Carceri, il sistema fallito: non servono nuove regole ma una gestione concordata di Nicola Boscoletto* Corriere della Sera, 21 ottobre 2025 Un anno fa abbiamo lanciato un appello: “Rendiamo umane le carceri”. Chiedevamo con urgenza di spegnere il fuoco con un po’ di umanità e amore, invece di alimentarlo con odio e vendetta. Oggi è evidente a tutti (per chi vuol vedere) che è stata versata solo benzina: tutto è peggiorato e l’appello è rimasto inascoltato. Ciò che più mi addolora è constatare che non ci si ascolta, non ci si guarda, non ci si tende la mano, non si affronta insieme un problema che riguarda tutti, anche chi pensa di esserne estraneo o di sapere già tutto. La cosa più triste è che ogni episodio e ogni circostanza si usano per rafforzare la propria parte: e questo non fa altro che incentivare e incrementare ulteriormente l’odio e la contrapposizione. Lo scenario globale ci pone davanti a tragedie immense: 56 conflitti in tutto il mondo e speriamo che quanto avvenuto la scorsa settimana segni il nuovo inizio auspicato per il martoriato Medio Oriente. Anche al nostro Paese non mancano, anche se più piccoli, drammi che ci interrogano più da vicino. Per esempio quelli dell’accoglienza e dell’integrazione delle persone migranti, della sicurezza sociale, o delle 63 mila persone detenute. Ciascuno di noi ogni giorno può scegliere se contribuire con un pezzetto di umanità o restare indifferente. Come ricordava Primo Levi, i lager nacquero “facendo finta di niente”. Questa volta potrebbe non essere così. Qualcuno ha iniziato a non far finta di niente. Il messaggio del giovane don Bosco, che non mi stancherò mai di ricordare fino allo sfinimento, rimane un faro: prendersi “amorevole cura” di chi ci viene affidato, soprattutto di chi ha bisogno di essere accompagnato in un percorso di reinserimento e responsabilizzazione. Il carcere deve essere un luogo di cura e di recupero, non una discarica umana né un’istituzione vuota, punitiva, violenta e perciò disumanizzante. Oggi in tutto il mondo si sa chi è don Bosco e che cosa ha lasciato, nessuno certamente si ricorda il nome del ministro di allora. Bisogna scegliere tra un sistema repressivo o uno preventivo e di cura. Serve una gestione carceraria competente e umana, che persegua il bene della “persona e della società”. Per far rispettare la legge devi prima rispettarla tu, puoi parlare di diritti dopo che hai rispettato quelli degli altri, persone detenute comprese. Il sistema attuale è strutturalmente guasto, ha fallito nel suo compito. A mancare, diciamolo senza vergognarci, è un po’ di amore, un po’ di sano amor proprio e dell’altro. Le carceri oggi sono diventate il contenitore indifferenziato di disagi sociali, dipendenze e fragilità di ogni tipo. Molte persone detenute sviluppano ulteriori problemi durante la detenzione: invece di curarle le facciamo ammalare. È necessaria una rivoluzione culturale. Il sistema carcerario va ripensato, partendo dalle esperienze positive, consapevoli che ci vorranno decenni per invertire la tendenza negativa. La gestione delle carceri affidata esclusivamente al ministero della Giustizia si è dimostrata fallimentare. Va ripensata una governance diversa, che coinvolga tutti gli operatori, gli esperti dei diversi ministeri e valorizzi il contributo irrinunciabile del Terzo Settore. Il Terzo settore può dare un contributo significativo attraverso lo strumento dell’amministrazione condivisa, della coprogrammazione e della coprogettazione. Serve un cambio di mentalità, dove l’ascolto reciproco, la condivisione e la valorizzazione delle competenze siano al centro: “Non ci si salva da soli, bisogna costruire ponti, non muri. Bisogna essere generatori di processi e non occupare semplicemente spazi”. La dignità di una persona non dipende dal ruolo o dallo stipendio, tutti possono e devono contribuire al cambiamento. Ciò che serve è amore per il proprio lavoro, bisogna non aver paura dell’altro. Qualcosa però sta cambiando: sempre più persone - anche tra gli operatori penitenziari, in particolare tra la polizia penitenziaria ma non solo - si sentono usate e strumentalizzate dalla politica alla stregua delle persone detenute. Oggi è il tempo della società civile, di ciascun cittadino. E solo da qui che può ripartire e rinascere un nuovo tempo di bene e di pace. Non sono principalmente le leggi, la politica, le riforme a dover cambiare, ma le persone. Tanti cuori cambiati, tante gocce così possono rendere la vita migliore e più umana, bella e buona, anche dentro le carceri. Si può essere felici? Sì. Bisogna non farsi rubare la speranza. *Presidente Consorzio Giotto Sono 68 i suicidi in carcere nel 2025, l’ultimo ad Ariano Irpino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2025 Joseph Luki, cittadino nigeriano di circa quarant’anni e padre di due bambini, è stato trovato senza vita nella sua cella. Il Garante campano Samuele Ciambriello: “Condizioni inammissibili e indifferenza della politica”. Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre, nel carcere di Ariano Irpino (Avellino), è avvenuta un’altra tragedia. Si chiamava Joseph Luki: cittadino nigeriano, circa quarant’anni, padre di due bambini piccoli. È stato trovato privo di vita nella sua cella. Le prime indagini parlano di suicidio, la salma è stata trasferita all’ospedale “Ospedale San Pio” di Benevento per l’autopsia, disposta dalla Procura della Repubblica di Benevento. Un nome in più in un elenco che non accenna a fermarsi: da inizio anno le morti per suicidio nelle carceri italiane raggiungono le 68, con quest’ultima registrata in Campania, la regione che segna il sesto caso di questo tipo nel 2025. Quando si parla di suicidi dietro le sbarre, non si tratta solo di numeri ma di vite che si sgretolano in spazi dove l’abbandono e la paura sembrano dilatarsi. Per Joseph Luki, come per tanti altri, la detenzione non ha significato soltanto scontare una pena, ma trovarsi intrappolato in condizioni che - secondo chi le osserva da vicino - trascendono l’oppressione carceraria per diventare un sistema che macina umanità. Il Garante delle persone private ­della libertà della Campania, attraverso la voce del Garante Samuele Ciambriello, ha giudicato la vicenda non come “un caso isolato”, ma come l’indicatore di un’emergenza che “sembra non arrestarsi”, persa nell’indifferenza della politica e della società. Ciambriello ha fatto riferimento al richiamo del Presidente della Repubblica, che aveva invocato il rispetto della dignità di ogni persona, anche di chi è detenuto. Ha ribadito: “L’alto indice di suicidi è la prova di condizioni inammissibili, tra cui quelle del sovraffollamento”. Ecco lo scenario dietro alla dichiarazione: a fine settembre la popolazione detenuta in Italia era di 63.198 persone, quando la capienza regolamentare ammontava a 51.275 posti - e ciò senza considerare i circa 4.760 posti non disponibili. Il sovraffollamento reale oltrepassa quindi il 120%, e in alcune strutture arriva anche oltre il 150%. In questo contesto, le celle pensate per due persone ne ospitano quattro o più. Gli spazi sono angusti: in molti istituti non sono garantiti neppure tre metri quadrati per detenuto. Mancano spesso i servizi essenziali, l’assistenza psicologica è ridotta all’osso, e chi arriva sprovvisto di lingua o rete di supporto - come un migrante - resta isolato. Le ragioni di questa escalation sono molteplici e intrecciano aspetto strutturale e umano. Il sovraffollamento non è solo un problema logistico: amplifica il senso di claustrofobia, riduce le possibilità di socializzazione e sostegno psicologico, rende più difficile per il detenuto mantenere un legame con l’esterno - famiglia, figli, comunità. In queste condizioni, la sofferenza mentale cresce sotto silenzio, e in molti casi arriva all’atto estremo della fine della propria vita. La storia di Joseph Luki s’inserisce in questo scenario. Non era solo un detenuto: era un marito, un padre. Il carcere doveva rappresentare una parentesi nella sua esistenza, una separazione temporanea dalla libertà, ma non per questo dalla dignità. Invece, la sua morte testimonia come, anche in uno Stato di diritto, la pena detentiva possa trasformarsi in un dispositivo di esclusione anziché di recupero. Il Garante Ciambriello non cerca solo un richiamo morale: chiede interventi concreti. Aumentare il numero di educatori, psicologi, mediatori linguistici; espandere - davvero - le misure alternative al carcere; non puntare unicamente alla costruzione di nuovi edifici, ma investire sulle persone, sulle relazioni, sull’umanità che in carcere si frantuma giorno dopo giorno. Non solo spesini. Perché in Italia lavorano così pochi detenuti di Lidia Baratta linkiesta.it, 21 ottobre 2025 Entro la fine di ottobre, le imprese o le cooperative italiane che l’anno prossimo vogliono assumere lavoratori detenuti devono presentare la richiesta d’accesso ai benefici fiscali previsti, indicando il numero di assunzioni e la somma (del credito d’imposta) di cui intendono usufruire. Ma prima di farlo, devono stipulare una convenzione con gli istituti penitenziari di riferimento. I quali, poi, una volta ricevuta la domanda delle aziende, la trasmettono ai provveditorati regionali. Che, a loro volta, la inoltrano al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) entro il 15 novembre. Poi, il Dap entro il 15 dicembre decide l’importo che spetta a ogni impresa richiedente e trasmette l’elenco all’Agenzia delle entrate con l’ammontare degli sgravi concessi. La lista viene infine pubblicata sul sito del ministero della Giustizia. La trafila appena descritta è prevista dalla cosiddetta “legge Smuraglia”, che quest’anno compie venticinque anni, senza aver prodotto però nel tempo una reale diffusione del lavoro tra i detenuti italiani. Anche, ma non solo, per il caos burocratico che oggi c’è ancora dietro l’assunzione di un detenuto. E questo nonostante per i datori di lavoro sia previsto un risparmio che va dai 520 ai 300 euro al mese, a cui si aggiungono pure gli sgravi contributivi del 95 per cento. Gli stessi sgravi tra l’altro restano anche nei diciotto mesi successivi alla fine dello stato detentivo. E si applicano pure alle imprese che svolgono attività di formazione, a condizione che segua l’immediata assunzione per un tempo minimo che sia triplo a quello del periodo di formazione. L’importo delle agevolazioni fiscali approvate per il 2025 è stato di circa 12 milioni 430mila euro per circa 900 soggetti. Ma gli incentivi, a quanto pare, non bastano. E in effetti i numeri, nonostante in crescita, indicano che la macchina non funziona. Secondo il report “Recidiva Zero” del Cnel, dal 2004 al 2024 il numero totale dei detenuti lavoranti è passato da 14.686 a 21.235. Ma solo 3.172 detenuti oggi hanno un lavoro esterno al carcera con un’impresa o una cooperativa. Gli altri 18.063 continuano a lavorare alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, facendo gli “spesini”, gli “scopini” o servendo nelle mense. Lavori per la quotidianità della vita in carcere. Che comunque è già qualcosa rispetto agli “anni di branda”, ma è ben diverso da un lavoro al di fuori del carcere. Come spiega Don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della Cooperativa Sociale “La Valle di Ezechiele”, “il valore di una persona detenuta al lavoro non dipende meramente dalla retribuzione, dall’occupazione del tempo, dalla stanchezza”, ma “nasce anzitutto dall’igiene relazionale che deriva dall’essere immessi in contesti sociali non criminosi”. E non è un caso che la recidiva per i detenuti non lavoratori in Italia si aggira intorno al 70 per cento, mentre per coloro che in carcere hanno appreso un lavoro, la recidiva scende drasticamente intorno al 2 per cento. Ma quindi perché la legge Smuraglia non funziona? Oltre al limite culturale, per cui difficilmente i datori di lavoro italiani si rivolgono al carcere per cercare personale, ci sono anche i limiti burocratici che scoraggiano. Basta guardare come funziona il calendario di un’impresa che decide di assumere lavoratori detenuti. Le aziende che richiedono la Smuraglia devono “prenotarsi” un anno prima. Ovvero comunicarlo entro il 31 ottobre, come dicevamo, con una previsione di utilizzo del fondo per l’anno dopo, pianificando quindi per l’anno successivo quanti detenuti assumeranno o continueranno ad avere alle dipendenze. Poi entro il 31 gennaio è richiesto il monitoraggio sull’anno precedente ed entro il 31 luglio un’autocertificazione sull’uso dei fondi richiesti. Il problema è che non sempre le carceri, già in preda agli svariati problemi che conosciamo, riescono a comunicare con le imprese o le cooperative o a rispettare i tempi o i requisiti previsti dalla legge per produrre carte e certificazioni. Alcune direzioni carcerarie, in certi casi, addirittura non conoscono la legge stessa. Quindi è successo che sono stati autorizzati crediti di imposta non applicabili per alcune categorie di persone, come i detenuti ai domiciliari a cui l’incentivo non spetta. Molte imprese, poi, non sanno che devono produrre le autocertificazioni richieste e al Dap non arrivano i dati. E quindi si crea il caos. È quello che è successo la scorsa estate, quando il Dap ha inviato centinaia di Pec alle imprese diffidandole dall’utilizzo del credito d’imposta ricevuto e chiedendo la restituzione di alcune somme, anche se già approvate dal Dap stesso. I provveditorati e le direzioni delle carceri non avevano inviato in tempo al Dap i monitoraggi richiesti, e il Dap ha ritenuto le imprese inadempienti. Salvo poi fare marcia indietro. Davanti a questo caos, ovviamente, imprese e cooperative fuggono. Anche perché i problemi pratici non mancano. Il passaggio dal carcere alla vita lavorativa non è semplice e non tutti ce la fanno. Se il detenuto poi viola le regole di spostamento, tutto si ferma, magari anche per un periodo lungo e l’azienda si trova con un lavoratore in meno. Non è un caso che si tratta ancora molto spesso di progetti con piccoli numeri, che vedono coinvolte per lo più cooperative e associazioni del terzo settore. Il Cnel ha avviato lo scorso maggio una ricerca per analizzare le attività economiche portate avanti dai soggetti fruitori degli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia. Le criticità emerse sono tre, come spiega Filippo Giordano, ordinario di Economia aziendale all’Università Lumsa di Roma, membro del Segretariato Cnel. In primis la continuità: meno del 25 per cento degli enti ha usufruito dello sgravio fiscale su tutti e tre gli anni. Dei 210 nuovi fruitori del 2024, solo 88 enti hanno ricevuto finanziamenti anche per il 2025. Molte quindi si fermano prima (ma questo numero può avere a che fare anche con la precarietà delle attività economiche che accedono a questi incentivi). Inoltre, gli importi erogati di Smuraglia presentano una grande variabilità, sia in positivo che in negativo, nel corso degli anni. Quindi non sono così affidabili. E poi parliamo di importi molto piccoli. Solo il 14 per cento degli enti, nel 2024, ha percepito più di 24mila euro, per l’assunzione di quattro detenuti full time per 12 mesi. Mentre solo il 7 per cento ha percepito un importo maggiore di 50mila euro, per assumere otto detenuti full time per 12 mesi. Ma se alle aziende si chiede qual è il principale problema, quello più grave risulta essere la “qualità della collaborazione con l’amministrazione penitenziaria”. Le imprese non comunicano con le carceri e spesso sono in balìa di eventi e carte bollate e di una legge che nessuno sembra conoscere bene. Neanche nelle istituzioni. Per fare un esempio, il Dap, per la seconda edizione della giornata di lavoro “Recidiva Zero” dello scorso giugno, ha realizzato un opuscolo informativo sul funzionamento delle agevolazioni previste dalla legge