La pena non cura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2025 Salute mentale in carcere: un’emergenza ignorata tra psicofarmaci e burocrazia. Un’indagine di quindici mesi condotta in tre istituti italiani (Prato, Udine e Rebibbia femminile) rivela l’assenza di dati coerenti e la frammentazione dei servizi per la salute mentale nelle strutture penitenziarie. La ricerca denuncia l’uso eccessivo di psicofarmaci, spesso come risposta a disagi legati alla detenzione stessa. “La salute mentale in carcere è trattata come un problema di ordine pubblico”. Quindici mesi di indagine in tre istituti penitenziari rivela una “babele di definizioni” che impedisce di conoscere i veri numeri del disagio. “Salute mentale e carcere è già un po’ un ossimoro”. La frase, pronunciata da uno psichiatra, riassume i quindici mesi di ricerca della Società della Ragione in tre istituti penitenziari - Prato, Udine e Rebibbia femminile - finanziata dall’Otto per Mille valdese e condotta con la collaborazione del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana. Il fine settimana scorso si è celebrata la giornata mondiale della salute mentale, e il modo migliore per celebrarlo è riportare i recenti risultati del progetto che mostrano un sistema che genera sofferenza e poi la contiene a colpi di psicofarmaci. Dove l’incompatibilità psichiatrica con il carcere, sancita dalla sentenza 99/2019 della Consulta, resta solo sulla carta. La prima scoperta riguarda i numeri, o meglio la loro assenza. Raccogliere dati sulla salute mentale in carcere si è rivelato un labirinto: criteri diversi per definire la “presa in carico”, schede compilate in modo disomogeneo, scarso coordinamento tra amministrazione penitenziaria, sanità e servizi territoriali. A Prato, su 649 detenuti, 53 risultano “in cura” e 26 hanno una doppia diagnosi di disturbo psichiatrico e tossicodipendenza. Ma cosa significano davvero questi numeri? A Udine, una “consulenza” è solo una valutazione occasionale; a Prato indica visite senza continuità. La “presa in carico” per alcuni è un percorso di cura, per altri la semplice presenza di psichiatra e psicologo. Una babele di definizioni che impedisce qualsiasi confronto reale. La ricerca conclude che “l’emergenza psichiatrica percepita è maggiore di quella effettiva”: non perché i problemi siano minori, ma perché il carcere stesso genera sofferenza che poi si traduce in diagnosi e farmaci. Uno dei punti più critici riguarda l’uso esteso degli psicofarmaci. “Troppo spesso la salute mentale in carcere viene trattata come un problema di ordine pubblico”, osserva un volontario. Il farmaco diventa così tutto: sedativo per chi non dorme, ansiolitico per chi non regge l’isolamento, merce di scambio nel mercato interno, o mezzo per stordirsi e non pensare. “Io ho molta ansia - racconta un operatore del SerD riferendo le parole dei detenuti - e chiedo un farmaco che mi tolga il sintomo, come fosse una tachipirina. In carcere la richiesta di psicofarmaci sintomatici è altissima”. Gli psichiatri reagiscono in modo diverso: c’è chi prescrive di più, riconoscendo che la detenzione esaspera ogni disagio, e chi tenta un “patto terapeutico” per evitare che la cura diventi sedazione. Ma la contraddizione resta: come distinguere tra bisogno reale e uso improprio, quando è il carcere stesso a produrre il malessere? La chiusura degli Opg nel 2015 avrebbe dovuto segnare una svolta: cura in luogo di detenzione, non più detenzione in luogo di cura. La realtà racconta un’altra storia. La sentenza 99/2019 della Corte costituzionale ha equiparato la malattia mentale a quella fisica per dichiarare l’incompatibilità con il regime detentivo. Sulla carta. Nella pratica, “l’incompatibilità viene dichiarata di solito per patologie gravi, organiche”, spiegano gli operatori. Per i disturbi psichiatrici è “molto più raro”. Il paradosso emerge dalle interviste: “Io posso dirle che in una situazione ho visto che è stata fatta una perizia psichiatrica per valutare l’idoneità o meno della persona alla vita detentiva”, racconta una psicologa. Ma sono eccezioni. La regola è che le persone con gravi disturbi psichiatrici restano in carcere, spesso in sezioni chiamate Atsm (Articolazioni per la tutela della salute mentale), definite da un garante “scatolette dentro lo scatolone”. Il nodo critico? Il sistema dei servizi esterni non è attrezzato ad accoglierli. “Dipende molto dalla disponibilità del territorio - spiega uno psichiatra -. Se uno non ha la residenza è difficile individuare il territorio competente, e soprattutto far sì che il territorio si senta competente”. Un circolo vizioso in cui manca il provvedimento del giudice perché manca la struttura che accoglierebbe il detenuto, e manca la struttura perché manca il provvedimento. La condizione diventa drammatica per i detenuti stranieri senza permesso di soggiorno e residenza. “Quando non c’è residenza, se ne lavano tutti le mani”, denuncia un garante. Il carcere si trasforma così in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio di fatto: la persona resta detenuta perché priva degli strumenti burocratici - residenza, certificazioni sanitarie, documenti - che aprirebbero le porte verso percorsi alternativi. “Per le persone straniere, non regolari, il carcere assume i connotati di un centro per il rimpatrio”, conclude la ricerca. L’intersezione tra problematiche di salute e carenze certificative genera “condizioni di totale mancanza di prospettive di tutela della salute fuori dal carcere”. Nel 2024 ci sono stati 89 suicidi in carcere, a cui vanno aggiunti i 66 dell’anno in corso. La prevenzione del rischio suicidario oscilla tra protocolli standardizzati - come la Sad Persons Scale - e gestione emergenziale. “Purtroppo la carenza dei medici spesso determina che il detenuto non venga sempre visto nell’immediatezza”, ammette un direttore. La sorveglianza diventa capillare, coinvolgendo psichiatri, psicologi, educatori, agenti di polizia penitenziaria e persino altri detenuti designati come “caregivers”. Ma i piani locali di prevenzione, nota la ricerca, si concentrano sui fattori di rischio individuali (età, precedenti tentativi, mancanza di supporto sociale) trascurando quelli ambientali: isolamento, sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie, mancanza di attività. “Non si può fare terapia in carcere - sintetizza una psicologa -. Puoi fare sostegno, supporto, contenimento. Molte volte l’aiuto psicologico passa anche attraverso cose molto concrete: riuscire a chiamare i propri cari, fare una domandina, orientarsi nelle regole”. Alla domanda finale - “Se avesse una bacchetta magica, cosa cambierebbe?” - le risposte degli operatori convergono su alcuni punti. Primo: ridurre drasticamente il sovraffollamento. Secondo: garantire attività lavorative e formative per tutto il giorno, perché “una persona che si sveglia alla mattina e non ha letteralmente niente da fare, è una condizione devastante”. Terzo: aumentare le risorse umane, equiparando il personale educativo a quello di sorveglianza. Ma c’è anche chi va più a fondo: “Io credo che sia impossibile fare salute mentale in queste condizioni. È una condizione talmente patogena che non riesco a vedere grosse possibilità”. Un’onestà intellettuale che spinge alcuni a proporre la chiusura dei grandi istituti: “Non credo nella possibilità del benessere psicofisico in istituti così mastodontici, dove la persona viene persa di vista. È un numero”. In questo quadro desolante, emerge un dato positivo: il ruolo fondamentale del volontariato e del terzo settore. “I volontari sono una grandissima risorsa - racconta una psicologa -. Quando non arriviamo noi possono arrivare loro. Il cappellano quando dei detenuti non hanno niente carica dei soldini sul conto. La Caritas può cercare di dargli il lavoro, portare nella sua comunità”. Sono loro, spesso, a fare da ponte tra dentro e fuori, a occuparsi delle “cose molto concrete” che determinano la sopravvivenza in carcere: una telefonata ai familiari, vestiti, soldi per la spesa. Un welfare di prossimità che supplisce alle carenze istituzionali. “La salute mentale è una declinazione imprescindibile della salute globale della persona”, ricorda un operatore. Eppure in Italia persiste “uno stigma sul tema salute mentale”. In carcere questo stigma si amplifica: i disturbi psichiatrici sono ancora visti come problema di ordine pubblico più che di cura. La ricerca della Società della Ragione - che proseguirà con presentazioni a Firenze il 28 ottobre e a Udine il 13 novembre - lancia un messaggio chiaro: dieci anni dopo la chiusura degli Opg, il sistema non ha fatto i conti con la salute mentale in carcere. Ha semplicemente trasferito il problema da un’istituzione all’altra, senza dotarsi degli strumenti necessari. Lavoro per i detenuti, tre tappe per il bonus fiscale alle aziende di Diego Paciello e Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2025 Il 31 ottobre la scadenza per presentare agli istituti richiesta di credito d’imposta, entro il 15 novembre atti al Dap. Dopo un mese definiti gli importi. Tre scadenze: il 31 ottobre, la prima, e poi 15 novembre e 15 dicembre. Si rinnova così attraverso queste date l’appuntamento annuale per le aziende che intendono assumere lavoratori sottoposti a carcerazione. Una possibilità introdotta dalla “legge Smuraglia” (legge n. 193 del 2000) che prevede alcune agevolazioni fiscali e contributive rivolte alle imprese che scelgono di assumere detenuti o internati negli istituti penitenziari, nonché soggetti ammessi al lavoro all’esterno secondo quanto previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, e persone in semilibertà. Il punto di partenza, prerequisito fondamentale, è che per accedere ai benefici fiscali e contributivi l’azienda deve in primo luogo stipulare una convenzione con l’istituto penitenziario di riferimento, garantire un contratto di lavoro subordinato di una durata minima di 30 giorni, assicurando una retribuzione conforme a quanto previsto dai contratti collettivi nazionali. Ma quanti sono i detenuti “lavoratori”? I numeri Attualmente, stando al secondo report “Recidiva zero” realizzato dal Censis per il Cnel, le persone in carcere che possono lavorare sono 21.235; di queste la parte più consistente, ovvero 18.063 persone, lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, il resto invece, pari a 3.172 detenuti, per aziende e cooperative esterne. Fra le tipologie di lavoro in cui sono impegnati i lavoranti detenuti, si registra, dunque, una concentrazione nei servizi d’istituto (il 70,7% è impegnato in questa tipologia), mentre il 5,4% lavora in istituto per conto di cooperative o imprese, il 5,3%, essendo in regime di semilibertà, lavora in proprio o per conto di datori di lavoro esterni e i15% si occupa della manutenzione dei fabbricati. Una ripartizione che fotografa un percorso ancora tutto da compiere, se pur all’interno di un contesto in miglioramento. Negli ultimi vent’anni, dal 2004 al 2024 infatti il numero totale dei detenuti lavoranti è passato da 14.686 (pari al 26,6% dei detenuti) a 21.235 appunto (pari al 34,3%). La disaggregazione dei dati al livello regionale e per tipologia di lavoro segnala, in primo luogo, una maggiore opportunità di lavoro in regioni come il Trentino Alto Adige, con un livello di coinvolgimento sul totale dei detenuti della regione pari al 71,2%, in Friuli-Venezia Giulia (52,5%), in Toscana (50,3%). Più lontano dal dato medio nazionale (34,3%) il tasso di partecipazione di regioni come la Basilicata (23,5%), il Lazio (26,8%), la Campania (26,9%). Se questo è il quadro le misure che fissano un perimetro incentivante rappresentano un aiuto concreto, a partire dal credito di imposta. I benefici fiscali Le imprese che assumono detenuti o internati ai sensi dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, possono cioè ottenere un credito d’imposta per ogni lavoratore assunto, nei limiti del costo per esso sostenuto, di 520 euro mensili, che si riduce a 30o euro mensili in caso di assunzione di semiliberi. Per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo parziale, il credito d’imposta spetta in misura proporzionale alle ore di lavoro prestate. Il credito d’imposta spetta, inoltre, se il rapporto di lavoro è iniziato mentre il soggetto era “ristretto”, per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo per i detenuti e internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno e per i 24 successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti e internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno. Gli stessi sgravi si applicano alle imprese che svolgono attività di formazione a condizione che al periodo di formazione segua l’immediata assunzione per un tempo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione per il quale l’impresa ha fruito dello sgravio. Le scadenze Per poter usufruire del credito d’imposta, le aziende convenzionate con gli istituti devono presentare, entro 31. ottobre di ogni anno, un’apposita istanza alla direzione dell’istituto, indicando l’ammontare complessivo del credito d’imposta di cui intendono fruire per l’anno successivo, includendo nella somma anche il periodo post detentivo e quello dedicato all’attività di formazione. Le direzioni inviano successivamente le istanze ai provveditorati regionali i quali, a loro volta, devono inoltrarle al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria entro il 15 novembre. Quest’ultimo, entro il 15 dicembre, determina l’importo massimo spettante a ogni singolo soggetto richiedente e trasmette all’Agenzia delle entrate l’elenco degli aventi diritto con l’ammontare degli sgravi concessi a ciascuna azienda beneficiaria. L’elenco viene poi pubblicato sul sito www.giustizia.it. I vantaggi contributivi Le aziende, inoltre, possono beneficiare di una riduzione del 95% sia delle quote a proprio carico sia di quelle a carico dei lavoratori relative alle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale e assistenziale dovute ai detenuti o internati assunti. Tali sgravi contributivi si applicano anche per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore assunto per i detenuti e internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno - a condizione che l’assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno - e per i 24 successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno sempre a condizione che il rapporto di lavoro sia iniziato mentre la persona era in carcere. Il rimborso degli oneri derivanti dalla riduzione della contribuzione è effettuato sulla base di apposita rendicontazione da presentare all’Inps, che provvede al riconoscimento del rimborso in base all’ordine cronologico di presentazione delle domande da parte dei datori di lavoro. Quando il lavoro entra nelle carceri e i detenuti in azienda di Giulia Poetto La Stampa, 20 ottobre 2025 Fondazione Industriali e le visite nelle case di reclusione. Sottoscritto un protocollo dalla natura “rivoluzionaria”. Portare il lavoro in carcere, e i detenuti fuori dal carcere per lavorare, è forse la sfida più difficile, e al tempo stesso più stimolante, della Fondazione Industriali. Il grado di complessità la Fondazione l’ha percepito nei mesi scorsi, in cui si è prodigata affinché il protocollo d’intesa sottoscritto il 25 febbraio nella casa circondariale di Cuneo diventasse operativo. Quel giorno Mario Antonio Galati, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, aveva sottolineato la natura rivoluzionaria del protocollo: “Noi finora abbiamo offerto delle opportunità lavorative importanti nei nostri istituti, ma il protocollo porterà con sé un’abitudine nuova, quella a rendere la propria giornata attiva in funzione di calcoli imprenditoriali, non assistenziali”. Galati aveva anche rimarcato come, oltre al carattere del dare e avere di ogni rapporto di lavoro, il lavoro in carcere abbia un valore aggiunto, quel ritorno sociale dato dall’imprenditore che investe, e del detenuto che investe su se stesso. Se il ritorno non è soltanto economico, ma anche sociale, il modus operandi è al 100% imprenditoriale, concreto, cinico, orientato al risultato e basato sui numeri. Proprio due numeri, il tasso di recidiva del 70% della popolazione carceraria e