme a numerose sigle e che ha indetto un appuntamento impegnativo per il prossimo sabato 25. Ci ricordiamo la straordinaria occasione della romana piazza del Popolo il 3 ottobre 2009 in età berlusconiana. E ora è peggio. Diffamazione, sia reato solo se c’è la volontarietà di dire il falso di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 22 ottobre 2025 Basta solo modificare l’art. 595 del codice penale, snellendolo e modellandolo su una visione moderna dell’ingerenza dello Stato sulla libertà d’opinione. Sull’attentato a Sigfrido Ranucci molto si è scritto e tanto si è detto, non sempre del tutto a proposito. Non si è lesinato in solidarietà, né sono mancate manifestazioni a favore della libertà di stampa, ma nessuno ha buttato là una proposta per eliminare davvero quella che tante volte Ranucci ha denunciato come la più pesante forma coercitiva subìta - certo prima che una bomba gli scoppiasse sotto casa! - lo spropositato numero di cause penali e civili che affliggono lui e chi lavora a Report. E non basta certo la soluzione ad personam ventilata e rimasta senza seguito, rimettere tutte le querele a suo carico, che non sarebbe risolutiva, anche se tutti i querelanti fossero d’accordo, perché tante sono anche le cause civili milionarie contro di lui e la Rai e neppure definitiva, perché nulla impedirebbe al prossimo che si sentirà offeso di ricominciare la trafila. La soluzione deve essere tecnica, ma ancor prima è la politica che deve fare una scelta di campo e deve intervenire erga omnes sulle norme esistenti che oggi consentono, senza correre rischi, querele e cause temerarie. Quando ha voluto il Parlamento ha agito con decisione, lo ha encomiabilmente fatto, ad esempio, per prevenire e reprimere la piaga del femminicidio, sollecitato ed accompagnato dal convinto sostegno dell’opinione pubblica, varando leggi severe, che non sempre sortiscono l’effetto voluto è vero, ma almeno ci sono. Una sinergia che si avverte, ma contro e non a favore dei giornalisti, quando la libertà di informare e di essere informati è fortemente penalizzata da gesti violenti e minacce, da interventi dissuasivi e, non ultimo, dal ricorso massiccio a querele e cause per danni che li riguarda tutti. Non può certo dirsi che quella stessa opinione pubblica si preoccupi davvero: godono di pessima fama, suscitano reazioni stizzite di politici e imprenditori, spesso le loro domande rimangono senza risposta, litigano fra loro e no, non riscuotono tante simpatie, in pochi li considerano davvero indispensabili. E non è che con la politica vada meglio: li reputa un fastidio, li delegittima appena può e negli anni ha partorito un solo disegno legge organico, per di più peggiorando la situazione e non era facile. Giace in commissione da anni e viene tirato fuori, quando qualcuno esagera, come spauracchio, sottintendendo che potrebbe andare anche peggio. Quindi bando ai proclami e alla ovvia levata di scudi per Ranucci, seriamente minacciato, come prima di lui, con reazioni a dire il vero meno veementi, Giorgia Venturini di Fanpage, la testa mozzata di un capretto davanti alla sua abitazione: sono avvertimenti che rendono ineludibile un intervento risolutivo, anche contro il comune sentire, che elimini perlomeno i rischi giudiziari. Negli Stati Uniti, cui di questi tempi guardiamo con una certa benevolenza, per diffamare e solo in sede civile, non basta dire il falso. Occorre che si dimostri anche l’intenzione, senza scusa o giustificazione, di commettere un atto “malevolo”. Ed allora ecco una proposta semplice e risolutiva: limitare la diffamazione penalmente rilevante e i conseguenti danni risarcibili alla sola diffusione volontaria di fatti falsi, punendola severamente. Basta solo modificare l’art. 595 del codice penale, snellendolo e modellandolo su una visione moderna dell’ingerenza dello Stato sulla libertà d’opinione. Bisognerà punire, però, ed altrettanto severamente chi farà querele e cause civili, quando riguarderanno profili diversi. E lasciare che opinioni, critiche e, in nome dell’imperante free speech, persino epiteti sgradevoli rimangano riservati al dibattito veemente, cui la comunicazione per come oggi la conosciamo ci ha abituato. E chi proprio si sentisse offeso potrà sempre sfidare a duello il reprobo, tanto duellare non è più reato, quello sì che è stato depenalizzato tanti anni fa. Liberazione anticipata e lavoro di pubblica utilità: il nodo della competenza al vaglio della Consulta di Fabio Fiorentin sistemapenale.it, 22 ottobre 2025 La liberazione anticipata, ai sensi dell’art. 54 della legge n.354/1975 (ordinamento penitenziario), è concessa ai condannati cha abbiano dimostrato partecipazione all’opera rieducativa ed è pari a 45 giorni per ogni semestre di pena effettivamente espiata. L’istituto è stato profondamente modificato, nei suoi profili procedimentali, dal D.L. 92/2024 (c.d. “decreto carcere sicuro”). Secondo un indirizzo della giurisprudenza di legittimità che, allo stato, appare granitico, il detto beneficio premiale può essere applicato, in forza del combinato disposto di cui agli articoli 57 e 76 della legge 689/1981, 47 comma 12-bis e 54 dell’ordinamento penitenziario, in favore dei condannati alla pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità e la relativa competenza deve essere attribuita alla magistratura di sorveglianza (Cass., Sez. 1, 10 gennaio-13 marzo 2025 n. 10302). La Cassazione ha, infatti, disatteso le numerose obiezioni di carattere sistematico, emerse sia in dottrina che nella prevalente giurisprudenza di merito che, per un verso, ritengono l’istituto della liberazione anticipata applicabile soltanto in rapporto a pene detentive (tale non essendo il lavoro di pubblica utilità), alla luce del dato ricavabile dal rinvio operato dall’art. 76 della legge 689/1981 alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario “in quanto compatibili”, che non consentirebbe di estendere l’istituto della liberazione anticipata ai Lpu, la cui equiparazione alla pena detentiva ex art. 57 della legge n. 689 del 1981 è effettuata esclusivamente ai fini del computo della pena; e che, per l’altro verso, ritengono comunque che la competenza a pronunciarsi sulla concessione della riduzione premiale dovrebbe incardinarsi, nel caso dei Lpu, in capo al Giudice dell’esecuzione, in quanto responsabile della gestione esecutiva di quella pena sostitutiva, e non alla magistratura di sorveglianza. Il lavoro di pubblica utilità - come è noto - è stato introdotto nel nostro ordinamento quale pena sostitutiva della pena detentiva irrogata per qualsiasi reato in misura non superiore a tre anni con l’art. 20 bis c.p. inserito dal D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, attuativo dei principi enunciati con l’art. 1, comma 17 della l. 27 settembre 2021 n. 134, legge delega della riforma “Cartabia”. Si tratta di una pena-programma al pari della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva, dalle quali si differenzia, tra l’altro, per il fatto che rispetto a queste ultime “presenta un minor grado di incidenza sulle libertà del condannato, essendo del tutto privo di una componente detentiva (così espressamente la Relazione illustrativa al D.lgs n. 150/2022)”. La Cassazione, con la ricordata pronuncia ha, tuttavia, affermato che “ la natura detentiva della misura in espiazione non è più un discrimine per la concessione del benefici, dal momento che, per poter beneficiare della libertà anticipata, non è richiesto che la detenzione sia in atto e comporti la carcerazione all’interno di istituto penitenziario, essendo piuttosto preteso il mancato esaurimento del rapporto di esecuzione penale in corso, sulla cui protrazione temporale l’istituto vada ad incidere in senso favorevole al condannato, anticipandone la cessazione”. Una volta aperta la strada all’applicazione della liberazione anticipata ai Lpu, la Suprema Corte ha individuato la relativa competenza applicativa in capo al magistrato di sorveglianza anziché attribuirla al giudice che ha disposto la detta pena sostitutiva, fondandosi sul disposto letterale dell’art. 69-bis, ord. penit., novellato dal D.L. 4 luglio 2024, n. 92 conv. in l. 8 agosto 2024, n. 112 che, effettivamente assegna al magistrato di sorveglianza l’applicazione della liberazione anticipata. Sotto il profilo sistematico, invero, la tenuta della soluzione di diritto adottata dalla Cassazione appare, sul piano sistematico, alquanto problematica, poiché la affermata competenza del magistrato di sorveglianza risulta - a quanto consta - l’unico caso in cui verrebbe iscritto presso l’Ufficio di sorveglianza un procedimento non collegato a un’esecuzione in carico alla stessa sorveglianza, iscrizione che - per inciso - il registro informatizzato SIUS neppure consente: esso, infatti, non permette l’iscrizione di procedimenti di sorveglianza che non siano agganciati a un numero SIEP della Procura che cura l’esecuzione, che a sua volta corrisponde a un titolo esecutivo trasmesso dal PM alla sorveglianza per la sua esecuzione: ipotesi che, nel caso dei Lpu, non ricorre. Appare, in altri termini, evidente il vulnus sistematico portato alla complessiva disciplina delle “nuove” pene sostitutive, suscettibile di generare pressoché irrisolvibili problematiche sul piano applicativo, delle quali, peraltro, i giudici di legittimità paiono lucidamente avvedersi, facendo riferimento alle “esigenze sistematiche che avrebbero consigliato una concentrazione della competenza, anche in relazione alla concessione della liberazione anticipata, in capo al Giudice dell’esecuzione”, ritenendo, tuttavia, che esse “non possono che recedere innanzi ad un dato testuale ed inequivoco, non superabile in via interpretativa” (Cass., Sez. 1, 10 gennaio-13 marzo 2025 n. 10302, cit.). 