Smuraglia. Bene. Nell’opuscolo vengono illustrate le modalità e i requisiti per richiedere l’incentivo. Ma anche nell’opuscolo ci sono delle imprecisioni: a pagina 22, si parla di uno sgravio contributivo, per le imprese, del 100 per cento. Ma in realtà è del 95 per cento. Più carceri, più crimini: la triste equazione della recidiva infinita di Fabrizio Pomes* bandieragialla.it, 21 ottobre 2025 C’è una verità che fa comodo a molti: la sicurezza si costruisce con il cemento e il filo spinato. Che una condanna più lunga, un ergastolo, un carcere sovraffollato, siano sinonimo di giustizia forte e, quindi, di società più sicura. È un’equazione semplice, rassicurante. Ma è una bugia tragica e costosa, che paghiamo in dolore umano e in insicurezza cronica. Come se chiudere un uomo in una cella fosse la soluzione, come se una porta che si chiude dietro di lui potesse cancellare il dolore, il rimorso, il gelo che ha nel cuore. Ma la realtà spezza questa illusione gelida: il vero pericolo non è tra le sbarre, è nella perdita di speranza che diventa peso insopportabile, è nell’anima che si indurisce, è nel ritorno disperato a quei gesti che già ieri hanno distrutto vite. La vera sicurezza nasce solo quando quella ferita profonda trova cura, quando chi ha sbagliato riceve davvero la possibilità di ricostruirsi, di non tornare indietro. Eppure, dietro quelle mura fredde, non ci sono solo volti di colpevoli, ma volti spezzati dalla vita, cancellati dall’amore, abbandonati alla solitudine più cupa. Ogni giorno, in quelle celle, uomini e donne lottano contro la paura di tornare a sbagliare, contro il senso di inutilità che il carcere amplifica come un eco senza fine. Non è punendo senza speranza che si protegge la società, ma dando a chi ha sbagliato la possibilità di rialzarsi sulle proprie gambe, di ritrovare un motivo per dire “non lo farò più”. La vera sicurezza non si misura dal numero di persone rinchiuse, ma dal numero di quelle che, uscite da quel cancello, non commetteranno più reati. La sicurezza è l’assenza futura di vittime. E questa si costruisce non spezzando le persone, ma restituendo loro un pezzo di umanità. Il carcere punitivo, quello che si limita a contenere e umiliare, è la più grande fabbrica della recidiva. È una scuola del crimine dove la violenza è l’unico linguaggio, dove i legami affettivi si spezzano, e dove l’unica identità possibile è quella di “criminale”. Chi esce da un’esperienza del genere è spesso più arrabbiato, più solo, più disperato di prima. Senza un lavoro, senza una casa, senza un barlume di speranza, il reato non è una scelta, ma l’unica strada conosciuta per sopravvivere. E così, quella stessa persona che abbiamo rinchiuso per “proteggerci”, torna tra noi più pericolosa di prima, creando nuove vittime. È un circolo vizioso di dolore che alimentiamo a nostre spese. Smentire la tesi “più carcere = più sicurezza” non significa essere indulgenti con il crimine. Al contrario, significa essere duri, intelligenti e pragmatici. Significa pretendere che la giustizia sia efficace, non solo vendicativa. Investire in misure alternative al carcere per reati minori, in lavoro penitenziario vero, in istruzione, in terapie per le dipendenze e l’assistenza psicologica, non è “coccolare i carcerati”. È un’opera di ingegneria sociale che protegge i cittadini. È come curare una malattia contagiosa: isolare il malato è necessario, ma se non lo curi, quando esce diffonderà il virus ancor di più. Ogni euro speso per rieducare un detenuto è un euro che risparmieremo in future investigazioni, processi, e soprattutto, in vite innocenti spezzate. È un investimento sulla sicurezza dei nostri figli. La vera forza di una società non si vede da quanto è alto il muro delle sue prigioni, ma dal suo coraggio di abbattere i muri dentro le persone. La sicurezza non si compra con altre sbarre. Si costruisce restituendo, a chi ha sbagliato, la possibilità di diventare una risorsa, e non più una minaccia. Perché la società più sicura non è quella che ha più prigioni piene, ma quella che ha saputo creare più seconde possibilità. E, in fondo, più uomini liberi dal peso dei loro errori. La vera battaglia è su questo terreno: abbattere la recidiva è l’unica via per una società davvero protetta. Non per meno carcere, ma per miglior carcerazione e soprattutto per un dopo carcere che dia valore alla vita e al futuro. E se il dolore, per noi che siamo stati dentro, ci ha insegnato qualcosa, è proprio questo: la libertà è un diritto da difendere anche dentro il carcere, perché solo riconoscendo e nutrendo quella libertà si può davvero costruire sicurezza per tutti. *Redazione de “Ne vale la pena” Custodia cautelare: quella retorica populista che nasconde l’abuso italiano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2025 Agitare lo spettro dei corrotti o degli spacciatori “in libertà” oscura l’uso distorto del carcere preventivo come anticipazione della pena. Quando l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando propose la sacrosanta ma naufragata riforma del sistema penitenziario, Il Fatto Quotidiano titolò: “Spacciatori in libertà!”. Non solo. Più di recente, di fronte all’intenzione dell’attuale ministro Nordio di limitare la carcerazione preventiva, lo stesso giornale ha denunciato un presunto tentativo di “salvare i colletti bianchi indagati”. Questa retorica - secondo cui i colletti bianchi non finirebbero mai in carcere - finisce paradossalmente per danneggiare tutti gli altri, impedendo qualsiasi riforma seria del sistema. In sintesi: a destra domina il populismo penale, a sinistra quello giudiziario, che ha sostituito la “lotta di classe” con la “lotta penale”. Ed ecco che Il Fatto Quotidiano, in prima pagina, parla di libertà non solo per i colletti bianchi, ma anche per i presunti delinquenti comuni. Praticamente condensa il peggio di entrambe le derive. C’è qualcosa di profondamente disturbante in questa contraddizione permanente, in questa narrazione che emerge ogni volta che si parla di riforma della custodia cautelare. L’articolo di ieri rappresenta l’ennesimo esempio di quella che potremmo definire “demagogia giustizialista”, capace di trasformare un tentativo di riequilibrio costituzionale in un presunto “salvacondotto per i corrotti”. La retorica è sempre la stessa: si agitano gli spettri dei colletti bianchi, si evocano casi di corruzione, si grida allo scandalo. Ma dietro questa cortina fumogena si nasconde una realtà che i numeri raccontano in modo implacabile e che certi commentatori preferiscono ignorare. Partiamo dai dati, quelli veri, non dalle suggestioni. Secondo l’ultima Relazione annuale del ministero della Giustizia, nel 2024 una misura cautelare su quattro è stata quella carceraria. Questi numeri mostrano un aumento netto dell’uso delle misure coercitive e una quota non trascurabile di provvedimenti che non sfociano in condanna definitiva, elementi che meritano approfondimento. La custodia cautelare in carcere dovrebbe essere, per previsione costituzionale e normativa, una extrema ratio. L’articolo 275 del codice di procedura penale è cristallino: “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. Eppure, come dimostrano i dati, questa “ultima trincea” è diventata uno strumento ordinario, utilizzato con una disinvoltura che stride con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Il Gip utilizza la misura carceraria nel 34,3% dei casi, quasi il doppio rispetto al giudice dibattimentale (18,4%). Questo dovrebbe far riflettere sulla fase in cui viene realmente “deciso” il processo: non nel dibattimento, dove si forma la prova nel contraddittorio, ma nelle indagini preliminari. La realtà che emerge è quella di un Paese che detiene in custodia cautelare il 31,5% della popolazione carceraria totale, contro una media europea inferiore al 25%. Un Paese dove i detenuti in stato di custodia cautelare rimangono mediamente oltre sei mesi in carcere, superati solo da Slovenia, Ungheria, Grecia e Portogallo. La Corte di Strasburgo, nella sentenza Torregiani, si è dimostrata “particolarmente sorpresa” nel constatare che circa il 40% dei soggetti ristretti in carcere risultava imputato, e fra questi circa il 20% era in attesa del giudizio di primo grado. Questo non è un sistema giudiziario efficiente: è un sistema che usa il carcere preventivo come anticipazione della pena. Ciò che la retorica giustizialista non racconta mai sono le conseguenze irreversibili di una custodia cautelare ingiusta. La perdita del lavoro, la disgregazione familiare, l’annientamento delle relazioni sociali, il crollo psicologico. L’imputato, ristretto in custodia cautelare, perde il proprio ruolo sociale, la propria identità, i propri beni materiali. Tutto questo prima ancora di essere giudicato colpevole. E quando arriva l’assoluzione? Lo Stato pagherà, ma non sempre, un indennizzo. Certo, ma chi potrà mai risarcire il tempo perduto, la reputazione distrutta, gli affetti compromessi? La questione di fondo è semplice: vogliamo continuare a essere un Paese dove si rinchiude prima e si giudica poi, dove il processo si decide in fase cautelare, dove l’innocente deve dimostrare di non essere colpevole? Le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sono chiare: la custodia preventiva “deve essere l’eccezione, non la regola”, “mai usata a scopo punitivo”. Il Parlamento europeo ha constatato che in alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, “la popolazione carceraria è composta per gran parte da detenuti in attesa di giudizio”. Non sono opinioni: sono fatti. Dati. Numeri che raccontano un sistema malato, dove la presunzione di colpevolezza ha sostituito quella di innocenza. Sia chiaro: tale eventuale legge non inciderà per niente sul discorso del grave sovraffollamento penitenziario e tutte le gravi criticità che vi comportano. Con la morte avvenuta ad Ariano Irpino, siamo giunti al 68esimo suicidio in carcere. La proposta di limitare la custodia cautelare in carcere è un tentativo di riportare lo strumento alla sua funzione originaria: tutelare esigenze cautelari concrete (inquinamento prove, fuga, reiterazione), non soddisfare appetiti punitivi preventivi. Certo, resteranno gli arresti domiciliari e le altre misure. Ma anche qui si chiede di intervenire con criterio, richiedendo al PM di motivare il rischio di reiterazione con “comportamenti o atti concreti diversi” dal fatto contestato. Non si potrà più rinchiudere qualcuno “soltanto” perché sospettato di un reato: serviranno elementi ulteriori. L’eventuale testo che verrà presentato potrà essere migliorato, discusso, emendato. Ma va nella direzione giusta: quella di restituire alla custodia cautelare il suo carattere eccezionale, di riportare al centro il principio di non colpevolezza, di evitare che altri innocenti finiscano in carcere preventivo. Eppure si preferisce la retorica facile, quella che agita lo spettro dei corrotti o degli spacciatori liberi. Ma i numeri parlano chiaro: il vero scandalo non sono i colpevoli che potrebbero evitare il carcere preventivo. Come scriveva Francesco Carrara, padre del diritto penale italiano: “La libertà deve essere la regola, il carcere l’eccezione”. Forse è arrivato il momento di ricordarcelo. Dl Sicurezza, Magi sfida il Governo. La Consulta chiamata a decidere di Simona Musco Il Dubbio, 21 ottobre 2025 Giudici in camera di consiglio per decidere sull’ammissibilità della questione sollevata dal deputato: contestata la violazione dell’iter ai danni del Parlamento. La Corte costituzionale deciderà nei prossimi giorni sul conflitto di attribuzioni tra poteri sollevato dal segretario di + Europa Riccardo Magi. Al centro della questione il dl Sicurezza, approvato ad aprilo scorso dal Consiglio dei ministri. I giudici si sono riuniti ieri in camera di consiglio e si attende ora una decisione sull’ammissibilità della questione. Nel caso in cui si superasse questo primo vaglio - sarebbe la prima volta per un conflitto sollevato da un singolo parlamentare - la questione verrà discussa nel merito in un’altra udienza nei prossimi mesi. Magi ha impugnato non il merito del decreto - sul quale sono molteplici i dubbi di costituzionalità - ma l’iter che ha portato all’approvazione dell’atto normativo. Nel mirino la scelta di trasformare il ddl, fermo da un anno al Senato dopo l’approvazione alla Camera, in un decreto legge, apportando un’unica modifica: l’aggettivo “urgenti” accanto al termine “misure” sul frontespizio. Il Parlamento fu così espropriato. Il governo spiegò la decisione in maniera contraddittoria: Giorgia Meloni legò la scelta alla necessità di garantire “una specifica tutela legale” ad agenti di polizia e militari “che dovessero essere indagati o imputati per fatti inerenti al servizio”. Diversa la spiegazione del ministro Matteo Piantedosi: l’urgenza era dare “tempi certi” a provvedimenti come “tutela legale dei poliziotti, degli anziani, delle categorie vulnerabili e degli immobili”, elementi “molto importanti” per “un governo come il nostro”, per il quale “si era perso troppo tempo”. Insomma, una questione di velocità, di fronte ai molti emendamenti che avrebbero rallentato ulteriormente l’iter. Nel merito, è facile immaginare come la Consulta, interpellata per via incidentale, possa bocciare uno o più articoli. I dubbi di costituzionalità, sollevati da avvocatura, magistratura e accademia, sono molti, come sintetizzato in un documento del Massimario della Cassazione che aveva suscitato le ire del governo per una presunta “invasione di campo”. Magi punta dunque a un obiettivo più ambizioso: far annullare l’intero decreto per assenza dei requisiti di straordinarietà, necessità e urgenza. La strada è “audace”, ma il segretario di +Europa ne è consapevole. A confortare Magi, alcune recenti decisioni della Corte costituzionale, che hanno aperto la possibilità per il singolo parlamentare di ricorrere, pur bocciando poi, in quei casi, l’ammissibilità delle questioni, in quanto legate a questioni interne alle Commissioni parlamentari. In questo caso, però, “è accaduto qualcosa di diverso e di inedito: l’attacco alle prerogative dei parlamentari è venuto da una dinamica e da un potere effettivamente esterno al Parlamento, cioè dall’esecutivo”. Secondo Magi, il governo “ha voluto superare dei problemi su proposte emendative già presentate nella lettura al Senato. Si sarebbe trattato di una navetta con ritorno alla Camera, che avrebbe dovuto riesaminare il testo con le modifiche apportate dal Senato. Altre modifiche, invece, non avevano la maggioranza necessaria. Si trattava, dunque, di un caso plateale di mancanza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza”. La giurisprudenza costituzionale è chiara: tali motivi “devono persistere ed essere motivati, e non può essere addotta come giustificazione l’impasse politica della maggioranza che sostiene il governo”. In che cosa consiste, dunque, la lesione delle prerogative delle Camere e dei parlamentari? “L’esecutivo ha menomato gravemente le attribuzioni delle Camere e dei singoli deputati e senatori, violando gli articoli 67 e 72 della Costituzione - ha chiarito Magi. La portata grave di quanto accaduto sta nel fatto che già viviamo in una situazione nella quale i decreti legge si discutono di fatto in un solo ramo del Parlamento, con fiducie poste in serie. Questo decreto Sicurezza ha alzato ulteriormente l’asticella, interrompendo a metà l’iter parlamentare”. Una strada stretta, quella della Consulta, “ma siamo anche convinti che, in questo caso specifico, la lesione sia evidente”. Si tratta di un provvedimento eterogeneo, quasi un “decreto- omnibus penale”, che avrebbe richiesto un iter parlamentare completo. Per Roberta Calvano, ordinaria di Diritto costituzionale all’Unitelma Sapienza, è stato un salto di qualità nell’abuso