quello del 2%, se si guarda solo ai circa 20 mila detenuti che lavorano, esplicitano quanto sia attuale la mission della Fondazione Industriali, che risponde a quella tensione alla rieducazione del condannato descritta nell’articolo 27 della Costituzione. In questa fase iniziale il focus è stato ed è sul portare il lavoro in carcere, più avanti ci si concentrerà sul far uscire i detenuti dal carcere per lavorare. Il 25 febbraio, dopo la firma del protocollo, gli imprenditori presenti hanno visitato la casa circondariale di Cuneo, toccandone con mano l’esiguità degli spazi che, unita al tipo di popolazione carceraria, la rende la struttura della Granda in cui è più complicato proporre progetti lavorativi di lungo periodo. Nei mesi successivi, non con i tempi dell’imprenditore, ma con quelli del sistema carcerario, si sono susseguite le visite alle strutture di Alba, Saluzzo e Fossano, che hanno permesso di realizzare studi di fattibilità per ciascun carcere, alle quali hanno partecipato imprenditori soci fondatori della Fondazione e non. Proprio uno di questi ultimi, il designer Alberto Olivero, fondatore della “Olivero srl” a Sommariva Bosco, attiva nel settore della pelletteria di lusso, dopo il sopralluogo alla casa di reclusione “Rodolfo Morandi” di Saluzzo, nel quale è stato impressionato dalla qualità dei manufatti prodotti dai detenuti nel laboratorio di sartoria sotto la supervisione dell’associazione Liberi Dentro, ha deciso di portarvi parte della produzione, partendo dai semilavorati - piccole cuciture, rifiniture - e dal premontaggio di minuterie. E di mettersi in gioco anche come docente, ruolo che ricopre allo Ied di Torino: “Credo molto in questo progetto, perché è in linea con il mio business model “3P”, People-Profit-Planet, e se in futuro ci fosse l’opportunità di offrire un impiego a qualche detenuto nella mia azienda, ci penserei seriamente. Il mio è un lavoro con e attraverso le persone, e ritengo giusto dare una seconda chance a chi ha commesso un errore”. Ad Alba, invece, presso la casa di reclusione “Giuseppe Montalto”, ancora alle prese con una lunga serie di cantieri, grazie alla collaborazione con l’istituto superiore Umberto I di Alba il noccioleto oggi abbandonato a se stesso verrà rivitalizzato e reso nuovamente produttivo. A questa prima fase rivolta agli studenti seguirà quella industriale, della lavorazione e della trasformazione del prodotto, nella quale dovrebbe inserirsi l’azienda Sebaste di Gallo d’Alba. Nella struttura albese e in quelle di Saluzzo e Fossano è operativa la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri onlus, ente capofila dei progetti regionali legati alla formazione in carcere. “Con loro stiamo attivando un tavolo tecnico in cui condividere le esigenze di formazione delle nostre aziende per far sì che la loro offerta didattica sia sempre più efficace - spiegano da Fondazione Industriali -. Un esempio? I professionisti in grado di lavorare sui quadri elettrici sono molto richiesti, e questo è un tipo di lavorazione che si può gestire bene in carcere, quindi è opportuno creare profili in questo ambito”. Oltre all’impegno nel portare il lavoro in carcere e i detenuti a lavorare in azienda, nel suo primo anno di vita la Fondazione Industriali è stata tra i soci fondatori dell’Associazione Articolo 27 insieme a Panaté Società Benefit, LaGemma Venture e La Strada Cooperativa Sociale. La nuova associazione, della quale Giuliana Cirio, presidente di Fondazione Industriali, è presidente onoraria, ha tra i suoi obiettivi rendere il festival Articolo 27 Expo, la cui terza edizione si è tenuta a Cuneo dall’11 al 14 settembre, un evento scalabile e dal respiro sempre più nazionale. Giustizia e riforme: serve neutralità vera di Orazio Abbamonte Il Roma, 20 ottobre 2025 È davvero segno dei tempi che vengano invitate delle scolaresche in tribunale per sensibilizzarli sulla posizione politica della magistratura associata nei confronti di una riforma costituzionale dello Stato. L’adunata era stata convocata per lo scorso sabato pomeriggio dalla sezione distrettuale napoletana dell’Associazione nazionale dei magistrati per discutere, nella cornice della prestigiosa sede dell’Arengario presso il Palazzo di giustizia, della riforma costituzionale in atto - ormai si è all’ultimo passaggio, previsto per il 28 ottobre in Senato. In questo contesto avrebbe dovuto trovare adeguato spazio anche la presentazione del Comitato per il no alla riforma animato da due locali magistrati, il tutto al cospetto di insegnanti e scolaresche, sensibilizzate, sembra, addirittura dalla Direzione Scolastica Regionale, come si trattasse di un evento formativo e non di un’occasione d’autentica propaganda. In realtà, considerato il parterre, tutto schiettamente schierato per il no alla riforma, non v’è dubbio che non si sarebbe trattato d’un dibattito formativo di coscienze, bensì d’un’opportunità per propagandare la posizione più conservatrice della Magistratura: quella alla quale non va che anzitutto che s’elimini, attraverso il meccanismo del sorteggio, la politica dall’elezione del Csm; e poi che si distinguano i ruoli del pubblico ministero da quelli di chi è chiamato a giudicare delle accuse che questi cotesta in qualità di titolare della pubblica accusa, e sostiene in giudizio, in qualità di parte. Ma prim’ancora delle idee di codesta magistratura associata, a lasciar sconcertati è che si fosse pensato ad una manifestazione dallo squisito contenuto politico - l’opposizione ad una modifica della Costituzione voluta da una maggioranza politica, legittimata dal voto, che in democrazia, una volta rispettate le regole procedurali, è l’unico elemento di validazione - caricata per di più di impliciti (?) toni antigovernativi, scegliendo di svolgerla nel contesto del Palazzo di giustizia, dove quei giudici esercitano quotidianamente il loro lavoro, ‘sottoposti solo alla legge’, che così decisamente oggi contestano. È una cosa grave, perché nella vita sociale la dimensione simbolica ha decisiva rilevanza. Un grande sociologo e profondo conoscitore delle psicologie individuali e collettive, Gregory Bateson, ha parlato, a proposito di certi luoghi, oggetti, o vestiari, di ‘segna contesto’. Vale a dire condizioni in presenza delle quali è favorita la condivisione e ricezione del messaggio: lo ha fatto ad esempio a proposito di troni e toghe, ma un tribunale con dentro magistrati che affermano, discettano, asseriscono con dogmatica determinazione, non è diverso, anzi. Ora, è davvero segno dei tempi che vengano invitate delle scolaresche in tribunale, non per assistere al mistero del processo e per comprendere come vanno le cose quando si viola la legge, bensì per sensibilizzarli sulla posizione politica della magistratura associata nei confronti di una riforma costituzionale dello Stato. È qualcosa di molto serio che si pensi di adibire la sede giudiziaria a simili finalità, in sostanza per una rappresentazione negativa di un’altra istituzione dello Stato che sta operando nel pieno rispetto delle regole costituzionali e dei principi della democrazia. Dunque, nel rispetto di quelle regole che anzitutto la magistratura è chiamata ad assicurare nel suo quotidiano operare. Scoppiate le polemiche grazie ad alcuni articoli di stampa e soprattutto del Dubbio, la Magistratura ha corretto il tiro ed ha spostato il focus più in generale sui problemi della giustizia. Ma si tratta semplicemente di una virata furbesca, che non cambia affatto i termini della questione e le intenzioni, chiaramente leggibili dal programma dell’incontro in precedenza fatto circolare e dall’aria che si respirava. L’intenzione che si perseguiva e che non è sfuggita a nessuno, non riguarda il tribunale, bensì la politica, una sfera che i magistrati non possono - in quanto tali - cavalcare, perché è affatto estranea, anzi contraria ai propri obblighi d’imparzialità e neutralità: esattamente quello che è invece la politica, fatta d’interessi, di posizioni di parte, di ricerca di sintesi nei conflitti che non possono trovare soluzione alla stregua del diritto vigente. Nulla esclude che un magistrato partecipi ad un dibattito, usando i toni moderati e misurati che sono propri della sua funzione; ma è del tutto improprio che all’interno d’un tribunale, la magistratura associata organizzi una manifestazione con obiettiva potenzialità propagandistica, in cui possano veicolarsi messaggi contro l’attività del parlamento repubblicano, impegnato nella difficile opera di riforma di un sistema che ha dato plurime prove di gravissime deviazioni, di abusi della funzione accusatoria, talora anche culminati - ovviamente, assai di rado - in sentenze di condanna ed indagini nei confronti di pubblici ministeri. Quanto al merito della questione, è davvero molto difficile comprendere come un corpo dello Stato assuma di voler essere indipendente e soggetto alla sola legge e, ad un tempo, si ribelli ad una riforma che vuol sottrarre al gioco correntizio (un gioco di deteriore politica, nemmeno animato da idealità elevate, bensì dalla corsa all’accaparramento delle più prestigiose ed influenti cariche magistratuali) l’elezione dei membri del Csm; e vuol anche distinguere il corpo dei giudicanti, auspicabilmente terzo e neutrale, da quello degli accusatori, per forza della funzione svolta, indirizzato a prendere posizione contro qualcuno sulla base di convinzioni raggiunte. Ma questo attiene al merito dell’attuale dibattito, per dir così. La forma, quella che si era immaginata all’interno del Tribunale, e poi apparentemente corretta, è cosa diversa e più grave: anche perché le forme sono estremamente eloquenti delle mentalità che ad esse danno vita: detto in altri e meno filosofici termini, chi si comporta in un certo modo già mostra d’esser fatto in una certa maniera. Certo, dietro le forme ci si può anche nascondere, come mi pare sia avvenuto sabato; ma la sostanza emerge paradossalmente anche più forte, essendo noto che l’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù: fingendo di crederle. Quando Andrea Camilleri scrisse sulla giustizia in Italia: “Mai vista una guerra così feroce” di Andrea Camilleri Corriere della Sera, 20 ottobre 2025 Camilleri nella prefazione al libro di Gian Carlo Caselli aveva analizzato con lucidità disarmante la crisi della giustizia italiana, tra leggi ad personam e attacchi sistematici all’ordine democratico. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore Gian Carlo Caselli, parte della prefazione al suo libro “Assalto alla giustizia” (Melampo editore) a firma di Andrea Camilleri. Il grande scrittore siciliano è nato cent’anni fa, nel settembre il 6 settembre del 1925, ed è morto il 17 luglio del 2019. Per quanto mi ci metta d’impegno, non riesco nemmeno lontanamente a immaginare la faccia che farebbero i grandi filosofi che nel corso dei secoli hanno discettato, discusso, litigato sul grande tema della Giustizia, su cosa sia e su come si applichi, nel confrontare le loro convinte, sofferte, affermazioni con quelle proclamate oggi, in Italia, dai banchi del Governo e del Parlamento, col pronto supporto di ben stipendiati pennivendoli e volenterosi azzeccagarbugli. Scriveva per esempio Aristotele: “poiché il trasgressore della legge è ingiusto, mentre chi si conforma alla legge è giusto, è evidente che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto, infatti le cose stabilite dal potere legislativo sono conformi alla legge e diciamo che ciascuna di esse è giusta”. Non poteva neanche lontanamente sospettare, mentre scriveva quelle parole, che sarebbe ahimè venuto un giorno nel quale sarebbe stato concesso a un abituale, sistematico trasgressore della legge, il potere di fare emanare leggi del tutto ingiuste e perciò conformi non a un’idea assoluta di Legge ma a una riduzione, a un declassamento della legge ad uso e consumo personale. E che dire di Hume per il quale il fine e l’utilità della Giustizia consistevano soprattutto nel “procurare la felicità e la sicurezza di tutti, conservando l’ordine sociale?”. Non avrebbe creduto ai suoi occhi vedendo che da noi, nel nostro Parlamento, nel nostro Senato, si cerca quotidianamente di stravolgere la Giustizia per procurare felicità e sicurezza a un uomo solo senza preoccuparsi di mettere a repentaglio se non l’intero ordine sociale, perlomeno il normale svolgimento della Giustizia per tutti gli altri cittadini. In ogni nazione progredita è del tutto pacifica l’affermazione che la Giustizia sia il primo requisito delle istituzioni sociali così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. In Italia, dall’avvento del potere di Berlusconi, si è tentato in tutti i modi di limitarne le funzioni o addirittura di disconoscerne il valore di primo requisito. Mai, nei 150 anni della nostra Storia, c’era stata una così violenta, distruttiva, totalizzante, vera e propria guerra alla Giustizia mossa su molteplici fronti e adoperando tutti i mezzi leciti e soprattutto illeciti, dalle frecciate quotidiane della calunnia, del dileggio, dello scherno, alle mine antiuomo delle dissennate proposte di leggi tendenti sostanzialmente all’assoggettamento della Giustizia alla politica, o meglio all’interesse politico di una sola persona. Aver permesso a Berlusconi, imprenditore e concessionario dello Stato, di fare politica quando non avrebbe per legge potuto, ha creato la gigantesca anomalia del mai risolto conflitto di interesse. Il che gli ha permesso di tornare ad arricchirsi, a riprendersi dallo stato estremamente critico in cui la sua azienda si era venuta a trovare prima della sua “discesa in campo”, avvenuta, son parole sue, per allontanare dall’Italia il pericolo comunista. Essendo tra l’altro, al momento attuale, anche plurimputato in diversi procedimenti […], ha tentato, in parte riuscendoci, di far decadere alcuni processi con leggi “ad personam” votate da un Parlamento del quale fanno parte, oltre a impiegati e funzionari delle sue aziende, anche gli innumerevoli suoi avvocati difensori che quelle leggi ispirano. Si è venuta così a creare una seconda nuova, gigantesca anomalia tutta italiana: che un plurimputato si proponga di fare una riforma della Giustizia. Il tutto mentre i suoi processi sono in corso. Così da poterli vanificare con una qualche leggina retroattiva. Sarebbe come se ai vecchi tempi il gangster Al Capone, divenuto inaspettatamente Presidente degli Usa, saputo che correva il rischio di andare a finire in galera per tasse evase, si fosse ripromesso di fare la riforma del sistema fiscale statunitense […]. Si chiude il XXXVI Congresso Forense: mozioni su riforma Cartabia e professione Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2025 Rinnovati i 55 componenti dell’Organismo Congressuale Forense (OCF) per il triennio 2025-2028. Prossimo appuntamento nel 2028 a Milano. Si è chiuso il XXXVI Congresso Nazionale Forense, che per tre giorni ha riunito nel capoluogo piemontese circa 2.500 delegati e congressisti per discutere di giustizia, riforme e intelligenza artificiale. Un confronto ad alta intensità, con la partecipazione di istituzioni, politica e accademia, culminato nella votazione delle mozioni e nel rinnovo dei 55 componenti dell’Organismo Congressuale Forense (OCF) per il triennio 2025-2028. Il presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, ha chiuso i lavori ringraziando “tutti i delegati, la commissione mozioni, l’Ordine di Torino e gli avvocati piemontesi per un confronto di alto livello, proiettato al futuro della professione”. La presidente del Coa torinese, Simona Grabbi, ha ricordato “l’emozione della consegna della toga di Fulvio Croce e il valore simbolico di un Congresso che resterà nella memoria di tutti”. IA e giustizia “umana” - Tra i temi centrali, l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla giustizia e sull’attività forense. L’Avvocatura chiede che la tecnologia resti sotto controllo umano e non sostituisca le garanzie del processo. Le mozioni approvate propongono l’obbligo per i giudici di dichiarare e motivare l’uso dell’IA, pena la nullità del provvedimento, il diritto della difesa a conoscere e contestare gli algoritmi, l’istituzione di un Registro pubblico degli algoritmi e di un’Authority indipendente. Obiettivo: assicurare