Salute mentale in carcere, l’ossimoro rimosso di Katia Poneti e Riccardo Girolimetto Il Manifesto, 1 ottobre 2025 Parlare di salute mentale in carcere è parlare di un ossimoro, tanto è inconciliabile la detenzione con il benessere fisico e mentale. Come funziona il sistema sanitario in carcere per la prevenzione nel campo della salute mentale e per la presa in carico delle patologie psichiatriche? È garantito il diritto dei malati più gravi ad essere curati - di regola - fuori dal carcere? A questi interrogativi ha provato a rispondere la ricerca “Salute mentale in carcere dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari” realizzata dalla Società della Ragione in collaborazione con l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, grazie al finanziamento dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese. Attraverso preliminari seminari con stakeholders locali, sopralluoghi negli istituti penitenziari coinvolti (Udine, Prato, Rebibbia femminile), raccolta di dati quantitativi e interviste in profondità con figure sanitarie e non, la ricerca ha messo a fuoco le contraddizioni prodotte dall’ossimoro carcere-salute. Tra le tematiche approfondite vi sono i fattori di protezione e tutela della salute mentale all’interno del carcere, il peso delle condizioni strutturali, la relatività dei percorsi di uscita dal carcere, le diverse funzioni che assume il corpo della persona detenuta in un contesto di assoggettamento, i vissuti di operatori/trici della salute. L’”emergenza psichiatrica” in carcere è percepita come maggiore di quanto non indichino i dati quantitativi raccolti. Inoltre, ne è risultata confermata la tendenza al prevalere delle logiche custodiali e securitarie su quelle terapeutiche e riabilitative, condizionando forma ed efficacia degli interventi “Psy” (psicoterapici, di sostegno e psicofarmacologici), inevitabilmente ridotti a rendere “più tollerabile” la vita detentiva, e depotenziando il paradigma riabilitativo-territoriale, Il carcere tende ad esacerbare le diseguaglianze sociali già esistenti, incidendo in maniera differente sulle persone detenute, in specie per coloro che hanno una storia di migrazione alle spalle. Al tempo stesso il territorio non accoglie come dovrebbe, pronto a dichiararsi non competente quando non vi sono documenti e residenza. Uno specifico nodo critico riguarda l’applicazione dell’incompatibilità con il carcere per motivi di salute mentale che, pur prevista dalla giurisprudenza costituzionale (C. Cost. n. 99/2019), risulta scarsamente attuata. Dalla ricerca si evince una ridotta conoscenza della possibilità di scontare la pena in una struttura psichiatrica all’esterno del carcere e la percezione che tale percorso riguardi casi rarissimi, in concomitanza con altre problematiche sanitarie. Sul punto si suggerisce di trasporre la norma stabilita dalla sentenza Corte Cost. 99/2019 in una norma di legge formale, che potrebbe integrare l’Ordinamento penitenziario. Questo in controtendenza rispetto al Piano di azione nazionale per la salute mentale 2025-2030 che vorrebbe ampliare la capienza delle ATSM, le sezioni psichiatriche interne alle carceri, portandola a 3000 posti. In maniera diffusa e condivisa, la carenza di risorse (finanziarie e organico) è risultata centrale. Complessivamente si segnala l’urgenza di un ripensamento radicale delle politiche e delle pratiche di tutela della salute mentale in carcere, capace di superare le contraddizioni tra funzione detentiva e funzione terapeutica, e di garantire il pieno rispetto dei diritti fondamentali delle persone con problematiche legate alla salute mentale (e non). Il report della ricerca è disponibile su societadellaragione.it/salutementale, insieme alla presentazione on line di ieri. Potete anche ascoltare il podcast Fratture, che racconta il progetto sulla salute mentale in carcere. Le prossime presentazioni si svolgeranno il 28 ottobre a Firenze, presso il Consiglio regionale della Toscana e il 13 novembre a Udine. “Tante parole e un solo fatto: alla destra delle prigioni non importa nulla” di Angela Stella L’Unità, 1 ottobre 2025 “La Russa è la seconda carica dello Stato, nonostante ciò e l’impulso che aveva avuto la sua proposta in estate, dalla maggioranza non è arrivata nessuna apertura. Noi insistiamo con proposte concrete”, dice la senatrice dem Anna Rossomando, vice presidente del Senato. Senatrice, possiamo dire che c’è una resa dello Stato sulle carceri? C’è un totale disinteresse di maggioranza e governo rispetto alle condizioni di vita nelle carceri. In alcuni momenti e in alcuni settori della maggioranza sembra esserci un qualche slancio, ma poi si risolve sempre in un nulla di fatto. Noi insistiamo sostenendo proposte concrete: ampliamento delle misure alternative al carcere in parte già contenute nella riforma Cartabia e detenzione domiciliare per pene residue non superiori ai 18 mesi con esclusione dei reati di grave allarme sociale, oltre alle proposte Magi e Giachetti che abbiamo sottoscritto sulle case territoriali e la liberazione anticipata. Ieri il presidente del Senato La Russa ha detto: “Sebbene la proposta Giachetti non sta andando avanti, ho ricevuto rassicurazioni dal governo che se ne sta occupando”. Lei è ottimista a leggere queste parole? No, perché non siamo all’anno zero della vicenda. Più di un anno fa governo e maggioranza hanno approvato un inutile decreto carceri, che non ha sortito alcun effetto e anzi ha causato problemi come con l’aggravio burocratico sulla liberazione anticipata. Allora spiegammo che il provvedimento sarebbe stato una scatola vuota, ma non fu accolto neanche un emendamento dell’opposizione nei due passaggi parlamentari. La dimostrazione dell’inutilità di quel provvedimento è che un anno dopo il Presidente del Senato La Russa ha tentato di mettere in campo una proposta minima che potesse mettere d’accordo tutte le forze politiche, ma ancora una volta, niente di fatto. Questo per evidenziare quanto la maggioranza sia sorda non soltanto alle proposte dell’opposizione e agli allarmi degli operatori, ma a qualsiasi intervento che punti almeno a dare sollievo all’intollerabile condizione di sovraffollamento delle carceri italiane. Quindi non vedo alcun elemento per essere ottimisti; all’emergenza il ministro Nordio e il governo rispondono esclusivamente con programmi a lungo termine sull’edilizia penitenziaria e con interventi di edilizia emergenziale che ridurranno ulteriormente gli spazi comuni a disposizione. Sempre a proposito di La Russa, l’ha infastidita che abbia detto che è stata lei a non trovare l’intesa con i partiti? Come sono andate realmente le cose? Il Presidente La Russa è la seconda carica dello Stato. Nonostante questo e l’impulso che aveva avuto la sua proposta durante il periodo estivo, momento in cui il tema carceri esplode in tutta la sua drammaticità perché il caldo amplifica le già insopportabili condizioni di detenzione, dalla maggioranza di centrodestra non è arrivato alcun segnale di apertura al dialogo. È chiaro che le forze di opposizione non avrebbero avuto problemi a discutere la proposta, ma la vicenda si è arenata ancora prima di arrivare in commissione. Entro settembre sarebbero dovute arrivare le conclusioni della task force istituita presso il Ministero della Giustizia con i magistrati di sorveglianza. Ma ad oggi ancora nulla. Uno specchietto per le allodole questa iniziativa? Questa come altre. Intanto è necessario partire dai numeri del comparto dell’esecuzione penale: interventi insufficienti sugli organici degli Uffici di Sorveglianza, del personale educativo, sanitario e di supporto psicologico, così come degli uffici di esecuzione penale esterna, quindi citando solo le emergenze acclarate: organici e risorse. Il Ministro Carlo Nordio al congresso dell’Unione Camere Penali è stato contestato perché ha per l’ennesima volta ripetuto che sovraffollamento e suicidi non sono collegati. Lei