della decretazione d’urgenza. “I costituzionalisti censurano e stigmatizzano l’abuso della decretazione d’urgenza ormai da decenni - ha sottolineato. Abbiamo avuto una serie di forme diverse di abuso: dalla reiterazione, ai maxi- emendamenti, fino a prassi ora esplosive. Con questo caso siamo di fronte a una rottura che io ritengo un salto di qualità, perché la lesione delle prerogative delle Camere è ormai lampante. Ci sono misure segnalate come critiche non solo da penalisti e costituzionalisti, ma persino dai rapporteurs delle Nazioni Unite per violazione dei diritti umani”. Una “vergogna per il nostro legislatore”. Per Roberto Zaccaria, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, “un provvedimento che contiene norme repressive del dissenso è un provvedimento limite per l’equilibrio democratico” e la via seguita da Magi potrebbe rappresentare una chiave per scardinarlo. “La Corte è sempre la stessa come organo, ma i suoi componenti cambiano. Una decisione di questo genere - ha evidenziato - può essere anche un modo per verificare la nuova composizione della Corte”. Insomma, un test per la Consulta, che potrebbe cogliere l’occasione per dare un segnale al Parlamento e al governo sull’uso della decretazione d’urgenza. Amoroso: “Deriva antidemocratica in Italia? No, l’equilibrio dei poteri è saldo” di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 ottobre 2025 L’appello del presidente della Consulta contro il processo mediatico: “Una barbarie”. Il principio di non colpevolezza violato, la solidità della democrazia in Italia, le nuove sfide per la Costituzione. Elly Schlein dice che la democrazia è a rischio, in Italia, e che con la destra al potere “le libertà sono a rischio”. Il centrosinistra dice che il nostro paese ha avviato una pericolosa torsione autoritaria. Massimo Cacciari dice, nientemeno, che “stiamo vivendo in uno stato di eccezione”. Abbiamo incontrato pochi giorni fa Giovanni Amoroso, presidente della Corte costituzionale, alla Festa dell’ottimismo del Foglio. E con lui, pochi giorni prima del brutale e barbarico attentato al giornalista Sigfrido Ranucci, attentato a seguito del quale si è aperto un confronto politico accesso, che ha spinto Schlein a considerare addirittura Meloni responsabile del clima d’odio “antidemocratico” che starebbe affliggendo l’Italia, abbiamo parlato proprio di questi temi. Democrazia, stato di diritto, torsioni antidemocratiche. Ma ci sono davvero? Presidente, partirei da un tema che riguarda i confini delle democrazie e anche i confini delle non democrazie. Nel dibattito pubblico italiano spesso si sostiene, a volte un po’ a sproposito, che l’Italia stia sprofondando in una democrazia illiberale, in una deriva autoritaria e autocratica. Ma lei vede questa minaccia, questa possibilità? “La democrazia si fonda sul principio fondamentale della separazione dei poteri e quando l’equilibrio dei poteri, il potere legislativo, il potere esecutivo, il potere giudiziario, comincia ad alterarsi allora c’è da preoccuparsi, perché si può scivolare verso forme che hanno un tasso di democrazia inferiore. Nella situazione attuale mi sento di condividere la valutazione che ha già fatto il presidente Amato: in Italia non vedo questo spostamento dell’equilibrio dei poteri, che per essere allarmante poi dovrebbe essere verso il potere esecutivo. Non vedo questo scivolamento. Consideriamo anche che il nostro sistema ordinamentale uscito dalla Costituzione del 1948 prevede comunque non solo la separazione dei poteri, ma anche un controllo giudiziario perché, ed è una singolarità del nostro sistema, c’è la giustiziabilità dei conflitti tra poteri. Quindi anche il debordamento di un potere nello spazio di un altro potere può essere oggetto di una controversia vera e propria”. Debordamento, esondazione. Come si fa a riconoscere una Corte costituzionale che esonda da una che non esonda, cioè qual è il limite che una Corte costituzionale deve avere per non esercitare un potere di supplenza nei confronti della politica? “Chi è il custode della Costituzione, come dice il famoso libro di Carl Schmitt? Il custode della Costituzione è la Corte costituzionale, perché esercita la giurisdizione costituzionale, però la legge stessa sul funzionamento della Corte costituzionale prevede il limite della discrezionalità del legislatore. Quindi c’è un confine tra questioni che sono di giurisdizione, questioni che sono di legittimità delle leggi, questioni addirittura che sono di attribuzione dei poteri, ma poi ci sono le valutazioni politiche, le scelte politiche e la Corte deve stare bene attenta a non valicare questo confine perché lì poi effettivamente si esonderebbe verso il potere politico”. A proposito di confini, un tema di grande dibattito di questi tempi, ma che lo sarà ancor di più nei prossimi mesi, riguarda un altro confine, ovvero un confine netto che si vuole tracciare attraverso una legge costituzionale nel rapporto tra giudici e pubblici ministeri. E’ una questione molto grande, molto importante, ma le chiedo esplicitamente: è un attentato alla Costituzione voler separare le carriere oppure è un tentativo di rispettare e far valere l’articolo 111 della Costituzione, cioè quello che prevede la terzietà necessaria del giudice e la sua necessaria indipendenza? “La riforma, che è all’esame del Parlamento e si avvia verso l’ultima delibera prevista dall’articolo 138 della Costituzione, prevede espressamente che giudici e pubblici ministeri siano entrambi nell’ordine della giurisdizione, quindi c’è una separazione di carriere e non separazione di poteri. C’è la separazione, questa sì, del Consiglio superiore della magistratura. C’è uno splitting del Csm che è destinato a raddoppiare: il Csm giudicante e il Csm dei pubblici ministeri. Se fosse stata solo la separazione di carriere non sarebbe occorsa una riforma costituzionale. Ci sono state varie normative che hanno molto limitato i passaggi dalla carriera di giudici alla carriera di pubblici ministeri e viceversa. Invece per toccare l’assetto del Consiglio superiore della magistratura, anche nella sua sezione disciplinare, occorreva una riforma costituzionale”. Ma questa riforma scandalizza o no il presidente della Corte costituzionale? “Questa distinzione, che è importante in un sistema dove il principio della terzietà del giudice è stato inserito nell’articolo 111, si vede innanzitutto nel processo, e soprattutto nel processo penale. Il passaggio importante si è avuto col nuovo processo, il nuovo rito, il codice di procedura penale Vassalli, e con le difficoltà che ha incontrato all’inizio proprio su questo versante, la distinzione tra l’attività del pubblico ministero, attività investigativa, e l’attività del giudice. E, all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo codice, ci fu una frizione proprio tra Corte costituzionale e Parlamento, perché la Corte costituzionale aveva enunciato il principio della non dispersione della prova, e per non dispersione della prova intendeva anche gli atti di indagine. E questa frizione tra Corte costituzionale e Parlamento si risolse con il nuovo articolo 111”. C’è un altro articolo importante della Costituzione al quale noi, ma non tutti purtroppo in Italia, siamo molto affezionati: è quello che prevede la necessità e il dovere di considerare ogni indagato innocente fino a prova contraria. Lei ha avuto una grande e lunga esperienza in Cassazione, quindi ha potuto vedere anche le trasformazioni del sistema giudiziario e anche i rapporti patologici che possono esserci a volte con il mondo dell’informazione. Quanto questo mostro chiamato processo mediatico è un’aggressione quotidiana alla Costituzione? Quanto è una ferita quotidiana? “Di fatto lo è. Qui c’è il versante giuridico in senso stretto. Quando è stato introdotto il principio del giusto processo, della terzietà del giudice, della prova che necessariamente si forma nel dibattimento, quindi contrastando quello che la Corte aveva affermato negli anni 90 sulla rilevanza anche della prova formata negli atti dell’indagine, è lo stesso articolo 111, al terzo comma, che prevedeva che l’indagato dovesse essere informato riservatamente. Quindi si voleva che la fase dell’indagine avesse una connotazione di riservatezza. E non è proprio così in concreto. E quindi il processo mediatico è in realtà una barbarie che viola in concreto il principio di non colpevolezza e il principio di innocenza”. Barbarie mi sembra una parola perfetta. Quanto è nocivo per lo stato di diritto avere un’opinione pubblica educata con la barbarie del processo mediatico? Vogliamo fare un appello contro questa barbarie? “È un appello che in una festa dell’ottimismo come quella di oggi possiamo fare tutti quanti coralmente, non occorre che sia il presidente della Corte costituzionale da solo”. C’è una questione delicata, ma importante, che riguarda una parola con la quale ogni giorno noi facciamo i conti: l’odio. L’odio è qualcosa di detestabile, di tremendo, ma c’è anche un diritto all’odio. Quali sono i confini della libertà di espressione quando si parla di odio? Qual è il confine che non si può e non si deve superare anche a livello costituzionale? “C’è la libertà di pensiero. L’articolo 21 è un architrave del nostro sistema costituzionale, non dimentichiamocelo, e bisogna tenerla ben stretta questa garanzia, però c’è il limite. Innanzitutto quello della dignità delle persone, quindi si può contrastare e ci si può opporre anche in modo vivace, però rispettando la dignità dell’altro. È la cultura del rispetto che deve andare di pari passo con la garanzia della libertà di opinione e, per quanto riguarda poi la stampa e i giornalisti, la libertà di critica che è anche qualcosa di più”. A proposito di separazione dei poteri, di indipendenza dei vari poteri, lei si scandalizzerebbe se in futuro qualcuno proponesse di rafforzare il sistema dell’immunità parlamentare? “C’è chi chiede un ritorno al sistema dell’autorizzazione dell’articolo 68”. E lei è favorevole? “Direi di no. Ormai questo è un sistema collaudato, la Corte è intervenuta ripetute volte e quindi, per quanto riguarda le espressioni, c’è questo collegamento con la funzione parlamentare. Al di là di questo collegamento, la posizione del parlamentare è analoga a quella del comune cittadino”. La nostra Costituzione, secondo lei, quanto è pronta ad affrontare sfide che nel 1948 non erano neanche lontanamente immaginabili, come le sfide bioetiche o quelle legate ai confini dell’intelligenza artificiale? “La Costituzione ha resistito quasi 80 anni, è stata modificata perché ci sono state varie leggi costituzionali, tra cui quella che ha modificato, l’ha citato poco fa, l’articolo 111. Ce ne sono state anche altre, ma una vera e propria riforma della Costituzione in realtà è stata tentata, ma non c’è stata. Quindi è una Costituzione che probabilmente nasce solida. Per queste nuove frontiere tecnologiche, anche per l’intelligenza artificiale a cui ha fatto riferimento, c’è la normativa. È proprio recente la legge sull’intelligenza artificiale, la legge 132 di quest’anno, in collegamento col regolamento europeo, sempre sull’intelligenza artificiale, dello scorso anno. Quindi è un plesso normativo che regola l’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Peraltro proprio nel campo della giustizia c’è una disposizione particolarmente significativa che richiede che l’attività valutativa e poi decisionale sia qualcosa che è ancora affidata al giudice”. Lei usa l’intelligenza artificiale? “Le confesso che la uso, non nel settore giuridico, non so se è il caso di confessarlo così, ma nel settore linguistico. E credo che funzioni molto bene. Cioè quando ho dei dubbi su alcune costruzioni di altre lingue il sistema di intelligenza artificiale risponde alla perfezione, quindi sono un utilizzatore”. Il messaggio del presidente della Corte costituzionale è sottile ma chiaro: in Italia la democrazia è solida, non scherziamo, ma se c’è qualcuno che ogni giorno aggredisce la nostra Costituzione è chi gioca con la gogna e trasforma lo strumento del processo mediatico in un’arma con cui ferire la nostra democrazia. L’appello del presidente della Corte c’è, è qui di fronte a noi. Chissà quando la politica riuscirà a trasformarlo trasversalmente in un elemento di unione e non di divisione. Deriva antidemocratica in Italia? Non scherziamo, please. Il Gup non può cambiare l’accusa senza sentire le parti di Antonio Alizzi Il Dubbio, 21 ottobre 2025 Cassazione: dopo la riforma Cartabia, il giudice dell’udienza preliminare non può più intervenire d’ufficio sull’imputazione o sulle aggravanti nel decreto di rinvio a giudizio. La sesta sezione penale della Cassazione ha annullato senza rinvio il decreto che disponeva il giudizio nei confronti di un imputato calabrese, al quale vengono contestati reati che avrebbe commesso tra il 2018 e il 2019 nei territori di Bianco, San Luca e Rose, i primi due comuni in provincia di Reggio Calabria e il terzo in provincia di Cosenza. Il provvedimento, emesso dal giudice dell’udienza preliminare di Reggio Calabria il 7 aprile 2025, è stato impugnato dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, che ne aveva denunciato il carattere abnorme. La pubblica accusa ha evidenziato che il gup, nell’emettere il decreto di rinvio a giudizio, aveva escluso l’aggravante mafiosa prevista dall’articolo 416- bis. 1 del codice penale, contestata nella richiesta di rinvio a giudizio, senza attivare il confronto con le parti, in violazione dell’articolo 423, comma 1- bis, del codice di procedura penale. Tale omissione, secondo l’ufficio antimafia reggino, aveva generato “una situazione di stallo processuale”, poiché non risultava più chiaro quale ufficio del pubblico ministero fosse competente a sostenere l’accusa in dibattimento. Con la requisitoria del 8 settembre 2025, il procuratore generale Francesca Romana Pirrelli aveva chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. Ma la Suprema Corte, presieduta da Ercole Aprile e con estensore Fabrizio D’Arcangelo, ha accolto il motivo principale, riconoscendo che l’atto impugnato era viziato da abnormità strutturale. La sentenza - depositata il 13 ottobre 2025 - si fonda sull’interpretazione dell’articolo 423, comma 1- bis, introdotto dalla riforma Cartabia, che regola le modalità con cui il giudice dell’udienza preliminare può intervenire sulla formulazione dell’imputazione. La norma stabilisce che, se il giudice “rileva che la definizione giuridica non è corretta”, deve invitare il pubblico ministero “a operare le necessarie modificazioni”. Solo in caso di mancato adeguamento, e dopo aver sentito le parti, può restituire gli atti. Nel caso dell’imputato reggino, il gup aveva escluso l’aggravante mafiosa direttamente nel decreto che disponeva il giudizio, senza sollecitare il contraddittorio previsto dalla nuova disciplina. Un comportamento che, secondo la Cassazione, esorbita dai poteri riconosciuti al giudice in quella fase. La Suprema Corte ha ricordato che, in passato, la giurisprudenza consentiva al giudice dell’udienza preliminare di modificare la qualificazione giuridica dei fatti anche in sede di decreto, ma dopo la riforma tale facoltà è venuta meno. La norma, spiega la Corte, ha introdotto il “contraddittorio preventivo” come condizione imprescindibile per qualsiasi intervento del giudice sull’imputazione. “L’articolo 423, comma 1- bis, cod. proc. pen.”, si legge in motivazione, “ha introdotto il contraddittorio preventivo quale condizione per l’esercizio da parte del giudice dell’udienza preliminare del sindacato sulla dimensione fattuale e giuridica dell’imputazione”. Il principio affermato dalla Suprema Corte è chiaro: il giudice non può più procedere a modifiche d’ufficio della qualificazione giuridica o delle circostanze aggravanti nel decreto che dispone il giudizio, perché il legislatore ha voluto garantire fin dall’udienza preliminare il pieno esercizio del diritto di difesa. “Il nuovo potere di controllo e di stabilizzazione dell’imputazione previsto dall’articolo 423, comma 1- bis”, scrivono i giudici, “esclude il potere del gup di riqualificare il fatto contestato con il decreto che dispone il giudizio”. Si tratta, osserva la Corte, di un caso di abnormità strutturale, perché il provvedimento “è espressione dell’esercizio di un potere non riconosciuto dall’ordinamento processuale”. In altre parole, il giudice ha esercitato una funzione che la legge non gli attribuisce, alterando la sequenza regolare del procedimento e determinando un vizio insanabile. Concludendo, la Cassazione ha annullato senza rinvio il decreto impugnato e disposto la trasmissione degli atti al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria per l’ulteriore corso del procedimento. Avellino. Paolo, morto dopo le botte in carcere: i familiari chiedono l’intervento di Nordio di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 21 ottobre 2025 “Chiediamo l’intervento del ministro della Giustizia affinché non si ripeta ancora quanto accaduto a Paolo”. A chiederlo è il fratello di Paolo Piccolo, Giorgio che non si dà pace per il brutale pestaggio che ha subito suo fratello in una cella del carcere di Bellizzi. “Paolo era un ragazzo pieno di vita, pieno di amici. Un ragazzo di soli 26 anni, padre di due bambini e dal 2019 era in carcere per scontare la sua pena. Aveva quasi terminato di espiare la condanna inflitta e da un mese era stato trasferito a Bellizzi Irpino”. Era tranquillo. I familiari lo sentivano ogni settimana e quando era possibile si recavano a colloquio. Tutto è cambiato la sera del 22 ottobre del 2024. Alle 22.15 è partita la spedizione punitiva nei confronti di Paolo Piccolo, di Barra. Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti i primi ad aver la peggio sono stati i due agenti della polizia penitenziaria di turno quella notte. In particolare Valentino Tarallo, Agrippino Paudice e Vincenzo Pisapia - armati di bastoni di legno di ritorno dagli ambulatori e dalla infermiera sono riusciti ad introdursi nel box riservato alla penitenziaria e dopo aver minacciato di morte i due agenti sono passati subito alle vie di fatto. Hanno bloccato, spingendolo contro il muro, uno dei due uomini in divisa, nel tentativo di sottrargli le chiavi del piano terra destro dove era ristretto il loro bersaglio. Non contenti i tre detenuti Tarallo, Pisapia e Paudice unitamente a Nelly Osemwege hanno colpito i due agenti con dei violenti schiaffi al volto. Alla fine tutti insieme hanno costretto uno dei due agenti a seguirli fino al primo piano, mentre un altro ristretto - accusato di tentato omicidio - è rimasto all’interno del box per sorvegliare l’altro agente di turno, affinché non facesse scattare l’allarme sonoro, sotto minaccia di morte. “Non torni a casa se ti muovi”. Queste le parole proferite da uno dei detenuti coinvolto nel pestaggio. Ma i familiari, tramite i loro legali Costantino Cardiello e Salvatore Operetto, hanno chiesto l’acquisizione delle immagini di videosorveglianza attiva nell’istituto penitenziario. Vogliono vedere con i loro occhi cosa hanno fatto agli agenti e a Paolo. E sono ancora in attesa di riceverle. Giorgio si chiede “perché non sono arrivati i rinforzi. Perché nessuno ha fermato la spedizione punitiva durata diverso tempo”. Ora chiedono giustizia e l’ergastolo per i tutti i responsabili. “Nel carcere Paolo doveva essere protetto e gli agenti della polizia penitenziaria di turno quella sera che sostengono di essere stati bloccati, picchiati e privati delle chiavi della cella, avrebbero potuto fare di più per salvare mio fratello dalle grinfie di quei malintenzionati. Mio fratello doveva essere protetto dallo Stato”. I familiari del giovane deceduto sono convinti che “le responsabilità della morte del loro congiunto siano da ricercare anche tra gli agenti della polizia penitenziaria in servizio quella sera e nei vertici del carcere di Bellizzi Irpino, oltre che nei responsabili del dipartimento amministrazione penitenziaria”. Intanto restano in attesa della fissazione dell’autopsia che si svolgerà al Moscati. Solo al termine degli accertamenti irripetibili, la salma verrà affidata ai familiari per il rito funebre. Ricordiamo che a processo sono finiti i dieci detenuti ristretti insieme a Paolo nell’ottobre 2024 nel carcere di Bellizzi Irpino. Tre detenuti sono stati condannati al termine del rito abbreviato a luglio. Raffaele Zona ha rimediato una condanna a dieci anni e otto mesi mentre Giovanni Capone e Agrippino Paudice sono stati condannati a sette anni e quattro mesi. Per coloro che hanno scelto il rito ordinario la prossima udienza è prevista per il 7 novembre, per loro dovrebbe anche cambiare il capo di imputazione: da tentato omicidio in omicidio. Torino. Muore il detenuto obeso: è rimasto a lungo in ospedale per mancanza di celle idonee di Floriana Rullo Corriere di Torino, 21 ottobre 2025 Francesco De Leo, 51 anni è deceduto nel carcere Lorusso Cutugno dove l’amministrazione penitenziaria era riuscito a sistemarlo creando un ambiente adatto. Era stato condannato per reati di truffa. È morto in carcere a Torino Francesco De Leo, 51 anni, il detenuto pugliese obeso che stava scontando una pena fino al 2040 per reati di truffa. Per mesi, era rimasto in ospedale a Cuneo perché non c’erano celle disponibili in cui ospitarlo. Alla fine era stato portato a Torino dove avevano creato una cella adatta per lui. L’uomo pesava ben 265 chili e, per lui, sono stati inutili i tentativi di rianimazione, da parte dei sanitari dal 118. “Per l’ennesima volta il sistema carcere ha fornito prova della propria inadeguatezza a soddisfare le esigenze primarie di ogni singolo detenuto. Non la imputo al personale, anzi. Ci sono delle carenze che sono strutturali”. A parlare l’avvocato Luca Puce che ha seguito il lungo e tormentato percorso della vicenda definita “a tratti surreale” e che ha avuto “un epilogo tragico”. De Leo, originario di Brindisi, era stato trasferito nei primi giorni di ottobre a Torino dal carcere di Marassi, a Genova. Alle Vallette era stata realizzata una cella apposita per le sue condizioni fisiche. In precedenza, Francesco De Leo (che come avvocato aveva Luca Puce) era stato assegnato nella casa circondariale di Cuneo, dove però non era entrato per l’assenza di una cella idonea, ed era così stato ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale Santa Croce, piantonato giorno e notte degli agenti di polizia penitenziaria. La situazione aveva suscitato polemiche da parte dell’Osapp, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che aveva contestato l’impiego di “dieci agenti al giorno sottratti al personale già in affanno della casa circondariale cuneese”. Il Dap aveva poi disposto il trasferimento a Torino, dove era stata costruita la cella adeguata alle sue esigenze. “Nessuno lo voleva” dice adesso Domenico De Leo, il fratello da cui Francesco era stato ospite ai domiciliari per un periodo prima del trasferimento nella RSA -. Sabato lo avevo sentito era stanco e non stava prendendo più l’insulina”. L’avvocato Puce non esclude l’avvio di un’azione risarcitoria in sede civile. Torino. “Stava male e non lo curavano”, parla il fratello di Francesco De Leo di Sandro Marotta La Stampa, 21 ottobre 2025 Pesava 260 chili e soffriva di diabete: “Tutti conoscevano la sua situazione, sto pensando di sporgere denuncia”. “Stava male e lo sapevano tutti. L’ultima volta che l’ho sentito, due giorni fa, mi ha detto che nessuno lo accudiva e che dormiva su una branda pur pesando 260 kg”, inizia così la denuncia di Domenico De Leo, fratello del detenuto obeso e diabetico deceduto in carcere a Torino questa mattina. Si chiamava Francesco De Leo, è spirato a 51 anni. “A curarlo erano altri detenuti” - “In videochiamata mi aveva detto che stava sempre da solo in cella e si lamentava perché gli spazi erano stretti, pochi metri quadrati - prosegue il familiare al telefono con La Stampa -. Non riceveva assistenza sanitaria e, sempre secondo quello che mi diceva, a curarlo erano altri detenuti. Non è mai uscito a fare l’ora d’aria, perché nessuno si prendeva la responsabilità di farlo alzare dal letto”. Stando a quanto dichiarato giovedì a La Stampa dalla medicina legale della Città di Torino, De Leo era su un letto bariatrico (costruito apposta per pazienti obesi e con mobilità limitata) e “riceveva lo stesso trattamento sanitario di un paziente non detenuto”. Il letto in questione tuttavia è arrivato solo stamattina (20 ottobre) e questa incongruenza è confermata dal garante dei detenuti di Torino, che ha visitato il “Lorusso e Cutugno” proprio oggi pomeriggio, qualche ora dopo il decesso. Per dieci giorni, quindi, il 51enne clinicamente super obeso e con gravi problemi di ritenzione idrica ha dormito su una branda, posta probabilmente nel padiglione A. I sensi di colpa e il sentimento di abbandono “Era pentito di quello che aveva fatto in rsa a Bra (aveva aggredito il personale ndr), era stanco, si sentiva in colpa e non ne poteva più di questa situazione, ma comunque non è giusto - prosegue De Leo -. Non è normale che una persona in quelle condizioni sia abbandonata. Prima di tutto non doveva stare in carcere, ma in una struttura adatta. Poi tutti quegli spostamenti da un carcere a un altro hanno peggiorato tutto. Mio fratello soffriva perfino ad alzarsi dal letto e non riusciva a camminare, figuriamoci quanto possa aver sofferto viaggiando per ore da una città all’altra”. Da Cuneo, infatti, l’uomo era stato trasferito prima a Genova e da lì, successivamente, a Torino dov’è morto questa mattina. Non ha fatto altro che peggiorare - Guardando il caso nel complesso, emerge che quando ha avuto a che fare con il gorgo del carcere la salute - e quindi i diritti - del detenuto non ha fatto altro che peggiorare. Secondo il familiare e l’avvocato, quando era stato arrestato a Lecce nel 2021 pesava circa 160 chili, poi “una volta trasferito ai domiciliari a Cuneo da me nel 2024 ne pesava 260 - racconta -, io l’ho curato al meglio che potevo per un anno, era riuscito a perdere decine di chili, a scendere le scale, a sedersi su una sedia. In rsa però era di nuovo peggiorato e non si è più ripreso. A Genova, nelle scorse settimane, si lamentava di sentirsi abbandonato e a Torino non è cambiato niente. Lo sapevano tutti che non stava bene, la cartella clinica era chiara. Sto pensando di sporgere denuncia per fare chiarezza, perché mi sembra tutto molto strano”. Torino. Una morte ingombrante di Claudio Bottan vocididentro.it, 21 ottobre 2025 Era malato, obeso e diabetico: spostato da un istituto all’altro nonostante i suoi 260 chili rappresentassero una evidente disabilità incompatibile con il carcere. Questa mattina il cuore di Francesco De Leo, 51 anni, ha smesso di battere al carcere Lorusso Cotugno di Torino. Lo hanno spostato da un carcere all’altro finché il suo cuore ha ceduto. Per dieci giorni nessuno gli ha dato un letto adatto. Quel letto bariatrico che, ironia della sorte - o cartina di tornasole di un sistema malato di inefficienza-, è arrivato solo qualche ora dopo la sua morte. Ufficialmente è un “arresto cardiaco”, e come tale sarà conteggiato tra le ‘morti per altra causa’ di cui relaziona il DAP. Una formula burocratica, precisa e neutra. Ma dietro quelle due parole c’è molto di più: l’abbandono, la solitudine, la stanchezza di un uomo che da tempo non trovava più posto nel mondo. Francesco aveva un passato complicato, segnato da errori e da un’aggressione in una struttura sanitaria che lo aveva riportato dietro le sbarre. Fine pena nel 2040 per un cumulo di reati di truffa. Da allora, il suo corpo era diventato un problema logistico più che una vita da curare. Un grosso problema logistico, tant’è che - alla notizia del suo decesso - qualche genio ha commentato: “Si sono liberati almeno quattro posti in galera!”. Era stato arrestato in Puglia nel 2021, il magistrato di Sorveglianza gli aveva concesso i domiciliari a Cuneo, dal fratello. Dopo qualche mese, era stato ricoverato in una Rsa di Bra, Cuneo, dove però aveva aggredito il personale e quindi era stato dirottato verso il carcere di Cuneo dove, tuttavia, non è mai entrato perché le celle non erano abbastanza grandi. Per ospitarlo, di conseguenza era stato ricoverato all’ospedale Santa Croce. Dopo un mese di permanenza era stato spostato al carcere Marassi di Genova, dove è rimasto per due settimane, fino all’ultima tappa nel sovraffollato carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Un caso ingombrante, senza cadere nella becera ironia. Una faccenda che si conclude nel peggiore dei modi con un’unica certezza: la macchina della Giustizia, lenta ma inesorabile, non ha mai trovato il tempo per adattarsi a lui. Si è adattato lui, finché ha potuto. Poi il cuore ha ceduto, in una cella del padiglione A del carcere di Torino, dove il silenzio pesa più delle sbarre. Roma. Di Biase: “Gravissime le condizioni delle donne incinte nel carcere di Rebibbia” deputatipd.it, 21 ottobre 2025 “Le condizioni in cui versano le donne incinte detenute nella Casa circondariale femminile di Rebibbia sono allarmanti e non più tollerabili”. Lo dichiara la deputata Michela Di Biase (Pd), che ha presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia e al Ministro dopo la visita ispettiva effettuata presso l’istituto romano. “Durante la visita - spiega Di Biase - ho potuto constatare personalmente la presenza di otto donne in stato di gravidanza, alcune affette da gravi patologie incompatibili con la detenzione, tra cui diabete gestazionale e tromboflebiti. In tre casi la situazione sanitaria è apparsa particolarmente critica. Si tratta di condizioni che mettono a rischio non solo la salute delle detenute, ma anche quella dei nascituri”. Nell’interrogazione si sottolinea inoltre la presenza di cinque madri con cinque bambini nella sezione Nido. “Le recenti modifiche introdotte dal cosiddetto decreto sicurezza hanno reso non obbligatorio il rinvio della pena e ristretto la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione, aggravando ulteriormente una realtà già fragile e drammatica. L’articolo 3 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza - prosegue Di Biase - impone di considerare l’interesse superiore del minore come criterio prioritario in ogni decisione che lo riguarda. È dovere dello Stato garantire che né le donne in gravidanza né i bambini trascorrano mesi o anni in un ambiente carcerario inadeguato, privo delle cure e dell’assistenza necessarie”. “Per questo - conclude la deputata dem - chiediamo al Ministro Nordio di disporre verifiche immediate sulle condizioni sanitarie e sociali delle detenute incinte e delle madri con bambini a Rebibbia e di adottare misure urgenti affinché siano garantiti il diritto alla salute, alla dignità e alla maternità, nel pieno rispetto dei principi costituzionali e delle convenzioni internazionali”. Ferrara. Il ministro Nordio: “Nessuna telecamera all’Arginone conferma la violenza” I Resto del Carlino, 21 ottobre 2025 Emergono nuovi dettagli nella vicenda del transgender che denunciò di essere vittima la scorsa estate di una violenza sessuale all’Arginone. A fornirli è il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che venerdì ha risposto ad una serie di interrogazioni presentate da Movimento 5 stelle, Azione, Pd e Avs. La persona coinvolta, poco più che 40enne, era stata trasferita nel carcere ferrarese a marzo, dalla sezione speciale per detenuti trans “Orione” di Reggio Emilia (una delle sei esistenti in Italia). Qui aveva però creato “problematiche che ne hanno via