trasparenza, auditabilità e tutela effettiva del diritto di difesa. Le mozioni sulla Cartabia - Sul fronte delle riforme, il Congresso ha approvato una mozione generale che chiede l’abrogazione della riforma Cartabia per il processo civile o, in subordine, la revisione delle norme più critiche. Tra le richieste: limitare l’abuso della trattazione scritta, ripristinare oralità e immediatezza, e riformare la disciplina delle memorie “a ritroso”. Anche per il processo penale si sollecitano modifiche: abolizione dell’udienza pre-dibattimentale, revisione delle norme sull’assenza dell’imputato e sul mandato del difensore d’ufficio, ampliamento dei termini per l’impugnazione e rafforzamento dell’oralità nei giudizi d’appello e Cassazione. Difesa e processo telematico - Ampio spazio alle garanzie difensive e al segreto professionale, da tutelare anche nell’era digitale. Sotto accusa le disfunzioni del processo penale telematico: l’Avvocatura chiede l’eliminazione dell’”atto abilitante”, l’accesso gratuito e immediato ai fascicoli, una piattaforma unica e omogenea per tutti i riti e la fine del “federalismo giudiziario” che genera prassi difformi. Giustizia di pace e patrocinio a spese dello Stato - Forte allarme per la giustizia di prossimità: si invoca una riforma urgente della Giustizia di Pace, con il ritorno alle precedenti competenze per valore, risorse aggiuntive e potenziamento del personale. Sul patrocinio a spese dello Stato, il Congresso propone un’estensione alle ADR, alla negoziazione assistita familiare e alle procedure di sovraindebitamento, oltre a semplificare i pagamenti e uniformare i compensi. Famiglia, minori e ADR - Le mozioni approvate sollecitano una riforma organica del processo di famiglia, con maggiore qualificazione e formazione del Curatore speciale del minore, garanzie nell’ascolto e una piattaforma di monitoraggio degli ausiliari. Rilancio anche per arbitrato e mediazione - Si chiede l’estensione dei poteri degli arbitri, incentivi fiscali per ADR e mediazione, e un rafforzamento della professionalità dei mediatori. Per la negoziazione assistita, si propongono semplificazioni e ampliamento degli effetti giuridici degli accordi. Dignità e compensi della professione - Tra le mozioni più votate, quelle per la tutela della dignità dell’avvocato e dell’equilibrio vita-lavoro: reato di oltraggio all’avvocato, legittimo impedimento esteso a tutti i processi, sospensione feriale tradizionale, parità di genere nei collegi e asili nido negli uffici giudiziari. In materia economica, l’Avvocatura chiede la revisione del contributo unificato, la deducibilità delle spese legali, il riconoscimento delle spese stragiudiziali RCA e l’estensione del titolo esecutivo al parere di congruità del Coa. Innovazione e nuove competenze - Le mozioni spingono per l’ampliamento delle competenze forensi: difesa tecnica obbligatoria in nuovi ambiti, gestione dei testamenti digitali, consulenza su proprietà industriale, e-sport ed eredità digitale. Proposte anche per la trasparenza e rotazione negli incarichi giudiziari, con l’obiettivo di garantire pari opportunità ai giovani professionisti. Altre proposte - Tra i temi specifici: la perentorietà dei termini per i magistrati, la regolamentazione del Fondo Unico di Giustizia, la deducibilità forfettaria per l’uso dell’IA, la creazione del contrassegno digitale per eliminare gli oneri di attestazione di conformità e la definizione di protocolli per la prova digitale. Con la chiusura dei lavori, Torino consegna il testimone a Milano, che ospiterà il prossimo Congresso Nazionale Forense nel 2028. Un appuntamento che, come ha sottolineato Greco, “dovrà continuare a rafforzare l’unità dell’Avvocatura nel difendere i diritti e la giustizia”. Lavoro di pubblica utilità e liberazione anticipata, parola alla Consulta di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2025 Vanno alla Corte costituzionale i dubbi sulla competenza ad applicare la liberazione anticipata sulla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità introdotto dalla riforma Cartabia (decreto legislativo 150/2022). A sollevare la questione di costituzionalità, in un caso di condanna a pena detentiva per detenzione di stupefacenti convertita nel lavoro di pubblica utilità, è il magistrato di sorveglianza di Napoli con l’ordinanza del 9 settembre 2025. Il giudice rimettente dubita della compatibilità con gli articoli 3 e 27, comma 3, della Costituzione del principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità che attribuisce, basandosi su un’interpretazione letterale degli articoli 69 e 69-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (357/1975), al magistrato di sorveglianza la competenza a decidere sulla liberazione anticipata del condannato alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, previsto dall’articolo 20-bis del Codice penale. Anche a questa pena sostitutiva si applica, infatti, in quanto compatibile, l’articolo 47 comma 12-bis dell’ordinamento penitenziario, in base al quale al condannato ammesso a misura alternativa che abbia dato prova nel periodo di affidamento di un suo concreto recupero sociale, può essere concessa la detrazione di pena della liberazione anticipata (regolata dall’articolo 54 della legge ordinamento penitenziario). La riforma non ha però precisato quale sia l’autorità giudiziaria competente a concedere la liberazione anticipata al condannato nel caso del lavoro di pubblica utilità. A questa lacuna ha supplito la Cassazione, che ha stabilito - alla luce del tenore letterale degli articoli 69 e 69-bis della legge sull’ordinamento penitenziario - che la competenza a concedere il beneficio appartiene, in via generale e salve espresse deroghe, al magistrato di sorveglianza: è stata quindi affermata, anche in relazione al lavoro di pubblica utilità, la competenza della magistratura di sorveglianza (Cassazione 10302 del13 marzo 2025 e18955 del 21 maggio 2025). La soluzione è parsa, tuttavia, da subito poco lineare. La stessa Cassazione, nella sentenza 10302/2025, ha evidenziato come “esigenze sistematiche (...) avrebbero consigliato una concentrazione della competenza, anche in relazione alla concessione della liberazione anticipata, in capo al giudice dell’esecuzione “, ossia al medesimo organo giurisdizionale che ha applicato la pena sostitutiva; è infatti il giudice dell’esecuzione (in base agli articoli 63, 64e66 della legge 689/1981) a decidere sulle questioni relative allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, come ad esempio sulla modifica delle prescrizioni o sulla revoca della misura. Secondo il giudice rimettente, mentre con riferimento alle pene della semilibertà sostitutiva e della detenzione domiciliare sostitutiva, la riforma del 2022 afferma espressamente la competenza esecutiva del magistrato di sorveglianza, con riguardo al lavoro di pubblica utilità sostitutivo, per l’esecuzione è stabilitala competenza del giudice. Questa differenza si riverbera sulla valutazione dell’adesione al percorso rieducativo effettuato dal condannato, che - seguendo la tesi prevalente nel diritto vivente - dovrebbe essere valutato da un giudice (il magistrato di sorveglianza) che per ogni altro profilo resta escluso dalla gestione della misura. Si genererebbe così un’aporia sistematica difficilmente giustificabile con il mero riferimento alla formulazione letterale degli articoli 69e 69-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Al punto, osserva il rimettente, che la mancata modifica di queste norme da parte della riforma Cartabia appare dovuta più a una dimenticanza che a una scelta di sistema. La parola passa ora alla Consulta. Avellino. Tragedia in carcere ad Ariano: detenuto suicida in cella di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 20 ottobre 2025 Indagini in corso, salma trasferita in obitorio a Benevento. Un detenuto di nazionalità nigeriana è stato rinvenuto cadavere in cella all’interno del carcere Pasquale Campanello di Ariano Irpino. La scoperta è stata fatta all’alba dagli agenti. Il giovane, di 29 anni si è tolto la vita impiccandosi. Quando sono stai allertati i soccorsi, non vi era ormai più nulla da fare. Sul posto il personale di polizia penitenziaria che ha subito allertato la direzione. Sconosciuti i motivi del tragico gesto. Indagini in corso da parte degli inquirenti. La salma recuperata dall’impresa di onoranze funebri Lo Conte, è stata trasferita nell’obitorio dell’ospedale Rummo di Benevento su disposizione della magistratura per gli accertamenti medico legali. Un bilancio drammatico nel 2025. 66 suicidi nelle carceri italiane. Elenco aggiornato allo scorso 11 ottobre. Una “carneficina”, come l’ha definita più volte il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. A denunciare la gravità della situazione è Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che parla di “un bilancio che si avvicina a un bollettino di guerra”. Secondo il sindacato, nella struttura di Ariano Irpino si contano 286 detenuti a fronte di 216 posti disponibili, un sovraffollamento del 32%. Gli agenti, invece, sono solo 141, quando ne servirebbero almeno 231: una carenza del 39%. Una condizione che riflette, sottolinea De Fazio, l’emergenza diffusa in tutto il sistema penitenziario italiano, dove i reclusi sono oltre 63mila a fronte di meno di 47mila posti e mancano più di 20mila unità di Polizia penitenziaria. La Uilpa chiede “provvedimenti urgenti per ridurre il sovraffollamento, potenziare gli organici, garantire assistenza sanitaria e avviare una riforma complessiva del settore”. De Fazio critica inoltre alcune misure previste nella bozza della legge di bilancio, definite “parziali e propagandistiche”. “Serve una svolta immediata”, conclude. Napoli. Morte in carcere di Alhagie Konte, il caso arriva in Parlamento di Antonio Musella fanpage.it, 20 ottobre 2025 Avs presenta una interrogazione al Ministro Nordio sul caso del giovane morto di tubercolosi in ospedale e che era detenuto a Poggioreale. Il garante dei detenuti Ciambriello visita la struttura carceraria. Il Movimento rifugiati e migranti prepara un presidio per Alhagie. Aumenta la pressione intorno al caso di Alhagie Konte, un ragazzo di 27 anni originario del Gambia, detenuto nel carcere di Poggioreale a Napoli, e morto all’ospedale Cotugno per una tubercolosi. Il Movimento rifugiati e migranti di Napoli, di cui Alhagie era stato attivista chiede verità sul decesso del loro compagno. Secondo quanto emerso, dopo un periodo di isolamento, Konte era apparso da subito in uno stato di salute profondamente debilitato. Secondo quanto raccolto dal suo avvocato, avrebbe chiesto assistenza medica ma non gli sarebbe stata data. Sarebbe stato portato in medicheria dai suoi compagni di cella dopo uno svenimento. Da lì il trasporto prima all’ospedale Cardarelli, in Pronto Soccorso e poi all’ospedale Cotugno, specializzato in malattie infettive, dove è poi deceduto sei giorni dopo. Il tema della presunta negligenza nelle cure è arrivato in parlamento, con una interrogazione presentata dai senatori di Avs Ilaria Cucchi, Peppe De Cristofaro e Tino Magni. Il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha compiuto una ispezione in carcere, raccogliendo la denuncia pubblica di compagni e dei familiari di Konate. Intanto la Procura di Napoli ha aperto un fascicolo per accertare quanto è accaduto ad Alhagie, sequestrando la salma e disponendo l’autopsia. Il caso in parlamento, presentata interrogazione - A presentare l’interrogazione al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sono stati i senatori Cucchi, De Cristofaro e Magni. “Alhagie Konte è morto di tubercolosi. Ma questo è solo un pezzo di verità. L’altro pezzo è che Alhagie è morto di carcere. Tra le braccia dello Stato” ha scritto Ilaria Cucchi in un post sul suo profilo Facebook, condividendo una foto di Konte. “Vogliamo sapere se c’è qualcuno che non ha fatto il proprio dovere. Se l’indifferenza ha nomi e cognomi. Se qualcuno ha deciso che la vita di Alhagie valesse meno di niente. E vogliamo sapere se altri detenuti o agenti sono stati contagiati, se sono stati rispettati i protocolli. Altre vite sono in pericolo. E dobbiamo fare il possibile per salvarle” prosegue la Cucchi. Il giovane era un lavorante, veniva considerato quindi dall’amministrazione penitenziaria un soggetto affidabile e non pericoloso, visto che per poter accedere al lavoro in carcere bisogna tenere una condotta eccellente. Ma non solo. I magistrati avevano disposto per lui anche gli arresti domiciliari, ma una volta entrato a Poggioreale il ragazzo aveva perso la residenza e non aveva quindi un luogo per poter svolgere la detenzione alternativa. Quello che sappiamo è che nello scorso mese di luglio Alhagie Konte è finito in isolamento. Una circostanza da chiarire. E sarebbe subito dopo il suo ritorno dall’isolamento che le sue condizioni di salute sarebbero precipitate, fino alla morte in ospedale. La domanda che tutti si pongono ora è se la vita di Alhagie Konte si poteva salvare. Ha ricevuto cure in carcere? Sono questi gli interrogativi che l’indagine della Procura della Repubblica di Napoli dovrà chiarire. Il garante dei detenuti visita Poggioreale - Allertato dai legali e dai compagni di Alhagie, il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha svolto una ispezione all’interno del carcere di Poggioreale. “Dall’inizio dell’anno si sono verificati 2 suicidi, 25 tentativi di suicidio, 202 atti di autolesionismo, 3 decessi per cause da accertare e 9 decessi per cause naturali” riferisce Ciambriello in una nota. “In riferimento al decesso del giovane gambiano, ho scritto al Provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria, al Direttore del Carcere di Poggioreale ed al Direttore Sanitario dello stesso per chiedere informazioni sulla vita del detenuto durante la detenzione, se soffrisse di patologie, se vi fossero possibilità che il virus tubercolosi fosse già incubato nel soggetto senza però ricevere una diagnosi. In considerazione del fatto che i suoi compagni di cella mi hanno riferito che soffriva da tempo di dolori, tossiva, perdeva sangue dalla bocca. I 5 compagni di cella sono stati testati con analisi specifiche risultando negativi al virus tubercolosi, ma il giovane morto era un lavorante, in questo senso ho chiesto alle autorità competenti se le aree frequentate dal detenuto siano state sanificate, disinfettate e se, alcuni detenuti in contatto con Konte Allhagie siano stati testati”. Il rischio di contagio è una delle tante circostanze da verificare intorno alla morte di Konte. Alhagie si trovava al padiglione Salerno, ed è lì che svolgeva la sua attività di lavorante, venendo inevitabilmente a contatto con molti altri detenuti e con il personale della polizia penitenziaria. Nella sua visita nell’istituto penitenziario napoletano, Ciambriello ha sottolineato il sempre crescente sovraffollamento della struttura, le condizioni igienico sanitarie, e le condizioni di almeno un altro detenuto, malato di Talassemia. “Il carcere è un buco nero. Il carcere è una bomba ad orologeria. La politica tace, fa solo passerelle! Ma mi auguro che possa intervenire al più presto la Procura di Napoli e la stessa Magistratura di Sorveglianza, oltre all’ ASL di riferimento” conclude Ciambriello. Intanto il Movimento rifugiati e migranti di Napoli sta preparando per la prossima settimana un presidio al carcere di Poggioreale per chiedere verità e giustizia per Alhagie. Treviso. “A 15 anni ho ucciso un uomo, ora sono pentito e voglio ripartire: non abbandonateci” di Mauro Favaro Il Gazzettino, 20 ottobre 2025 Il racconto di un carcerato a Santa Bona nella giornata del Giubileo dei detenuti. “A 15 anni ho ucciso un uomo. So di aver sbagliato, mi sono pentito. E adesso continuo a coltivare la speranza di poter riprendere in mano la mia vita nel migliore dei modi una volta fuori da qui”. È stata questa, in sintesi, la toccante testimonianza di un uomo che si trova nel carcere di Santa Bona. Ieri ha preso il coraggio a due mani e in occasione del Giubileo dei detenuti, davanti al vescovo Michele Tomasi, al direttore Alberto Quagliotto e al sindaco Mario Conte, ha letto una lettera nella quale ha ripercorso la sua vita, tra cadute e tentativi di rialzarsi. Il