2. A fronte di un contesto altamente critico generato dall’indirizzo assunto dalla Prima Sezione della Cassazione (alla sentenza sopra evocata si sono, successivamente, aggiunte ulteriori pronunce, come la n. 22662 del 7 marzo 2025 e la n. 18955 del 20 marzo - 21 maggio 2025), si colloca l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Napoli qui in rassegna, che revoca in dubbio la compatibilità con gli artt. 3 e 27 comma 3 della Costituzione del principio di diritto elaborato dalla giurisprudenza di legittimità mettendo in luce le criticità dell’interpretazione letterale degli artt. 69 e 69-bis della L. 357/75 che attribuisce al magistrato di sorveglianza la competenza a decidere sulla liberazione anticipata nei confronti di soggetto ammesso alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, di cui all’art. 20 bis c.p. Il percorso logico-argomentativo della giudice rimettente prende le mosse dal ricordato diritto vivente formatosi a fronte della lacuna presente nella riforma “Cartabia” in ordine all’individuazione dell’autorità giudiziaria competente a concedere la liberazione anticipata al condannato nel caso dei Lpu. Si tratta di un approdo ermeneutico che, ad avviso del magistrato napoletano, è suscettibile di generare gravi aporie sul piano sistematico e applicativo, tenuto conto che - come del resto riconosce la stessa Cassazione - un’interpretazione più attenta alle esigenze di coerenza sistematica avrebbe suggerito una diversa soluzione incentrando la concessione della liberazione anticipata in capo al giudice dell’esecuzione, ossia al medesimo organo giurisdizionale che ha applicato la pena sostitutiva poiché è proprio questo giudice - secondo quanto prevedono gli articoli 63, 64 e 66 legge 689/1981 - a decidere su tutte le questioni relative allo svolgimento dei Lpu, come ad esempio sulla modifica delle prescrizioni o sulla revoca della misura. Ciò premesso, il magistrato di sorveglianza rileva che laddove, con riferimento alle pene della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva, la riforma Cartabia allinea la competenza esecutiva concentrandola del magistrato di sorveglianza per tutti i profili esecutivi e gestionali, con riguardo al Lpu sostitutivo, al contrario, per l’esecuzione è espressamente stabilita la competenza del Giudice dell’esecuzione e tale fondamentale elemento differenziale implica necessariamente delle ricadute sulla valutazione dell’adesione al percorso rieducativo svolto dal condannato. Infatti, a seguire la tesi prevalente nel diritto vivente - tale imprescindibile requisito per la concessione della liberazione anticipata dovrebbe essere valutato da un giudice (quello della sorveglianza) che non però posto in condizione di seguire il percorso esecutivo e che, per ogni altro profilo, resta del tutto escluso dalla gestione della misura penale. Ne consegue che la decisione del magistrato di sorveglianza si risolverebbe - ad avviso della giudice rimettente - in un giudizio “meramente formale e pertanto incapace di cogliere, ad esempio, la lieve entità di talune violazioni, in tal modo pregiudicando il percorso rieducativo cui anche il condannato a pena sostitutiva viene avviato”, allontanandosi dunque dal parametro costituzionale che imprime all’esecuzione di ogni pena la necessaria finalizzazione rieducativa. Non si nasconde che anche il magistrato di sorveglianza può interloquire con l’UEPE e richiedere alle forze dell’ordine informazioni sul rispetto delle prescrizioni da parte del sottoposto al Lpu, ma - osserva ancora la giudice napoletana - “anche tale interlocuzione avrebbe il difetto genetico di essere meramente formale e riferita ad un rapporto esecutivo che per ogni altro aspetto è regolato da altro giudice”. Qui l’ordinanza di rimessione coglie un evidente criticità che si verrebbe a determinare sotto il profilo procedurale se l’indirizzo espresso dal diritto vivente trovasse definitiva conferma. Infatti, con la sentenza o con il decreto penale, il giudice che ha disposto il Lpu incarica l’ufficio di esecuzione penale esterna e gli organi di polizia territorialmente competenti di verificare l’effettivo svolgimento del Lpu. L’Uepe, a sua volta, deve riferire al giudice non solo sull’effettivo svolgimento del lavoro da parte del condannato, ma anche “sulla condotta e sul percorso di reinserimento sociale” (art. 63, comma 3, L. 689/1981). Dal momento che il D.lgs. n. 150/2022 attribuisce - come si è sopra visto - la competenza a gestire la pena sostitutiva del Lpu al giudice che lo ha disposto, il magistrato di sorveglianza resta completamente all’oscuro dell’esistenza stessa di un’esecuzione in rapporto alla quale egli dovrebbe essere chiamato ad applicare di ufficio il beneficio della liberazione anticipata, peraltro secondo le rigide scansioni procedurali imposte dall’art. 69-bis ord.penit., come novellato dal D.L. 92/2024, difficilmente adattabili al contesto del Lpu. Appare, in definitiva, del tutto preclusa al giudice di sorveglianza la possibilità di individuare tali ipotesi applicative. Infatti, alla luce della novellata disciplina della liberazione anticipata, i momenti della fase esecutiva nei quali si effettuerà la valutazione ai fini del riconoscimento del beneficio di cui all’art. 54 ord. penit. coincidono con l’istanza del condannato ai fini dell’ottenimento di una misura alternativa o altro beneficio analogo ovvero con il termine di 90 giorni antecedenti al fine pena. Quale facoltà residuale, è possibile per il condannato formulare un’apposita istanza per particolari motivi diversi da quelli indicati nei primi due casi sopra indicati. Orbene, nel caso dei Lpu, le prime due ipotesi non potranno mai verificarsi nella pratica, poiché il condannato ai Lpu non ha interesse a domandare una misura alternativa alla detenzione e il magistrato di sorveglianza, essendo completamente estraneo all’esecuzione di tale pena sostitutiva, non sarà materialmente in grado di verificare quando si compirà il termine dei 90 giorni antecedenti alla conclusione dell’esecuzione. L’interessato, dal canto suo, dovrebbe adire il magistrato di sorveglianza prospettandogli motivazioni diverse da quelle afferenti alle due ipotesi sopra indicate, a pena di inammissibilità dell’istanza. La rilevata aporia sistematica appare difficilmente giustificabile con il mero richiamo alla dizione letterale degli artt. 69 e 69-bis ord. penit., il cui “aggiornamento” alla riforma del 2022 appare ascrivibile più ad una mera dimenticanza che ad una ponderata scelta di sistema, come osserva acutamente la giudice rimettente. 