via reso incompatibile la sua permanenza”, ha spiegato il ministro. A confermarlo anche la direttrice dell’istituto reggiano Lucia Monastero nella sua relazione, allegata alla risposta di Nordio. Quanto alla violenza, il ministro ha evidenziato che la presunta vittima avrebbe raccontato due versioni relative ad altrettanti giorni diversi, ma “la visione della videosorveglianza non confermava quanto da lui dichiarato”. Della vicenda, ha aggiunto Nordio, “è stata immediatamente fatta segnalazione alla Procura”. L’esponente del Governo ha dato infine atto alla casa Casa circondariale della nostra città di aver adottato dopo i fatti “tutte le misure di precauzione possibili per tutelare l’incolumità del detenuto, formalizzando il provvedimento di grande sorveglianza attiva e passiva e il divieto di incontro con la restante popolazione detenuta”. Oltre a ciò “i sanitari hanno adottato la procedura connessa alle segnalazioni da codice rosso e il caso è stato segnalato al servizio psicologico del presidio interno, per interventi di sostegno e per valutazione di eventuali rischi suicidari”. Infine, poiché il detenuto “ha espresso la volontà di riprendere la cura ormonale per la transizione di genere, precedentemente interrotta”, è stato trasferito nel carcere di Belluno dotato di sezione per transex. Cuneo. Art. 27 Expo, tavolo di lavoro: “Il carcere visto dai volontari” csvcuneo.it, 21 ottobre 2025 Nell’ambito di Art. 27 Expo, il CSV Società Solidale ETS, ha partecipato al tavolo di lavoro “Il carcere visto dai volontari”, nel corso del quale vi è stato un interessante confronto tra i volontari che operano nelle quattro strutture carcerarie della nostra provincia. L’incontro, moderato da Paolo Romeo di Ariaperta ODV, ha visto la partecipazione di Alberto Valmaggia, garante delle persone detenute Città di Cuneo, Stefano Mana, Cascina Pensolato (Fossano), Silvano Cravanzola, CEC - Comunità Educandi con i Carcerati (Piasco), Domenico Albesano, Associazione Arcobaleno (Alba), Giorgio Borge, Associazione Liberi dentro (Saluzzo), Carla Vallauri, Sesta Opera (Cuneo), Franco Monnicchi, Emmaus (Cuneo), Mario Tretola, Ariaperta (Cuneo)e del CSV Società Solidale ETS, Progetto Liberi Legami (Cuneo). Gli operatori del CSV hanno presentato le azioni in atto in provincia di Cuneo nell’ambito del progetto “Liberi Legami”, progetto finanziato da Impresa Sociale Con i Bambini nell’ambito del Bando Liberi di Crescere in partenariato con Il Margine S.C.S (capofila del progetto). Tra le attività messe in campo vi è quella di favorire coordinamenti e tavoli sul tema carcere per fare massa critica e operare in modo più efficace tenendo conto delle diverse difficoltà o punti di forza registrati dagli attori del territorio. Questo obiettivo sta per essere concretamente raggiunto sul territorio di Alba dove il 30 settembre si presenterà la proposta di avvio del Tavolo carcere con la collaborazione del Comune e il garante dei detenuti, coinvolgendo tutti gli enti interessati e operativi nella struttura penitenziaria albese. Nel corso dell’incontro sono poi stati presentati i percorsi educativi realizzati con gli studenti dell’IIS Grandis di Cuneo nello scorso anno scolastico. Gli studenti hanno lavorato sulla decostruzione del pregiudizio nei confronti di bambini e ragazzi con un genitore detenuto. L’obiettivo è quello abbattere i pregiudizi e di sensibilizzare i giovani sulle tematiche del carcere. Questi percorsi verranno riproposti sul territorio di Alba in questo anno scolastico. È stato un incontro proficuo che ha messo in luce le difficoltà legate al sistema carcerario in generale: quelle dei detenuti collegate alla mancanza di risorse materiali e servizi, quelle degli operatori e volontari che faticano ad accedere e a operare in carcere, la mancanza di ricambio di volontari, la poca conoscenza all’esterno del grande lavoro che il volontariato, spesso in sostituzione dell’Ente pubblico, porta avanti nelle case circondariali. Confrontarsi sui problemi che si riscontrano in tutte le strutture del territorio ha evidenziato l’importanza di costruire reti di coordinamento per operare in modo sinergico e concreto sia dentro che fuori dal carcere, e per fare sensibilizzazione e cultura sul sistema carcerario, attualmente non più sostenibile. Bassano del Grappa (Vi). La giustizia riparativa come atto di cura, coinvolte anche le scuole Corriere del Veneto, 21 ottobre 2025 Attivare un processo di dialogo e di mediazione tra la vittima e l’autore del reato con l’obiettivo di superare la contrapposizione, al di là della pena da scontare, dando centralità alla prima e promuovendo un’assunzione di responsabilità da parte del secondo. È la finalità della giustizia riparativa che prevede un percorso per “riparare”, appunto, i danni umani causati dal reato e sarà protagonista in città, da domani a venerdì. Tre giornate proposte nella dimensione di “festival”, di scena a Villa Angaran San Giuseppe su iniziativa di Rete Pictor. Testimonianze, formazione, dialoghi, confronti per “raccontare”, soprattutto agli studenti che sono stati coinvolti, la giustizia riparativa, intesa come “atto di cura”. Tra laboratori e progetti educativi per le scolaresche, in ser at a interverranno alcuni ospiti e gli incontri saranno aperti a tutti con iscrizione sul sito di Villa San Giuseppe. Come si diceva s’inizia domani, alle 20.45, con l’intervento di Manlio Milani, presidente dell’associazione delle vittime della strage di piazza della Loggia del 1974, nella quale perse la moglie, e della Casa della memoria di Brescia. Al suo fianco, ci sarà Ernesto Balducchi già leader dei Comitati comunisti rivoluzionari, tra i primi terroristi ad abbandonare la lotta armata e ad organizzare nel giugno del 1984 la consegna delle armi il cardinale di Milano Carlo Maria Martini. Ma il festival allargherà gli orizzonti anche oltre i confini italiani. Ospite della serata di giovedì, Maixabel Lasa, vedova del politico socialista Juan Jauregui ucciso dall’Eta. La sua storia è diventata un racconto cinematografico e sarà proposta anche con la testimonianza di Esther Pascual Rodriguez, mediatrice e coordinatrice del programma di incontri riparativi tra le vittime dell’Eta e coloro che hanno ucciso. Per venerdì è in programma un evento formativo per addetti ai lavori mentre la sera sarà presentato il libro “Oltre la vendetta” con l’intervento degli autori Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, e il giornalista del Corriere della Sera Edoardo Vigna. Treviso. Giubileo della speranza, il Vescovo incontra i detenuti: “Manteniamo la nostra umanità” di Alvise Wollner trevisotoday.it, 21 ottobre 2025 La casa circondariale di Treviso, domenica 19 ottobre, ha aperto le porte per vivere insieme ai rappresentanti delle Istituzioni e alla Diocesi un momento di riflessione e preghiera sulla speranza. Il Vescovo: “Abbattiamo i muri dell’indifferenza”. Tre porte da attraversare, come sono quelle che varcano loro quando entrano in carcere per scontare una pena e, poi, per uscire: sono stati i detenuti della casa circondariale di Treviso ad “accompagnare” le tante persone arrivate per celebrare con loro, domenica pomeriggio, 19 ottobre, il Giubileo della speranza. Una presenza esterna mai vista (almeno 70 persone), per dimensione e per rappresentatività del territorio, che ha coinvolto anche la maggior parte dei detenuti. “Il cielo è lo stesso, di qua e di là di queste mura. Manteniamo la nostra umanità, abbattiamo i muri dell’indifferenza. E voi, fratelli, non perdete la speranza e la fiducia nell’umanità” ha detto il vescovo di Treviso, Michele Tomasi, ai partecipanti al Giubileo dei detenuti, a Santa Bona. Un momento di preghiera, di condivisione e di speranza: sul grande prato del campo sportivo erano presenti diverse famiglie dei detenuti, alcune con figli piccoli, i volontari che partecipano a percorsi e progetti nella Casa circondariale, in particolare “La prima pietra”, e poi volontari del Sicomoro di Varago, operatori dell’Alternativa, il gruppo “Il nodo” di Vittorio Veneto, rappresentanti di organismi diocesani come il Consiglio pastorale e il Consiglio presbiterale, i giovani delle parrocchie che partecipano al percorso “Parole in libertà”, i cappellani della Casa circondariale, don Pietro Zardo, e dell’Istituto penale minorile, don Otello Bisetto, la Caritas diocesana, con il direttore, don Bruno Baratto, e altri operatori, e tutte le persone, laici, laiche, consacrate che compongono la cappellania del carcere. Presente anche la direttrice dell’Ipm, Barbara Fontana. Insieme al Vescovo, hanno camminato tra le mura del carcere anche il vicario generale, mons. Mauro Motterlini, e il vicario per le Collaborazioni pastorali, don Antonio Mensi, oltre al sindaco della città, Mario Conte, e Domenico Demaio, vicario del Questore di Treviso. Ad aprire le porte a tutti, il direttore della Casa, Alberto Quagliotto, insieme alla Polizia penitenziaria e a tutto il personale. Toccanti le testimonianze, sia dei detenuti che dei volontari. Tre tappe, tre porte da attraversare, con tutto il loro “peso” e rumore, a partire dalla prima, quella che, per chi entra per scontare una pena, “si chiude alle spalle e ti lascia una sensazione di nausea, di freddo - ha testimoniato un detenuto -. Si è spenta ogni luce, tutto è oscuro. Quella stessa porta che si chiude dietro alle nostre spalle, si chiude anche davanti alle nostre famiglie, ai nostri affetti, al nostro futuro, alla società. Separa persone, sentimenti e speranze”. La seconda porta rappresenta la vita all’interno del carcere, difficile, spesso buia, ma resa meno dura dalle relazioni, dagli incontri, dai piccoli progetti quotidiani. “Sono gli incontri tra queste due porte che mettono in moto il cammino. E tra questi incontri i volontari fanno una grande differenza” ha raccontato un’altra testimonianza. Commovente il ricordo di Angelo Rigo, volontario mancato poche settimane fa, che entrava in carcere ogni sabato, insieme ad altri volontari, per un momento di catechesi, per aiutare a coltivare quella fede che a volte le persone detenute riscoprono, come l’ergastolano che ha condiviso il proprio percorso di violenza, di errori, ma anche di perdono e rinascita. Infine, la terza, la porta che si chiuderà alle spalle il giorno dell’uscita, e si aprirà sul futuro, dopo aver concluso la pena, per un ritorno “nel mondo fuori” dove le porte chiuse non mancheranno. “Per poter attraversare questa ultima porta - le parole di un altro detenuto - abbiamo bisogno di non essere lasciati soli, di essere riconosciuti, di essere accompagnati nella ricostruzione. Per molti di noi le opportunità sono difficili anche solo da immaginare, quando si esce soli con il sacco in mano, spesso senza più un posto dove andare, senza la presenza di qualcuno capace di riconoscere la nostra voce”. Ed ecco l’appello del Vescovo, che richiama lo scambio di lettere con i detenuti, quasi all’inizio di quest’anno giubilare: un appello alla società tutta, alla Chiesa, a “mantenere la nostra umanità, soprattutto nell’accogliere chi esce, nel dare una nuova possibilità, nuovi spazi, ad aprire le braccia perché nessuno possa sentirsi abbandonato. Possiamo farlo nella preghiera, a cui invito tutte le comunità cristiane, e lo facciamo nella forza della comunità nel suo insieme, perché il senso di ogni vera libertà è l’amore. La parola amore, per me, ha l’immagine di Dio che si fa uomo e che dà la vita per ogni uomo: è la croce. Passando attraverso la croce con amore, noi siamo dei risorti. Non perdete la speranza”. Gratitudine per l’iniziativa e per la grande presenza è stata espressa dal direttore Quagliotto, che ha reso omaggio al servizio quasi trentennale di don Pietro Zardo e al suo impegno per costruire il momento giubilare. Il direttore ha parlato della realtà del carcere come di “un pezzo della città, che va conosciuto e compreso, entrando, ascoltando, vedendo” e ha invitato, annunciando il termine del proprio mandato, a “coltivare la speranza, soprattutto da parte di chi ha gli strumenti per farlo, perché questo sia un luogo di passaggio e possa offrire occasioni di rinascita”. Vanessa Pallucchi: “Va rilanciato il welfare per essere più forti delle paure” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 21 ottobre 2025 Vanessa Pallucchi, quattro anni come portavoce del Forum nazionale del Terzo settore. Attraversando i due governi Draghi e Meloni, lo scoppio di due (nuove) guerre, lo sconquasso della geopolitica mondiale, l’aumento costante di emergenze divenute ordinarie, dalla povertà ai disastri ambientali: e ora che il suo mandato è finito l’assemblea del non profit italiano eleggerà oggi pomeriggio a Roma chi avrà il compito di continuare il suo lavoro. Riassunto del 2021-2025? “Partiamo dal lato buio. Il mondo è diventato più rabbioso, l’odio è stato sdoganato fin nel linguaggio, nella violenza tra persone e tra Stati. Addirittura con una assuefazione all’ingiustizia, da parte di molti. E tutto questo dopo che il post-pandemia era parso un momento di rinascita, pensiamo al Pnnr”. Una luce invece? “Proprio la capacità di reazione al Covid ha rappresentato per il Terzo settore nel suo insieme un fattore di autoconsapevolezza: che significa non solo fare le cose e inventare soluzioni nel momento in cui servono ma prendere coscienza del proprio ruolo, necessario e non meramente supplettivo, per l’interesse generale e il bene comune del Paese. Oggi è da questo che dobbiamo partire”. La principale difficoltà? “Essere più forti della paura. Alla guerra in Ucraina abbiamo risposto con l’accoglienza. Poi Gaza e, in ambito diverso, tragedie come quella di Cutro hanno mostrato il volto più disumano dell’umanità. E dal rilancio del welfare di cui si parlava all’inizio del Pnrr il tema della politica è diventato oggi come trovare i soldi per finanziare il riarmo. In cima all’agenda c’è la parola difendersi. Finché invece è successo che i giovani sono tornati a riempire le piazze per dire no. Ma scavalcando la politica: e su questo la politica dovrebbe interrogarsi”. Priorità da affrontare? “In primo luogo la necessità di tornare a investire sul welfare. E la capacità di leggere cosa sta veramente accadendo, i bisogni veri delle persone. Non a caso il titolo che abbiamo scelto come Forum del Terzo settore per l’assemblea elettiva dei nostri nuovi organi tiene insieme i due aspetti di cui ho parlato poco fa: Pace come condizione, giustizia sociale come impegno”. E le priorità del Terzo settore quali sono? “Abbiamo una riforma che compie nove anni: dobbiamo continuare a darle concretezza. È vero che su altri fronti, specie su fisco e amministrazione condivisa, una parte rilevante deve farla la politica: ci sono stati passi avanti come la Confort letter arrivata dall’Europa, su altri aspetti come Iva e Irap restiamo ancora in attesa di una risposta definitiva e poiché il Terzo settore è stato riconosciuto come soggetto che contribuisce all’interesse generale la richiesta di avere una tassazione agevolata non è chiedere un favore bensì un atto di giustizia. Ma ci sono anche punti che invece dipendono da noi: il Forum deve accogliere il maggior numero di realtà, senza correre il rischio che quelle più piccole si sentano escluse magari per la difficoltà di mettere in pratica alcuni aspetti anche tecnici della riforma”. Il Forum in concreto cosa può fare? “Contribuire al passo fondamentale che serve oggi per la seconda parte del percorso: un lavoro culturale per promuovere la partecipazione. Con entrambi i governi incontrati durante il mio mandato c’è sempre stato un buon dialogo. Ma il nostro obiettivo deve restare quello di sederci al tavolo uniti. Sia a livello nazionale, sia con le amministrazioni locali. È così che il Terzo settore sarà non una realtà residuale a cui