detenuto si è rivisto ragazzino in Albania, dov’è nato. All’epoca aveva iniziato a frequentare un gruppo di adulti, tutti sui quarant’anni, che si comportavano in modo violento. “Mi picchiavano - ha raccontato - e un giorno, esasperato, ho ammazzato uno di loro”. Dopo l’omicidio, è stato fermato dalle forze dell’ordine. E di seguito è arrivata la condanna. A quel punto per lui, poco più che 15enne, si sono aperte per la prima volta le porte del carcere. Ha scontato la pena in Albania. Uscito dalla cella è salito a bordo di una barca ed è arrivato in Italia. Erano gli anni dei “viaggi della speranza” tra le due sponde dell’Adriatico. Le cose qui, però, non sono andate tanto meglio. “Ho continuato a delinquere e sono tornato in carcere - continua l’uomo - so che la famiglia della persona che ho ucciso quando ero un ragazzino mi ha perdonato. Sono consapevole di aver commesso un grosso errore. Ma so anche quanto mi sono impegnato in questi anni, quanto lavoro ho fatto su me stesso e quanto il carcere mi abbia permesso di capire quello che avevo fatto”. “Spero che un giorno, una volta fuori - conclude - possa avere anch’io la speranza di una vita che continui, senza muri e porte chiuse in faccia”. Non è stata l’unica testimonianza risuonata ieri nella casa circondariale di Santa Bona. Un altro detenuto ha ricordato il momento in cui è entrato in cella. “Una porta che si chiude alle spalle e che ti lascia una sensazione di freddo, di ghiaccio - le sue parole - il trauma dell’allontanamento dalla famiglia, dal lavoro, dalla vita di tutti i giorni. Tutto ciò si trasforma in smarrimento, rabbia, confusione, abbandono, quasi in un senso di terrore. Si è spenta ogni luce”. “Quella stessa porta che si chiude dietro alle nostre spalle - aggiunge - si chiude anche davanti alle nostre famiglie, ai nostri affetti, al nostro futuro, alla società. Separa persone, sentimenti e speranze”. Ma si può trovare la forza per ripartire, preparandosi ad attraversare la stessa porta, stavolta in senso contrario, una volta scontata la pena, per tornare nel mondo di fuori. “Per poterlo fare abbiamo bisogno di non essere lasciati soli, di essere riconosciuti, di essere accompagnati nella ricostruzione di quel mondo essenziale fatto di opportunità - tira le fila un altro detenuto - per molti di noi le opportunità sono difficili anche solo da immaginare, quando si esce soli con il sacco in mano, spesso senza più un posto dove andare, senza la presenza di qualcuno capace di riconoscere la nostra voce”. Vigevano (Pv). Carcere, continuano i lavori per la nuova sezione 41-bis di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 20 ottobre 2025 Al carcere dei Piccolini è stata abbattuta una parte del muro di cinta per permettere l’ingresso agli automezzi della Tecnoedi Costruzioni s.r.l. di Cirié (Torino). È il segno della nuova fase dei lavori per riconvertire la casa di reclusione di via Gravellona 240. La struttura sarà infatti riconvertita in sezione 41-bis, il cosiddetto “carcere duro”. Per permettere agli operai di lavorare senza continui controlli, è stato innalzato un secondo muro interno: gli automezzi varcheranno quindi il varco realizzato sulla cinta originale - che rimarrà comunque perennemente sorvegliato - e lasceranno gli automezzi tra le due mura. Da lì si occuperanno dei lavori di manutenzione straordinaria e adeguamento, indispensabili per accogliere i detenuti sottoposti al regime speciale previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. I lavori riguardano il blocco principale del penitenziario, che diventerà la sezione vera e propria del nuovo 41-bis, cui se ne aggiungerà una seconda, in fase di costruzione, praticamente confinante, nella parte retrostante, verso la campagna. Lì ci sarà quindi un nuovo edificio, che, a quanto pare, diventerà il polo sanitario dei detenuti al 41-bis. Voci molto qualificate riferiscono che i detenuti cosiddetti “comuni” vengono mano a mano trasferiti in altre carceri, resteranno quindi a Vigevano solo i detenuti sottoposti al cosiddetto “articolo 21”, quelli che possono essere assegnati al lavoro all’esterno e che qui a Vigevano vengono impiegati soprattutto in Asm Isa, la società municipalizzata che si occupa di pulizia strade e raccolta rifiuti, e quelli in regime di regime di semilibertà. Questi detenuti saranno collocati all’interno dell’ex sezione femminile. Per quanto riguarda, infine, il direttore del carcere, al momento non c’è ancora una nomina. L’incarico resta ancora assegnato a Rosalia Marino, che però è stata trasferita al carcere di Opera. Il nuovo direttore arriverà non appena termineranno gli interpelli, ovvero quelle procedure che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) usa per raccogliere le manifestazioni d’interesse da parte di dirigenti penitenziari. Il prossimo dovrebbe concludersi a gennaio. Massa Carrara. Il futuro e il lavoro oltre le sbarre. Corsi per barbieri dentro il carcere La Nazione, 20 ottobre 2025 Un percorso durato 50 ore e condotto in estate al termine del quale sono stati rilasciati 14 attestati. L’iniziativa è stata portata a termine in collaborazione tra il Cpia 1 di Massa e l’agenzia Master formazione. Un’iniziativa che si proietta verso il futuro, accendendo più di una luce. Al termine dell’anno scolastico 2024-2025, durante il periodo estivo, grazie alla collaborazione tra il CPIA 1 di Massa Carrara, diretto dal professor Emilio Di Felice, l’area educativa della casa di reclusione di Massa, rappresentata dalla dottoressa Elena Ghiloni, e l’Agenzia Formativa Master Formazione, è stato possibile attivare un corso di barbiere all’interno del carcere, su richiesta di alcuni detenuti. Il percorso formativo, 50 ore di lezioni teoriche e pratiche concluso con un attestato finale - ne sono stati rilasciati ben 14 - ha permesso di sperimentare le competenze acquisite, misurandosi con gli strumenti del mestiere. Visto il successo e le numerose richieste ricevute, la direzione della casa di reclusione diretta da Antonella Venturi, auspica di poter ripetere esperienze analoghe anche in futuro. Tali progetti rappresentano un’importante opportunità non solo per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, offrendo loro competenze spendibili una volta scontata la pena, ma anche per rendere più significativo e costruttivo il tempo trascorso in istituto, soprattutto in estate, quando le attività scolastiche sono sospese. La direzione ringrazia il CPIA 1 di Massa Carrara per la collaborazione e per l’impegno costante nel promuovere percorsi di formazione e integrazione. Il CPIA, scuola pubblica radicata sul territorio provinciale, da anni si distingue per la sua offerta didattica diversificata: dai corsi di alfabetizzazione linguistica all’ex scuola media, fino al primo biennio delle scuole superiori serali, fondamentali per chi desidera riprendere gli studi interrotti e costruire nuove opportunità per il futuro. Il CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) è un’istituzione che offre percorsi formativi per adulti e persone che non hanno completato il ciclo dell’istruzione obbligatoria. Svolge la sua attività su tutto il territorio della provincia, con sedi in diversi Comuni come Carrara, Massa, Montignoso, Aulla e Pontremoli oltre alla casa di reclusione di Massa e all’Istituto Penale Minorile. Le principali attività formative Carrara includono: corsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana (livelli A1, A2) destinati in particolare a cittadini stranieri che vogliono acquisire competenze base nella lingua italiana; istruzione di primo livello (primo periodo): percorsi per ottenere la certificazione delle competenze di base legate all’obbligo scolastico (equivalenti alla licenza media); istruzione di primo livello (secondo periodo): corsi che consentono l’acquisizione progressiva delle competenze utili ad accedere a percorsi serali degli istituti superiori della zona. La sede amministrativa principale è in via Marconi 11 a Carrara in località Pontecimato. Le iscrizioni si effettuano nelle diverse sedi oppure online dal sito ufficiale della scuola; per gli alunni minorenni solo direttamente nella sede di Carrara. Como. Detenuta trans non può lavorare perché nei documenti anagrafici la sua identità è maschile di Giulia Ghirardi fanpage.it, 20 ottobre 2025 “La mia doppia prigionia, tra pena e identità negata”. Il carcere Bassone di Como è uno dei pochi in Italia ad avere una sezione dedicata alle persone che stanno affrontando un percorso di transizione di genere. Tra queste c’è anche Elisa, detenuta trans alla quale non è permesso lavorare all’esterno. Attraverso la sua storia Fanpage.it vuole evidenziare quanto, ancora oggi, il sistema penitenziario italiano sia arretrato e, di fatto, inadeguato nella tutela dei diritti delle persone trans. Nel carcere del Bassone, a Como, esiste una piccola sezione dedicata alle persone che stanno affrontando un percorso di transizione di genere. Lì è reclusa Elisa (nome di fantasia), una donna trans detenuta che, nonostante la buona condotta e la disponibilità al lavoro, si trova oggi intrappolata in una sorta di limbo giuridico e identitario. Il caso è stato segnalato a Fanpage.it che ha deciso di dare spazio alla sua storia per affrontare una situazione che esiste in molte carceri italiane che si dimostrano ancora impreparate e - di fatto - molto indietro sul tema della tutela dei diritti civili e delle persone che stanno affrontando un percorso di transizione di genere. Ma facciamo un passo indietro. Secondo il il diciottesimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, presentato da Antigone nel 2022, sarebbero soltanto 12 su 189 (3,7 per cento) gli istituti penitenziari in grado di accogliere persone che affrontano un percorso di transizione di genere con una sezione loro dedicata. Un dato allarmante che dimostra quanto il sistema carcerario italiano sia ancora impreparato a tutelare adeguatamente le persone trans, esponendole a condizioni di isolamento, discriminazione e vulnerabilità. Una rigidità normativa che ha ricadute dirette anche sul percorso di reinserimento sociale che, secondo le legge, dovrebbe essere garantito a ogni detenuta e detenuto. Nelle poche sezioni dedicate alle persone trans, infatti, le opportunità di accedere al lavoro, alla formazione e alle misure alternative - come la semi-libertà o l’affidamento in prova - risultano spesso limitate o del tutto assenti. E nonostante le raccomandazioni del Comitato Europeo, la regola vigente in Italia rimane rigida: chi non ha concluso la transizione resta confinato in queste sezioni dove il numero ridotto di detenuti e la marginalità della struttura rendono difficile attivare programmi individualizzati e - di fatto - finiscono per ghettizzare chiunque si trovi ad affrontare un percorso di transizione al suo interno. Così, però, il risultato è una doppia discriminazione: da un lato l’impossibilità di accedere agli stessi diritti e percorsi offerti agli altri detenuti, dall’altro, il rallentamento - se non l’interruzione - di quel processo di reintegrazione sociale che è il fine al quale deve tendere la pena di ogni detenuta e detenuto. O, almeno dovrebbe, secondo la Costituzione. Il 27 giugno scorso, l’associazione Nessuno tocchi Caino, la Camera Penale di Como e Lecco e alcuni membri del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Como e di Lecco hanno organizzato una visita alla Casa Circondariale di Como. Da tale visita è nato un report che, partendo da un’analisi sul tasso di sovraffollamento all’interno dell’Istituto stimato intorno al 192 per cento, ha analizzato le condizioni generali che esistono all’interno del carcere. Tra i diversi casi, che sono stati segnalati, c’è anche quello di Elisa, una detenuta trans reclusa nella III sezione a trattamento avanzato. Elisa ha già scontato due terzi della pena e sta seguendo il percorso previsto dalla Legge sull’ordinamento penitenziario per il graduale reinserimento nella società. Al momento, la detenuta si trova in regime di “articolo 20”, quella condizione che - detto in altre parole - le permette di lavorare all’interno del carcere e, con il tempo, di accedere a forme di semi-libertà offerte dallo step successivo, il cosiddetto “articolo 21”, che consente alle detenute di svolgere attività lavorativa anche all’esterno dell’Istituto. “Il problema è che, nonostante il personale del carcere riconosca la buona condotta di Elisa, le viene negato proprio il passaggio all’articolo 21”, ha spiegato a Fanpage.it l’Associazione Nessuno tocchi Caino. “Il motivo? Il suo documento anagrafico che riporta ancora il nome e il genere maschile della nascita e questo, stando alle regole vigenti in Italia, rimane un impedimento all’accesso a queste forme di semi-libertà che vengono garantite soltanto con l’arrivo dei nuovi documenti”. Un ostacolo burocratico, dunque, che si traduce in una forma di esclusione concreta perché Elisa non può essere trasferita nella sezione femminile e, al tempo stesso, non può godere delle opportunità che spetterebbero a chi dimostra di “meritare” un graduale reinserimento nella società. Eppure, le raccomandazioni del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura sono chiare: “Una persona trans deve poter essere collocata nella sezione del genere a cui sente di appartenere, anche se i documenti non sono ancora aggiornati”, ha ribadito l’Associazione. Una possibilità che, però, in Italia resta inascoltata. Perché, per farlo, servirebbe attivare un percorso speciale, ad hoc per ogni persona. “Attivare percorsi di questo tipo non è semplice. Al tempo del mio incarico, il carcere sosteneva di non poterle garantire un percorso individualizzato finché non avesse completato la transizione”, ha raccontato a Fanpage.it Alessandra Gaetani, ex Garante dei detenuti di Como. “In realtà ci sarebbero stati spazi adattabili per attuare questo programma prima della fine della transizione di Elisa, ma, a causa della carenza di organico, mancava il personale che è necessario in questi casi”. Infatti, come emerge dalla Relazione di fine mandato di Gaetani redatta a giugno 2025, la situazione fotografata al Bassone sarebbe quella di un carcere caratterizzato da sovraffollamento, scarsità di agenti e sezioni inadeguate. Il risultato è che Elisa, come molte altre persone trans detenute, si trova a vivere una doppia prigionia: quella della pena e quella dell’identità negata. E non è l’unica, perché in Italia le sezioni dedicate alle persone trans sono poche e spesso isolate, senza reali percorsi di reinserimento o di accesso al lavoro. In più, secondo i dati raccolti dal tavolo nazionale dei garanti territoriali, e nonostante le raccomandazioni del Comitato Europeo, la regola vigente in Italia è ancora molto rigida: chi non ha concluso la transizione resta nella sezione trans o, in mancanza, in quella del genere di nascita. Solo il completamento legale e medico del percorso apre le porte al trasferimento. Si tratta quindi di una norma che, di fatto, esclude chi non ha ancora potuto aggiornare i propri documenti o terminare le procedure sanitarie, spesso per ostacoli economici o burocratici. “E in questa situazione il Garante può solo esercitare una moral suasion”, ha ricordato Gaetani a Fanpage.it. “Ma non ha strumenti concreti per imporre il rispetto dei diritti in queste zone grigie”. Intanto, in un quadro già allarmante, il posto del Garante dei detenuti a Como è vacante da giugno. Un vuoto che pesa, che rende il carcere un luogo ancora più invisibile: una vera e propria dimensione fantasma all’interno della città. Almeno, finché non emerge una storia come quella di Elisa, simbolo di un sistema più ampio che, ancora oggi, finisce inevitabilmente per condannare le persone trans a una doppia prigionia, senza riconoscimento né libertà. Saluzzo (Cn). Il tempo della detenzione si fa “prezioso” di Roberta Barbi vaticannews.va, 20 ottobre 2025 Cinque gioielli tra bracciali e collane realizzati dagli studenti della sezione carceraria del liceo artistico Bertoni della cittadina in provincia di Cuneo, da quattordici anni attiva nella casa di reclusione, hanno vinto un premio al concorso di Arte orafa della prestigiosa Mostra dell’Artigianato di Guardiagrele. La dirigente scolastica: “Per i ristretti la scuola è seconda occasione di vita”. Non poteva esserci tema più azzeccato dell’”intreccio”, per gli studenti ristretti del corso di Design dei metalli interno alla casa di reclusione di Saluzzo, che grazie alla loro fantasia e sapienza nel gestire forme e colori, hanno ottenuto un riconoscimento alla 21.ma edizione del Concorso di Arte orafa nell’ambito della 55.ma Mostra dell’Artigianato di Guardiagrele, in provincia di Chieti. “L’intreccio è anche il tema dominante di tutto il nostro percorso scolastico in carcere che ha sempre fatto attenzione a mantenere un legame tra studenti esterni e interni”, racconta ai media vaticani la professoressa Alessandra Tugnoli, dirigente scolastica del liceo artistico Bertoni di Saluzzo, che da quattordici anni nella casa di reclusione della città tiene un corso di specializzazione in Design dei metalli e del legno. Gli ospiti del carcere maschile di Saluzzo che partecipano a questi corsi scolastici, al termine del percorso possono sostenere l’esame di Stato e ottenere il diploma, esattamente come gli studenti esterni: “Il percorso del nostro liceo artistico è identico dentro e fuori, solo con alcuni adattamenti per i detenuti legati all’età e alle loro caratteristiche peculiari - spiega ancora la preside - essendo una casa di reclusione con molti ristretti per reati associativi e pene lunghe abbiamo prediletto un corso di studi tradizionale in cinque anni e non un percorso specifico per adulti. Al termine, l’unica differenza è che per loro l’esame di maturità si svolge all’interno dell’istituto di pena”. È una strada, quella intrapresa in carcere dal liceo Bertoni, che ha regalato molte soddisfazioni, in primis ai docenti, tanto da far sperimentare formule scolastiche innovative. Quest’anno, ad esempio, in ogni gruppetto di lavoro in carcere erano presenti anche studenti del liceo per così dire ‘ordinario’, compresi alcuni studenti disabili accompagnati dagli insegnanti di sostegno: “In carcere si è creato un clima di inclusione straordinario che definirei familiare - esulta Tugnoli - è stato commovente vedere come questi detenuti adulti si siano saputi rispecchiare nelle fragilità dei nostri studenti”. Così l’interazione tra persone si è trasferita nel lavoro in unione di materiali e colori diversi, capaci di vincere addirittura un premio: “I gioielli realizzati esprimono il messaggio che la bellezza sta nella diversità, che nell’incontro ci si completa e ci si abbraccia, ognuno con le proprie caratteristiche”, testimonia ancora la dirigente scolastica. Sono nati così pezzi unici da ammirare e indossare, come il bracciale rigido “Giurin giurello”, il cui nome evoca una filastrocca dell’infanzia, quella stessa infanzia che molti dei reclusi di Saluzzo non hanno mai avuto: “Sono persone che vengono da contesti sociali in cui spesso il destino è segnato fin dalla nascita - osserva la professoressa Tugnoli - ma attraverso la scuola riescono davvero a operare un cambiamento dentro di sé che è il preludio a un vero cambiamento di vita: abbiamo molti feedback positivi in questo senso”. Tra qualche giorno si celebrerà anche il Giubileo del mondo educativo e non c’è realtà più adatta della scuola in carcere a esprimere la speranza che l’Anno Santo vuole comunicare al mondo: “Il mio augurio per questi studenti - conclude la preside - è che la scuola continui a rappresentare una seconda occasione di vita a chi, spesso, non ha avuto neppure la prima”. Per resistere al carcere devi “uccidere la fantasia” di Goliarda Sapienza Il Dubbio, 20 ottobre 2025 Pubblichiamo di seguito un estratto de “L’università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza (Einaudi, Super Et). in questo romanzo autobiografico, la scrittrice racconta la sua esperienza nel carcere romano, dove ha passato circa tre mesi nel 1980 per un furto di gioielli. Questi camminamenti d’immersione alla pena sono di una perfezione gelida. Un lungo budello scivola inesorabilmente verso il fondo senza un appiglio per le mani della fantasia al quale potersi aggrappare. Dopo il primo corridoio, svoltando a destra, si scende ancora, si scende sempre. A ogni passo senti che vai verso il basso e che non potrai piú tornare a essere come prima. Quei camminamenti sotterranei parlano di morte e conducono a tombe. Infatti, per la legge dell’uomo un tuo modo di essere è stato cassato, la fedina penale macchiata, le mani insozzate dall’inchiostro per le impronte digitali: quella che eri prima è morta civilmente per sempre. Camminando a passo svelto (è notte ormai, anche le secondine hanno fretta), prima cosa che l’istinto ti suggerisce, proprio come a scuola, è: non irritare mai i superiori. L’autodegradazione che genera quella lunga discesa e, dopo, il passaggio d’un grande cancello e dopo ancora - sempre più in basso - la vista d’una diecina di portoncini metallici sbarrati tutt’intorno a un piazzale buio, è così potente da apparirmi come una sorta di piacere al quale abbandonarsi e farla finita con le angustie minute della vita, le varie etiche, l’orgoglio, la rispettabilità. Davanti a uno di quei portoncini di ferro, tarchiato e solido, le due donne si fermano. Una tira fuori le chiavi dalla grande tasca sformata e si accinge ad aprire la porta. Il gesto è antico, evoca ricordi ancestrali: convento, segreta, cappella mortuaria, ripostiglio buio dove bambina ti chiudevano. Brividi di freddo salgono alle caviglie. Fuori era tiepido. Il caldo vento dell’autunno romano danzava scherzoso per le strade, le piazze, i colonnati. Timido vento ancora rispettoso dell’agonia delle grandi foglie dei platani. Per settimane e settimane durerà. Poi bruscamente lo spiro lieve d’ottobre si farà tagliente e una marea di foglie ossidate invaderà il grande viale di casa mia. Ma non è tempo di ricordi. La porticina attende aperta davanti a me, il freddo ormai dalle caviglie ha invaso tutto il mio corpo, e con voce a me estranea di bambina spaventata (o di mendicante?), sento che dico affannata: - Non avete niente da mangiare, per piacere? È da stamattina che... - È tardi ma vado a vedere. Entri adesso, vado a vedere. Appena entrata, non oso guardare il luogo che le donne hanno aperto e poi richiuso dietro di me con un rumore di ferro così forte da far sobbalzare tutta quella tenebra morta. Di scatto mi rivolto con le palme verso la porta sbarrata. All’altezza del mio viso incontro quel riquadro a sbarre di metallo, unica fessura sempre aperta nel “tutto chiuso” di tutte le celle conosciute attraverso libri, racconti, film: quel simbolo d’isola- mento che tutti conosciamo, e che ricorre a volte nei sogni. Lo spioncino è all’altezza del mio viso, mi avvicino quasi a toccar lo e guardo fuori: non si vede niente nella penombra, appena appena un’altra porta davanti a me, chiusa. Il mio corpo forse resterebbe lí per sempre come un sasso se un grido inumano (a stento riconosco il timbro femminile) non accendesse il silenzio come un fulmine facendo vibrare il buio. Aspetto quasi con ansia il ritorno di quel grido ma niente, tutto s’è ricomposto in quell’immobilità innaturale come se l’urlo non si fosse mai fatto sentire. Ecco cos’è terrorizzante di quel complesso di celle: l’innaturalezza del loro silenzio. Desideriamo spesso il silenzio, ma quello della vita è sempre sonoro, anche in campagna, al mare, anche nel chiuso della nostra stanza. Qui dove mi trovo il non-rumore è stato ideato per terrorizzare la mente che si sente ricoprire di sabbia come in un sepolcro. Senza accorgermi mi sono aggrappata con le mani alle sbarre; lo noto solo quando il viso della donnina dal collo d’uccello affamato e lo sguardo lacrimoso mi si para davanti e mi sussurra: - Come va, signora? - Bene, grazie. - Ecco, abbiamo trovato solo questo. Non dice buonanotte perché forse ha già infranto molte regole portandomi qualcosa e rivolgendomi la parola. Dev’essere così perché fugge via sparendo dalla mia vista come un fantasma risucchiato dallo stesso buio che l’aveva materializzato. Al contatto del pane la fame si fa più forte, e questo mi dà l’ardire di rivoltarmi e affrontare il luogo dove starò... Non devo pensare a quanto ci starò. Giro gli occhi solo verso destra dove intuisco ci dev’essere la branda. Fissando solo quella mi seggo: fra le mani ho pane e un pomodoro. Mangio piano, che duri il piú a lungo possibile. Mangiando la tensione s’allenta, e quando ho finito cerco, scrutando in giro il meno possibile, d’infilarmi sotto una coperta ruvida al tatto. Non la devo guardare, basta l’odore quando la tiro su verso il mento. Basta questo a scatenare una sfilza di fantasie insopportabili. Devo riuscire a fermare la fantasia e attenermi solo ai gesti e ai pensieri che mi possono aiutare a superare tutto con il minimo di sofferenza. Non tuffarsi nella sofferenza, altra tentazione quasi voluttuosa in confronto alla solitudine che senti intorno, ma che porta a quel grido ascoltato prima. Infatti c’era anche voluttà in quel grido. Fermare la fantasia. Ripeto questa frase nella mente come al tempo della scuola quando si mandava a memoria una poesia che non si capiva. Io che ho fatto uno strumento della fantasia, che l’ho studiata tutta la vita per acuirla, liberarla, renderla agile il più possibile, mi trovo ora a doverla uccidere come si farebbe col peggiore dei nemici. Eppure è così. Da questo momento essa mi può essere maligna. Anche adesso che ho lasciato libera la mente a teorizzazioni astratte e con esse mi sono portata fuori da questo luogo, lo scoppiare di un: - Voglio uscire! M’ammazzo, voglio uscire! - mi sconvolge talmente da farmi scattare seduta in preda a un panico maggiore di prima. No, mi dico ad alta voce, da oggi per me la fantasia è nemica. Fisso la luce in alto che, è inutile raccontarsi favole, di sicuro resterà accesa tutta la notte. Entrando, è logico, la cella m’era apparsa molto buia, ma ora è come se un sole si fosse acceso davanti a me, un sole immobile, maligno che riapre le palpebre ormai troppo stanche per non desiderare di chiudersi. Avessi la sciarpa la potrei stringere intorno agli occhi come quando sono in viaggio, ma - è noto - tutto meno l’indispensabile per coprirti ti viene levato quando entri qui dentro. Quando m’hanno spogliata per perquisirmi pensavo che m’avrebbero dato una divisa, invece m’hanno lasciato i miei vestiti. Forse domani. La luce di quel sole artificiale rivela la nudità di quattro mura dipinte di un azzurrino opaco che dà la nausea, poi un cesso di colore dubbio senza tavoletta e un lavandino grigiastro. Nella parete di fronte all’ingresso una finestra rettangolare con vetri molto spessi, di colore simile a quelli delle latrine di terza categoria, s’apre a bocca di lupo ma solo di quindici centimetri, così che in nessun modo (anche se fosse all’altezza d’uomo) si può vedere fuori. Mente progressista doveva possedere l’architetto che ideò quella finestra: niente sbarre per carità, troppo crudeli, si può vedere il cielo. Quella finestra s’apre per mezzo d’una leva o manico. La prima “cosa” che vedi appesa a quel manico è la tua testa penzoloni. Ecco perché si impiccano cosí facilmente da qualche anno a questa parte: un tavolino c’è, anche una sedia da metterci sopra, un lenzuolo - lo sento sotto la coperta - c’è pure per fare il cappio. Lassú la forca è già pronta. Distolgo gli occhi dal manico annotando dentro di me l’ulteriore lusinga delle sirene carcerarie; tutti i luoghi antichi hanno sirene e quindi anche qui se ne aggirano. Le scoverò. Mi addormento, credo con gli occhi aperti, le palpebre appese a quel sole maligno. Quando mi sveglio il sole non c’è piú. Al suo posto una luce biancastra da cesso pubblico spande una specie di aurora boreale. Non riesco a muovere gli arti: il desiderio di richiudere gli occhi, non fare più un gesto, è immenso. Ecco le sirene carcerarie che tornano all’attacco: hanno lunghi capelli bianchi di luna e mani algose. Abbandonarsi a loro, rifiutare l’acqua, il cibo, e lasciare che gli altri - finalmente - se la sbrighino loro con questo corpo che non fa che richiedere sforzi, gesti, appetiti insopportabili. Invece salto in piedi, anche se la tazza del cesso non ha nessun significato per il mio intestino bloccato. Come un bravo soldatino mi lavo le mani fin sopra il gomito, come diceva Rilke, e il viso. Mi rivolto verso il letto per rifarlo. Il letto non si muove: è inchiodato saldamente al pavimento. Mi tremano le gambe, non c’è pensiero logico che mi possa calmare. Inutilmente mi dico: lo fanno perché potresti servirtene in caso di rivolta per barricare la porta. Non c’è niente da fare: il voltastomaco, il senso di claustrofobia che ero riuscita fin qui a dominare mi si scaraventa addosso con onde di panico. Come un naufrago mi getto sulla branda cercando la salvezza nel non pensare. (...) In questo ring mentale, tirando pugni e saltellando e spiazzandomi a ogni sinistro dei pensieri molesti, non ci crederete, le ore passano rapide (anche perché ogni venti minuti mi alzo e passeggio almeno per altri venti su e giù). Quasi mi sorprendo quando arrivano con il pasto di mezzogiorno: riso al burro, due fettine di prosciutto cotto accartocciato in carta oleata, un grappolo d’uva e pane. Mangio solo pane e uva: stando fermi è meglio non appesantirsi. Un po’ d’ansia mi prende la sera quando ridò indietro il riso e il pacchettino, ma vedo che non gliene importa niente. Giustizia è il dovere della compassione di Vittorio Pelligra* Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2025 Quando Peter Singer approda a Oxford nel 1969, è un giovane studente australiano con l’aria distratta e le tasche vuote. Non immagina che da quella città grigia e austera prenderà forma una delle rivoluzioni morali più influenti del secolo. Figlio di ebrei viennesi scampati al nazismo ma cresciuto in una terra lontana dalle tragedie europee, Singer sentirà sempre forte la tensione tra distacco e responsabilità. L’eco dell’orrore non lo abbandona e, maturando, si tradurrà in una domanda che giocherà un ruolo centrale nella sua filosofia: come possiamo giustificare l’indifferenza verso la sofferenza altrui? Quando, ventenne, lascia Melbourne per l’Inghilterra, la filosofia per lui è soprattutto esigenza di chiarezza logica: capire, definire, distinguere. Ma a Oxford, durante un seminario su Jeremy Bentham, accade qualcosa che lo segnerà per sempre. Una citazione del filosofo letta quasi di passaggio, gli resterà incisa come un comandamento laico: “La questione non è se possono ragionare o possono parlare. La questione vera è se possono soffrire” (cit. in Practical Ethics, Cambridge University Press, 1993, p. 50). In quelle poche parole Singer trova la chiave di una nuova etica. La filosofia smette di essere un mestiere dello spirito e diventa, per lui, un compito pratico: capire come ridurre la sofferenza del mondo. Non si tratta più di chiedersi che cosa sia il Bene in senso metafisico, ma di calcolare con precisione le conseguenze delle nostre azioni, di rendere la compassione il motore delle nostre azioni. Da quella spinta nasce un approccio lucido, esigente, capace di giudicare le scelte individuali e collettive non secondo le emozioni, ma secondo gli effetti reali che esse producono. Singer immagina, come scriverà più tardi, di poter guardare il mondo da un “non luogo”, senza corpo e senza identità, come una coscienza pura che osserva la gioia e il dolore distribuiti nell’universo. Da quella prospettiva impersonale, impareremmo che la finalità ultima di una vita giusta non può che essere il “desiderare la massima felicità per il maggior numero possibile di esseri viventi” (Practical Ethics, p. 12). È questa la postura morale che definisce tutta la sua filosofia: spostarsi dal punto di vista umano a quello universale, dalla parzialità dell’io alla giustizia dell’imparzialità. Un’etica che misura la bontà delle azioni come si risolte un’equazione, ma per restituire al calcolo un’anima; l’anima della compassione che diventa risposta razionale alla sofferenza altrui. Dietro la freddezza analitica, infatti, si nasconde una promessa antica, che la ragione possa ancora giustificare l’amore. “Siamo animali - scrive in The Expanding Circle - ma animali che possono riflettere su se stessi” (p. 3). La nostra capacità di cooperare, di preoccuparci