3. In attesa che la Corte costituzionale si pronunci, viene da chiedersi se non sia possibile dal punto di vista interpretativo, valutare il dato sistematico, chiaramente emergente dal disposto del comma 3, art. 63 L. n. 689/81, il quale testualmente recita: “Al termine del lavoro di pubblica utilità, l’ufficio di esecuzione penale esterna riferisce al giudice che, salvo non ricorrano le condizioni per la revoca della misura sostitutiva nei casi previsti dall’articolo 66 della legge n.689/1981, dichiara eseguita la pena ed estinto ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue, e dispone la revoca della confisca nei casi di cui all’articolo 56-bis, quinto comma, legge n. 689/1981.” E infatti, ritenendo applicabile al Lpu la liberazione anticipata, l’evocato dato normativo indica in modo inequivocabile che, in materia di gestione ed estinzione della pena dei Lpu la competenza appartiene al giudice che li ha disposti e una tale specifica indicazione avrebbe dovuto suggerire la soluzione più coerente con l’impianto sistematico della pena sostitutiva in esame anche con riferimento alla liberazione anticipata che costituisce un fondamentale strumento di gestione della pena restrittiva della libertà personale e, per inciso, costituisce una causa di estinzione della pena. Restando ancora sul piano applicativo, l’attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza sulla liberazione anticipata per il Lpu potrebbe innescare un possibile contrasto di decisioni - che il sistema introdotto dalla riforma “Cartabia” non ha (ovviamente) previsto - tra la valutazione del magistrato di sorveglianza in materia di liberazione anticipata e quella effettuata dal giudice di merito in sede di valutazione dell’esito dei Lpu. Infine, le conseguenze sistematiche del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità potrebbe produrre esiziali ricadute a cascata sull’intero sistema penale: le medesime conseguenze negative sono, infatti, suscettibili di prodursi anche con riferimento ai Lpu effettuati in connessione con la MAP ex art. 168-bis, comma 3, c.p., nonché alla pena dei Lpu applicata per i reati di competenza del Giudice di Pace (anche in questo caso, contraddittoriamente, il beneficio dovrebbe essere applicato da un giudice diverso da quello incaricato di gestire la misura). La gravità delle conseguenze sistematiche e operative cui si è accennato dovrebbe muovere a una riflessione sulla sostenibilità della medesima e sull’opportunità di un revirement della Cassazione che, qualora non adottato, imporrebbe l’intervento del legislatore per la puntuale regolamentazione della materia. O, appunto, l’intervento del Giudice delle leggi. Guida senza patente, la recidiva infrabiennale resta reato Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2025 Con la sentenza numero 154, depositata ieri, la Corte costituzionale ha rigettato diverse questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 2, e 5 del decreto legislativo numero 6 del 2016 e 16, comma 15, del codice della strada, sollevate dal Tribunale di Firenze in composizione monocratica, chiamato a giudicare un soggetto imputato del reato di guida senza patente con recidiva infrabiennale. Il dubbio di illegittimità costituzionale avanzato dal giudice rimettente riguardava in via principale il comma 2 dell’articolo 1 del citato decreto legislativo, nella parte in cui, dopo aver chiarito che la depenalizzazione (salve talune eccezioni) dei reati sanzionati con la sola pena pecuniaria si applica anche a quelli che, nelle ipotesi aggravate, sono puniti con pena detentiva, “sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria”, precisa che “in tal caso le ipotesi aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome di reato”. La Corte ha ritenuto non fondato tale dubbio, anche se limitato al solo caso del reato di guida senza patente (come, in via subordinata, richiesto dal rimettente), rilevando che il legislatore delegato, nell’attribuire il massimo ambito applicativo alla clausola generale di depenalizzazione recata dalla legge delega, così valorizzando le generali finalità di deflazione del sistema penale sottese alla legge di delegazione, ha, tuttavia, lasciato doverosamente ferma la rilevanza penale delle fattispecie aggravate dei reati di cui si tratta, per le quali la normativa allora vigente prevedeva, in ragione del più accentuato disvalore del fatto, anche (o soltanto) la pena detentiva. Tali fattispecie, osserva ancora la Corte, non sarebbero potute comunque rientrare nel perimetro applicativo del criterio di delega, il quale non riferiva la condizione di operatività della depenalizzazione - l’essere, cioè, il reato punito unicamente con pena pecuniaria - alla sola fattispecie base. In via subordinata, il Tribunale di Firenze aveva censurato l’articolo 116, comma 15, del codice della strada, che continua ad annettere rilievo penale all’illecito commesso da chi sia recidivo nel biennio, per violazione dei principi di eguaglianza (art. 3 Cost.), di offensività del reato (art. 25, secondo comma, Cost.) e della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), in quanto tale previsione farebbe dipendere la rilevanza penale di un fatto, che per ogni altra persona resta sanzionato solo in via amministrativa, da una condizione soggettiva dell’agente (la recidiva nel biennio) priva di incidenza sull’offesa al bene giuridico protetto, configurando una responsabilità penale cosiddetta “d’autore”. Inoltre, la disposizione censurata enfatizzerebbe oltre misura il peso della recidiva sul piano sanzionatorio. La Corte ha giudicato non fondata anche questa censura, sottolineando che, nel caso in esame, la precedente condotta che viene in rilievo non è priva di correlazione con la condotta di guida senza patente, essendo costituita proprio dalla commissione, definitivamente accertata, del medesimo illecito. Inoltre, la recidiva, per assumere rilievo agli effetti dell’articolo 116, comma 15, del codice della strada, deve manifestarsi in un arco temporale circoscritto a soli due anni. Tale accertamento non assume le fattezze di un marchio incancellabile. La Consulta ha, ancora, escluso che sia riscontrabile nella specie un fenomeno di abnorme sopravvalutazione delle componenti soggettive dell’illecito, rilevando che la guida senza patente rappresenta comunque un illecito di significativo disvalore nel quadro di quelli contemplati dal codice della strada, consistendo nel compimento di un’attività intrinsecamente pericolosa per la sicurezza stradale e per l’incolumità delle persone e delle cose, in difetto del titolo abilitativo, che attesta l’idoneità del soggetto a esercitarla. In via ulteriormente subordinata, il Tribunale di Firenze aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo numero 8 del 2016 in riferimento all’articolo 76 della Costituzione per eccesso di delega, nella parte in cui non prevede che, con riguardo alle ipotesi aggravate ora trasformate in fattispecie autonome di reato, il giudice continui ad applicare per il calcolo della pena la disciplina sanzionatoria vigente prima della riforma. E ciò per l’asserita incompatibilità con la legge delega dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio delle ipotesi aggravate, che ne impedisce il bilanciamento con eventuali attenuanti. La Corte ha dichiarato non fondata anche tale questione, alla stregua delle considerazioni già esposte in relazione al rigetto della questione sollevata in via principale, aggiungendo che la pronuncia richiesta darebbe luogo ad un assetto asistematico, in quanto il giudice dovrebbe continuare a trattare come circostanza aggravante una previsione sanzionatoria alla quale non corrisponde più alcuna fattispecie base di reato. Infine, sulla base delle argomentazioni svolte con riferimento al rigetto della sollevata questione di legittimità costituzionale dell’articolo 116, comma 15, del codice della strada, la Consulta ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione - sollevata, in estremo subordine, dal Tribunale di Firenze - nella parte in cui, nell’ipotesi di recidiva nel biennio, prevede l’applicazione di una pena detentiva anziché pecuniaria. Piemonte. Detenuti al lavoro, in carcere ma anche nelle aziende di Fiorenza E. Aini gnewsonline.it, 22 ottobre 2025 “Mi sono reso conto che considerare i detenuti solo come elementi passivi é uno sbaglio, perché nel loro percorso di riabilitazione possono diventare una risorsa” ha detto Matteo Rossi Sebaste intervistato da Roberto Fiori per l’Inserto de La Stampa di oggi, 20 ottobre. Amministratore delegato della storica azienda dolciaria di famiglia a Gallo d’Alba e vicepresidente della Fondazione industriali, parte per le sue riflessioni dal protocollo siglato il 25 febbraio 2025 presso la casa circondariale di Cuneo fra istituzioni penitenziarie, imprenditori e soci della Fondazione industriale Ets. Oggetto dell’accordo, la promozione dell’occupazione delle persone detenute e in esecuzione penale esterna attraverso la costruzione di un sistema di collaborazione per il loro reinserimento sociale, incentivandone l’assunzione anche attraverso la conoscenza delle agevolazioni previste per gli imprenditori; quattro gli istituti carcerari coinvolti: Cuneo, come già detto, e le case di reclusione di Alba, Saluzzo e Fossano; firmatari, oltre la Fondazione industriali, il provveditorato per l’amministrazione penitenziaria