appoggiarsi per fornire servizi ma un soggetto che mette la testa assieme a quella della pubblica amministrazione per individuare bisogni e costruire risposte”. Oggi il Forum elegge i suoi nuovi organi: un messaggio da lasciare? “Il Terzo settore è un mondo di diversità, che sono la sua ricchezza. Siamo sempre stati in grado di autodeterminarci in maniera autonoma: un dibattito vivace, poi una lista unitaria. Il messaggio è questo: continuare a partecipare. La partecipazione è il seme più prezioso che oggi più che mai dobbiamo continuare a coltivare”. Torna la Colletta Alimentare e il primo esempio arriva dalle carceri di Marco Piuri* Corriere della Sera, 21 ottobre 2025 L’iniziativa, che da 29 anni unisce milioni di persone, quest’anno parte dalla casa di reclusione di Milano Opera. Appuntamento il 15 novembre. La Colletta Alimentare parte quest’anno dalla casa di reclusione di Milano Opera, un luogo che all’apparenza potrebbe sembrare lontano dalla generosità che vogliamo raccontare. In realtà è proprio qui che il gesto semplice di donare assume un valore ancora più profondo. Da 29 anni la Colletta unisce milioni di persone in un atto di solidarietà: donare parte della propria spesa a chi è in difficoltà. La scelta di lanciare l’iniziativa in carcere non è casuale: testimonia il potere educativo e rigenerativo di un gesto che coinvolge tutti, senza eccezioni. Da oltre 15 anni nel giorno della Colletta Alimentare - quest’anno sarà il 15 novembre - anche le persone detenute partecipano attivamente acquistando e donando alimenti, diventando parte di una rete che unisce chi dà e chi riceve. Sentirsi ancora capaci di essere utili agli altri, di prendersi cura di chi ha bisogno, anche in condizioni di restrizione, genera speranza e senso di comunità, come ci ha ricordato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Fabio Pinelli, rende concreto il percorso di rieducazione, secondo i principi costituzionali. La collaborazione delle istituzioni penitenziarie e delle associazioni che operano nelle carceri rende possibile questo incontro tra mondi apparentemente lontani, dimostrando che il bene può attraversare ogni barriera, muro o sbarra, anche quelle che ha volte chiudono il cuore di ognuno di noi. Su questo ha insistito anche mons. Vincenzo Paglia che ha sottolineato il valore di un gesto semplice, che è in grado di riaccendere legami umani e sociali e far rifiorire la scintilla di bene, non solo nei cuori di chi vive tra mura di un carcere, ma anche nei nostri, sempre più segnati da solitudine e egoismi. In un Paese dove 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta, la Colletta Alimentare è più che mai preziosa. Perché la solidarietà non conosce confini, è contagiosa e dal carcere di Opera parte oggi un messaggio chiaro: ciascuno di noi può fare la differenza. *Presidente Fondazione Banco Alimentare Ets Perché la scuola non accetta queste indicazioni nazionali ideologiche di Tavolo Nazionale per la Scuola Democratica Il Domani, 21 ottobre 2025 Le Indicazioni nazionali per il curricolo 2025, dalla loro comparsa a oggi, hanno avuto hanno un iter a dir poco travagliato. E il mondo della scuola, della pedagogia democratica, dell’associazionismo professionale e sociale contro. Perché? Per l’impianto complessivo che volge lo sguardo a una scuola del passato, dai tratti identitari, classisti, occidentocentrici e lontani dalle pratiche didattiche che mettono al centro l’apprendimento. Uscite in prima bozza a marzo. Redatte in stesura definitiva a luglio. Al momento sospese, in attesa di un parere definitivo del Consiglio di Stato che ha evidenziato limiti importanti del testo definiti addirittura strutturali. Limiti già messi in evidenza dal Cspi ma che non erano stati recepiti in tutta la loro portata dalla cosiddetta Commissione Perla, commissione anch’essa da più parti criticata per la sua composizione non improntata al pluralismo. Le Indicazioni per il primo ciclo 2025 hanno il dichiarato scopo di fondare l’innovazione della scuola su una radicale discontinuità culturale e pedagogica rispetto alle indicazioni del 2012 con un testo che continua a sollevare interrogativi e gravi preoccupazioni al punto che si è costituito un tavolo nazionale, il Tavolo per la scuola democratica a cui hanno aderito un trentina di associazioni, sindacati e realtà del terzo settore, per dire no all’applicazione di questo testo definito contrario alla scuola della Costituzione. Molto discussa dal mondo dell’educazione la parte in premessa in cui si fa riferimento a una netta distinzione tra istruzione, demandata alla scuola, ed educazione, che sarebbe affidata alla famiglia. Decenni di ricerca pedagogica e di pratica didattica hanno dimostrato che la scuola educa mentre istruisce e istruisce mentre educa, in continua e dialogica alleanza con la famiglia, con gli studenti e le studentesse, con le realtà associative e di azione educativa che vivono nei luoghi in cui la scuola agisce. Questa pervasività delle famiglie e questa separazione forzosa è evidentemente anche in linea con le recenti proposte di eliminazione dell’educazione affettiva e sessuale dal primo ciclo e della richiesta di consenso informato per il secondo ciclo poiché si ritiene che siano temi di pertinenza esclusiva delle famiglie. Ad impensierire il mondo della scuola anche una marcata tendenza, nelle Indicazioni 2025, alla personalizzazione degli apprendimenti che vira in maniera decisa verso la coltivazione dei talenti individuali. A scapito dell’individualizzazione degli apprendimenti che invece rappresenta una strategia didattica volta a garantire a ogni studente il diritto all’uguaglianza nell’apprendere e nel raggiungere traguardi formativi. L’assenza del principio costituzionale della individualizzazione rischia di mettere in ombra i processi inclusivi nella scuola e di sedimentare e cristallizzare diseguaglianze, allontanando i valori di equità e solidarietà alla base dei processi condivisi e collaborativi di apprendimento. Il principio della valorizzazione dei talenti individuali traspare anche nella parte delle Indicazioni dedicata alla valutazione. Scompare quell’orizzonte della valutazione intesa come attività regolativa dei processi di insegnamento / apprendimento per lasciare il passo a una visione selettiva della valutazione che ha fatto la sua comparsa con la revisione della valutazione nella scuola primaria targata sempre Valditara. Molto discussa dal mondo pedagogico anche la sezione riservata all’infanzia che ci riporta molto indietro nel tempo per la sua centratura tutta sull’adulto costantemente preoccupato di trasmettere norme e valori senza un’integrazione reale coi bisogni delle bambine e dei bambini. La logica trasmissiva delle conoscenze è la linea rossa che lega tutto il testo delle Indicazioni nazionali 2025 compresa la nuova visione del docente, detto Magister, che dovrebbe acquisire una rinnovata autorevolezza dalla trasmissione di conoscenze. Tutto il contrario del docente facilitatore d’apprendimento che le recenti, e neanche tanto, visioni pedagogiche hanno di fatto regolato la didattica nelle scuole. Oltre all’ossessione trasmissiva, nel testo, c’è anche l’ossessione identitaria che ha interessato la più macroscopica delle revisioni ovvero quella della storia definita da più parti pan-occidentalistica, eurocentrica, nazionalista, identitaria appunto. È stata di fatto cancellata la storia come ricostruzione scientifica del passato e sostituita da una narrazione mitizzata e unidirezionale, centrata sulla biografia della nazione e non sullo studio critico delle fonti, fondamentale per lo sviluppo del pensiero storico. Enfatizzata l’idea del racconto celebrativo di una storia nazionale di carattere ottocentesco. Questa virata identitaria fa il paio con la sparizione dell’orizzonte dell’intercultura che invece era la era vera trama delle preesistenti Indicazioni con cui si sono misurate le pratiche didattiche nelle classi reali del nostro paese sempre più plurali. Di fronte a questa retromarcia il mondo della scuola da mesi si mobilita per dire no a una scuola che guarda al passato, incapace di affrontare le drammatiche complessità del presente. Che è anche lo slogan del Tavolo nazionale per la scuola democratica. La battaglia contro la riforma Valditara deve essere quella per una scuola diversa di Stefano Gallo Il Domani, 21 ottobre 2025 Sabato 18 ottobre, in quaranta città italiane, i docenti si sono mobilitati in opposizione al progetto del governo Meloni, ma soprattutto a favore di un diverso sistema d’istruzione, che “guardi al futuro e non al passato”. Se pur in sordina, senza troppa enfasi, molti docenti scolastici ieri, sabato 18 ottobre, si sono mobilitati in tutta Italia contro le Nuove indicazioni nazionali del Ministero dell’Istruzione e del Merito. Nell’arco della giornata sono state numerose le iniziative promosse in quaranta città in opposizione al progetto del governo Meloni e a favore di una “scuola democratica”. La giornata è stata lanciata da un’aggregazione sorta nella scorsa primavera su impulso di organizzazioni professionali come il Movimento cooperazione educativa, la Flc-Cgil, i Cobas scuola e altri, ma anche delle associazioni di genitori e degli studenti, oltre a realtà storiche del panorama italiano come Arci, Libera, Legambiente, Anpi. Che la mobilitazione sia stata convocata non solo contro il modello didattico della riforma Valditara, ma soprattutto a favore di un diverso sistema d’istruzione, che “guardi al futuro e non al passato”, è un punto fondamentale. Le Nuove indicazioni nazionali sono un manifesto ideologico-politico che esprime la visione del mondo - reazionaria e ottusa - di questo governo: fanno però leva sull’inerzia e il conservatorismo diffuso sia nel corpo insegnante che nell’opinione pubblica; inoltre, la retorica dominante intorno al mondo della scuola, dipinto continuamente in maniera negativa e denigratoria, non aiuta a reagire a questa sfida. In ogni caso, la sfida va condotta sul terreno politico, attraverso la costruzione di un’alternativa e la messa a fuoco delle rivendicazioni su cui puntare: limitarsi allo sdegno intellettuale e a una contrarietà morale non è una strategia corretta. Vediamo ad esempio il settore che più degli altri rappresenta il vero nucleo ideologico delle Nuove indicazioni, la storia. L’incipit sull’Occidente che - solo - conoscerebbe la storia è diventato lo slogan più famoso dell’intero documento ministeriale, e come tale si è meritato valanghe di critiche. Attraverso la storia, sostiene Ernesto Galli Della Loggia, responsabile di questa sezione, la cultura occidentale “è stata in grado di farsi […] intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo”. Questo primato occidentale deve essere al centro dell’insegnamento, sotto la forma di racconto, di una narrazione edificante - dunque moraleggiante e non critica - che evidenzi in particolare l’avvento del cristianesimo - che ha dato un senso alla storia (!) - e l’emergere del nazionalismo, presentato non come una costruzione socio-politica, ma come la decisiva presa di coscienza dei popoli. Non sono posizioni nuove per chi conosce il percorso intellettuale di Galli Della Loggia, che da anni si preparava al grande salto dalle parole scritte per la saggistica e la pubblicistica a quelle prescrittive dei documenti ministeriali. Gli ultimi suoi libri vedono come coautrice proprio Loredana Perla, ordinaria di didattica presso l’Università di Bari e responsabile della commissione che ha redatto le Indicazioni nazionali. Il problema della scuola italiana, secondo i due, non sarebbe la cronica mancanza di finanziamenti - infrastrutturali e formativi - o le incertezze che sempre gravano sul corpo docente, precario e sottopagato, ma la mancanza di una didattica basata sull’identità italiana. Il globalismo e il multiculturalismo hanno rovinato le ultime generazioni di studenti, la prospettiva mondiale promossa dalle precedenti Indicazioni nazionali è stata una jattura perché ha impedito di focalizzarsi su ciò che solo può dare sicurezza ai ragazzi: il solido riferimento a una tradizione nazionale e nazionalistica, ovviamente come unico modello prescrittivo a cui adattarsi. Oggi però non è sufficiente portare avanti una critica intellettuale a queste castronerie, che, come è stato segnalato da voci autorevoli, non hanno fondamenta teoriche e ignorano aspetti pedagogici e storiografici fondamentali. Una volta che tali posizioni sono entrate integralmente nei lavori ministeriali e acquisito la dignità di indicazioni governative, la critica va mossa su un altro livello. È su un altro livello, infatti, che esse traggono la loro forza e legittimità. Il rischio altrimenti è di trovarsi in mano solo armi spuntate. Si veda ad esempio il dibattito organizzato a fine settembre nell’ambito del festival della Filosofia di Modena dal titolo: “Quale storia per la scuola italiana”, con Ernesto Galli Della Loggia e lo storico modernista Vincenzo Lavenia dell’Università di Bologna. Qui i due ospiti sono stati posti su un livello di parità con il compito di confrontarsi sugli argomenti, fingendo che il primo non avesse anche un’investitura ufficiale dal ministero. Galli Della Loggia non è stato presentato come estensore della parte sulla storia delle Indicazioni nazionali, ma solamente in qualità di intellettuale. Quello a cui hanno assistito gli spettatori (e che è possibile rintracciare su YouTube cercando le registrazioni del Festival) è stato un confronto animato tra due opzioni di cosa selezionare della storia, tra due modalità di scelta dei contenuti da proporre a scuola. La prima riduzionista e nazionalista di Galli Della Loggia, supportata da una retorica grezza che rimanda a un crudo realismo, la seconda più articolata e cosmopolita di Lavenia, colta e brillante ma poco ancorata alla realtà scolastica. Così almeno l’ha voluta sminuire Della Loggia, in un passaggio che merita di essere riportato perché estremamente istruttivo: “Certo quando si sta su un palco in questa bella città uno si può immaginare qualsiasi cosa, poi però ci sono poi le dure repliche della realtà, tra cui non ultimo la preparazione di decine di migliaia di insegnanti, anche della scuola dell’obbligo. Come dicono tutti i redattori delle case editrici che pubblicano i manuali scolastici, ormai l’obiettivo vero dei manuali scolastici non è tanto quello di insegnare la materia agli studenti, ma di dare informazioni ai professori perché possano fare lezione agli studenti. Ci rendiamo conto che abbiamo un corpo insegnanti che ha bisogno - in parte significativa - del manuale per organizzare le proprie lezioni?”