per gli altri, ha radici biologiche: è una strategia di sopravvivenza che la ragione ha trasformato in principio universale. Da questo incontro tra istinto sociale e riflessione nasce ciò che Singer definisce “il cerchio che si espande”, l’evoluzione della compassione. “All’inizio, le affezioni benevole abbracciano solo la famiglia; presto il cerchio si allarga fino a includere una classe, poi una nazione, poi tutta l’umanità, e infine… il mondo animale” (p. 118). L’etica non è altro che il racconto di questa espansione: il tentativo di superare, passo dopo passo, i confini del nostro interesse individuale e immediato. Nel tempo, questo movimento naturale diventa una scelta razionale: allargare il cerchio fino a comprendere ogni essere capace di soffrire. La ragione, scrive, ci permette di “superare i limiti che l’evoluzione ci ha imposto” (p. 120), di trasformare la simpatia in principio e la compassione in progetto. L’etica racconta così della natura che prende coscienza di sé. In questo passaggio evolutivo si intravede il nucleo dell’utilitarismo singeriano: la morale come perfezionamento della cooperazione. Ciò che in origine ci spingeva a proteggere i nostri cari diventa, con la ragione, un impegno verso ogni essere senziente. Questa intuizione è alla base di Famine, Affluence and Morality, forse il suo saggio più influente e l’opera che lo farà conoscere al mondo. Se camminando sulla riva di un lago - ci chiede il filosofo - vedessimo un bambino che annega, saremmo disposti a rovinare i nostri vestiti per salvargli la vita? “Certamente” è la risposta unanime. E allora - continua - perché non dovremmo comportarci allo stesso modo con i bambini che muoiono di fame a migliaia di chilometri di distanza, con una donazione di pochi dollari? La distanza, dice, non ha nessun valore morale. “Se è in nostro potere evitare un male grave senza sacrificare qualcosa di comparabile valore morale, allora dobbiamo farlo” (Philosophy and Public Affairs, vol. 1, 1972, p. 231). È la regola più semplice del mondo, e proprio per questo la più dirompente. La compassione e l’altruismo non sono un lusso, ma un dovere logico. Negli anni successivi, il filosofo trasforma questa intuizione in un programma di vita. Un’”etica pratica” che non giudica, ma chiede conto delle conseguenze di ogni singola azione. Singer affronta i dilemmi più controversi, aborto, eutanasia, infanticidio, diritti degli animali, sempre con lo stesso approccio: pesare la quantità di sofferenza e di felicità che ogni azione produce. “La morale - scrive in Pratical Ethics - è ciò che resta quando smettiamo di fare eccezioni per noi stessi” (p. 10). Dietro la chiarezza logica si avverte in Singer un fervore quasi religioso per la vita. Il bene non è un concetto ma una responsabilità concreta. Ed è questa la coerenza che lo condurrà a pubblicare Animal Liberation (1975), uno dei testi fondativi dei movimenti animalisti. L’errore dell’umanità, spiega, è stato costruire il proprio dominio sulla disuguaglianza della sensibilità: ritenere che la superiore capacità umana nel ragionare giustifichi la sofferenza inflitta a chi non può parlare. La distinzione tra uomini e animali è per lui un pregiudizio morale, non un fatto naturale. “È sbagliato attribuire minore considerazione agli interessi di esseri viventi solo perché appartengono a una specie diversa (…) Dare preferenza alla vita di un essere soltanto perché appartiene alla nostra specie è una forma di specismo, un pregiudizio non meno arbitrario del razzismo o del sessismo” (Practical Ethics, p. 57-58). In questa formula si condensa la sua idea di uguaglianza: la vita di ogni essere vivente capace di provare sofferenza merita uguale considerazione. Lo “specismo”, termine che si diffonde nel dibattito filosofico grazie a Singer, diventa l’equivalente morale del razzismo e del sessismo. È il passo definitivo nell’espansione del cerchio morale che supera i confini della specie. Col passare degli anni, l’orizzonte di Singer si fa sempre più ampio. In One World: The Ethics of Globalization (2002) propone una forma di cosmopolitismo pratico: un’etica per un pianeta caratterizzato da sempre maggiori interdipendenze. La globalizzazione, dice, ha reso visibili legami che prima erano nascosti. Il nostro benessere quotidiano dipende da catene di produzione che attraversano continenti, e ogni scelta economica o ambientale è, per questa ragione, anche una decisione morale. “Viviamo in un mondo in cui le nostre azioni influenzano la vita di persone che non conosceremo mai. Ignorarlo non è neutralità: è complicità” (p. 8). Da questa stessa visione nasceranno The Life You Can Save (2009) e The Most Good You Can Do (2015), opere che stanno alla base del movimento dell’”altruismo efficace”; una comunità di persone che si propone di massimizzare l’impatto morale dell’utilizzo delle proprie risorse. “Vivere una vita pienamente etica - scrive Singer - significa fare il maggior bene che possiamo” (2015, p. vii). Non è carità, ma efficienza morale perché il pensiero non ha valore se non diventa prassi. E questa prassi, nell’epoca dell’interconnessione, si misura con la capacità di costruire un bene collettivo attraverso scelte individuali. Ogni donazione, ogni gesto, ogni rinuncia diventa parte di un calcolo morale più ampio. In Ethics in the Real World (2016), la sua raccolta di saggi più matura, Singer torna sui grandi temi del nostro tempo - la povertà, il clima, la biotecnologia, l’intelligenza artificiale - ma la domanda di fondo non cambia: come possiamo ridurre la sofferenza e come accrescere la felicità complessiva? “La felicità - scrive - non è un diritto privato, ma una responsabilità condivisa” (p. 142). Dietro la figura di questo professore che può apparire austero e perfino intransigente c’è, in realtà, un pensatore che crede ancora nella possibilità di un’etica universale e laica. Un uomo che ha cercato di restituire alla ragione la sua funzione più nobile: prendersi cura degli altri e del pianeta. Molti lo hanno accusato di ridurre la morale a una contabilità del piacere, in puro stile utilitarista, ma in realtà Singer tenta di salvarla dal sentimentalismo inefficace. La pietà senza logica può essere cieca, ma la ragione senza pietà è sterile. E forse la lezione più profonda del suo pensiero sta proprio qui: nella convinzione che la giustizia non debba essere tanto una distribuzione di beni, ma una “redistribuzione della sensibilità”. Pensare moralmente significa allargare il perimetro del nostro sentire, fino a riconoscere nell’altro, umano o animale, una parte di noi stessi. E che, quando la ragione smette di difendere i privilegi e inizia a difendere la vita, può ancora essere la forma più alta di compassione. *Professor of Economics (13/A2). Department of Economics and Business - University of Cagliari Terzo settore al bivio: “Bisogna agire insieme, così si innova il welfare” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 20 ottobre 2025 La costituzionalista Lorenza Violini sulle riforme: “Serve un salto di qualità per rispondere ai bisogni”. Più decisi su coprogettazione e gestione condivisa. Un corso alla Cattolica di Milano. “Coprogettazione”. “Coprogrammazione”. “Amministrazione condivisa”. Certo, in teoria sono concetti che dovrebbero essere patrimonio comune almeno dal 2017 in cui venne pubblicato il Codice del Terzo settore. Concetti riaffermati con più forza dalla Corte costituzionale con la sentenza 131 del 2020: il perseguimento del bene comune non è pertinenza esclusiva del sistema pubblico ma può/deve essere progettato in collaborazione con il privato sociale. Eppure la traduzione in pratica è un’altra cosa. Difficile? “Sì”. Funzionale? “Molto”. Finora lo si è fatto? “Gli esempi riusciti ci sono stati eccome”. Però? “Serve un salto di qualità”. Le risposte sono di Lorenza Violini, professoressa ordinaria di Diritto costituzionale alla Statale di Milano. Allora: perché la Consulta 2020 è stata importante? “Perché ha messo nero su bianco l’esistenza di un legame diretto tra l’articolo 55 del Codice del Terzo settore e il 118 della Costituzione in cui si dice che le amministrazioni pubbliche devono favorire - cito - l’autonoma iniziativa di cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Cosa vuol dire? “Significa costruire le attività di interesse generale partendo non dalla richiesta-fornitura di un servizio ma da un modello di amministrazione condivisa, alternativo a quello del profitto e del mercato, fondato appunto su coprogrammazione, coprogettazione e partenariato”. E dal 2020 che è successo? “Ci sono stati altri pronunciamenti della Corte. Per esempio nel 2022 e poi nel 2024. Tutti nella stessa direzione”. Dove sta la difficoltà? “In primo luogo nelle incertezze sulle regole che dovrebbero tradurre in percorsi praticabili nella prassi i princìpi fissati sulla carta dalle sentenze. Dove c’è incertezza giuridica il rischio dello scoraggiamento è sempre presente. Che in questo caso può unirsi al timore della responsabilità contabile”. Cioè? Per la pubblica amministrazione, che spesso pensa in modo intrinsecamente burocratico, un bando alla vecchia maniera è più semplice: mi serve questo, vediamo chi me lo può fornire. E poi c’è il fatto che ogni cambiamento richiede nuove competenze. Restare ancorati alla consuetudine consente un accomodamento generale secondo logiche di risparmio, ma il risultato finale - sul piano della qualità e dell’innovazione - può non essere all’altezza del bisogno a cui si deve venire incontro. E con una rinuncia preventiva alla creatività”. Zero esperienze positive? “Al contrario. Intanto va detto che negli ultimi dieci anni il Terzo settore ha fatto grandi passi avanti. E lo dicono i dati Istat, in termini di valore: nel campo dell’assistenza domiciliare, della cura degli anziani, del sociale. E poi perché ci sono esempi in cui i Centri servizi volontariato e il Forum del Terzo settore hanno unito le forze per raccogliere progetti facendoli arrivare in Regione e consentendo al pubblico di usare al meglio i fondi esistenti. Così sono state affrontate con progettazioni condivise diverse situazioni quali l’arrivo dei profughi dall’Ucraina, l’immigrazione, l’area dei diritti”. Qual è il salto che serve? “In parte è iniziato. Dopo la sentenza 131 sono arrivate norme regionali, poi comunali. Non ovunque: bisogna continuare. Ma il nodo è culturale. Formazione. I bisogni sociali saranno sempre più differenziati e le risposte dovranno essere altrettanto mirate. Solo una progettazione condivisa potrà costruirle, e proprio per questo la Fondazione per la Sussidiarietà e l’Università Cattolica promuovono ora la prima edizione del corso Governance e strategie per l’amministrazione condivisa, rivolta appunto a entrambi i fronti: Terzo settore e pubblica amministrazione”. Formazione e poi? “Beh, naturalmente poi serve la volontà politica: l’innovazione va sostenuta da chi ha il potere di decidere. Il che, certo, comporta anche rischi. Senza i quali però si resta fermi sempre”. Franco Basaglia e i “matti da slegare”. L’uomo che ribaltò la psichiatria e cambiò l’Italia di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 20 ottobre 2025 La legge che porta il nome di Franco Basaglia, con cui l’Italia decise di chiudere per sempre i manicomi, resta una delle più alte conquiste della Repubblica. Una norma unica nel panorama mondiale, che fece del nostro Paese il primo - e ancora oggi l’unico - ad abolire per legge gli ospedali psichiatrici. Un atto di giustizia civile e umana, nato dal coraggio di chi seppe guardare dentro l’orrore. Si diceva, e si dice ancora, “matto da legare”. Prima di Basaglia, quell’espressione non era una figura retorica: nei manicomi si veniva legati davvero. Con catene, corde, cinghie di cuoio. Al letto, a una sbarra di ferro, perfino a un termosifone. L’importante era che il corpo restasse immobile, silenzioso, inoffensivo. La contenzione era la regola, non l’eccezione. E insieme a essa, un sistema di violenze e abusi: elettroshock, lobotomie, iniezioni di insulina o di malaria come presunti rimedi. I corpi venivano sedati e dimenticati nei corridoi illuminati da un neon tremolante, a fissare il vuoto, a perdersi nel tempo sospeso della segregazione. La scomparsa degli specchi in quegli istituti non rispondeva solo a ragioni di sicurezza: era la metafora perfetta di un sistema che cancellava l’identità, negava l’esistenza stessa di chi vi era rinchiuso. Nessuno doveva più vedere la propria immagine, perché lo specchio, in quei luoghi, avrebbe ricordato che dentro ogni “pazzo” c’era ancora un essere umano. Quando, nel 1961, Basaglia accettò di dirigere l’ospedale psichiatrico di Gorizia, si trovò davanti a un mondo di fantasmi. Corpi rattrappiti, occhi vuoti, silenzi interminabili. Gli internati erano trattati come bestie o cavie, privati della volontà e della parola. Era un universo di supplizi e rassegnazione, non troppo lontano, nello spirito e nei metodi, dai campi di concentramento. Quell’anno uscirono due libri destinati a cambiare la storia della psichiatria: Asylums di Erving Goffman, un’analisi delle “istituzioni totali” e della distruzione dell’individuo attraverso l’isolamento, e Storia della follia nell’età classica di Michel Foucault, che mostrava come la società moderna avesse costruito la follia come strumento di esclusione e di controllo. Basaglia li lesse entrambi e ne fece il fondamento del suo pensiero: la follia non è solo un fatto clinico, ma una questione di libertà, di diritti, di giustizia. In Italia, i manicomi esistevano da oltre mezzo secolo. La legge del 1904, voluta dal governo Giolitti, autorizzava la reclusione “delle persone affette da alienazione mentale quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo”. Bastava questo. E così vi finirono dentro non solo malati, ma anche poveri, prostitute, omosessuali, donne ribelli o semplicemente malinconiche. Durante il fascismo, i manicomi divennero anche luoghi di punizione politica: chi vi entrava veniva automaticamente schedato come criminale. Erano istituzioni di custodia e repressione, non di cura. Diversamente da molti colleghi, Basaglia aveva una formazione umanistica e filosofica. Aveva studiato la fenomenologia di Husserl, la psicopatologia esistenziale di Jaspers, l’antropologia di Merleau-Ponty e Sartre. Per lui, la malattia mentale non era una tara biologica, ma una crisi del rapporto tra l’uomo e il mondo. Il corpo non era un meccanismo da riparare, ma un luogo di esperienza e di significato. Per questa sua visione “eretica”, all’università di Padova lo chiamavano “il filosofo”, con tono di scherno. Ma era proprio quella filosofia a renderlo capace di rimettere al centro la persona. Dopo tre anni di insegnamento, stanco delle gabbie accademiche e delle ipocrisie mediche, Basaglia decise di abbandonare l’università per dedicarsi interamente ai malati. A Gorizia, il suo primo gesto fu abolire la contenzione. Nessun paziente doveva più essere legato. Le porte vennero aperte, le reti smontate, le sbarre tolte dalle finestre. Poi arrivarono i comodini accanto ai letti, le lampade per leggere, gli armadietti personali, gli specchi. Persino la scelta del cibo divenne parte del trattamento: ognuno poteva decidere cosa mangiare, perché anche scegliere un pasto è un atto di libertà. La rivoluzione fu graduale ma inesorabile. Gli infermieri, inizialmente perplessi, cominciarono a partecipare al cambiamento. I malati, tornati persone, dialogavano, lavoravano, creavano. Nacquero laboratori di pittura, corsi teatrali, attività sociali. Il manicomio, da prigione, divenne comunità. L’obiettivo era uno solo: restituire la follia al cerchio della normalità, riconoscere che anche il malato conserva una parte di ragione, di sensibilità, di dignità. “È urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio, chiudere i manicomi”, disse nel 1964, parlando a Londra al congresso mondiale di psichiatria sociale. Fu il primo a passare dalle parole ai fatti, ad abbattere concretamente i muri dell’esclusione. Nel 1978 la sua battaglia divenne legge. La 180 impone la chiusura definitiva dei manicomi, sostituiti dai servizi territoriali di salute mentale. Si compie così la rottura con la psichiatria custodialistica: mai più