che ne pensa? Il ministro Nordio non può non sapere che il sovraffollamento correlato alle attuali condizioni delle carceri producono conseguenze devastanti sulla salute fisica e psichica dei detenuti, oltre che sul lavoro del personale penitenziario, tra le cui fila si registrano suicidi, oltre a impedire appropriati percorsi trattamentali. Una situazione ben nota agli operatori di giustizia, tanto che a inizio agosto la procuratrice generale di Torino Lucia Musti ha dato parere favorevole alla concessione dei domiciliari a un detenuto con malattie non gravi e il Tribunale ha accolto l’istanza della difesa considerando il sovraffollamento ragione sufficiente ed evidenziando come tale condizione detentiva possa causare “un surplus di sofferenza e disagio evitabile con misure alternative”. I detenuti vivono di speranza. Quale messaggio andrebbe ora diffuso nelle carceri? Sulla proposta che ho elaborato rispondendo alla sollecitazione del Presidente La Russa si era acceso un interesse, a prescindere dall’impatto della misura, almeno in relazione al coinvolgimento della politica rispetto alle condizioni delle persone detenute. Un interesse che ho constatato anche a Rebibbia a inizio settembre, in un incontro organizzato da “Nessuno tocchi Caino” a cui ha partecipato anche Gianni Alemanno. Il problema è che è grave non far niente dopo aver annunciato interventi sulle carceri. E la responsabilità è tutta della destra al governo. Da detenuto dico: se l’ergastolo è così, meglio morire di Guido De Liso Giornale di Brescia, 1 ottobre 2025 Sono un condannato all’ergastolo, detenuto da oltre 24 anni e da 2 ammesso al regime di semilibertà, almeno lo sono stato fino a prima del mio arrivo a Verziano, a Brescia. Non nascondo che i miei primi anni di carcere sono stati abbastanza turbolenti, fino a quando non ho fatto un incontro speciale che man mano mi ha mostrato un punto di vista totalmente diverso. Ho incontrato la cultura! Sono entrato in carcere che non sapevo né leggere né scrivere. Ho incontrato persone molto speciali: persone che non dovrebbero mai mancare nelle carceri: gli insegnanti, portatori di speranza e salvezza. Ho frequentato un corso di alfabetizzazione, ho ottenuto la licenza media, mi sono diplomato e sono iscritto al corso di filosofia presso l’Università Statale di Milano. Faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti”, partecipo a molti progetti, tra cui “La scuola entra in carcere e il carcere a scuola”, portando la mia testimonianza di vita e quanto la scuola può essere salvezza per un ragazzo. Ho partecipato a diversi convegni presso l’Università Statale di Milano, insomma la mia consapevolezza che la mia conoscenza è pari a zero mi porta sempre a guardare oltre e pensare ad ogni cosa sempre come un nuovo punto di partenza e mai un arrivo. Tutto questo ha portato il mio magistrato di Padova ad ampliare il mio programma trattamentale. Infatti uscivo alle 6.30 del mattino e rientravo alle 21 dal lunedì al venerdì, mentre il sabato e la domenica uscivo al mattino alle 5 e rientravo alle 23. Proprio per permettermi di reinserirmi nel mondo lavorativo, avrei potuto coltivare i miei affetti (infatti, il sabato e la domenica mi permetteva di venire a Brescia, dove risiede la mia compagna), tanto per continuare i miei studi universitari e le relazioni sociali che c’erano. Tutto questo fino a quando sono stato a Padova. Un po’ di mesi fa, tramite il mio docente di criminologia, sono riuscito a trovare una proposta di lavoro a Brescia, quindi l’idea finalmente di poter coltivare con più disponibilità i miei affetti familiari, avere uno spazio tutto mio dove poter studiare. La mia ignoranza non mi ha permesso di sapere che c’è uno Stato bresciano, perché davanti ad ogni richiesta la risposta è sempre uguale: “qua siamo a Brescia e funziona così!”. Sono arrivato a Brescia il 5 settembre 2025 e mi trovo in uno stato detentivo che paragonarlo a quello dei miei primi anni di carcere sarebbe poco. Ho incontrato il mio supervisore dopo solo 7 giorni dal mio arrivo, entusiasta di quanto aveva trovato nel mio fascicolo personale, tanto da provvedere a preparare un nuovo piano trattamentale con orari dalle 06.00 alle 23.00 dal lunedì alla domenica. Programma firmato anche dalla direttrice dell’istituto e quindi inviato al magistrato per l’approvazione. Almeno così dovrebbe essere! Il 26 settembre vengo convocato dal mio supervisore convinto di presentare il mio atteso programma trattamentale e finalmente uscire dal carcere e riprendere quella che fino a 21 giorni prima era la mia vita. La notizia ricevuta non è stata questa ma tutt’altro. Il magistrato aveva rigettato la richiesta della direttrice e del supervisore, chiedendo orari molto più ristretti, rientrare tutte le sere alle 19. Questo non mi avrebbe permesso di coltivare i miei affetti, lo studio, cioè uno stato regressivo, violando in questo modo il “principio di non regresso nel trattamento”. La cosa ancora più grave è il fatto che tutto questo mi è stato detto a voce, senza alcuna comunicazione formale, dove io avrei almeno potuto impugnare, quindi esprimere le mie ragioni, legge garantita del nostro Stato italiano. Tutto questo è davvero assurdo se pensiamo che la nostra Costituzione dice che è dovere rieducare soggetti devianti affinché possano essere restituiti alla società come persone migliori! Questa è concretamente una forma di terrorismo psicologico. Infatti, consapevole della mia condanna, ho scritto al nostro Presidente affinché potesse mutare la mia condanna all’ergastolo in pena di morte! Sinceramente non riesco ad accettare una regressione senza motivazione del mio trattamento e da giovedì scorso, 26 settembre, ho iniziato lo sciopero della fame e della sete! Qualcuno dice che esiste un’altra vita, magari in quella non sarò solo quanto ho fatto di sbagliato. Auspico che questa mia lettera venga pubblicata in primis per il sottoscritto e per tutti quei detenuti che subiscono la stessa tortura in silenzio. Piano carceri: entro l’anno altri 506 posti, 10mila nel 2027 di Flavia Landolfi Il Sole 24 Ore, 1 ottobre 2025 Terza cabina di regia a Palazzo Chigi sull’edilizia penitenziaria. Il ministro Nordio: “Entro il 2026 sovraffollamento risolto”. L’associazione Antigone: “Piano inutile”. Si è svolta ieri a Palazzo Chigi la terza riunione della cabina di regia per l’edilizia penitenziaria, appuntamento ormai periodico per dare gambe al Piano carceri varato a luglio con il dettaglio degli interventi da attuare. Alla riunione, promossa anche dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, hanno partecipato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, i sottosegretari alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove e Andrea Ostellari, il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio. Secondo il programma triennale degli interventi, entro il dicembre 2027 saranno consegnati complessivamente 10.676 nuovi posti detentivi, di cui 2.636 a cura del Dap, 57 del Dgmc, 3.314 del Mit e 4.669 del commissario straordinario. Il calendario prevede che da settembre a dicembre 2025 saranno resi disponibili 506 posti (di cui 445 del Mit), nel 2026 ulteriori 5.739 e nel 2027 altri 4.074, per un totale di 10.319 unità. A questi si aggiungono gli 859 posti già consegnati da12022 a oggi, così che per l’intero arco della legislatura i nuovi posti detentivi saranno complessivamente 11.178. Tra i lavori già portati a termine o in fase di ultimazione entro la fine del 2025 figurano: i 200 posti alla casa di reclusione di Sulmona (Aq), 192 del nuovo reparto 41 bis a Cagliari-Uta, i due nuovi padiglioni della casa circondariale di Livorno con 124 e 138 posti, gli &posti alla casa di reclusione di Fossombrone (Pu), oltre ai nuovi spazi negli istituti minorili con17posti a Gasai del Marmo a Roma, 28 a L’Aquila e 29 a Lecce. Mentre dall’anno prossimo dovrebbero partire i lavori a San Vito al