. Ecco qui la vera forza nascosta, la solida base su cui si è realizzata la scalata politica di Galli Della Loggia: lo svilimento del lavoro dei docenti e l’adattarsi ai livelli più bassi dell’attuale panorama scolastico. La sua proposta di “buon senso” e di realismo fa leva sul cronico definanziamento del comparto scolastico, sulla mancanza di un programma di formazione continuativa e coerente per gli insegnanti, sulla delega di buona parte della didattica alla centralità e alla dittatura del manuale, grazie a cui le case editrici continuano a fare affari d’oro sulle spalle delle famiglie. Un corpo docente sottopagato e non valorizzato è anche un corpo docente che si può sentire rassicurato dal ritorno al libro Cuore e dal rinchiudere l’insegnamento della storia nelle liturgie nazional-patriottiche: sono elementi tradizionali della cultura su cui non è necessaria alcuna formazione, è sufficiente recuperare in soffitta qualche compendio di storia risorgimentale o le collane sui “Grandi Italiani” e soffiare via la polvere. La coerenza di questo disegno con il programma politico del governo Meloni è evidente. Di fronte alle sfide della contemporaneità, che richiederebbero un investimento massiccio nel comparto educativo e la creazione di un complesso ecosistema culturale, si preferisce il rassicurante ripiegamento su un presunto e ottuso “sé”, il ritorno low-cost al feticcio fatto in casa dell’identità italiana. La battaglia contro le Indicazioni nazionali del ministro Valditara deve quindi necessariamente diventare una battaglia per una scuola diversa, una scuola da valorizzare e su cui investire una percentuale della spesa pubblica ben superiore rispetto ai livelli attuali (che vede l’Italia ultima nei confronti internazionali con i cosiddetti paesi avanzati). Le componenti più consapevoli e dinamiche della scuola devono farsi protagoniste dei dibattiti e dell’elaborazione di una nuova politica educativa. Migranti. La storia di Alaa e lo “scarto” tra diritto e giustizia di Niccolò Nisivoccia Corriere della Sera, 21 ottobre 2025 Nel 2015 Alaa aveva vent’anni, e si imbarcò per l’Italia; all’arrivo, vengono trovati 49 morti nella stiva; nonostate molti dubbi Alaa viene condannato a trent’anni di reclusione perché ritenuto uno degli scafisti. La storia di Alaa Faraj è nota, anche se magari non a tutti: è lui stesso a raccontarla in un libro pubblicato di recente da Sellerio, Perché ero ragazzo, attraverso una serie di lettere ad Alessandra Sciurba, docente di filosofia del diritto a Palermo; e ne hanno già parlato, ad esempio, Luciana Castellina e Gustavo Zagrebelsky. La storia è questa: nel 2015 Alaa aveva vent’anni, studiava ingegneria a Bengasi ed era una promessa del calcio libico; nei primi giorni di agosto di quell’anno s’imbarca per venire in Italia, insieme a molti altri migranti; all’arrivo, vengono trovati in quarantanove morti asfissiati nella stiva; Alaa viene condannato a trent’anni di reclusione perché ritenuto uno degli scafisti; sono decisive alcune testimonianze, “selezionate senza alcun criterio esplicito tra più di 300 persone” - scrive Alessandra Sciurba nella postfazione di Perché ero ragazzo - “e trascritte in verbali tutti identici tra loro, in un copia e incolla delle dichiarazioni rese che ha ripetuto, per ognuna, anche errori di grammatica e di battitura”; la sentenza di condanna risulta confermata sia in appello che in cassazione, e diventa irrevocabile; emergono nuove testimonianze, sulla base delle quali viene presentata una domanda di revisione; ma la domanda viene respinta, perché sarebbe pur sempre fondata “sui medesimi elementi addotti e sulle medesime prospettazioni in fatto e in diritto”; i giudici non negano l’esistenza di uno “scarto”, nella condanna a carico di Alaa, “tra il diritto e la pena applicata e la dimensione morale della effettiva colpevolezza”, ma negano che tale “scarto” possa essere sanato da loro; a sanarlo, aggiungono, potrebbe essere solo il Presidente della Repubblica, attraverso la grazia. Insomma: la storia di Alaa - che nel frattempo ha già scontato un terzo della pena, all’Ucciardone di Palermo - rappresenta un caso emblematico in cui il diritto sembra tradire la propria funzione, essendo il diritto uno strumento funzionale non a sé stesso, alla pura e semplice “legalità”, ma al raggiungimento della giustizia. È un caso emblematico proprio perché di questo “scarto” fra “diritto” e “giustizia” sono gli stessi giudici, qui, a dare atto: come una forma di resa. Però vale quanto osservato da Zagrebelsky: la grazia potrebbe almeno consentire l’immissione nella legalità di “una sorta di supplementum iustitiae”. Non rimane forse vero che la giustizia, come diceva Simone Weil, è tale solo quando sappia guardare in volto coloro che hanno bisogno, quando sappia cogliere l’unicità e l’irripetibilità di ogni singolo caso, facendo vivere le norme nella loro concretezza? Migranti. “Il memorandum con la Libia uccide l’umanità” di Ibrahima Lo* Il Manifesto, 21 ottobre 2025 Lettera a Mattarella. Pubblichiamo il testo di Ibrahima Lo, 26enne originario del Senegal e in Italia da dieci anni, inviato al presidente della Repubblica. Mi chiamo Ibrahima Lo, sono un ragazzo di 26 anni originario del Senegal e vivo in Italia da 10 anni. Ho deciso di scrivere questa lettera a Lei perché, in quanto Presidente della Repubblica Italiana, credo che potrà comprendere le mie riflessioni riguardo l’umanità in generale e la popolazione Italiana, nonché considerare insieme delle ipotesi operative che possano portare beneficio a tutti coloro che vivono nella nostra Nazione. L’argomento che mi sta a cuore e che con Lei vorrei trattare è il memorandum Italia Libia. In quanto vittima delle atrocità che quotidianamente si consumano all’interno dei lager libici, porto nel mio vissuto, nei ricordi e sul corpo i segni indelebili che probabilmente neanche il tempo potrà cancellare. Negli ultimi anni ho deciso di fare di tali segni una speranza affinché il cuore di ogni cittadino non sopisca nell’indifferenza. Da tale decisione sono nati diversi libri, il primo dei quali si intitola “Pane e acqua”. Nonostante sia noto ciò che sta accadendo in Libia, l’Italia sta continuando a cooperare alla violenza inviando motovedette ai criminali libici che ogni giorno uccidono le persone in Libia e continua a sostenere chi in mare spara alle navi della Civil Fleet, come recentemente accaduto alle navi di Mediterranea Saving Humans e Sos Meditarranee, colpevoli unicamente di salvare vite umane che rischiavano di morire nel Mare Mediterraneo. Signor Presidente, è necessario affermare e riconoscere che nel Mare Mediterraneo c’è una guerra. Non si tratta di una guerra di cui si sente l’eco delle bombe ma di una guerra silenziosa, non si vedono passare carri armati ma le vittime sotto il livello del mare possono comporre cimiteri. Anche se noi teniamo le distanze, tutti i giorni bambini, donne e uomini urlano chiedendo aiuto prima di annegare ma le loro urla nessuno le sente. Io ho vissuto tutto questo quando avevo 16 anni ed ero su un gommone con altre 19 persone. Le invio questa lettera perché so che lei vuole salvare l’umanità e non sostenere questi accordi. La Libia è un luogo di violenza, è un luogo dove le donne vengono violentate tutti i giorni, dove le persone hanno paura, dove la speranza non basta. Nel mio secondo libro - “La mia voce” - ci sono storie che narrano di queste esperienze. L’Italia è complice di tutto questo. Si continua a finanziare, accogliere e a collaborare con dei criminali che catturano persone in mare e nel deserto, le rinchiudono nei lager, uccidono fisicamente e/ psicologicamente semplicemente perché per loro non è un reato ma un gioco. In Libia non esiste né democrazia, né sicurezza, né liberta. Esiste invece una violenza disumana e lo posso raccontare con le cicatrici che ho su il mio corpo. Esse continuano a sanguinare e non guariranno mai non solo perché non smetteranno di riportarmi al trauma personale ma perché mi fanno continuamente ricordare le persone che hanno ucciso davanti i miei occhi. La violenza che ho visto agire nei lager libici su uomini, donne e bambini, le mie cicatrici, portano anche tutti i loro nomi. Di questi nomi occorre rendersi responsabili e operare affinché quelle voci possano cantare tra i banchi di scuola o diventare nuove risorse per questo paese che sa anche ospitare e fare accoglienza. Il memorandum uccide l’umanità e non risolve il problema dell’immigrazione ma crea più morti nel mare Mediterraneo e lascia ferite che non guariranno mai. La ringrazio Signor Presidente per l’attenzione e Le porgo cordiali saluti *Studente, scrittore, attivista sui diritti umani per la libertà di restare e di viaggiare Liberalizzare le droghe di Fabrizio Pomes* bandieragialla.it, 21 ottobre 2025 Da decenni assistiamo a un aumento esponenziale di arresti, detenzioni e repressione nelle periferie e nelle comunità più fragili, tutti legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Ma cosa è cambiato realmente? Le strade non sono più sicure, la criminalità organizzata prospera, i consumatori restano marginalizzati e il mercato clandestino continua a espandersi senza freni. La sicurezza promessa si è trasformata in una spirale di violenza e insicurezza. Le politiche basate esclusivamente sulla repressione non affrontano il problema alla radice. Spingono lo spaccio a operare sottoterra, alimentano le mafie e sottraggono risorse preziose che potrebbero essere investite in prevenzione, cura e reinserimento sociale. Così, chi consuma sostanze rischia stigmatizzazione e isolamento, mentre chi traffica si sposta semplicemente verso nuove zone o mercati. Non serve chiudere un occhio, serve lucidità: la realtà è che la guerra contro la droga la vince chi continua a venderla senza regole, chi sfrutta la disperazione, chi si arricchisce sulle debolezze altrui. Le strategie di criminalizzazione hanno prodotto effetti paradossali: incremento del sovraffollamento carcerario, marginalizzazione delle fasce più vulnerabili della popolazione e diffusione incontrollata dei consumi. Funzionari e studiosi concordano nel definire inefficace il modello punitivo, che non affronta né la domanda di sostanze né le ragioni socio-economiche alla base del fenomeno. Qui in carcere vediamo ogni giorno gli effetti di queste politiche: tanti ragazzi e uomini chiusi tra queste mura, non perché la società abbia saputo aiutare o prevenire, ma perché ha scelto di punire senza affrontare il vero problema. Criminalizzare chi consuma e chi spaccia in piccoli contesti significa solo spingere il problema più in profondità, a vantaggio delle grandi organizzazioni criminali. La repressione non ha fermato né la domanda né l’offerta: ha soltanto riempito le celle di persone come noi, senza risposte vere su salute, prevenzione e sostegno. Sappiamo che l’unica possibilità di cambiare davvero le cose è spezzare questo circolo vizioso e per farlo serve un cambio di paradigma: la legalizzazione delle droghe. Legalizzare non significa promuovere il consumo, ma togliere potere al mercato nero, portando il fenomeno sotto controllo pubblico, garantendo un controllo sulla qualità, riducendo i rischi per chi usa e, soprattutto, aprendo la porta a percorsi di cura e reinserimento. I paesi che hanno intrapreso sperimentazioni in questo senso evidenziano riduzioni della criminalità connessa allo spaccio e miglioramenti nelle condizioni di salute collettiva. La prospettiva di una politica basata sull’approccio sanitario e sulla riduzione del danno si pone come imprescindibile alternativa al modello securitario fallimentare. Legalizzare significa poter regolamentare produzione, vendita e qualità delle sostanze, ridurre i danni per chi ne fa uso, offrire percorsi di aiuto senza paura di essere criminalizzati e togliere un enorme potere economico alle organizzazioni criminali. La repressione ha mostrato i suoi limiti e continua a mietere vittime innocenti tra i giovani, i più poveri e l’intera società. L’unica via per recuperare dignità, sicurezza reale e giustizia sociale è abbandonare il vecchio paradigma punitivo e accogliere con coraggio la legalizzazione come strumento di civiltà e progresso. Il cuore di questa battaglia è la possibilità di costruire comunità più sane e libere da violenza e discriminazione. È tempo che la politica ascolti questa verità e apra finalmente una nuova pagina. Ogni politico che si oppone alla legalizzazione è parte del problema. Ogni giornale che tace è complice. Ogni cittadino che si volta dall’altra parte sceglie la morte invece della vita. Non possiamo continuare a voltare lo sguardo. Ogni giovane che cade nella rete dello spaccio è una storia che poteva essere diversa. Ogni vita spezzata dalla dipendenza è una ferita collettiva. Legalizzare è un atto di coraggio, ma anche di amore. Perché significa credere che ogni persona meriti una seconda possibilità, non una condanna. La vera sicurezza nasce dalla giustizia, dalla cura e dalla libertà. Forse, è tempo di scegliere la strada che parla davvero al cuore. Legalizzare è un atto di giustizia. È dire: “Non ti lascio solo.” È costruire una società che non ha paura della verità. È smettere di fingere una volta per tutte che la repressione sia protezione. Redazione di “Ne vale la pena” Medio Oriente. L’impegno dell’Onu e il ruolo dell’Anp per la fragile tregua a Gaza di Riccardo Redaelli Avvenire, 21 ottobre 2025 Serve un piano di training e trasferimento di capacità alle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese. Inglobando il più possibile i miliziani di Hamas in unità di polizia sotto stretto controllo. La fragile tregua di Gaza in questo fine settimana ha ondeggiato, poi sbandato paurosamente con la decisione di Israele di bombardare nuovamente e di interrompere il flusso di aiuti umanitari, e infine - grazie alle pressioni americane - sembra essere tornata in carreggiata. Verso dove stia andando è ancora difficile capirlo, in realtà. Ogni giorno, stiamo toccando con mano i tanti limiti dell’Accordo in 20 punti di Trump, celebrato dal grande meeting di Sharm el-Sheikh come l’attesa “pace eterna”, quando è ancora solo un fragile e nebuloso armistizio. Per rafforzarlo ? evitando che si ripiombi nella catastrofe dei quotidiani massacri di questi ultimi due anni - serve l’impegno vigile e costante della comunità internazionale, ma occorre anche comprendere come i pericoli risiedano nelle complessità dei passaggi tecnici dell’accordo. Il passo probabilmente cruciale per la riuscita del piano è il disarmo di Hamas. Un obiettivo sacrosanto e auspicato da chiunque voglia offrire una prospettiva di pace credibile per la Palestina. Ma in geopolitica, e tanto più nel controllo militare del territorio, il vuoto non esiste. Ritiratesi le forze militari israeliane dalle macerie della Striscia, era facilmente immaginabile che i miliziani del movimento islamista avrebbero ripreso il territorio, andando a sfidare quei clan e gruppi tribali che a loro si opponevano, sostenute e armate all’uopo da Israele. Hamas non svanirà al tocco di una bacchetta magica; la catastrofe dell’invasione anglo-americana in Iraq del 2003 ci insegna in proposito tante cose, fra cui l’evidenza che eliminare tutte le preesistenti forze di sicurezza armate, per pessime che siano, favorisce solo l’anarchia e le violenze criminali. Non basta dire che la sicurezza a Gaza sarà gestita dalle forze di una Autorità Transitoria internazionale: quale stato rischierà a lungo la vita dei suoi soldati mandandoli allo sbaraglio fra le rovine di Gaza in un contesto così incontrollato? Quanto si potrà fare invece - e i Carabinieri italiani sono fra i più bravi al mondo - è avviare un programma di training e di trasferimento di capacità e metodi che rafforzi la polizia e le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), inglobando il più possibile i miliziani di Hamas in unità di polizia sotto stretto controllo dell’Anp e delle forze internazionali. Lo slogan “Hamas deve essere distrutta” serve solo all’ultradestra al potere a Tel Aviv per giustificare i crimini di guerra commessi in questi anni. Hamas è un’ideologia che si alimenta con la violenza e con il clientelismo verso una popolazione privata di tutto. È la possibilità di vivere una vita dignitosa in pace che la depotenzia. Una forza militare di interposizione internazionale è certo necessaria. Ma mantenere la pace ove vi sono solo macerie è un progetto che espone i soldati inviati a rischi seri e continui, se non vi è la volontà di entrambe le parti di rispettare il cessate il fuoco. Lo scenario operativo sarebbe molto più pericoloso di quello di Unifil, ossia la forza di peacekeeping attiva fra Israele e il Libano da decenni, dato che si opererebbe in un contesto urbano. Soprattutto, sarà necessario affiancare il peacekeeping in senso stretto, con un esteso programma di “post confict institution building”, ossia di ricostruzione