di Torino, gli uffici interdistrettuali e locali per l’esecuzione penale esterna di Torino e Cuneo. L’attività lavorativa funzionale al reinserimento sociale, passa attraverso corsi di formazione specifici in molti casi necessari per avviare esperienze professionali, grazie anche a progetti che siano in grado di attingere a risorse finanziarie europee o regionali. Quindi, come altri accordi siglati tra imprenditori e strutture penitenziarie, il cuore di quello del febbraio 2025 è portare il lavoro in carcere. Ma, e qui l’intesa si apre a un respiro più ampio, nel prossimo futuro si concentrerà anche sul far uscire i detenuti dal carcere per lavorare, cambiando anche la percezione dell’attività lavorativa offerta, che passerà dall’avere solo (ma già moltissimo) valore assistenziale all’assumere i connotati del ‘calcolo imprenditoriale’. Prosegue infatti Sebaste: “Questo progetto nasce dall’esigenza di un gruppo di imprenditori di provincia dove la disoccupazione è al disotto del 2% e la difficoltà a reperire mano d’opera è reale” e che ha volto lo sguardo su “una fascia ampia di popolazione che per vari motivi si trova ai margini del sistema, ma può essere reintegrata”. Gli fa eco Paolo Giuggia, intervistato da Zaira Mureddu ancora per l’inserto de La Stampa, imprenditore del settore costruzioni che “negli ultimi anni, complici Pnrr e bonus edilizi” ha attraversato una fase di forte espansione, accompagnata però “dalla difficoltà di reperire manodopera specializzata”. Ed é qui che si inserisce la Fondazione industriali con l’intesa siglata, utilizzando “il lavoro per restituire dignità a chi ha avuto percorsi difficili e offrire una risposta reale al fabbisogno delle imprese”. Ovviamente tutto questo ha bisogno di tempo, fasi preparatorie che passano per esempio attraverso la costruzione di un database che raccoglie i profili dei lavoratori in cerca di impiego e le necessità di aziende ed enti locali. Il primo anno dalla firma dell’accordo è stato utilizzato da entrambe gli imprenditori per costruire rapporti con le strutture carcerarie, “mi sono impegnato ad approfondire il rapporto con le carceri” ha spiegato Sebaste, “una realtà che fa parte della nostra società ma che quasi sempre temiamo”. Rapporto che ha definito “toccante”. Giuggia si é dedicato con altri suoi colleghi imprenditori a firmare convenzioni, “attività preparatorie che hanno già dato risultati”: stanno partendo infatti le prime attività di formazione. Se il rapporto di lavoro è normalmente un dare-avere, nel caso del carcere, ha un valore aggiunto: “un ritorno sociale dato dall’imprenditore che investe e dal detenuto che investe su sé stesso”. E quando il detenuto si mette in gioco con il lavoro, immediatamente si nota sulla recidiva: se infatti nella ‘normalità’ della detenzione (in assenza di attività lavorativa) questa si attesta sul 70%, guardando ai 20mila detenuti che lavorano quella percentuale crolla al 2. La missione di questo accordo, come di tutti gli altri siglati e di quelli che verranno, risponde alla tensione rieducativa descritta nell’articolo 27 della Costituzione. Ma forse, questa disponibilità arrivata dal mondo dell’imprenditoria al recupero di persone e territori inizia anche ad agire biunivocamente, rieducando non solo detenuti ma educando uomini liberi ad essere cittadini consapevoli. Come dice Matteo Rossi Sebaste: “Superate le rigide divisioni di ruolo, non c’é un momento in cui io sono imprenditore e un altro cittadino”. Lombardia. Sportelli per l’inserimento socio-lavorativo in carcere, via al test Il Giornale, 22 ottobre 2025 A gestire gli sportelli sono i Centri per l’Impiego (Cpi) in collaborazione con gli operatori penitenziari e le reti territoriali mentre la Regione avrà un ruolo di coordinamento e governance. La Lombardia, prima Regione in Italia, aprirà sportelli lavoro nelle carceri del territorio. Una sperimentazione che si svolgerà nel carcere di Canton Mombello e alla casa di reclusione di Verziano a Brescia e alla casa circondariale di Bergamo. E proprio a Brescia è stato presentato ieri il protocollo regionale di sperimentazione per l’inserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale, promosso dalla Regione in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna e Sviluppo Lavoro Italia, nell’ambito di una sperimentazione sostenuta dal Ministero del Lavoro e dal Ministero della Giustizia. A gestire gli sportelli sono i Centri per l’Impiego (Cpi) in collaborazione con gli operatori penitenziari e le reti territoriali mentre la Regione avrà un ruolo di coordinamento e governance. “Restituire alle persone detenute la possibilità di formarsi e lavorare significa dare loro una prospettiva di cambiamento reale e duraturo. Il lavoro non è solo un reddito, è dignità, autonomia, libertà” ha spiegato l’assessora regionale a Formazione e Lavoro Simona Tironi alla presentazione, a cui hanno partecipato fra gli altri il provveditore regionale del Dap Maria Milano Franco d’Aragona, la direttrice ufficio interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna per la Lombardia Teresa Mazzotta e Giovanna Di Rosa, Presidente Corte d’Appello di Brescia. Il protocollo prevede una formazione specialistica integrata in quattro moduli per il personale delle carceri. La sperimentazione punta a coinvolgere il mondo produttivo lombardo per ““trasformare un test in una buona pratica stabile”. Avellino. Paolo Piccolo morto dopo pestaggio in carcere: “Muro di omertà, adesso giustizia” di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 22 ottobre 2025 “Ho l’impressione che nel carcere di Bellizzi Irpino ci siano mura del silenzio, della paura e dell’omertà”. Il duro attacco alla gestione del carcere di Bellizzi Irpino, dopo la morte del detenuto ventiseienne di Barra, Paolo Piccolo, massacrato di botte nella cella del carcere “Antimo Graziano” che occupava da solo un mese, arriva dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. “Chiediamo giustizia e verità per Paolo. L’abbiamo chiesta fin dall’inizio, non appena abbiamo appreso del pestaggio del ventiseienne arrivato dal carcere di Frosinone a Bellizzi Irpino a settembre 2024. A distanza di un anno dalla sua aggressione continuiamo a chiederla”. Samuele Ciambriello ancora una volta denuncia le criticità che si vivono quotidianamente nell’istituto penitenziario avellinese. “Tutti parlano di spedizione punitiva, ma punitiva per cosa. Cosa aveva fatto Paolo” chiede Ciambriello. Al contempo si chiede “la direzione del carcere di Bellizzi Irpino non ha registrato nessuna anomalia nei giorni precedenti al pestaggio. Negli istituti penitenziari in generale è sempre meglio prevenire che curare”. Punta il dito anche sulla carenza di organico ed eventuali omissioni. “Il carcere di Bellizzi Irpino è un vero colabrodo, pochi uomini e sistemi in tilt. Tutto questo lo dimostrano anche le evasioni e le tentate evasioni che ci sono state negli ultimi anni, così come le aggressioni sia verso gli agenti che nei confronti di altri detenuti”. Ed è sui numeri che si concentra Ciambriello. Il garante si chiede “quella notte quanti agenti erano di turno e come hanno fatto tutti quei detenuti ad arrivare alla cella di Paolo. Hanno dovuto aprire quattro, cinque, sei cancelli. Tutto questo come è stato possibile”. Le denunce arrivano da chi ben conosce la realtà carceraria e soprattutto quella di Bellizzi Irpino, istituto che il garante dei detenuti ha visitato diverse volte. E il sistema di sorveglianza “era funzionante o meno”. Domande legittime, condivise dai familiari di Paolo, che meritano risposte urgenti. “In quel carcere ho visto nell’ultima visita negati i diritti dei detenuti, e come unica risposta al pestaggio brutale di Paolo, è stato disposto il trasferimento di un’intera sezione quella dell’Alta Sicurezza, come se quei detenuti fossero le menti del pestaggio. Ma in realtà Paolo era ristretto per reati comuni”. Anche uno dei legali nominato dai familiari di Paolo Piccolo, l’avvocato Costantino Cardiello sostiene che “qualcosa non ha funzionato”. Aspetti sui quali nei prossimi giorni il difensore accenderà i riflettori. “Si andrà a verificare che cosa non ha funzionato in quell’istituto penitenziario, nonostante la carenza di personale che purtroppo è alla base di queste disfunzioni, ma un segnale ai familiari va dato dallo Stato che non ha saputo garantire la vita di questo giovane”. “Il cordoglio della famiglia ora si trasforma in una richiesta accurata di verifica, una richiesta per chiarire soprattutto che cosa non ha funzionato nella catena di custodia. Paolo è