Tagliamento, Isili Colonia Agricola (Cagliari), Forlì lotti i e 2, Oristano, Is Arenas (Sud Sardegna), Milano Opera, Brescia Verziano, Milano Bollate, Bologna, Roma Rebibbia lotto i, Milano San Vittore (raggi IV e II). Parallelamente, il lavoro dei provveditorati interregionali per le opere pubbliche del Mit è già in corso. Dal 2022 sono stati consegnati 530 posti al Dap, a cui si aggiungeranno 445 entro il 31 dicembre 2025. Il piano del Mit prevede inoltre 1.087 posti da consegnare entro la fine del 2026 e altri 1.782 entro dicembre 2027, per un totale di 3.314 posti. “Penso che entro il 2026 il problema del sovraffollamento sarà risolto”, ha detto il ministro Nordio sottolineando che “è importante agire sulla carcerazione preventiva” oltre che su “un piano per il quale entro la fine del prossimo anno avremo già alcune migliaia di posti in più nelle carceri”. Ma per il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, “non è coni piani straordinari di edilizia penitenziaria che si risolve il problema cronico del sovraffollamento: ci vuole una politica che trovi sanzioni diverse, più efficaci, meno costose, meno afflittive, meno violente”. Il sistema carcerario è in allarme rosso: secondo gli ultimi dati il tasso di affollamento reale si aggira tra il 134-135% mentre oltre 60 istituti superano il 150% della capienza. Separazione delle carriere, penalisti e toghe in trincea. La politica resta a guardare di Valentina Stella Il Dubbio, 1 ottobre 2025 “Andremo avanti sulla riforma della giustizia e non contro la magistratura ma per liberare la magistratura dalla malapianta delle correnti politicizzate: la vogliamo liberare dalla politica”: lo ha detto ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al comizio elettorale a Lamezia Terme a sostegno di Roberto Occhiuto. Ancora presto per dire se questo sarà lo slogan della campagna del referendum. Certo è che più passano i giorni, più aumentano le occasioni e più la premier incalza sulla riforma della giustizia. E dall’altra parte dell’emiciclo che succede? Sarà la sconfitta alle elezioni regionali delle Marche, sarà che la riforma costituzionale della separazione delle carriere ancora deve essere approvata in quarta lettura al Senato, ma le opposizioni - Partito democratico e Movimento 5 Stelle primi tra tutti - sono ancora ai blocchi di partenza rispetto alla campagna in vista del referendum confermativo. Al momento nessun ragionamento sarebbe stato fatto per delineare una strategia efficace per il “No” al voto plebiscitario. Mentre nel centro- destra il vice premier ed esponente di Forza Italia Antonio Tajani ha già annunciato i comitati per il “Sì” e diversi parlamentari azzurri starebbero premendo anche per percorrere tutte e tre le strade che la Costituzione offre per indire referendum (un quinto dei membri di una Camera, le sottoscrizioni di cinquecentomila elettori e la richiesta di cinque Consigli regionali), in modo da presidiare territori e sfruttare ogni istante possibile per spronare al “Sì”, nel centro sinistra tutto è fermo al momento. “La strategia è ancora oggetto di valutazione, non ci sono scenari definiti”, ci spiega infatti il senatore dem Alfredo Bazoli. “Certamente - assicura l’esponente dem della commissione Giustizia di palazzo Madama - saremo tutti impegnati per divulgare correttamente un tema così importante e delicato”. Gli slogan non sono ancora stati definiti a tavolino, nessuna regia operativa è al lavoro. Tuttavia ci spiega sempre Bazoli che “il messaggio non potrà che semplificarsi data la complessità della questione. Abbiamo comunque tante armi dialettiche a nostra disposizione”. Prima tra tutte “quella di evidenziare i rischi della riforma, in un contesto in cui le democrazie liberali sono in pericolo e lo Stato di diritto è sotto attacco. Questo avviene anche attraverso una delegittimazione della magistratura, come accade anche con Trump negli Stati Uniti e al quale questa destra è molto vicina”. C’è poi una incognita che pesa sulla campagna che verrà. La conferma di Francesco Acquaroli a governatore delle Marche contro Matteo Ricci mette in crisi il campo largo tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle. C’è ovviamente da chiedersi che impatto questo risultato elettorale potrà avere in vista del referendum sulla riforma targata Giorgia Meloni e Carlo Nordio. Anche su questo Bazoli non ha dubbi: “Non credo che la sconfitta nelle Marche possa ripercuotersi sul percorso verso il referendum. Con i 5S e le altre opposizioni continueremo a dialogare e saremo uniti anche nella battaglia referendaria”. Dai pentastellati, invece, al momento silenzio assoluto. Sta di fatto che se nelle Camere penali qualcuno teme che la politica voglia appaltare quasi tutta la campagna comunicativa che verrà all’avvocatura, quello che di certo non possono permettersi le opposizioni è che a tirare il carretto sia solo l’Anm. I magistrati, infatti, non hanno una presenza capillare sul territorio come i partiti, in primis i dem. Né hanno quella capacità dialettica delle forze politiche che sarà essenziale per arrivare a quanti più cittadini possibile. A proposito di Ucpi, ieri il presidente La Russa, intervenendo a Palazzo Wedekind alla VII edizione della Scuola The Young Hope, ha dichiarato: “Ero alla riunione delle Camere penali e ho detto che la cosa veramente importante è che, se sono chiamati a decidere i cittadini, quella soluzione deve essere accettata da tutti, sia se passa che se non passa. In questo caso - e qualcuno non è stato del tutto d’accordo - essendo io presidente del Senato, io ho le mie idee, ma soprattutto per il ruolo che ho voglio essere assolutamente neutrale, pur avendo chiaramente delle idee in proposito”. Era stata proprio quella dichiarazione di “neutralità” a far storcere il naso a qualche penalista, come riportato nel pezzo di ieri attraverso le parole di Valentina Alberta, ex presidente della Camera penale milanese. E forse La Russa lo ha capito o ci ha letto. Comunque ha tenuto a ribadire quel concetto di grammatica istituzionale che è percepito da altri come un abbandono. Dalla panoramica che vi abbiamo proposto negli ultimi giorni, cercando di scovare le strategie di tutti gli attori in campo, possiamo dedurre che quelli più avanti col lavoro sono sicuramente magistrati e avvocati. La politica per ora resta a guardare. Vedremo nelle prossime settimane cosa cambierà. Carriere separate, il vero rischio è un Csm destinato all’irrilevanza di Edmondo Bruti Liberati Il Dubbio, 1 ottobre 2025 La riforma di Nordio potrebbe indebolire il Consiglio superiore, vero pilastro dell’indipendenza giudiziaria. “Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grandemente esagerata.” Così Mark Twain in un telegramma all’Associated Press, dopo aver appreso che era stato pubblicato il suo necrologio. Si parva licet la stessa impressione mi ha destato il titolo “Ma è antico il no dell’Anm al diritto penale liberale” che Il Dubbio di ieri l’altro ha posto ad un contributo del prof. avv. Oliviero Mazza. Una volta tanto non si può dire che il titolista abbia forzato il contenuto dell’articolo. Non so se tutti gli oltre 200.000 avvocati italiani siano schierati e compatti dietro l’Unione delle Camere penali nel sostegno “senza se e senza ma” alla riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario, di cui la separazione delle carriere è un aspetto, a mio avviso neppure il più rilevante. Ma in magistratura da sempre e su tutti i temi che riguardano la giustizia vi è un ampio dibattito e le posizioni sono così articolate, che si esprimono anche nella adesione all’una o all’altra delle “correnti”. La storia della riforma del codice di procedura penale è una storia complessa, che ha visto avanzate e punti di arresto, questi ultimi essenzialmente per la resistenza di parti rilevanti delle forze parlamentari. Il dibattito è stato vivo nei partiti, nell’accademia, nella magistratura e nell’avvocatura. Fin