una terapia che violi i diritti della persona, ma un percorso di cura, recupero e reinserimento. Una legge che ha cambiato il volto del Paese, al pari del divorzio e dell’aborto, perché ha ridefinito il confine stesso dell’umano. Da allora la follia non è più nascosta dietro un muro, ma attraversa la società, ne fa parte. È ancora una sfida, ma anche una conquista. Perché nessuna libertà, neppure quella fragile o ferita, può essere legata. Basaglia, la rivoluzione “tradita” nella legge che porta il suo nome di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 20 ottobre 2025 La legge 13 maggio 1978 n. 180 in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, meglio conosciuta come “Legge Basaglia”, ha rappresentato una svolta per l’Italia. Parole e locuzioni come “manicomi”, “pazzi”, “camicie di forza” per decenni sono state associate alla malattia mentale. Come avviene oggi con le carceri, delle quali si preferisce non parlare e relegarle mentalmente e fisicamente sempre più lontane da noi, anche in passato i manicomi venivano considerati luoghi da tenere a debita distanza con tutto il loro carico di disperazione e dolore. Nel 1978 la legge n. 180, presentata in Parlamento da Bruno Orsini, psichiatra e politico democristiano, ha dato vita ad una vera e propria rivoluzione culturale. Una legge che ha fatto voltare pagina alla materia riguardante la cura dei malati psichiatrici. La figlia di Franco Basaglia, Alberta, definì il padre in una intervista rilasciata a Repubblica nel 2014 “una sorta di padre Pio che liberò i matti dalle catene” e un ribelle velleitario che chiuse i manicomi infischiandosene delle conseguenze. Ma dove sta il carattere rivoluzionario dell’impianto normativo ispirato da Franco Basaglia? Il primo elemento ha riguardato la chiusura degli ospedali psichiatrici, che, comunque, suscitò non poche critiche. In molti sostennero che con la scomparsa dei manicomi i pazienti psichiatrici sarebbero stati scaricati sulle loro famiglie con un duplice scombussolamento. Con la legge Basaglia, l’Italia è stata il primo Paese al mondo a fare una scelta di coraggio e di umanità. In tanti, anche all’estero, riconoscono all’Italia di aver realizzato in maniera decisa - e anche un po’ radicale - un “processo di deistituzionalizzazione” della malattia mentale. Il modello italiano avviato con la legge 180/1978 non ha lasciato indifferente l’Europa. Le più importanti istituzioni comunitarie, il Consiglio d’Europa e la Commissione Europea, in diverse occasioni hanno invitato gli altri Stati ad ispirarsi alla nostra legislazione, distintasi per il rispetto dei diritti umani e per aver seguito la strada della sostenibilità economica. Regno Unito, Spagna, Portogallo e Grecia hanno ascoltato Bruxelles; nei Paesi dell’Est, invece, il processo di deistituzionalizzazione è ancora molto lento per non dire fermo al palo. La legge Basaglia è stata inserita all’interno della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (la n. 833 del dicembre 1978). Le principali caratteristiche vertono sull’eliminazione del concetto di pericolosità, riferito al paziente, per sé e per gli altri con il trattamento sanitario in psichiatria basato sul diritto della persona alla cura e alla salute. La legge 180 tiene conto del rispetto dei diritti umani (con il diritto di comunicare e il diritto di voto). In alternativa agli ospedali psichiatrici è stata prevista la costruzione di strutture alternative al manicomio con la previsione di servizi psichiatrici territoriali, asse portante dell’assistenza psichiatrica. Sono stati inoltre istituiti i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) negli ospedali generali per il trattamento delle acuzie e il trattamento sanitario di norma volontario, basato sulla prevenzione, sulla cura e sulla riabilitazione. Altro elemento caratterizzante la “Basaglia” è il Tso (Trattamento sanitario obbligatorio), che consiste in interventi terapeutici urgenti in caso di rifiuto di cure e mancanza di idonee condizioni per il trattamento extra-ospedaliero. È stato pure introdotto il concetto di “correlazione funzionale” tra Spdc o strutture di ricovero e servizi territoriali, sulla scia del principio di continuità terapeutica. Sulla carta, dunque, la legge Basaglia è stata una conquista importante. Nella pratica, assistiamo ancora a una frammentarietà, dovuta alle diverse condizioni in cui versa il sistema sanitario nazionale da Nord a Sud. Inevitabilmente, le Regioni che occupano i primi posti nell’assistenza sanitaria offrono servizi molto accettabili nell’ambito delle patologie psichiatriche. Anche in questo caso maggiori possibilità di investimenti sortiscono effetti positivi sul versante abbracciato dalla “Basaglia”. Oltre alle risorse, all’applicazione delle leggi e alla sensibilità che possono presentare le istituzioni a più livelli, continua a essere prezioso il lavoro sulla parte concernente lo stigma, che continua a interessare le persone con problemi di salute mentale. I manicomi sono stati chiusi, le distanze tra i pazienti psichiatrici, liberati dalle camicie di forza, si sono ridotte, ma sul versante della malattia mentale è utile superare i sospetti e le paure verso l’altro, verso il diverso. La chiusura dei manicomi può essere una magra consolazione, se il cantiere della diffidenza continua ad alzare muri. Ecco perché oggi, come ieri, le parole di Franco Basaglia sono ancora attuali: “La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere. Aprire l’istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato”. Migranti. I Cpr in Albania non fun-zio-na-no: 800 posti e solo 12 persone “trattenute” di Marika Ikonomu Il Domani, 20 ottobre 2025 Presentata come soluzione per la gestione dei flussi migratori, si è rivelata un’operazione di propaganda. Per farlo rimanere in piedi, il Governo ha cambiato leggi, portato allo stremo diritti e spesa pubblica. Se non è riuscito ad affermarsi come modello, occorre almeno mantenerlo in vita. A tutti i costi, umani ed economici. Il protocollo Italia-Albania in materia di flussi migratori, a un anno dal primo giorno della sua messa a terra, e a quasi due anni dalla firma dell’intesa, ha come risultato quello di un enorme investimento pubblico che non è andato nella direzione sperata dal governo di Giorgia Meloni. “Funzioneranno”, aveva detto la premier ad Atreju. Ciò che sembra funzionare però è la capacità di rendere un sistema sempre più opaco, di mostrare come le norme possano essere adattate per l’obiettivo e di continuare a spendere risorse pubbliche. Perché per dimostrare il suo funzionamento, il trattenimento di poco più di una decina di persone, c’è bisogno di una struttura retta da moltissimi soggetti: a partire dal personale dell’ente gestore Medihospes, alle forze dell’ordine, soprattutto della Polizia di Stato, agli agenti di Polizia penitenziaria, per alcune operazioni la Marina Militare e, ancor prima, il ministero della Difesa per la costruzione delle strutture. A coordinare presenze e trasferimenti è invece il Viminale. Il protocollo con l’Albania ha attraversato diverse fasi, ognuna segnata da un decreto legge che cercava di modellare le norme all’operazione, e non viceversa. La costante però è stata l’assenza di un contratto che regolasse le condizioni tra l’ente gestore e la prefettura. Il progetto inizialmente prevedeva un centro di trattenimento per chi veniva soccorso dalle autorità italiane in acque internazionali, proveniente da paesi considerati sicuri e, quindi, soggetto alle procedure accelerate di frontiera. La struttura di Shëngjin, a circa 60 chilometri a nord di Tirana, era stata ideata come centro di identificazione. Quella di Gjadër, nell’entroterra, a una ventina di minuti di distanza, prevedeva, invece, un centro per richiedenti asilo in frontiera, con una capienza di 880 posti. Un Cpr da 144 posti in attesa del rimpatrio per coloro a cui sarebbe stata negata la protezione internazionale. E, infine, un penitenziario da venti posti per coloro che avrebbero compiuto reati durante la detenzione. Il complesso di Gjadër non è stato terminato ed è entrato in funzione in fretta e furia il 16 ottobre 2024 con poche decine di posti disponibili. A marzo 2025, i posti realizzati erano circa 400. La prima fase del protocollo ha visto entrare nei container grigi una ventina di persone circa, nel 2024, e 43 a gennaio 2025. Di fronte alle decisioni dei giudici, che hanno riportato i richiedenti asilo in Italia, il governo ha trasformato Gjadër in Cpr il 28 marzo scorso. Così da inizio aprile è diventato l’undicesimo Cpr italiano, dove viene portato chi non ha un permesso di soggiorno valido, a discrezione dell’amministrazione, come se la struttura non si trovasse su un territorio extra Ue. Ora sono presenti una dozzina di persone e, fanno sapere gli avvocati che hanno assistito alcuni trattenuti, quando richiedono asilo solitamente rientrano in Italia. In tutto, secondo dati reperiti con un accesso agli atti da Altreconomia, da ottobre 2024 a fine luglio 2025, sono state recluse 111 persone. Numeri che mettono in dubbio la narrazione del governo, secondo cui questi centri sarebbero uno strumento di gestione dei flussi migratori. Che in Italia nel 2023 hanno raggiunto gli oltre 140mila ingressi via mare, nel 2024 oltre 54mila e nel 2025, finora, più di 55mila. Nessun dato è pubblico, il Viminale - contattato da Domani - afferma di non averli e l’unico modo che rimane è fare accessi agli atti, che però forniscono un’istantanea, non un monitoraggio continuo. Così, non sono pubblici i dati sui costi effettivi dell’operazione. Nei tre mesi del 2024, i centri sono stati operativi cinque giorni: per 120 ore Medihospes - che si è aggiudicata un appalto da 133 milioni di euro - ha ricevuto dalla prefettura di Roma 570mila euro, secondo una ricerca di Action Aid e università di Bari. A queste spese, si aggiungono non solo quelle delle giornate operative del 2025, ma anche quelle relative ai periodi di inattività. In altre parole, anche i giorni in cui non c’erano reclusi, racconta un ex operatore a Domani, il centro era popolato dal personale dell’ente e delle forze dell’ordine. Una persona interna a Medihospes spiega come all’inizio ai lavoratori italiani fosse stato offerto uno stipendio di circa 3mila euro al mese, cioè più del doppio di quanto percepiscono qui. Non è chiaro se gli stipendi siano rimasti tali, ciò che è chiaro però è il tentativo di ridurre le spese da parte della cooperativa - proprio per un costo inferiore del lavoro - assumendo personale direttamente in Albania. In una prima fase c’erano circa un centinaio di lavoratori assunti secondo il diritto albanese. Questo è stato possibile con la creazione di una filiale con sede a Tirana. Alle spese vive per la gestione bisogna considerare quelle per la costruzione delle strutture, oltre 74 milioni di euro spesi con affidamenti diretti, e per la loro militarizzazione. Su questo punto si sa poco, perché “c’è una sorta di oscurantismo”, dice Gennarino De Fazio, segretario del sindacato di polizia penitenziaria Uilpa, che ha inviato una nota al Dap. “Ci occultano qualsiasi tipo di informazione. A oltre un anno dall’apertura, l’unico rimpatrio effettivo è stato quello di un nostro collega perché si sospettava parlasse con i sindacati”, aggiunge. Ad oggi, il carcere di Gjadër non è mai entrato in funzione ma sono sempre rimasti 15 agenti a sorvegliare la struttura, con la possibilità di rientrare in Italia una volta al mese, vitto e alloggio, 130 euro lordi al giorno. Circa 4mila euro al mese che si aggiungono allo stipendio. Gli agenti penitenziari continuano a vivere nei container, al contrario delle forze di polizia - circa una sessantina - che alloggiano in un albergo con piscina. Gli unici dati certi, disponibili grazie alla ricerca di Action Aid e università di Bari, sui costi relativi alle forze di polizia riguardano l’ospitalità e la ristorazione per i cinque giorni di operatività nel 2024: circa 528mila euro. Se già il sistema dei Cpr in Italia è coperto da un velo di opacità, lo è ancora di più il Centro in Albania: lontano dallo sguardo di giornalisti, ma anche di garanti e parlamentari, a cui il ministero dell’Interno ha ristretto i poteri ispettivi. “Hanno insabbiato tutto - racconta l’ex operatore - è tutto blindato”. Medihospes ha fatto firmare clausole di riservatezza stringenti. È blindato anche il criterio di selezione delle persone trasferite in Albania e la modalità di trasferimento. Non è più la Marina militare a occuparsene con i pattugliatori Cassiopea e Libra, quest’ultimo ceduto all’Albania ma ancora operativo come nave militare italiana. Il Viminale, fa sapere, usa “il vettore disponibile a seconda delle necessità”. Contattate, Guardia costiera e di finanza dicono di non poter fornire informazioni, perché è il ministero a gestire. Tradotto, nessuna trasparenza, ma un sistema di scatole cinesi che non permette di individuare chi ha la responsabilità di dare le informazioni. Il governo, trasformandolo in Cpr, sembrerebbe essere corso ai ripari per scongiurare un intervento della Corte dei conti. Ma, se si osserva bene, è “del tutto illogico e irrazionale” - secondo Action Aid - trasferire in Albania persone trattenute già in Italia, dove nel 2024 c’erano 263 posti vuoti su 1.164. Per poi doverle comunque rimpatriare dall’Italia. Il progetto Albania rimane un’apripista per quello che sarà il nuovo diritto europeo, con il Patto che entrerà in vigore da giugno 2026. L’esecutivo intanto prova a mantenerlo in vita, portando allo stremo il diritto e le casse dello stato. Quella politica dell’odio figlia dell’America di Flavia Perina La Stampa, 20 ottobre 2025 L’eccesso rancoroso altro non è che una moda americana di successo la riprova di una egemonia Usa mai tramontata sotto il profilo culturale. L’ultimo video Donald Trump, con la corona da re, che pilota un caccia e sgancia letame sul corteo dei dimostranti “No King”, dovrebbe aprirci gli occhi sul dibattito sull’odio che si è da tempo acceso in Italia. Questa tanto indagata politica dell’odio, questo flusso dell’eccesso rancoroso e vendicativo, forse altro non è che una moda americana di successo, la riprova di una egemonia Usa mai tramontata anche sotto il profilo culturale. Quando c’era Barak Obama la tendenza era essere piacevoli, giovanili, se possibile bravi ballerini, oratori impeccabili, e ci provarono un po’ tutti a risultare obamiani anche se nessuno c’è riuscito mai fino in fondo. L’amore che vince sull’odio era il mood del momento, adottato anche da Silvio Berlusconi che ci teneva a essere rappresentato come capo generoso e benevolo con tutti. Adesso la prepotenza conquista. Nel secondo filmato di giornata Trump si rappresenta come Carlo Magno o forse Re Artù davanti a un gruppo di sudditi che piega il ginocchio e il capo sottomettendosi al sovrano. O l’inchino o la cacca in testa: il messaggio è molto chiaro. I Maga andranno in sollucchero. “Nelle urne la scelta è tra amore e odio” dice il candidato laburista che nella serie Slow Horses fronteggia un populista stile Nigel Farage. Siamo andati assai avanti, perché la scelta adesso sembra essere soltanto tra due tipi di odio. Quelli che odiano la destra che mette a rischio “la libertà e la democrazia” - come ha detto Elly Schlein dal palco dei socialisti europei - e quelli che odiano la sinistra perché è peggio di Hamas, secondo una celebre citazione di Giorgia Meloni. Nella terra di mezzo non esiste più niente. L’analisi politica ha convinto chiunque fa politica che il segreto del successo sia nella radicalizzazione del messaggio. In ordine, solo nell’ultimo mese: da destra la celebrazione di Charlie Kirk, una delle voci più estremiste del trumpismo. Da sinistra la beatificazione di Francesca Albanese, capitana dell’oltranzismo palestinese. Da destra la richiesta di ergastolo per quelli della Flottilla per aver messo a rischio di guerra l’Italia. Da sinistra il capo del principale sindacato che dà della cortigiana alla presidente del consiglio. Sembra un fenomeno nuovo, ma in America la spettacolarizzazione politica dell’odio è pane quotidiano da un pezzo. Fanno furore le sfide televisive tra gente che si odia, “Un conservatore contro 10 femministe” o “un progressista contro 20 