morto all’interno di un penitenziario, conosciamo tutte le criticità dei vari istituti, però siamo pur sempre in uno stato liberale che deve garantire la salute e la vita anche dei detenuti, motivo per il quale credo che la magistratura accenderà un faro anche su questo”. Purtroppo a distanza di un anno di tempo dall’aggressione il giovane non ce l’ha fatta “a nulla sono servite le cure meticolosissime che l’equipe dell’ospedale San Giuseppe Moscati di Avellino, ha prestato per tutto quest’anno, condizioni cliniche sicuramente deteriorate fino all’inevitabile exitus”. A processo sono finiti i dieci detenuti ristretti insieme a Paolo nell’ottobre 2024 nel carcere di Bellizzi Irpino. Torino. Detenuto obeso e malato, le accuse dopo la morte: “Ignorati i campanelli d’allarme” di Sandro Marotta La Stampa, 22 ottobre 2025 Joli Ghibaudi è un’osservatrice dell’associazione Antigone Piemonte che è attiva nelle carceri. “Perché nessuno ha notato i campanelli d’allarme che presentava la salute del detenuto? C’è bisogno di più personale sanitario e di formare la polizia penitenziaria”: così Joli Ghibaudi, dell’associazione Antigone Piemonte, commenta il caso di Francesco De Leo, detenuto di 260 kg trasferito 4 volte in due mesi tra Cuneo e il resto del Nord Italia e alla fine deceduto lunedì nel carcere di Torino. Cosa pensa di questa storia? “Lascia stupiti la peregrinazione da un istituto all’altro, i viaggi non hanno aiutato il suo stato di salute. Ci sono dei centri clinici in Italia, forse occorreva portarlo subito perché era una situazione grave: perché non è stato fatto?”. In rsa a Bra aveva litigato con il personale, perciò il magistrato aveva disposto la carcerazione. C’è chi dice che il detenuto non si è tutelato né curato: è d’accordo? “Troppo facile dire che è stata colpa sua. C’è da chiedersi anzitutto perché l’aumento di peso una volta entrato in carcere non sia stato attenzionato e nessuno l’abbia visto come un campanello d’allarme. Perché non è stato seguito dal punto di vista psicologico? Questo richiama un altro problema”. Cioè? “Manca personale sanitario. In genere ci sono tra le 5 e le 10 ore di presenza settimanale dello psicologo per tutta la popolazione carceraria. Come si fa ad attenzionare situazioni come quella del detenuto di cui si sta parlando?”. Il carcere di Torino com’è messo da quel punto di vista? “C’è un hub di assistenza sanitaria, con il reparto di osservazione e trattamento. Lo psichiatra è più presente”. Perché nessuno ha guardato l’evoluzione storica del caso di De Leo, notando il peggioramento fisico? Manca costanza nella cura in carcere? “Questo non lo so, ma noi di Antigone notiamo spesso un grande turnover nel personale, perché i lavoratori sono schiacciati dal sistema. Fra dovere professionale, regole rigide e richieste pressanti, dopo un po’ tutti scoppiano e cercano un altro lavoro, meno stressante e meglio retribuito”. Dovrebbe essere più facile accedere alle misure alternative per i detenuti? “Aiuterebbe. C’è da tenere conto che per molti detenuti, ad esempio stranieri, non sempre è possibile: alcuni non hanno casa, altri hanno dipendenze o non hanno una residenza. Questo non giustifica il fatto che non siano applicate come dovrebbero essere e che in carcere ci siano tante persone che potrebbero stare fuori”. Il carcere peggiora la salute? “L’ambiente non aiuta a stare bene, anzi è patogeno, a partire dalla struttura. Come si può vivere per anni con topi, blatte, senz’acqua calda e andando in bagno vicino a dove si cucina? Eppure il diritto alla salute è fondamentale, garantito dalla Costituzione indipendentemente dal luogo in cui una persona si trova”. Quali sono le esigenze che questo caso ha messo in luce? “La prima è che servirebbe più personale sanitario attento ai campanelli d’allarme di ogni detenuto. Sarebbe auspicabile per il personale di polizia penitenziaria una formazione più mirata al diritto alla salute delle persone ristrette”. C’è un rapporto tra carenza di assistenza sanitaria e sovraffollamento? “Sì. I tempi di attesa per una visita specialistica sono lunghi e rispetto alla sanità pubblica più complicati. I detenuti devono essere scortati. Significa tempo per coordinarsi, trovare agenti e orari adeguati”. Si parla della stanza dell’affettività nel carcere di Torino, utilizzabile anche dai detenuti di Cuneo per colloqui intimi coi partner. Che ne pensa? “Finalmente. Sarà disponibile dal 1° novembre, diversi istituti in Piemonte ci hanno detto che, se arriveranno le richieste, accompagneranno i detenuti a Torino. Bisognerà verificare se e come funzionerà”. Roma. A Rebibbia, il girone delle detenute incinte, malate e con i figli in cella di Conchita Sannino La Repubblica, 22 ottobre 2025 Le gestanti sarebbero anche entrate in contatto con un’ostetrica affetta da meningite e aspettano ancora l’inizio della profilassi. Incinte, ammalate ed esposte a gravi complicazioni di salute: donne detenute sostanzialmente in abbandono. Mentre in altre celle, si lamentano anche le madri rinchiuse con i loro bambini. È il trattamento Rebibbia, girone infanzia, o maternità calpestata. Ciò che il decreto Sicurezza minacciava, il carcere oggi rivela. Ma la vergogna annunciata si presenta in condizioni persino peggiori del previsto: uno scenario “fuori secolo” di cui l’opposizione chiede ufficialmente conto a Nordio e Schillaci, con un’interrogazione a risposta scritta. Otto donne in gravidanza. Cinque madri con bambini. Tutte in condizioni di precarietà fisica e psicologica. Alcune in stato di salute definito a rischio. A squarciare il velo su Rebibbia, istituto colpito da sovraffollamento e suicidi (due in tre giorni, solo a settembre), l’ennesima visita parlamentare: stavolta è la deputata Pd Michela Di Biase ad avere ascoltato storie e nomi, appuntato fatti e domande. “Quello che salta agli occhi è la condizione preoccupante in cui versano queste donne e i bambini - spiega a Repubblica - rispetto alla necessità di fornire loro le cure necessarie e con la dovuta tempestività, sia alle persone detenute sia ai nascituri”. Per la parlamentare, “solo la pulsione punitiva e anticostiuzionale che anima il concetto di sicurezza di questa destra può reggere la scena di donne in gravidanza, anche affette da serie patologie, insieme con i piccoli che vivono nella sezione “Nido” del carcere. Scene che sono tornate a vedersi nelle carceri solo grazie al Dl sicurezza”. Così l’interrogazione, prima firmataria Di Biase, con la responsabile dem della Giustizia, Debora Serracchiani, e con i colleghi Gianassi, Lacarra e Scarpa, richiama Guardasigilli e titolare della Salute al rispetto dell’articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite “sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”. Interpella i ministri sulla doverosa verifica “delle misure idonee a garantire l’assistenza sanitaria, psicologica e sociale alle detenute e ai loro bambini”. Chiede a via Arenula di verificare se “le autorità competenti abbiano valutato la possibilità di applicare misure alternative”. Anche Serracchiani punta il dito: “Le donne in gravidanza e i bambini non possono, anzi non devono stare in carcere. Quella voluta dal governo Meloni è una norma di inciviltà e pericolosa per donne e bambini, come emerge con chiarezza dalla vicenda gravissima di Rebibbia. Una vergogna di cui riteniamo responsabile Nordio e il suo ufficio”. Quando Di Biase è entrata in carcere, ha trovato le scene che già avevamo allertato il garante dei detenuti di Roma. Ecco la sezione “Cellulare”: in tre hanno il pancione e segni evidenti di disagio. Ma per due, la gravidanza a rischio. “Una è alla 34esima settimana, affetta da diabete mellito gestazionale e sottoposta a trattamento per tromboflebiti, e l’altra al settimo mese di gestazione, anche lei in condizioni critiche”, aggiunge Di Biase. Non basta: perché le detenute, registra l’interrogazione, “sarebbero entrate in contatto con un’ostetrica affetta da meningite”. Ma sembra aspettino ancora la profilassi necessaria. Poi, nella sezione Camerotti, altre quattro detenute incinte: e tra loro, una persona trans (nata donna, ma con un percorso di transizione in corso) “in gravi condizioni di salute”. Alcune “non hanno neanche la forza di combattere - dice Di Biase - La più sofferente ha 41 anni, è straniera. Mentre parlavamo, dentro, faceva già freddo. E alcune non hanno neanche vestiti adeguati per proteggersi dall’inverno”. Torino. La dura realtà del carcere minorile: “Questi ragazzi vanno ascoltati, non lasciamoli soli” di Mattia Clerico unionemonregalese.it, 22 ottobre 2025 