all’ultimo l’entrata in vigore fu in forse, ma non è esatto che “la magistratura tentò in tutti i modi di bloccarne l’entrata in vigore con il pretesto, non certo inedito, della scarsità delle risorse”. Vi erano in magistratura resistenze motivate da dubbi di efficacia nella repressione della criminalità organizzata e del terrorismo: resistenze guidate da molti, non tutti, i pm e i giudici istruttori che erano stati impegnati in quei settori. Una testimonianza di queste posizioni la troviamo in un corposo saggio pubblicato nella rivista Cristianità n. 197- 198 (1991) con il titolo “Denegata giustizia” nel paragrafo “Il nuovo processo: il miglior regalo alla malavita” ove si denuncia la “impossibilità con le nuove norme di perseguire la delinquenza organizzata”. Nel successivo paragrafo intitolato “Il pubblico ministero alle dipendenze dell’esecutivo” si considerano ineluttabili due conseguenze: “È più che ovvio domandarsi per quale motivo il pubblico ministero deve restare un magistrato, e non può essere, per esempio, un funzionario alle dipendenze del ministro degli Interni. Le indicazioni di priorità circa l’iniziativa penale, oggi di fatto provenienti dai capi degli uffici giudiziari, passerebbero di diritto nella competenza del potere esecutivo. Quest’ultimo potrà determinare non solo quali reati vanno perseguiti e quali no, ma pure in quali aree di illecito, e addirittura nei confronti di quali soggetti va esercitata la giurisdizione; con ciò ponendo fine sia alle garanzie di autonomia del pubblico ministero rispetto al potere politico, sia anche a quella dei magistrati giudicanti, le cui decisioni potranno riguardare solo quanto l’inquirente avrà loro sottoposto, una volta esercitata la propria discrezionalità”. Reperto archeologico se non fosse che l’autore è un magistrato che, usufruendo delle cosiddette porte girevoli, ha fatto una certa carriera politica: Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Resistenze importanti ma, all’esito di un vivace dibattito interno, l’Associazione nazionale magistrati, nella sua rappresentanza di vertice, prese posizione in favore della entrata in vigore del nuovo c. p. p.. Posso darne testimonianza diretta perché all’epoca in Anm ero segretario generale (presidente Raffaele Bertone). Altrettanto vivace il dibattito interno alla magistratura in occasione della proposta di riforma dell’articolo 111 Costituzione, ma tutti riconoscono il rilevante, se non decisivo contributo, di Salvatore Senese, allora senatore, magistrato con una rilevante storia nell’associazionismo giudiziario, essendo stato in precedenza segretario generale dell’Anm e di Magistratura democratica. L’allora magistrato Mantovano riteneva ineluttabile con la separazione delle carriere la dipendenza dall’esecutivo del pm, ridotto al rango di funzionario. Nulla è ineluttabile, ma il rischio vi è, a dispetto delle rassicurazioni degli attuali legislatori costituzionali. Le persone passano, le norme, tanto più se di rango costituzionale, restano. In molti democratici Paesi che, in regime di separazione delle carriere, conoscono varie forme di collegamento con l’esecutivo del pm, finora questo intervento è stato esercitato con misura. La realtà di oggi dall’Ungheria di Orban agli Stati Uniti di Trump alle varie pulsioni anche in Paesi europei verso una “democrazia autoritaria” ci mostrano come, in mancanza di solidi baluardi costituzionali, quel self restraint possa essere spazzato via in un attimo. Ecco perché non mi stanco di invitare coloro che di questa riforma costituzionale sostengono la separazione delle carriere a considerare ciò che non è appendice o poco rilevante contorno, ma il “piatto forte”: l’indebolimento se non la riduzione all’irrilevanza del Csm. È un modello che ha i suoi limiti, non è l’unico che gli ordinamenti democratici adottano per una garanzia forte dell’indipendenza della magistratura. Ma lo si riduce all’irrilevanza senza sostituirvi nulla. L’esperienza insegna che a nulla vale mantenere la formale proclamazione dell’indipendenza del terzo potere, senza istituti che ne garantiscano la effettività. Rigorosa tutela dell’indipendenza della magistratura è la base del diritto penale liberale e prima ancora di un ordinamento liberaldemocratico garante dei diritti delle persone. Politica in pressing sulla magistratura: “I giudici devono mantenere il coraggio della decisione” di Alberto de Sanctis e Lorenzo Zilletti Il Riformista, 1 ottobre 2025 Le definisce “affermazioni che, se sono state effettivamente rese, lasciano sconcertati”, Guido Piffer, magistrato già presidente di sezione penale della Corte d’Appello di Milano e autore di prestigiose pubblicazioni giuridiche. Stiamo parlando dell’uscita di Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, all’indomani della sentenza torinese sul caso Regna. L’onorevole di Coraggio Italia ha infatti tenuto a far sapere ai media di aver “già provveduto alla richiesta degli atti del procedimento”, con l’intenzione di portare in ufficio di presidenza la richiesta di audizione dell’estensore del provvedimento. Frasi che incarnano il prototipo della violazione di indipendenza della magistratura, un’invasione di campo davvero esecrabile... “La ragione del mio sconcerto nasce dalla loro inconciliabilità con alcuni capisaldi dello Stato di diritto: una commissione parlamentare convoca un giudice per chiedere conto di una sua sentenza? Di fronte a questa confusione si avverte l’esigenza di rimettere “ogni cosa al suo posto”. Siamo comuni estimatori dell’ultima fatica di Massimo Luciani… “Infatti riconoscete la citazione. Ricordo innanzitutto che la decisione del giudice penale comporta un’attività complessa: la valutazione delle prove (per es. dell’attendibilità o inattendibilità dei testimoni); la ricostruzione del fatto e la verifica della sussistenza o insussistenza della responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio; la qualificazione giuridica del fatto e, nel caso di condanna, la quantificazione della pena, coinvolgente la valutazione del disvalore oggettivo e soggettivo del fatto, il che implica spesso delicate scelte valoriali. È il campo dominato dal principio del libero convincimento che non si risolve in un arbitrio, perché il giudice deve dare conto di tutti i passaggi del suo ragionamento in una motivazione adeguata e coerente. Qualora la decisione non sia condivisa dalle parti, la motivazione potrà passare al vaglio di un giudice superiore ed in ultima istanza della Cassazione. Il richiamare questi principi e quindi l’indipendenza della magistratura, non significa sminuire l’importanza del corretto esercizio del diritto di critica, perché entrambi sono coessenziali: di entrambi vi è un estremo bisogno, per superare l’assurda polarizzazione tra la denigrazione ingiustificata e l’esaltazione acritica della magistratura, dovuta al fatto che spesso manca quell’onestà intellettuale che permette di superare i pregiudizi ideologici (di qualunque tipo) per poter conoscere la realtà”. Cadremmo anche noi in errore se, ignorando gli atti e non avendo assistito alla formazione della prova, volessimo dare i voti alla sentenza torinese... “Senza entrare nel merito della decisione in questione, non si può certo dire che essa non sia sorretta da un’ampia motivazione, sicché appare non costruttiva l’affermazione di chi senza fornire alcuna motivazione sostiene che invece di assolvere per i maltrattamenti il giudice avrebbe dovuto condannare: se in coscienza egli ha ritenuto insussistente la prova di tale reato ed ha motivato tale decisione, sarà l’eventuale giudizio di appello a verificare la correttezza della decisione. Sono principi scontati di civiltà giuridica. Riguarda invece un profilo completamente diverso la stigmatizzazione del linguaggio usato in alcune frasi della sentenza, perché inutili ai fini della decisione: al riguardo vi è stato un giudizio unanime da parte di chi ha