delle istituzioni e delle capacità amministrative e di sicurezza tramite una lunga azione di mentoring e di formazione. Il tutto, comunque, da attivare sotto formale mandato Onu e - cosa auspicabile - su richiesta formale della stessa Anp, così da chiarire a tutti, palestinesi per primi, che il mondo riconosce la sovranità palestinese su Gaza. Infine, va compreso che questa attività di ricostruzione fisica, politica, amministrativa e securitaria - che probabilmente prenderà decenni e che sicuramente costerà cifre spaventosamente alte - deve implicare l’obbligo per Israele di fermare la distruzione sistematica di ogni infrastruttura a Gaza. Perché in questi due anni di guerra, le forze militari dello Stato ebraico, in nome della lotta ad Hamas, hanno raso al suolo case, scuole, università, ospedali, biblioteche, infrastrutture energetiche, con il risultato di cancellare Gaza come moderna realtà urbana. Pensare che le monarchie del Golfo, l’Europa, le grandi potenze asiatiche (gli Usa, è chiaro, daranno pochissimo) investano decine di miliardi senza alcuna garanzia è del tutto velleitario. Tanto più se Washington e Tel Aviv continuano a delegittimare l’Anp quale forza di governo dei palestinesi e a non capire, assieme a pochi altri, che lo stato di Palestina deve diventare una realtà riconosciuta per avere una pace reale e, magari, davvero “eterna”. Medio Oriente. Un esposto tira l’altro. I pm di Roma indagano sull’assalto alla Flotilla di Mario Di Vito Il Manifesto, 21 ottobre 2025 L’attivista La Piccirella denuncia i maltrattamenti israeliani. Il fascicolo cresce: sono in arrivo altre decine di testimonianze. Tra le ipotesi tortura e sequestro di persona. Ma serve anche l’ok di via Arenula. Poco alla volta, il fascicolo aperto dalla procura di Roma sulla Global Sumud Flotilla comincia a prendere forma. Al primo esposto, presentato all’inizio del mese dal team legale della missione e che arriva fino al momento dell’intervento israeliano, si è aggiunto ieri quello firmato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini per conto di Antonio La Piccirella, che pure faceva parte dell’equipaggio delle 45 navi che hanno provato a rompere il blocco davanti alla Striscia di Gaza. Nelle diciassette pagine firmate da Rossi Albertini, il focus è su quello che è accaduto dopo lo stop alle imbarcazioni, cioè sul trattamento riservato agli attivisti nel porto di Ashdod e nella prigione di Ketziot. Per il legale, quanto avvenuto da quelle parti si configura come “una completa violazione dei diritti umani” dal momento che “i militari, armati, hanno identificato gli attivisti, circa 300, poi li hanno privati di tutti gli effetti personali, dopodiché li hanno perquisiti imprimendo una gratuita violenza fisica, motivo per cui ad alcuni è stato rotto un braccio”. I soldati di Tel Aviv, inoltre, “hanno ammanettato gli attivisti” con le mani “dietro la schiena con delle fascette di plastica molto strette e lì hanno obbligato gli stessi a stare piegati, faccia a terra” per poi portarli “verso un piazzale assolato”, “costringendo gli equipaggi a stare in ginocchio con i bagagli dietro le spalle e a guardare sempre in basso, impedendogli di muoversi e di parlare, dando dei colpi sulla testa a chi si rifiutava”. I militari, prosegue la denuncia, hanno anche “colto ogni minima occasione per umiliare gli attivisti”, tra i quali c’era anche Greta Thunberg, che “è stata picchiata, trascinata a terra per i capelli, costretta a baciare la bandiera israeliana e poi avvolta nella stessa ed esibita come un trofeo, infliggendo gratuite e sadiche vessazioni”. All’arrivo in carcere, La Piccirella, che si è rifiutato di sottoscrivere un documento preparato dall’Ufficio immigrazione israeliano in cui sostanzialmente si accettava come lecito quanto subito, sarebbe stato portato insieme ad altre undici persone in una stanza con “solo sei letti” e “durante la prima notte è stato privato del sonno e sottoposto a pratiche di deprivazioni sensoriali”. Alle 3 della stessa notte, all’attivista sarebbe stato nuovamente proposto di firmare il documento, ma lui ha rifiutato perché farlo sarebbe stato “una legittimazione a posteriori dei gravi reati di cui era stato vittima”. È così che, oltre al sequestro di persona, “nelle gratuite e dolorose vessazioni ed umiliazioni fisiche e morali” si configurerebbe il reato di tortura. Da qui la richiesta ai pm di Roma di indagare per poi chiedere al ministero della Giustizia di procedere sulla base dell’articolo 8 del codice penale, quello che riguarda i delitti politici commessi all’estero. Che - e questo è un dettaglio per nulla scontato - possono essere puniti solo e soltanto dietro richiesta ministeriale. Rossi Albertini, comunque, in aggiunta a questo evoca anche il secondo comma dell’articolo 40 del codice penale, secondo il quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Qui il dito è puntato contro il governo, soprattutto per il caso della nave Alpino della marina militare, che ha scortato la Flotilla fino a 150 miglia nautiche dalle coste di Gaza e poi si è ritirata, lasciando di fatto campo libero agli israeliani, che sono intervenuti in acque internazionali, dove ogni nave che batte bandiera italiana è da considerare a tutti gli effetti territorio italiano. Dunque la presa degli attivisti andrebbe considerata come un rapimento e la requisizione delle loro barche come una rapina a mano armata. La questione giurisdizionale resta in ogni caso complessa: il diritto penale italiano si mischia con quello internazionali e con le convenzioni marittime: la definizione del caso - che il procuratore capo Francesco Lo Voi ha affidato al pool di magistrati che si occupa di terrorismo - non è tanto difficile sul piano fattuale, quanto su quello del diritto. In sostanza il problema non è “cosa” indagare, ma come farlo. Ad ogni modo (e in aiuto), a strettissimo giro di posta, dal team legale della Flotilla arriveranno decine di integrazioni al primo esposto. Nei giorni scorsi gli attivisti hanno incontrato i vari avvocati coinvolti per mettere nero su bianco la loro versione dei fatti, dal momento del blitz israeliano fino al rimpatrio forzato. Il fascicolo appare destinato a crescere di volume e l’indagine a salire di tono. È uno di quei casi, non molto consueti, in cui la questione giudiziaria si sovrappone alla perfezione alla questione politica. Può non piacervi Greta Thunberg. Ma non lasciate che un dettaglio vi distragga dal quadro più grande di Concita De Gregorio La Repubblica, 21 ottobre 2025 È una tecnica nota, consueta, abusata eppure efficacissima. Ci lasciamo facilmente sviare dalla rotta. Non perdete il fuoco. Non perdiamolo mai. Non lasciamoci distrarre dal rumore, dalle polemiche di un giorno fatte apposta per questo, per durare un giorno e in quel giorno far perdere di vista quello che di più importante, grave, urgente sta accadendo. È una tecnica nota, consueta, abusata eppure efficacissima. Come i tori col panno rosso, come certi animali al richiamo di un fischio ci lasciamo facilmente accecare, sviare dalla rotta da un rumore, un colore, un abbaglio. Ogni giorno, tutti i giorni. Ci pensavo di nuovo la settimana scorsa quando ho visto il video di Greta Thunberg di ritorno dalle carceri israeliane, dopo essere stata catturata mentre navigava insieme ad altre centinaia di attivisti su Global Sumud Flotilla, insieme a loro trasferita in prigionia e lì - tutti - umiliati, derisi, maltrattati. Le cronache ci hanno raccontato: è stata, lei più di tutti perché simbolo di tutti - costretta a fare questo e quello. Appena è tornata per prima cosa le hanno chiesto: cosa? Cosa vi hanno fatto, costretto a fare? Questa è la curiosità morbosa che tutto il resto oscura. Questo è quello che l’omeopatica dose di violenza quotidiana ci induce a fare ancora, e ancora, alzando sempre l’asticella: dimmi, esattamente, cosa. Lei non ha risposto. Non a questa domanda. Ha detto, più o meno, è mia la sintesi: potrei stare ore a raccontarvi cosa è successo, cosa ci hanno fatto, maltrattamenti e abusi ma credetemi, non è importante. Non è questa la storia. Non siamo noi la storia. La storia sono migliaia e milioni di persone che stanno soffrendo sistematiche atrocità nell’impunità di chi le compie. È la latitanza di governi e istituzioni. È la complicità in genocidio di chi non si oppone a quello che sta accadendo davanti ai suoi occhi. Poi ha sorriso, e ha aggiunto: so bene che mi accusano di essere naïf ma lo rivendico ogni giorno, se essere naïf significa combattere contro le ingiustizie e le violazioni dei diritti elementari. Può piacervi o non piacervi, Greta Thunberg. Essere in accordo o disaccordo con lei, non importa. Anche qui. Non è questo il fuoco. Come quando scattate una fotografia, non lasciate che un dettaglio vi impedisca di vedere il quadro più grande, lo lasci sfocato e in ombra. Allargate il campo. Poi: il dettaglio sarà forse rilevante, ma avrà senso dentro quel campo. Il momento, il contesto, il resto. Vale per tutto, nella vita di ogni giorno, nel nostro quotidiano tentativo di dare senso al tempo e valore ai gesti. Quante volte avete pensato o vi siete sentiti dire: sì, ma non è questo il punto. Quanto tempo avete perso nelle burocrazie, nelle discussioni di lavoro, nelle vicende familiari a dirimere improvvisi dettagli che diventavano ostacolo rispetto alla meta. Che vi impedivano, di fatto, di provare almeno a raggiungerla. Ore e ore e giorni e settimane perduti in minuzie inessenziali, in diatribe che sembrano epocali e sono inutili, invece. Quante volte qualcuno ha provato a dirottare la vostra attenzione su una piccola cosa, ci è riuscito sfinendovi e lasciandovi infine senza forze per affrontare quello che invece, per voi, era essenziale. A me sempre, succede. E ogni momento, ogni giorno penso: dai, non perdere il fuoco. Stati Uniti. La libertà non è un’azienda di Luciano Violante Corriere della Sera, 21 ottobre 2025 Il modello americano del Ceo di Stato rischia di mettere in pericolo valori per noi fondamentali. Tre principi da applicare. Migliaia di persone hanno sfilato nelle grandi città americane gridando “No king”, non vogliamo un re. Non esageravano. Trump governa il suo Paese come se ne fosse il sovrano. Molti pensatori a lui vicini ritengono che la democrazia sia inidonea a governare e propongono di sostituirla con un sistema di governo tecnocratico ed elitario. Curtis Yarvin, uno degli intellettuali più citati dal vice presidente J.D.Vance, presenza fissa nei media repubblicani, in un’intervista al New York Times del 18 gennaio 2025 ha teorizzato che il modello da seguire è quello delle grandi aziende che sono “monarchie in miniatura: funzionano perché qualcuno comanda e gli altri eseguono”, mentre le istituzioni sono aziende fallite, la democrazia è solo una debole aristocrazia di esperti, giudici e professori. Una delle sue tesi centrali è che la democrazia americana sia una farsa irrimediabile e che serve un leader di tipo monarchico. Ha inoltre discusso con Michael Anton, Direttore della pianificazione politica del Dipartimento di Stato su come si potrebbe installare un “Cesare americano”. Idee una volta marginali stanno sfacciatamente prevalendo. Come siamo arrivati a questo punto? Dopo la fine dell’impero sovietico, i Paesi vincitori pensarono che ormai globalizzazione, multilateralismo e occidentalizzazione si sarebbero imposti su tutto il mondo. Nel 2014 l’allora vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, disse ai cadetti dell’accademia aeronautica: “La Cina non innova... Pechino non può impensierire veramente gli Stati Uniti dal punto di vista tecnologico. Non ne ha gli strumenti”. Gli imperatori di Bisanzio, abbagliati dallo splendore delle proprie corone, non si accorsero della crescente potenza militare dei turchi e persero l’impero. Come quegli imperatori, abbiamo sovrapposto le nostre presunzioni alla realtà. Per reagire alla strage delle Torri Gemelle, abbiamo adottato l’idea della esportazione armata della democrazia, conclusa con la vergognosa fuga da Kabul. Eravamo convinti che l’espansione dei mercati avrebbe portato la crescita in tutto il mondo di una robusta classe media, la quale si sarebbe battuta per essere governata da regimi liberaldemocratici. Anche questa previsione è stata smentita, perché la democrazia ha bisogno del mercato, ma il mercato non ha bisogno della democrazia. Abbiamo concepito Internet come una inarrestabile forza liberale, che avrebbe concorso in misura determinante allo sviluppo dell’ordine mondiale liberaldemocratico. Oggi dobbiamo difendere alcuni fondamentali diritti delle liberaldemocrazie proprio dagli sviluppi della rete. Pensavamo che l’Occidente avrebbe trionfato nel mondo; oggi esiste una robusta alleanza dei Paesi Brics e dei Paesi del cosiddetto Sud del mondo, a guida cinese e russa, che hanno tutti come unico comune denominatore l’antioccidentalismo. In sostanza sono venuti meno tutti i presupposti della tradizionale liberaldemocrazia e si è fatta strada, come accade in tutte le fasi di regressione democratica, una filosofia autoritaria che tende a soppiantare le tradizionali governance politiche con governance di tipo aziendale: concentrazione del potere, immediatezza e revocabilità delle decisioni, mercantilizzazione delle relazioni internazionali, sulla diplomazia prevale l’affarismo, sulle regole prevale la prepotenza, sulla buona educazione il brutalismo. Che altro è il Board of Peace per la Palestina se non una sorta di cda? Oltre agli Stati Uniti, altri Paesi decisivi come Russia, Cina, India, Turchia, Iran, Ungheria realizzano da tempo, in forme a volte più discrete, forme di governo fondate sulla concentrazione dei poteri nelle mani di una sola persona, il Ceo dello Stato. La regressione può andare ben oltre. In casa nostra terreni fertili per la vittoria del modello Ceo possono diventare il mutismo della democrazia, l’infantile tendenza al litigio politico ad uso televisivo, la disaffezione dal voto. Saremo sconfitti se non ricostruiremo uno Stato capace di decidere. Dobbiamo superare la complessità amministrativa che asfissia chi lavora e chi produce, il sentimento di abbandono dei ceti meno protetti, la sensazione che i democratici si occupino dei diritti individuali di alcune minoranze e trascurino invece i diritti sociali di alcune maggioranze, accusa a volte non del tutto infondata. Rimettere al centro il futuro della società e la vita delle persone. In un Paese con forte calo demografico, scarso numero di laureati ed elevato tasso di abbandono scolastico, il futuro dipende dalla formazione del capitale umano. Molto si sta facendo per quanto riguarda la formazione primaria e secondaria. Per la formazione superiore occorre invece sostenere più vigorosamente le università tradizionali e fissare criteri di qualità per le università digitali che, correttamente impostate, possono costituire un ascensore sociale per i cittadini e un servizio essenziale per il Paese. Le une e le altre, tramite la via digitale, possono inoltre concorrere a formare i quadri futuri della Palestina e di tutti i Paesi beneficiari del piano Mattei. Per migliorare la vita delle persone, occorre uno Stato leggero ed efficiente. Trump affidò il compito a Musk, che operò come nelle aziende in difficoltà, prima licenziando i lavoratori e poi autolicenziandosi. Noi, più semplicemente, dovremmo mettere in campo tre principi fondamentali, validi per tutte le procedure: a) la macchina amministrativa non chiede al cittadino i documenti che già possiede, b) il silenzio assenso è generalizzato, c) il cittadino merita fiducia. Poi, chi sbaglia paga; oggi pagano tutti, tranne, a volte, quelli che sbagliano. La ripresa di un’azione liberaldemocratica deve tornare ai fondamentali della democrazia; i “No king” non bastano.