Per la Giornata regionale dell’ascolto, le consigliere di AVS hanno visitato il “Ferrante Aporti”. In occasione della Giornata regionale dell’ascolto, istituita dalla legge approvata dal Consiglio regionale del Piemonte, le consigliere di Alleanza Verdi Sinistra hanno scelto di visitare l’Istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino. La legge, nata per promuovere politiche di contrasto alla solitudine e all’emarginazione, è stata integrata grazie a un emendamento di AVS che prevede l’inserimento dei mediatori e delle mediatrici culturali nell’Osservatorio regionale sull’ascolto. Un passo importante per riconoscere che l’ascolto deve includere anche chi vive barriere linguistiche e culturali. “Abbiamo scelto di essere oggi al Ferrante Aporti perché il carcere è uno dei luoghi dove l’ascolto è più difficile e più necessario - spiegano le consigliere di AVS -. Nell’istituto minorile la maggior parte dei ragazzi detenuti sono minori stranieri non accompagnati. Giovani che non hanno una rete familiare, che faticano a orientarsi in una società che non li riconosce e che spesso li lascia soli. Senza relazioni e senza strumenti di supporto, finiscono per cadere in circuiti di marginalità che poi diventano anche penali”. “L’ascolto, in questo contesto, non è una parola astratta ma un atto politico - aggiungono da AVS -. Significa costruire condizioni perché le persone non siano lasciate ai margini, perché i giovani trovino spazi di relazione e di fiducia prima di arrivare a un percorso detentivo. Oggi ricordiamo che le politiche pubbliche sull’ascolto devono partire da qui: da chi non ha voce, da chi è più fragile e da chi vive le contraddizioni più forti del nostro sistema sociale”. Massa Carrara. Maxi pulizia del litorale, progetto con i detenuti di Irene Carlotta Cicora La Nazione, 22 ottobre 2025 Domenica i volontari di Plastic Free onlus saranno con l’associazione Seconda chance. D’Alessandro: “Una quindicina di loro unirà le forze nel nome del rispetto ambientale”. Buona la prima, ecco la seconda delle iniziative ‘green’ che puntano a coinvolgere non soltanto cittadini e turisti ma anche detenuti del carcere di Massa. Un progetto virtuoso, che la scorsa primavera - in quell’occasione si riversarono sull’arenile circa sessanta persone, armate di guanti e sacchetti - aveva già fatto registrare buoni risultati al debutto. E che adesso è pronto ad andare in scena di nuovo. “Siamo pronti per un altro appuntamento targato Plastic Free onlus, i nostri volontari saranno nuovamente in campo per pulire e restituire decoro a zone della città che ne hanno bisogno o che ci vengono segnalata, come spesso accade - spiega Daniele D’Alessandro - Domenica saremo a a Marina di Massa per un’iniziativa che vede la speciale collaborazione con l’associazione “Seconda chance”: i detenuti del carcere apuano, una quindicina, saranno al nostro fianco per dare un contributo concreto all’ambiente e alla comunità, dimostrando che una “seconda chance” è possibile per tutti. Insomma, un esempio concreto di riabilitazione e responsabilità. Il ritrovo è per le 10 al Bagno Rap. Basta portare guanti (sono consigliati da giardinaggio o quelli da lavoro), scarpe comode e tanta voglia di fare. I sacchi li forniamo noi”. Nell’arco dell’anno, oltre agli eventi speciali come questo, Plastic Free onlus organizza una marea di appuntamenti. Specie in estate. Il numero delle persone che volta per volta aderiscono al progetto - tantissimi i bambini con le famiglie e i gruppi di amici - cresce e per i volontari di Plastic Free onlus è una grande soddisfazione. “Domenica saranno presenti Sara Quintavalle, referente per Pietrasanta, e Simona Ginesi che è una nuova referente per il territorio massese: anzi l’evento di domenica segnerà il suo debutto”, chiude D’Alessandro. Info e iscrizioni su ttps://www.plasticfreeonlus.it/eventi/12791/25-ott-massa e per contattare i volontari: Daniele 347 0806938; Sara 327 0997543; Simona 320 4123578. Milano. Teatro in carcere, il nuovo spettacolo di Opera Liquida è “Selvatico Ancestrale” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 22 ottobre 2025 Torna in scena nel carcere di Opera a Milano la compagnia teatrale Opera Liquida di Ivana Trettel con il suo nuovo e potente spettacolo, “Selvatico Ancestrale”. L’appuntamento è per il 24 e 25 ottobre alle 20:30 e lo spettacolo è aperto a un pubblico misto, composto da persone detenute e cittadini. Tra gli altri con Carlo Bussetti e Alessandro Arisio. Torna in scena nel carcere di Opera a Milano la compagnia teatrale Opera Liquida di Ivana Trettel con il suo nuovo e potente spettacolo: Selvatico Ancestrale. L’appuntamento è per il 24 e 25 ottobre alle ore 20.30 e lo spettacolo, promosso in collaborazione con la Direzione del carcere, è aperto a un pubblico misto, composto da persone detenute e cittadini. Biglietti disponibili esclusivamente su operaliquida.org, da acquistare entro il 20 ottobre 2025. In un’epoca in cui l’essere umano sembra aver perso valore, Selvatico Ancestrale restituisce dignità e voce a chi ne è privo. Un filo d’erba, un albero, un’ape: simboli di una resistenza che sopravvive nella cura, nella consapevolezza, nei Popoli Foresta e nelle nuove generazioni “che ragionano come i Popoli Foresta, senza averli mai incontrati”, come sottolinea Eliane Brum, nel suo Amazzonia. Il sodalizio con la giornalista fotografa Giuditta Pellegrini, che da dieci anni documenta le foreste del mondo, dando vita alla mostra omonima, ha risvegliato la nostra necessità e il senso di appartenenza. Il cuore pulsante dello spettacolo è il lavoro artistico delle persone detenute, protagoniste non solo sul palco ma anche dietro le quinte. I costumi, disegnati da Salvatore Vignola, sono realizzati dalle persone detenute costumiste sotto la guida di Tommaso Massone. Le immagini fotografiche di Pellegrini dialogano con la materia serica donata da Ratti, storica eccellenza tessile di Como. La scenografia, ideata da Marina Conti e Ivana Trettel, realizzata dalle persone detenute scenografe guidate da Simona Venkova, rinnova la collaborazione con l’artista cinetico Giovanni Anceschi e si ispira alla sua Strutturazione Tricroma. Si trasforma in antro, grotta, rifugio: uno spazio che accoglie e protegge, una sintesi possibile tra umano e natura. Un effluvio evocativo di natura incontaminata avvolgerà il pubblico grazie alla Maître Parfumeur Maria Candida Gentile, prima donna in Italia ad aver ottenuto il titolo di “naso” al prestigioso Grasse Institute of Perfumery. Gli attori - persone detenute ed ex detenute - Vittorio Mantovani, Alfonso Carlino, Carlo Bussetti, Anwar Ahmed, Alessandro Arisio, Babacar Casse, Christian Ortega, Nunzio Saglimbene, Christopher Santos e Nicolae Stoleru danno vita al corpo-foresta, ai distruttori, all’essere senziente, in una ricerca di armonia e riconoscimento reciproco. Insieme a loro, Eleonora Cicconi, attrice e assistente alla regia. La cura del progetto è affidata a Nicoletta Prevost. I testi dello spettacolo sono di Ivana Trettel, Alessandro Arisio, Vittorio Mantovani e Christopher Santos. A creare le atmosfere, le musiche originali di Nicolini/Troiani. Opera Liquida è parte della rete nazionale Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza, promossa da Acri con il contributo di Fondazione Cariplo e altre dieci fondazioni di origine bancaria, ispirata al modello della Compagnia della Fortezza di Volterra. Terzo settore, Giancarlo Moretti nuovo portavoce del Forum nazionale di Paolo Foschini Corriere della Sera, 22 ottobre 2025 “Unità, autonomia, inclusione”: sono queste le parole chiave con cui Giancarlo Moretti si è presentato come nuovo portavoce del Forum del Terzo settore. È stato eletto dall’Assemblea nazionale come candidato unico e succede a Vanessa Pallucchi che ha concluso il suo mandato dopo quattro anni. Giancarlo Moretti è il nuovo portavoce del Forum Terzo Settore, l’ente di rappresentanza del Terzo settore italiano che associa oltre 100 reti nazionali di Terzo settore per 120mila sedi territoriali. Moretti è stato eletto con 135 voti favorevoli, tra rappresentanti dei soci e Forum regionali, su 171 presenti. Le schede bianche sono state 33, 2 le schede nulle e un astenuto. Le elezioni si sono svolte a Roma nell’ambito dell’Assemblea dei soci dal titolo “Pace come condizione, giustizia sociale come impegno”. Giancarlo Moretti è stato eletto come candidato unico e succede a Vanessa Pallucchi, che ha rivestito il ruolo negli ultimi 4 anni. Alla portavoce e agli altri organi uscenti, Moretti ha rivolto “sinceri ringraziamenti per il