commentato la sentenza ed io condivido tale rilievo critico, perché negli atti giudiziari la continenza espositiva è irrinunciabile. Esprimendo questa valutazione critica (che peraltro riguarda un aspetto marginale della motivazione) si rimane ancora nel legittimo e utile esercizio del diritto di critica”. Principi scontati fino a un certo punto, visto il livello dell’informazione sui temi giudiziari: sembra che la materia “codice rosso” imponga per ciò solo una condanna al massimo della pena. Fuori da questo ambito, le assoluzioni passano sotto silenzio e a far clamore sono le indagini, anche molto prima dell’eventuale condanna... “È un fenomeno noto e spesso aspramente criticato, ma senza alcun esito positivo. In casi come questo colpisce la “creazione” e l’orientamento della “indignazione” dell’opinione pubblica, senza la minima preoccupazione di ricercare e rispettare la realtà dei fatti. Questo comporta una manipolazione del senso di giustizia sostanziale, che è anche una risorsa preziosa nell’esercizio della stessa giustizia formale. Ma per non essere tradito il senso di giustizia deve basarsi su dati di realtà non manipolati, in una parola sulla verità”. Domani i giudici si sentiranno liberi di assolvere, quando non riterranno raggiunta la prova della colpevolezza, per reati capaci di colpire il comune sentimento di solidarietà verso una tipologia di vittima (la donna, il bambino, l’anziano, il malato)? “La domanda coglie un problema reale. Secondo la mia esperienza, una delle doti fondamentali del giudice deve essere il coraggio della decisione, che presuppone la capacità di rendersi conto e di superare non solo i condizionamenti esterni (derivanti dai molti ed eterogenei “poteri” presenti nella società), ma anche i condizionamenti derivanti dalle proprie concezioni culturali e politiche, o legate alle aspettative di carriera, ecc. Soprattutto in materie “sensibili”, sulle quali si registrano radicali contrapposizioni culturali nella società, il violento attacco ad un magistrato proveniente dagli indicati poteri ed esorbitante i limiti di un corretto diritto di critica può sicuramente condizionare un magistrato, inducendolo a non prendere una decisione obiettivamente corretta per il timore (magari inconscio) delle reazioni che la decisione può suscitare. Né va dimenticato che sottili condizionamenti negativi possono riguardare anche la valutazione delle prove, per esempio dell’attendibilità di certe testimonianze. Questi condizionamenti impediscono di vedere la realtà in tutti i suoi fattori e di applicare correttamente la legge. È un lavoro su di sé che richiede la capacità di obiettivare come si sta ragionando mentre si decide e quindi di esplicitare cosa incide negativamente su tale ragionamento per contrastarlo. Una critica pacata e motivata delle sentenze può invece favorire una presa di consapevolezza da parte del magistrato delle implicazioni valoriali coinvolte nelle sue decisioni e quindi può aiutarlo a superare eventuali condizionamenti, favorendo decisioni corrette”. Csm, stallo sulle Commissioni: correnti ancora al centro del gioco di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 ottobre 2025 “Mai come questa volta l’incertezza è massima”, afferma un consigliere del Consiglio superiore della magistratura, interpellato ieri per avere qualche delucidazione su quello che è diventato ormai a tutti gli effetti il classico “tormentone”. Ed in effetti, dopo giorni di discussioni interminabili, ancora ieri pomeriggio non si conoscevano i nomi dei futuri componenti delle Commissioni di Palazzo Bachelet. “È evidente che le correnti continuano ad esercitare un forte potere di condizionamento delle attività consiliari”, afferma Antonio Leone, ex laico del Csm. “Al di là dell’unità di facciata, le divisioni all’interno del Consiglio sono evidenti e non mi pare che si siano stati cambiamenti significativi rispetto alle tanto vituperate logiche del passato”, prosegue Leone che fece parte della consiliatura di Luca Palamara, ex zar delle nomine caduto poi in disgrazia. “Quanto sta accadendo in questi giorni al Csm mi pare il miglior viatico per la riforma della separazione delle carriere che prevede, come è noto, anche il sorteggio dei componenti dei prossimi due organi di autogoverno di giudici e pm”, gli fa eco Pierantonio Zanettin, anch’egli ex componente laico del Csm ed ora capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia al Senato. La scadenza delle attuali Commissioni è prevista per il prossimo 8 ottobre. I consiglieri hanno avuto tempo fino al 18 settembre scorso di indicare le proprie preferenze, sia per quanto riguarda la Commissione di destinazione sia per quanto riguarda le presidenze. La decisione finale spetta al Comitato di Presidenza, presieduto da Fabio Pinelli e rinnovato dopo la nomina del nuovo primo presidente della Cassazione, Pasquale D’Ascola, e del nuovo procuratore generale, Pietro Gaeta. La Commissione più ambita rimane sempre la Quinta, quella che decide le nomine e, dunque, l’orientamento correntizio delle procure. Mai in passato appannaggio di un laico di destra. Si tratta della prima partita politica per la nuova “triade” del Csm. Un tema tutt’altro che secondario, poiché sono proprio le Commissioni il vero asse portante del lavoro consiliare. Sebbene sia il plenum l’organo deliberativo per eccellenza, oltre il 90 percento delle delibere approvate proviene infatti dal lavoro istruttorio svolto nelle Commissioni. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’assemblea recepisce quanto proposto in quelle sedi. Ciò vale in generale, ma è ancor più evidente per la Quinta: è lì che il gioco delle correnti è più forte, dato che la posta in gioco sono gli incarichi direttivi e semidirettivi. Storicamente, la “spartizione” delle Commissioni si è basata sui criteri del Manuale Cencelli, con ogni corrente che tenta di piazzare i propri rappresentanti in base ai rapporti di forza. In passato, si è però anche assistito a scelte penalizzanti verso singoli consiglieri, come nel caso del togato indipendente Andrea Mirenda, adesso in una sola Commissione (la Prima, quella delle incompatibilità), mentre tutti gli altri ne hanno ottenute almeno due. E ciò, a giugno dello scorso anno, fu motivo di aspre polemiche. Attualmente, come detto, la composizione delle Commissioni rispecchia i rapporti di forza tra le correnti. Tre le presidenze in mano a Magistratura indipendente: Paola D’Ovidio alla Terza (trasferimenti, promozioni e assegnazioni dei magistrati) e alla commissione Verifica titoli; e Maria Vittoria Marchianò alla Settima (organizzazione degli uffici giudiziari). Due le presidenze ad Area, con Tullio Morello alla Prima e Maurizio Carbone all’Ottava (magistratura onoraria), e una a Unicost, con Roberto D’Auria alla Sesta, quella che fornisce i pareri sulle leggi del governo, prima guidata da Marcello Basilico di Area. Altre tre presidenze sono in mano ai laici di centrodestra, in particolare a tre consiglieri indicati da FdI: Daniela Bianchini alla Nona (rapporti istituzionali nazionali e internazionali; attività di formazione; esecuzione penale), con un posto anche in altre due Commissioni (da vice nella Terza e in Quarta come componente), Isabella Bertolini alla Quarta (valutazioni di professionalità) e Felice Giuffrè all’Ufficio Studi. Alla Quinta, infine, il laico di Italia viva Ernesto Carbone, che era riuscito a “strapparla” al centrodestra. Nessuna presidenza per la laica in quota Lega Claudia Eccher, storica avvocata di Matteo Salvini. Il rinnovo delle Commissioni è fondamentale anche in vista delle molte nomine ancora da effettuare. La Quinta, da sola, potrebbe trovarsi a gestire infatti oltre 200 fascicoli da qui a fine consiliatura, mentre la Terza sarà rilevante per i trasferimenti e le nomine di legittimità in luoghi cruciali come la Cassazione. La Settima, infine, avrà un ruolo chiave per la gestione e rendicontazione