conservatori di estrema destra”, ma anche “scienziati contro terrapiattisti”. I canali Youtube fanno soldi portando alla rissa squadre composte da coppie con figli o senza. Sono dibattiti in cui vale tutto, inneggiare a Hitler o chiedere la sterilizzazione degli avversari anche perché, a differenza dell’Europa e dell’Italia, l’America non prevede distinzioni tra il free speech e l’hate speech: i nazisti dell’Illinois possono andare in giro con le svastiche e volendo pure con i cappucci del Ku Klux Klan. Già è una fortuna non essere arrivati anche da noi alla guerra della cacca sui dimostranti o allo show “un meloniano contro dieci amici di Shlein”. Ma la strada sembra quella, tantoché pure il vecchio dibattito sulla libertà di parola ne risulta travolto: al pubblico di destra il “cortigiana” di Landini non sembra simmetrico all’”orango” di Roberto Calderoli a Cecile Kyenge, e viceversa, perché quel che conta è la squadra in cui si guerreggia (e pure quella fino a un certo punto: il voto del Pd salvò il ministro leghista dal processo per istigazione all’odio razziale). A sinistra il “come Hamas” di Meloni non è percepito come il “destra bombarola” evocato da un giro di parole da Elly Schlein, anzi: il primo giustifica il secondo. Nelle candidature tutti cercano l’estremista che fa bandiera, quello che ha dato degli anormali ai gay, quella che ha inneggiato alle Brigate Rosse, la famosa okkupante di case, quello che sputa al cittadino troppo curioso. L’invito ad abbassare i toni viene rilanciato da una fazione all’altra, ogni giorno, come un corpo contundente. È evidente che non ci crede più nessuno, nessuno ne ha l’intenzione, infatti lo show va avanti con successo. Un suo pubblico, evidentemente, ce l’ha. Giustizia internazionale. Che cosa c’è di più ridicolo di un potere senza potere? di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 20 ottobre 2025 L’irresistibile paradosso della Giustizia che - davanti a Putin ospite a Budapest, in Ue, nonostante il mandato d’arresto - non farà nulla: perché non è in grado di fare nulla e, se facesse qualcosa, ne andrebbe di mezzo la pace. Un fallimento nato a Norimberga. È stupefacente l’affidamento totemico delle nostre società alla Giustizia, fregiata della maiuscola, per rispetto istituzionale che trascende nel sacrale. La giustizia interna di un paese, diciamo il nostro, anche con il suo corredo di toghe e ermellini e tocchi e cordoniere, un armamentario che non per niente ha il pari soltanto nel clero, conserva però una sua necessità innegabile. Io, che ho rispetto appunto sacrale delle istituzioni repubblicane, respingo le vampate di ridicolo che salgono da tali bardature, e da tanta boria, perché qualcuno deve pur incaricarsi del compito terribile di indagare un presunto colpevole e qualcun altro di giudicarlo e, se lo giudica colpevole, di rifilargli la necessaria sanzione. Diciamo così: se il tutto fosse contornato da minor pompa - se si volasse un po’ più basso - e se ci si mettesse in testa che le indagini e i processi non sono feste di piazza, con i giustizieri della notte e i sostenitori tambureggianti, ma l’evidenza dell’uomo nel suo inevitabile fallimento, di dichiarare tutti uguali e tutti liberi, e di doversi smentire ogni giorno per proteggersi, ecco, a queste condizioni le cose funzionerebbero un po’ meglio. Ma che funzionino, sebbene con mille problemi, nessuno lo può negare. E funzionano perché la magistratura esercita un potere riconosciuto da tutti all’interno di un confine, legittimato dal potere politico, ovvero popolare, e con l’ausilio quotidiano delle forze dell’ordine, e quella parola, “forze”, indica l’uso esclusivo della forza che è consentito loro per legge. Da quando si sospetta che un reato sia stato compiuto a quando ne è stato riconosciuto e sanzionato il responsabile, l’intera macchina dello Stato si muove al servizio della magistratura e la rende efficiente. Nonostante i molti abusi di potere. Nonostante gli errori giudiziari. Nonostante le suddette derive sacerdotali. Nonostante il giudizio del tribunale sia diventato, per la maggioranza di noi, giudizio politico, giudizio storico e giudizio morale. Ma quando la giustizia è istituzione internazionale, la velleità dell’uomo che vuole giudicare l’uomo, dividere il bene dal male, salvare i giusti e punire gli ingiusti, sostituirsi alle incombenze della politica e alla forza delle armi, non sfugge più al ridicolo: il ridicolo di cui parlavo prima è annientato dal potere, il ridicolo di cui parlo ora è moltiplicato dall’impotenza. Parlo naturalmente del vertice di pace (speriamo) fissato nelle prossime settimane a Budapest fra Donald Trump e Vladimir Putin. In quanto ricercato dalla Corte penale dell’Aia per crimini di guerra, appena mette piede su suolo ungherese, Putin andrebbe arrestato. Victor Orbán ha portato il suo paese fuori dalla Corte penale ma, fino a giugno, è tenuto a rispettarne le determinazioni. Sarebbe tenuto. Poi non lo fa, non lo farà con Putin come non lo ha fatto con Benjamin Netanyahu, su cui altrettanto pende il mandato d’arresto. Alle proteste, neanche tanto vigorose, per il mancato arresto di Netanyahu, pure l’Italia disse che, se si fosse presentata l’occasione, prima di portare in galera il primo ministro di una democrazia (peraltro mai aderente alla Corte) ci avrebbe pensato cento volte. Non ci si è resi conto, forse non abbastanza, di come tutto il castello di un potere senza potere fosse crollato. La Corte non ha confini certi entro cui agire, non ha il sostegno istituzionale e irrimediabile dei governi, non è dotata di forze di polizia davanti alle quale si alzino le mani. Può esprimere principi che talvolta vanno bene e talaltra no, in base alle convenienze e alle urgenze di chi li riceve o li respinge. Il caso di Slobodan Miloševi? è esemplare: accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, fu consegnato al Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia a guerra abbondantemente finita, e quando il suo potere di presidente della Serbia era ormai tramontato. Tutto cominciò così, fra queste vaghezze, questi opportunismi, queste pretese di giustizia dove la giustizia non può arrivare, con il processo di Norimberga ai criminali nazisti, dibattimento da cui furono esclusi i crimini commessi in volo, altrimenti sarebbe toccato mettere giù qualche imbarazzante memoria difensiva a proposito di Dresda e Hiroshima. Da ottant’anni si discute se la macellazione del popolo tedesco e di quello giapponese fossero necessarie all’obiettivo supremo della conclusione della guerra, e nessun codice di giustizia, dell’umanissima giustizia, è stato ancora capace di dirimere la questione. Putin dunque atterrerà a Budapest e andrà a discutere di pace con Trump. E la Giustizia (maiuscolo) ancora una volta depone le armi perché non ne ha. E se ne avesse, e facesse il suo corso, comprometterebbe la Pace. Che irresistibile paradosso. Il mito della guerra “ineluttabile” di Franco Vaccari Avvenire, 20 ottobre 2025 Dobbiamo rifiutare la narrazione dell’inevitabile: un virus che ci sta infettando le coscienze. Possiamo decidere come parlare, come pensare, come agire. Ineluttabile. Ecco la parola che si sta insinuando, silenziosa e vischiosa, nei nostri pensieri. Prima come una paura indistinta, poi come dubbio sussurrato nei discorsi, infine come una certezza cupa che ci sembra ragionevole accettare: “La guerra è inevitabile”. È questo il virus che sta infettando le nostre coscienze. Lo si dice sottovoce, tra una sigaretta e un caffè: “Hai visto? Sta succedendo di nuovo…”. “Eh, temo proprio di sì”, risponde l’altro. E quel cenno, quel consenso mormorato, è il primo mattone di una resa. Poi, alla conversazione successiva, la voce si alza, l’opinione si fa posizione, e la posizione si trasforma in fatalismo cinico. Ed ecco che la guerra - qualunque guerra - smette di essere una tragedia e diventa un destino. Ma la guerra non è un destino. È una scelta. Una scelta folle, costruita giorno dopo giorno, passo dopo passo, comportamento dopo comportamento. Lo ha ricordato, con la lucidità che gli è propria, il presidente Mattarella: “Ci si muove su un crinale in cui, anche senza volerlo, si può scivolare in un baratro di violenza incontrollata”. È quel “senza volerlo” che ci chiama in causa. È lì che si annida il rischio più grande: non nel fragore dei cannoni, ma nella distrazione e nell’apatia quotidiana, nella rinuncia alla responsabilità, nel fatalismo comodo di chi pensa che non ci sia più nulla da fare. Non è vero. Quel 1914 può non replicarsi in un tragico 2025. La storia lo dimostra: non è sempre andata così. Ci sono stati momenti in cui l’umanità si è fermata a un passo dal disastro. Ottobre 1962: crisi di Cuba. Due superpotenze con il dito sul grilletto nucleare. Non scoppiò nessuna guerra. Ottobre 1956: crisi di Suez. La politica mondiale sembrava impazzita, eppure si trovò una via d’uscita. E poi, più tardi, la più grande sorpresa della Storia: il Muro di Berlino che cade senza sparare un colpo. Chi lo avrebbe detto? Chi ci avrebbe scommesso? E invece accadde. Perché l’ineluttabile, a volte, si disintegra sotto il peso della volontà, dell’intelligenza, della responsabilità. Si scioglie nelle correnti calde e sotterranee delle coscienze che si sono tenute deste anche senza poter comunicare. Perché anche l’abisso, se guardato con lucidità, può diventare un limite oltre il quale si decide di non andare. È questo il punto. La guerra è una costruzione collettiva, e quindi può essere anche una rinuncia collettiva. Un rifiuto - un ripudio! - che inizia da ognuno di noi. Non si tratta di illusioni da anime belle. Nessuno pretende di cancellare la violenza dalla faccia della Terra. Ma la guerra, come istituzione, come strumento della politica, come automatismo della Storia, quella sì, possiamo sperare di eliminarla. Kant scriveva come se la pace fosse possibile. Noi viviamo come se la guerra fosse certa. È questo il rovesciamento da operare. E allora, che fare? Resistere al cinismo. Rifiutare la narrazione dell’inevitabile. Spegnere il chiacchiericcio e accendere la coscienza. “Sì, parole giuste, ma purtroppo non le ascolta nessuno…”: quante volte l’abbiamo detto di papa Francesco, di papa Leone, di tutti coloro che, nella storia, hanno provato a indicare un’altra strada. Ma chi lo dice, chi lo ripete, ha già abdicato. Ha scelto il silenzio, la comodità dell’irrilevanza. La convinzione dell’ineluttabilità genera impotenza. Ma no, non siamo impotenti. Possiamo decidere come parlare, come pensare, come agire. Possiamo - dobbiamo - conservare quell’inquietudine morale che distingue il cittadino dal suddito. Perché i governanti del nostro tempo rischiano di diventare dominatori anziché servitori, se si spegne l’inquietudine dei cittadini. E questa inquietudine deve essere viva, deve disturbare, deve far male. Non basta più commentare con sarcasmo le grottesche pantomime crescenti del potere. I duemila anni passati dall’imperatore Caligola, che nominò senatore il proprio cavallo, ci fanno sorridere. Ma oggi - oggi - chi governa non ha bisogno di cavalli. Gli basta che noi diventiamo spettatori passivi, commentatori senza coraggio, cinici senza idee. È questo il nuovo potere: un’autorità che prospera sull’assenza di responsabilità. E allora, no: la guerra non è inevitabile. È possibile, certo. Ma proprio per questo deve essere combattuta: non con le armi, ma con la lucidità, con l’impegno, con la voce. Con la politica, nel suo senso più alto. Con la cultura, con la memoria, con il coraggio di non abituarsi. Si può resistere allo scivolamento verso l’abisso. Si deve. Perché l’ultima eco del fatalismo non è la saggezza, ma il vuoto. Il vuoto morale. Il vuoto spirituale. È lì che finisce tutto: quando ci convinciamo che la guerra non si può fermare. È questa convinzione - non le bombe - che segna la nostra sconfitta. I pezzi della terza guerra mondiale si ricompongono in un unico pensiero sull’inevitabilità della guerra. E invece, oggi più che mai, serve qualcuno che abbia il coraggio di credere che la guerra si può cancellare. Non da soli. Non in un giorno. Ma cominciando da qui, da ora, da noi. “Il mondo sarà salvato da chi non si rassegna”. E noi, vogliamo essere tra questi. Gaza, l’incubo dei detenuti liberati. “Quando sono tornato a casa, ho scoperto di aver perso tutto” di Lorenzo Vita Avvenire, 20 ottobre 2025 Il ritorno nella Striscia per i prigionieri è stato traumatico: molti hanno trovato solo una tenda. Sono tornati in pullman mentre Israele festeggiava il rientro degli ostaggi. Portati nella Striscia di Gaza dal carcere di Ketziot, nel deserto del Negev, da quello di Sde Teiman o dalla prigione di Ofer. Un viaggio che per qualcuno è stato atteso anche più di un anno e mezzo: perché tutti loro, in migliaia, erano stati arrestati dalle forze israeliane subito dopo l’inizio della guerra. Per mesi sono stati tenuti all’oscuro di tutto, isolati dal mondo. C’è chi ha raccontato di abusi fisici, torture psicologiche, maltrattamenti. Ma quando sono tornati a casa, tra Khan Younis, Rafah e la stessa Gaza, la realtà davanti ai loro occhi è stata molto diversa da quella che si aspettavano. Perché i detenuti palestinesi, rilasciati in base all’accordo con Hamas, si sono trovati davanti una Striscia quasi del tutto rasa al suolo. E per molti di loro, il ritorno a casa si è tradotto anche in un altro dramma: quello di capire che della propria vita, quella precedente all’arresto, non era rimasto più nulla. Fratelli uccisi, figli e mogli rimaste sepolte sotto le macerie. Genitori anziani e malati che sono morti senza che i detenuti sapessero nulla. Case rase al suolo. Famiglie costrette a spostarsi in continuazione e vivere da sfollate senza che ci fosse un padre o un marito a prendersene cura. I prigionieri palestinesi sapevano quello che accadeva a Gaza nel periodo del loro arresto, e sapevano che non si sarebbe fermato nei giorni precedenti. Ma per molti di loro, il ritorno si è trasformato in un vero e proprio incubo. “Non è rimasto più nulla, sono arrivato e mi sono resto conto di avere perso tutto” ha raccontato Khalid, rilasciato la scorsa settimana dopo mesi di prigionia. E il sentimento è comune a molti gazawi che hanno rimesso piede nella Striscia dal valico di Kerem Shalom. “Ne ho visto qualcuno - racconta Mohammad - e si vede che hanno sofferto molto. Molti di loro hanno scoperto che avevano perso figli o parenti”. Una dramma nel dramma. Storie che affiorano man mano che passa il tempo, che i detenuti si rendono conto di ciò che è successo e che trovano il coraggio di riferire ciò che provano. Il Washington Post ha raccontato la storia di Samara, arrestato dalle forze israeliane con l’accusa di essere un membro di un’organizzazione terroristica. Il prigioniero ha affermato di non avere mai potuto contattare la sua famiglia, di avere subito una condanna senza alcun processo e di essere stato ammanettato e bendato per lunghi periodi di detenzione. Altri, tra i 1700 che sono stati liberati dalle carceri israeliane, hanno descritto invece un altro tipo di tortura psicologica: quella per cui ad alcuni detenuto è stato fatto credere che le proprie famiglie fossero state uccise nei bombardamenti. E tra chi ha scoperto che era falso e chi invece si è dovuto confrontare con l’amara verità della morte dei propri cari, gli esperti pensano che per molti di loro sarà necessario un lungo percorso di riabilitazione mentale. Un qualcosa che a Gaza, in questo momento, è praticamente inesistente. Le ferite, del resto, sono profonde. Tra il trauma dell’arresto, della detenzione, l’avere subito maltrattamenti o essere tornati in libertà e avere scoperto di essere soli o senza una casa o rendersi conto di quanto hanno sofferto le proprie famiglie, in molti appaiono ancora sotto shock. E l’ambiente in cui sono tornati non è certo utile al loro recupero. Tutti temono che la guerra possa riprendere da un momento all’altro. Molti di loro sono tornati nella Striscia e sono costretti a vivere in tenda in altre zone della regione. Non c’è lavoro e i soldi sono sempre di meno o del tutto inesistenti. E per centinaia di queste persone, e tantomeno per le loro famiglie, non ci sarà alcuno spazio per una riabilitazione fisica o mentale.