lavoro svolto nel valorizzare e difendere l’identità del Terzo settore, in una fase di grande transizione”. “Il Terzo settore rappresenta la più ampia e diffusa esperienza di cittadinanza attiva e di democrazia dal basso attraverso l’impegno a migliorare il benessere e la qualità della vita delle persone e delle comunità” ha detto Moretti. “Oggi sta entrando in una nuova stagione, con la legge di riforma quasi completata, ma che va liberata da alcuni appesantimenti burocratici. È necessario riprendere a lavorare - ha sottolineato - su una visione di sviluppo del Terzo settore, basata sul rafforzamento delle organizzazioni e che valorizzi l’idea della sostenibilità come valore ideale e culturale”. Tre le parole chiave evidenziate dal neo portavoce durante il suo primo intervento: autonomia, che presuppone una continua sfida, scevra da condizionamenti, nel dialogare con tutte le parti sociali, politiche e culturali; unità, perché “in un mondo nel quale sembra prevalere l’abitudine all’eccesso di delega, il metodo del confronto e della costruzione di un pensiero comune è un elemento qualificante”; infine, l’inclusione - la “via maestra” - sia delle proposte e delle riflessioni ma anche nei processi di governance e organizzativi. Giancarlo Moretti ha poi posto l’accento su alcune priorità per il futuro del Paese: il rilancio del welfare sociale, la pace e la solidarietà internazionale, l’investimento nella cultura e nell’educazione; come temi di fondo, il pieno riconoscimento del Terzo settore come imprescindibile attore della società e dell’economia. L’Assemblea del Forum Terzo Settore ha inoltre eletto i nuovi organi sociali: Coordinamento: Roberto Speziale (Fish), Niccolò Mancini (Anpas), Paola Berbeglia (Aoi, Francesca Coleti (Arci), Rosario Lerro (Asc), Domenico Pantaleo (Auser), Caterina Pozzi (Cnca), Michele Carrus (Federconsumatori), Loredana Vergassola (Fimiv), Marta Battioni (Legacoopsociali), Vanessa Pallucchi (Legambiente), Alessandro Mostaccio (Movimento Consumatori), Tiziano Pesce (Uisp), Stefano Tassinari (Acli), Maria Ilena Rocha (Anolf), Giuseppe De Biase (Anteas), Giuseppe Bruno (Federsolidarietà), Marco Calogiuri (CSI), Mauro Battuello (CdO Opere sociali), Francesco Scoppola (Agesci), Ferdinando Siringo (MOVI), Valentina Bellis (Salesiani per il Sociale), Oscar Bianchi (Avis). Per i Forum regionali: Valeria Negrini (Forum Lombardia), Alberto Alberani (Forum Emilia Romagna), Francesca Danese (Forum Lazio), Andrea Pianu (Forum Sardegna). Collegio di Garanzia: Paolo Bandiera (AISM), Daniela D’Arpini (Ancescao), Antonio Derinaldis (ADA), Marco Petrillo (Uneba), Elisabetta Mastrosimone (Us Acli). Giancarlo Moretti, nato a Roma, è attivo sin da giovane nel Movimento Cristiano Lavoratori (Mcl) ricoprendo diversi incarichi. Attualmente è consigliere nazionale, membro dell’esecutivo e della presidenza generale di Mcl. Per il Forum Nazionale del Terzo Settore è già stato coordinatore della Consulta Aps, membro del coordinamento e dell’esecutivo. Ha dedicato alla cultura gran parte del suo percorso professionale, curando numerose pubblicazioni artistiche, esposizioni nazionali e internazionali e collaborando con svariate istituzioni culturali. Ambiente: 16 carceri unite ai volontari Plastic Free per ripulire 14 città Ristretti Orizzonti, 22 ottobre 2025 Dopo il grande successo dell’iniziativa di maggio, che aveva visto oltre 400 partecipanti - tra cui 114 detenuti in permesso premio - rimuovere 3,7 tonnellate di plastica e rifiuti in 12 città, Plastic Free Onlus, l’organizzazione impegnata nel contrasto all’inquinamento da plastica, e Seconda Chance, associazione del Terzo Settore dedicata al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, tornano a unire le forze per una nuova giornata di impegno condiviso tra ambiente e reinserimento sociale. Sabato 25 ottobre, volontari e detenuti in permesso premio provenienti da 16 istituti penitenziari si ritroveranno fianco a fianco per ripulire parchi, spiagge, strade e aree urbane in 14 città: Varese, Ferento (VT), Secondigliano Napoli, Marina di Massa, Cagliari, Teramo, Vasto, Pescara, Torino, Sabaudia (LT), Reggio Calabria, Prato, Caltagirone (CT) e Padova. L’iniziativa coinvolgerà detenuti provenienti dagli istituti penitenziari di Torino, Ivrea, Varese, Padova, Massa, Prato, Viterbo, Frosinone, Vasto, Teramo, Pescara, Secondigliano, Locri, Laureana di Borrello, Caltagirone e Cagliari, confermando una rete di collaborazione capillare tra istituzioni, volontariato e magistratura di sorveglianza. “Dopo i risultati straordinari di maggio, abbiamo deciso di rimetterci subito in moto - spiega Flavia Filippi, presidente e fondatrice di Seconda Chance -. Queste giornate non sono semplici azioni di pulizia, ma esperienze di comunità. Detenuti, volontari, educatori e cittadini si ritrovano insieme a condividere gesti concreti di rispetto e solidarietà. È così che il reinserimento diventa reale: attraverso la fiducia, la partecipazione e l’impegno condiviso”. Una visione che si integra pienamente con la missione di Plastic Free, come sottolinea Lorenzo Zitignani, direttore generale dell’organizzazione: “Le nostre giornate di pulizia ambientale nascono per sensibilizzare, ma anche per unire. Iniziative come questa dimostrano che l’associazionismo può essere un ponte tra mondi diversi, creando valore per l’ambiente e per le persone. Collaborare con Seconda Chance ci ricorda che cambiare è possibile, e che a far del bene non si sbaglia mai”. La mobilitazione del 25 ottobre rappresenta una nuova tappa del percorso comune avviato tre anni fa tra Plastic Free Onlus e Seconda Chance, che continua a crescere grazie alla collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, Magistratura di Sorveglianza, i Comuni, le aziende di igiene urbana, le associazioni locali e i volontari di tutta Italia. L’obiettivo è sempre lo stesso: costruire comunità più pulite, solidali e inclusive. Francia. Non festeggiate, per favore: è un giorno triste di Piero Sansonetti L’Unità, 22 ottobre 2025 “Honte à la Justice”, gridava ieri mattina una piccola folla che si era radunata davanti alla casa di Nicolas Sarkozy, 73 anni, ex presidente della Francia e tra i maggiori leader politici europei di questo secolo. “Vergogna per la Giustizia”. Vero. Non ho nessuna simpatia per Sarkozy, che nei suoi anni di potere condusse a destra la Francia e spezzò, in Europa, quel timidissimo tentativo socialdemocratico dei Delors, dei D’Alema, dei Prodi, degli Schroeder, dei Blair. Però, vi prego, non fatevi prendere dalla tentazione di gioire perché un potente entra in cella. Cercate di capire: non è mai un potente quello che entra in cella. È una persona. E non c’è mai da festeggiare: è sempre un giorno triste. Non esiste niente di più medievale della festa per il re in catene. Era triste la scena di lui che usciva dal portone, tenendo stretta la mano di Carla Bruni, che superava la folla, che baciava la moglie, che apriva lo sportello ed entrava nella Renault, ascoltando gli applausi, e assaporando gli ultimi minuti da uomo libero, e prendeva infine la strada per la Santé. E poi non c’è solo la tristezza per un uomo che perde la libertà. C’è la rabbia per la sopraffazione. Oltretutto verso una persona anziana. Sarkozy è stato condannato perché “non poteva non sapere”. La solita formula illiberale: “non troviamo il delitto, ma qualcosa tu c’entri: in galera”. Sarkozy è stato condannato solo in primo grado. Va in prigione per un’orrida legge varata 5 anni fa sulla spinta e la furia della destra e dei qualunquisti, una legge che impone la pena prima della condanna definitiva. Guardando Sarkozy che si avviava alla prigione ho pensato a quante donne e quanti uomini, ogni giorno, baciano il marito, o la moglie, o la mamma, o i ragazzi, e magari prendono l’autobus per andare in carcere. Distrutti, disperati, con l’anima annientata. Sono come Sarkozy. Identici. Ed è identico e feroce lo Stato che ha disposto queste cerimonie. Ma a che serve uno Stato così lontano dalla civiltà? L’abolizione delle carceri, la fine di questo sistema oppressivo e disumano, non è un problema secondario della modernità. È centrale. La prigione è uno dei residui peggiori dell’antichità, e forse non riusciamo a liberarcene perché temiamo che se manca la prigione manca il segno principale del potere. Sarkozy non lo sapeva quando era all’Eliseo. Ora lo sa. P.S. 1 Anche in Italia abbiamo in carcere, ingiustamente, alcuni ex potenti. Penso all’ex sindaco Alemanno, messo in cella solo perché un giudice, col suo immenso potere, gli rifiutò la condizionale