dei fondi Pnrr. Caso Almasri, la Giunta dice no al processo per il Governo di Errico Novi Il Dubbio, 1 ottobre 2025 Forse le argomentazioni del centrosinistra sul caso Almasri sono deboli. Tali appaiono anche dopo il voto con cui ieri la Giunta per le autorizzazioni a procedere di Montecitorio ha respinto (grazie ai 13 “no” del centrodestra contro i 6 “sì” delle opposizioni) la richiesta di mandare a giudizio i tre componenti dell’Esecutivo accusati dal Tribunale dei ministri: Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano. La conta nel “tribunalino” della Camera ha decretato la non approvazione del documento con cui il relatore Federico Gianassi, del Pd, aveva appunto chiesto che ministri e sottosegretario finissero alla sbarra. E appunto, le argomentazioni di Gianassi, come altre pesanti contestazioni scagliate non solo dai dem ma anche da Luana Zanella di Avs (“la destra blinda i suoi esponenti e alza il muro dell’impunità”) non sono robustissime. Ma non è il cuore del problema: il pronunciamento di ieri non ha chiuso la pratica. Serviva solo ad arrivare al match decisivo, previsto per il 9 ottobre nell’aula della Camera, con una proposta definita. Visto che ieri la proposta di Gianassi è stata respinta, a formularne una nuova, direttamente nell’Emiciclo di Montecitorio, sarà un nuovo relatore, stavolta di centrodestra, vale a dire l’azzurro Pietro Pittalis. Ma come ha spiegato ieri pomeriggio, subito dopo la riunione di Giunta, Devis Dori, anche lui di Avs e presidente dell’organismo, Gianassi potrà svolgere “una relazione di minoranza”. Significa che giovedì della prossima settimana, nella tappa conclusiva della procedura parlamentare su Almasri, l’opposizione potrà scagliare nella scontata diretta tv le proprie accuse all’Esecutivo. E non saranno leggere. Lo si intuisce dalle dichiarazioni che sempre Gianassi ha rilasciato ieri dopo il voto: “La maggioranza vuole giudicarsi da sola, si è messa di traverso a quella che sarebbe stata la decisione più saggia: permettere alla giustizia di fare il suo corso”. E poi: “Sul caso Almasri troppe cose non tornano: dalle omissioni via social della presidente Meloni alle menzogne dei ministri, che in Parlamento hanno portato versioni contraddittorie solo per nascondere agli italiani due verità gravissime: la decisione di liberare un criminale internazionale senza consegnarlo alla Corte penale e il fatto che il governo è sotto ricatto di una milizia libica”. Dopodiché Gianassi prende una traiettoria che sembra poco utile ad argomentare la necessità mandare ministri e sottosegretario a processo, ma è perfetta in vista della lapidazione mediatica che si preannuncia per il 9 ottobre: “Si frantuma l’auto- celebrazione di Meloni secondo cui il governo italiano non è ricattabile: è bastato un tagliagole libico per dimostrare il contrario”. Valutazioni a metà fra moralismo e censura politica, che però faranno un certo effetto in tv, nella seduta live da Montecitorio. La strumentalità politico-giudiziaria è d’altronde il segno distintivo dell’intera vicenda: un’operazione - il rimpatrio in Libia, lo scorso 21 febbraio, di Almasri, ricercato dalla Corte dell’Aia - che in realtà è stata condizionata dalla “necessità di non aggravare rischi per persone e interessi nazionali”, come ha spiegato già ieri il neorelatore Pittalis. Il deputato di FI ripeterà gli stessi concetti il 9 ottobre in Aula: “Non è sostenibile dire che si è mentito al Parlamento: il governo ha selezionato il profilo motivazionale divulgabile e, sulle minacce, ha preservato il circuito informativo: l’ordinamento lo consente”. Proprio ieri si è avuta notizia che il nuovo capo della polizia giudiziaria libica, Abdul Dubub, ha rimosso Almasri da tutti gli incarichi, e che l’ex “macellaio” del carcere di Tripoli cercherebbe ora una via di fuga dal proprio Paese. È lo scenario che consente alla responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani di imbastire un’accusa meno strumentale: “Il governo deve dare spiegazioni: gli italiani e gli interessi nazionali in Libia sono ancora tutelati? È una domanda più che lecita, dal momento che Nordio, Piantedosi e Mantovano hanno affermato di aver agito per garantire la sicurezza dei nostri connazionali: a questo punto, cosa sta accadendo davvero?”. Serracchiani cita quindi i tentativi di “fuggire dalla Libia” compiuti da Almasri. Sul piano dell’immagine, le ulteriori forche caudine approntate dall’opposizione non saranno un balsamo, per il governo. Vero è che il tempo aggiusta tutto: la scadenza politica vera, il referendum sulle carriere separate che vede proprio Nordio esposto più di ogni altro, arriverà in primavera. Perciò l’epicentro della tensione, sul caso Almasri e non solo, è destinato a slittare dal ministro della Giustizia alla capo Gabinetto di via Arenula Giusi Bartolozzi: per lei - indagata dalla Procura di Roma per presunte false dichiarazioni relative sempre al caso libico - il centrodestra si prepara a sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Consulta, subito dopo il voto sul governo del 9 ottobre. Ma nei confronti di Bartolozzi, il centrosinistra già affila le armi, per i tempi supplementari di una partita sfibrante che sembra non finire mai. O che pare destinata a trascinarsi quanto meno fino al già citato referendum sulla riforma Nordio. Salute al 41-bis: ribadito il primato della tutela sanitaria e dell’esame “in concreto” altalex.com, 1 ottobre 2025 Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza aveva respinto l’istanza proposta nell’interesse di una donna, detenuta in espiazione della pena dell’ergastolo, in regime differenziato ex art. 41 bis ord. pen, volta ad ottenere il differimento pena per ragioni di salute, la Corte di cassazione penale, Sez. I, con la sentenza 23 settembre 2025, n. 31812 - nell’accogliere la tesi difensiva che si doleva del fatto di non aver avuto tempo di esaminare la relazione sanitaria, su cui era fondato il diniego, in quanto pervenuta lo stesso giorno dell’udienza e dell’illogicità della motivazione che aveva ritenuto adeguata l’assistenza nel carcere ordinario anziché ammetterla in un centro clinico penitenziario esterno. Ha affermato il principio secondo cui anche nei confronti di detenuti sottoposti a regime differenziato ex art. 41-bis ord. pen. e con elevatissimi profili di pericolosità sociale, il giudice dell’esecuzione deve svolgere una verifica in concreto dell’adeguatezza delle cure sanitarie assicurabili “qui et nunc” in istituto (o in centro clinico penitenziario) e del rispetto del senso di umanità della pena. Ne consegue che non è legittimo motivare il rigetto del differimento (o della detenzione domiciliare umanitaria) sul solo richiamo alla pericolosità se, in fatto, lo status quo detentivo non garantisce le cure necessarie, integrando il rischio di trattamento inumano o degradante. Belluno. Detenuto si è impiccato nel bagno della sua cella di Gigi Sosso Corriere delle Alpi, 1 ottobre 2025 Un 35enne detenuto nella sezione “Protetti” del carcere di Baldenich si è tolto la vita e il corpo è stato rinvenuto all’alba di ieri mattina dagli agenti della Polizia penitenziaria, allertata dai compagni. Un reparto destinato a reclusi, che non possono essere alloggiati nelle sezioni comuni a causa di condizioni personali, processuali o detentive, che li rendono esposti ad aggressioni o discriminazioni da parte della restante popolazione carceraria. È di nazionalità italiana e, secondo le prime informazioni, stava scontando una condanna definitiva per un reato a sfondo sessuale. Nella notte, l’uomo era andato al gabinetto, mentre gli altri dormivano e ha deciso di farla finita. La sua prolungata assenza non poteva non insospettire uno degli altri uomini, che l’ha chiamato a lungo, ma senza ottenere risposta. E allora bisognava per forza chiamare il personale della Penitenziaria, che ha sfondato la porta, ottenendo la conferma ai sospetti e chiamando il carro funebre. Era da più di nove anni che non succedeva, nella casa circondariale cittadina. L’ultimo caso era stato quello del maggio 2016, quando si era tolto la vita un 50enne, anche lui di nazionalità italiana, che era stato incarcerato solo poche ore prima per maltrattamenti in famiglia. A Baldenich, c’è la possibilità di lavorare grazie alla cooperativa sociale Sviluppo & Lavoro e producendo astucci per occhiali per conto di aziende importanti del territorio, oltre che guadagnando un regolare stipendio in base a un contratto di lavoro i detenuti sono meno assaliti da cattivi pensieri e possono prepararsi al momento in cui torneranno in libertà. Avranno imparato un mestiere e potranno aver messo via qualche soldo. Il carcere di Baldenich ha una capienza di 92 posti, dei quali sette non utilizzabili e, secondo i dati del ministero della Giustizia gli ospiti sono 106, compresi i transgender. Ai primi di agosto, era scattata una protesta con pentole sbattute sulle sbarre e parole irripetibili per sovraffollamento e caldo, che era proseguita un paio di giorni. È il cinquantottesimo tragico episodio dall’inizio dell’anno. Tre giorni fa, si era tolto la vita un 21enne di origine nordafricana, nel carcere Torre del Gallo di Pavia. Di fronte agli avvocati delle Camere Penali italiane riuniti a Catania, il ministro Carlo Nordio ha detto che “non c’è una relazione tra il sovraffollamento in carcere e il fenomeno dei suicidi”. Secondo il guardasigilli, infatti, il sovraffollamento carcerario “favorisce l’aggressività” ma non i suicidi, che secondo lui sarebbero più legati “alla solitudine e alla disperazione. Molto spesso, fatto singolare, molti suicidi avvengono nell’imminenza della liberazione. I suicidi in carcere sono un fardello di dolore e, purtroppo, anche negli altri Paesi non è che vada meglio, anzi peggio, ma questa non è una giustificazione o un’attenuante”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Sylla Mamadou andava curato, non incarcerato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2025 I garanti Ciambriello e Saggiomo chiedono verità su una tragedia annunciata: in 24 ore l’arresto, in evidente stato di alterazione psichiatrica, la detenzione a Santa Maria Capua Vetere e il decesso. Ventiquattro ore. Questo il tempo che intercorre tra l’arresto di Sylla Mamadou Khadialy e la sua morte nella cella del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Un lasso di tempo brevissimo che racchiude una tragedia umana e istituzionale, l’ennesima morte in custodia dello Stato che getta ombre inquietanti sulle condizioni del sistema penitenziario italiano e sulla capacità delle istituzioni di tutelare la vita di chi entra in carcere. Sylla Mamadou, 35 anni, cittadino senegalese residente a Casagiove, dipendente presso la prestigiosa sartoria Isaia di Casalnuovo di Napoli, fidanzato con una ragazza italiana, aveva una vita normale fino al 25 settembre scorso. Quel giovedì mattina viene fermato alla stazione ferroviaria di Caserta con l’accusa di aver rapinato un cellulare e di aver opposto resistenza agli agenti della Polizia Ferroviaria intervenuti. Ma già al momento del fermo emerge un elemento che dovrebbe far scattare tutti gli allarmi: Sylla si trova in uno stato di evidente agitazione psicomotoria. Quello che accade nelle ore successive è un susseguirsi di falle nel sistema, un passaggio di consegne tra istituzioni in cui la persona al centro dell’attenzione viene progressivamente spogliata della sua umanità e ridotta a un problema da contenere, piuttosto che a un essere umano da salvare. Dopo il fermo, Sylla viene trasferito al pronto soccorso dell’ospedale di Caserta. È qui che si consuma il primo, devastante, fallimento. Un uomo in stato di agitazione psicomotoria viene portato in ospedale, presumibilmente gli vengono somministrati sedativi, ma dopo circa otto ore - otto ore che restano avvolte nell’oscurità dell’assenza di documentazione chiara - viene dimesso. Dimesso nonostante si trovi ancora in uno stato di alterazione e aggressività. “Come è possibile?”, si chiedono i garanti Samuele Ciambriello, per la Regione Campania, e don Salvatore Saggiomo, per la Provincia di Caserta, che con fermezza hanno preso posizione su questa vicenda. Il giovane, che dovrebbe essere oggetto di attenzione medica specialistica, viene invece trasferito nella Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E qui inizia l’ultimo, drammatico capitolo della sua esistenza. All’ingresso in carcere, lo scenario è ancora più allarmante. Sylla presenta uno stato di dissociazione dalla realtà, manifesta una forte agitazione e assume atteggiamenti aggressivi verso chiunque gli si avvicini. Per motivi di sicurezza viene posto in isolamento nella cella di matricola, ma ogni tentativo di avvicinamento da parte del personale sanitario o penitenziario viene respinto con violenza. Si tenta anche un approccio mediato da un altro detenuto, ma l’iniziativa si rivela infruttuosa a causa dell’eccessiva agitazione del giovane. Lo psichiatra dell’istituto lo valuta e arriva a una conclusione che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme assordante: le condizioni di Mamadou sono tali da rendere inefficace una sedazione immediata in carcere. È necessario, rileva il medico, un trasferimento urgente in una struttura ospedaliera specializzata in emergenze psichiatriche acute. Viene richiesto l’intervento del 118, ma - ed è questo uno dei nodi più oscuri della vicenda - la procedura di Trattamento Sanitario Obbligatorio non viene attuata. Il personale sanitario somministra farmaci, ma il medico penitenziario non viene informato né sulla tipologia né sul dosaggio. Una catena di mancate comunicazioni, di procedure non rispettate, di protocolli disattesi. E nel mezzo di tutto questo, un uomo che muore. Quando il corpo senza vita di Sylla Mamadou viene trovato nella sua cella, è venerdì 26 settembre. Avrebbe dovuto esserci l’udienza di convalida dell’arresto quel giorno. Invece ci sarà un’autopsia, disposta dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, per fare luce sulle cause del decesso. Un sistema al collasso: l’infermeria chiusa da mesi - Ma c’è un ulteriore elemento che rende questa tragedia ancora più inquietante, un contesto che trasforma un caso apparentemente isolato in sintomo di una malattia sistemica: l’infermeria del carcere di Santa Maria Capua Vetere è chiusa dal 16 luglio 2025, per disposizione dei dirigenti sanitari. Da oltre due mesi, una struttura che ospita centinaia di detenuti - l’istituto “Francesco Uccella” è composto di sei reparti che accolgono oltre mille persone, tra cui un’articolazione per la tutela della salute mentale - non dispone di un’infermeria funzionante. Le conseguenze sono drammatiche: i detenuti sono privi di accesso tempestivo a cure e terapie, il personale penitenziario si trova in difficoltà nella gestione delle emergenze sanitarie. Don Salvatore Saggiomo aveva lanciato l’allarme già ad agosto, denunciando una “emergenza umanitaria” e una “situazione al collasso”. Le sue parole, purtroppo, si sono rivelate profetiche. “Ho riscontrato una situazione allarmante: l’infermeria è chiusa e non è stata ancora riattivata”, aveva dichiarato il Garante provinciale, sottolineando come alla chiusura dell’infermeria si affiancassero altre gravi criticità, tra cui la carenza cronica di personale sanitario e il sovraffollamento. Le domande senza risposta e l’appello dei garanti - Dopo la visita effettuata presso la Casa Circondariale, il Garante regionale Ciambriello è prontamente intervenuto con una comunicazione alla direttrice dell’istituto penitenziario e al responsabile della direzione sanitaria. Le domande che pone sono dirette, puntuali, imprescindibili per ricostruire la verità: “Chiedo di conoscere con urgenza gli eventi che si sono susseguiti a partire dal momento del suo ingresso in Istituto, quando è stato visitato dal