senza una ragione sensata. Penso all’ex senatore D’Alì, che fu assolto due volte, e quindi è innocente, e che però subì un quarto e un quinto grado, e ora in una cella - mi dicono - si occupa con generosità di assistere un detenuto novantenne dimenticato dalla magistratura e dalla politica. Deve uscire Alemanno, e devono uscire D’Alì, e Cospito, e migliaia e migliaia di altri detenuti. Lasciamo le prigioni allo studio degli archeologi. P.S. 2 Nel 1993 Bettino Craxi, perseguitato dai magistrati, fu circondato vicino a piazza Navona da una folla urlante che lo insultò e riempì di monetine oltraggiose. Ieri Sarkozy, perseguitato dai magistrati, è stato circondato da una folla plaudente che lo ha acclamato. C’è niente da fare: i francesi sono migliori. Venezuela. Nei peggiori lager di Caracas di Sergio Rizzo L’Espresso, 22 ottobre 2025 Giacomo Mameli racconta di “Pedrito” un emigrante sardo finito nel girone infernale del regime negli anni 50. E la sua storia non è poi diversa da quella di Alberto Trentini. In fondo, a pagina 193, c’è un post scriptum che comincia così: “Ritengo un dovere morale, in un libro che racconta le violenze atroci di ieri in Venezuela, ricordare anche le violenze, altrettanto atroci, di oggi”. Giacomo Mameli, l’autore di “Pedrito” (sottotitolo: “Lamette a Caracas, fiori a Orgosolo”) si riferisce alla sconcertante vicenda di Alberto Trentini. È l’operatore umanitario della Ong Humanity & Inclusion sequestrato ormai quasi un anno fa dalla polizia venezuelana e sbattuto in cella senza che siano state formulate accuse nei suoi confronti. Nel carcere, che si chiama El Rodeo I, le condizioni sono descritte come disumane. “Varie Ong e le stesse Nazioni Unite”, scrive sul Domani Lucia Antista, “hanno documentato cosa accade all’interno tra privazione del cibo, detenuti costretti a fare i bisogni nello stesso spazio in cui dormono e mangiano, acqua razionata e restrizioni alle visite familiari”. La madre di Trentini non è riuscita a scambiare con il figlio che poche parole soltanto dopo quasi sette mesi. L’ambasciatore italiano ha invece avuto un colloquio con il cooperante (e con un altro cittadino italiano rinchiuso nel carcere venezuelano, l’imprenditore torinese Mario Burlò) a fine settembre, quando erano già trascorsi ben 312 giorni dall’arresto. Trecentododici giorni a testimoniare l’inerzia delle nostre autorità, smosse evidentemente più dalle pressioni dell’opinione pubblica che da una situazione oggettivamente inaccettabile da ogni punto di vista. La situazione di un cittadino italiano incarcerato da quasi un anno che non può difendersi dalle accuse perché le accuse non sono formalizzate. Così, per quanto enormi possano risultare le differenze fra il 2025 e gli anni Cinquanta del secolo scorso anche in Venezuela, la storia di Alberto Trentini ha perfino tratti comuni con quella di Pietro “Pedrito” Demontis. Una storia vera di lavoro, impegno, sofferenze, violenze, privazioni, e ritorno. Che Giacomo Mameli ripercorre nel suo libro con la fedeltà del cronista e il ritmo incalzante del narratore. La storia di vita di tanti italiani scappati verso l’ignoto pur di uscire dall’abisso della povertà. Classe 1931, Pedrito è partito da Perdasdefogu, nel cuore della Sardegna, per ritrovarsi a Caracas a fabbricare scarpe per l’impresetta di un siciliano. Sono gli anni dell’emigrazione italiana di massa, soprattutto dal profondo Sud e dalle isole, a cercare fortuna, a fare soldi. Brasile, Argentina, Uruguay, Venezuela. Le nuove terre promesse. Racconta Pedrito: “Comunque andassero le cose, il Venezuela luccicava di denari, produceva petrolio come nessun altro Paese al mondo. Sentivo dire: Viva el petròleo, los bolìvares, abajo la democracia” Già, la democrazia. La democrazia è solo un intralcio, in una giungla dove non c’è altra legge che fare soldi, e farli in fretta. Per quello è assai meglio la dittatura, e in Venezuela c’è la dittatura. Con cui Pedrito fa ben presto la conoscenza. Un giorno si fa convincere da un amico “che mi era diventato fratello”, Vicente, che però tutti lo chiamavano più Zapatero che Vicente, ad accompagnarlo a comprare sigarette di contrabbando. Ma sulla via del ritorno incappano nel coprifuoco, li arrestano e inizia il calvario. Vanno “da una galera all’altra, tutte occupate, grandi e piccole strapiene di arrestati”. Finché arrivano nell’unico carcere che li accetta. “Acqua non ce n’era nel cortile diventato lager. Né da bere, né da lavarsi. Una sola latrina per centinaia di dannati. Era l’inferno di un Paese con le dittature a lustri o ad anni alterni che duravano da tanto. Soltanto i nomi cambiavano ma sempre dittature erano”. Ma “inferno” forse non è il termine adatto. Nel carcere è peggio dell’inferno. I racconti delle atrocità, dice Pedrito, “sono difficili da immaginare”. Il meglio che possa capitare è di essere torturati. Un giorno si sparge la notizia che un professore universitario, evidentemente un detenuto politico, è morto “La Seguridad gli ha tagliato la giugulare con una lametta”. Perché ci sono anche i detenuti politici, quelli di “Accion democratica” di Romolo Betancourt, spazzata via dalla brutale dittatura di Perez Jimenez, che ha inaugurato le stagioni dell’orrore. Il giovane calzolaio sardo è precipitato nell’incubo senza alcuna colpa. Rischia di andare incontro al plotone d’esecuzione come chi si ribella al dittatore, ma ecco il colpo di fortuna. C’è Miguel, incaricato di distribuire la brodaglia chiamata cena nel cortile del lager. “Si avvicina e mi dice sottovoce: appena mi vedi al portone, alzerò la mano… vi faccio scappare, non fiatate con nessuno”. Ecco il cenno, il cancello si apre, e Pedrito con i suoi compagni e il cuore in gola è fuori dall’incubo. Il ricordo di quei giorni nel lager di Caracas non lo abbandonerà mai più. Dal Venezuela alla Sardegna, e di nuovo al Venezuela, dove la maledizione dei regimi totalitari, delle violenze, delle sopraffazioni e della negazione delle libertà collettive e individuali non ha fine. Per questo, leggendo il libro di Mameli, non ti abbandona il pensiero dei convitati di pietra come Alberto Trentini, rinchiuso in un carcere da un anno alla mercé degli sgherri di Maduro. Un dittatore al comando di un Paese che a dispetto del petrolio resta affogato in quello che in un’altra epoca si definiva il Terzo mondo. Dice tutto, in un colloquio con Massimo, il figlio di Pedrito, che chiude il libro, l’analisi di Luz Mely Reyes, una giornalista venezuelana che lavora negli Stati Uniti: “La nuova élite politica ed economica, legata al governo, gode di tutti i benefici ma la gente dei quartieri poveri può appena mandare i figli a scuola. Gli indicatori mostrano una regressione dell’economia simile a quella degli anni ‘40. Secondo gli esperti, il Paese ha sofferto una caduta che non ha precedenti in alcun altro Paese latino americano e addirittura nel mondo, se si escludono i Paesi in guerra” Attesa per la pronuncia della Cpi sul blocco degli aiuti a Gaza ansa.it Israele è per terza volta in 2 anni oggetto di decisione dell’Aja. La Corte Internazionale di Giustizia si pronuncerà oggi per stabilire se Israele abbia violato il diritto internazionale con il blocco degli aiuti umanitari imposto per mesi alla Striscia di Gaza. Lo scrive il Jerusalem Post. I giudici del principale organo giudiziario delle Nazioni Unite forniranno anche una valutazione degli attacchi israeliani contro il personale e le strutture delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza. Il giornale ricorda come Israele abbia respinto tutte le accuse, giustificando il blocco asserendo che il Hamas avrebbe intercettato spedizioni di aiuti, rivendendo poi le merci a prezzi gonfiati. Gli Stati Uniti hanno espresso sostegno alla posizione di Israele. I giudici dell’Aja valuteranno anche se Israele sia obbligato a cooperare con l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi. La Cig sta emettendo un parere consultivo legale, richiesto dall’Assemblea generale dell’Onu, che non è vincolante ma potrebbe aumentare la pressione su Israele affinché cooperi con le Nazioni Unite e consenta l’ingresso di maggiori aiuti umanitari a Gaza. Sarà la terza sentenza della Corte sulle azioni di Israele dallo scoppio della guerra di Gaza, poco più di due anni fa. Nel luglio dello scorso anno, la Corte dell’Aja ha stabilito che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi era illegale. In precedenza, in un caso di genocidio, la Corte Internazionale di Giustizia aveva ordinato a Israele di adottare tutte le misure necessarie per prevenire il genocidio a Gaza.