medico presente in carcere, lo stato psico-fisico in cui è arrivato, e se sono state utilizzate misure di contenimento. Quali sono state le cause accertate al momento della dichiarazione del decesso”. E ancora, elemento fondamentale: “Chiedo di conoscere se sia stato applicato il protocollo per le lesioni di dubbia origine, che attraverso l’utilizzo di fotografie testimonia le eventuali lesioni del detenuto. Un protocollo che credo sia stato accettato e firmato, in caso contrario vorrei avere notizie in merito”. Tra i dubbi che aleggiano sulla vicenda c’è anche quello relativo alla Tac che sarebbe stata eseguita all’ospedale di Caserta e che sarebbe risultata negativa. Ma come è possibile effettuare un esame così complesso su un paziente in forte stato di agitazione? E soprattutto, quale valore diagnostico può avere un esame eseguito in quelle condizioni? La famiglia di Sylla, attraverso l’avvocato Clara Niola, ha sporto denuncia chiedendo che sul decesso venga fatta piena luce. Martedì 30 settembre, il centro sociale Ex Canapificio ha organizzato una marcia da piazza Dante alla Prefettura di Caserta per chiedere giustizia per Sylla Mamadou. “Il decesso di Sylla Mamadou rappresenta un evento gravissimo che impone una riflessione profonda”, dichiarano all’unisono Ciambriello e Saggiomo. I due garanti richiedono con forza “chiarezza e trasparenza sulle procedure adottate, una verifica rigorosa delle responsabilità, la riapertura immediata dell’infermeria penitenziaria e l’applicazione rigorosa dei protocolli per il rilevamento e la documentazione delle lesioni di dubbia origine”. La morte di Sylla Mamadou Khadialy non è solo una tragedia personale e familiare. È la cartina di tornasole di un fallimento collettivo, di uno Stato che perde per strada la sua responsabilità primaria: proteggere la vita di chi, per qualunque ragione, si trova in custodia. È l’ennesima morte in carcere che si aggiunge a una lista troppo lunga, è l’ennesimo grido d’allarme che rischia di cadere nel vuoto. Ora toccherà all’autopsia e alle indagini della Procura fare luce sulle responsabilità. Ma qualunque sia l’esito degli accertamenti, una verità è già inequivocabile: il sistema ha fallito. E Sylla Mamadou ne ha pagato il prezzo più alto. Viterbo. Andrea Di Nino, la protesta dei familiari: “Non si è suicidato. Voleva vivere” di Raffaele Strocchia viterbotoday.it, 1 ottobre 2025 “Andrea non si è suicidato, è stato ucciso. Giustizia per lui e per tutti i detenuti vittime della squadretta di Mammagialla”. Tonino Lazzarini, fratello di Andrea Di Nino, al sit-in davanti al tribunale di Viterbo insieme agli altri familiari e amici. Una manifestazione pacifica ma ferma, contro la richiesta di archiviazione dell’inchiesta per omicidio volontario sulla morte del 36enne di Roma, avvenuta il 21 maggio 2018 in carcere. Secondo la versione ufficiale, Di Nino si sarebbe tolto la vita nella cella d’isolamento. Una ricostruzione che la famiglia non ha mai accettato. L’inchiesta bis, contro ignoti, era stata aperta dopo la testimonianza di un ex detenuto che, sei anni dopo, ha raccontato ai parenti che il 36enne non si sarebbe suicidato, bensì sarebbe stato picchiato a morte da una cosiddetta “squadretta” di agenti penitenziari. I magistrati, però, non sarebbero mai riusciti a sentirlo. È stato comunque ritenuto inattendibile perché, a differenza di quanto dichiarato, non sarebbe risultato essere stato nella stessa sezione di Di Nino. Ma per Tonino Lazzarini la procura non ha approfondito le indagini: “Il supertestimone non si è presentato? Le Iene lo hanno trovato subito e lui ha parlato in tv. Invece di cercare altri detenuti presenti in isolamento quel giorno, hanno intercettato il telefono mio e di mia sorella. Ma noi non ci arrendiamo: Andrea non si è suicidato”. È stata espressa delusione nei confronti delle istituzioni: “Ci hanno voltato le spalle”. Per i familiari, Di Nino non aveva nessuna intenzione di togliersi la vita. “Era petulante - racconta Lazzarini -, chiedeva sempre di poter chiamare la mamma malata ed è per questo che era finito nel mirino. Andrea stava per ottenere i domiciliari, non vedeva l’ora di tornare dai suoi cinque figli. Pochi giorni prima del suo compleanno aveva chiesto una tuta della Roma e la sorella gliel’ha messa nella bara. Non voleva morire, voleva vivere”. Il fratello Valentino, invece, ricorda una frase inquietante: “Andrea mi disse che un penitenziario lo aveva minacciato: ‘Tu da qui non esci vivo’. E così è stato”. I familiari del 36enne hanno ribadito che continueranno a lottare affinché non cali il silenzio su una vicenda che, a loro avviso, rischia di rimanere senza giustizia: “Il caso di Andrea deve aprire altri casi e dare coraggio a chi ha paura di parlare. Perché ciò che succede dentro quelle mura non deve rimanere nascosto”. Al presidio era presente anche Diego, accompagnato da madre e compagna. È un altro detenuto che ha raccontato di essere stato aggredito all’interno del carcere: “Mi hanno colpito alla testa con i manganelli, ho riportato la frattura della mandibola e del braccio. Sono finito in coma in ospedale. È stata la squadretta e ho sporto denuncia. Devono pagare per quello che hanno fatto, come io ho pagato per i miei errori”. Bologna. Carcere della Dozza: un’altra sezione “protetti” e nuovi lavori nel 2026 di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 1 ottobre 2025 Al padiglione che ospitava i “giovani adulti” torneranno i detenuti del Penale. L’assessore Conti: “No a trasferimenti da fuori, alleggeriamo il sovraffollamento”. Si è conclusa definitivamente ieri, alla Dozza, l’esperienza della sezione ‘giovani adulti’. Gli spazi liberati sono già tornati nella disponibilità dell’amministrazione penitenziaria: e adesso dovranno di nuovo essere riempiti. Stando a quanto trapela, si prospetta una riorganizzazione degli spazi alla casa circondariale: stante che probabilmente le due sezioni temporaneamente ‘prestate’ al minorile torneranno a ospitare i detenuti del Penale (ossia con condanne definitive) che già le vivevano, la novità dovrebbe riguardare, invece, il terzo piano del padiglione giudiziario. Qui, in questi mesi, dopo il trasferimento dei detenuti in regime di alta sicurezza in altri istituti, erano stati ‘appoggiati’ i detenuti del penale. Due le sezioni che si andranno dunque a liberare e che potrebbero essere riconvertite adesso per ospitare i detenuti ‘protetti’: sex offender, ex collaboratori di giustizia o ex appartenenti alle forze dell’ordine che per ovvie ragioni di sicurezza non possono condividere gli spazi con i detenuti comuni. Quindi la sezione apposita già esistente alla Dozza verrà spostata al terzo piano giudiziario e un’altra verrà formata nella stessa area isolata. Una ridistribuzione di spazi che fa presagire la possibilità di trasferimenti da altre carceri, in un momento in cui l’istituto bolognese soffre di un sovraffollamento cronico e ingestibile. Sul tema, è intervenuta l’assessore regionale al Welfare Isabella Conti che ha spiegato di essere “in contatto con provveditore e stiamo preparando una lettera per il ministero” della Difesa. “Quello che auspichiamo - spiega l’assessore Conti - è che, diversamente da quello che invece pare prefigurarsi, la sezione non venga riempita nuovamente con detenuti di media sicurezza, si sta parlando tra i 70 e i 90 detenuti. È evidente che per noi sarebbe importante non stipare nuovamente quel braccio, ma utilizzarlo come valvola per decomprimere la condizione già critica della Dozza”. Questo, mentre ieri a palazzo Chigi si è tenuta la terza riunione della Cabina di regia per l’edilizia penitenziaria, in cui si è parlato anche della casa circondariale bolognese. Nella riunione, alla presenza, tra gli altri, del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, del ministro della Giustizia Carlo Nordio, dei sottosegretari per la Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove e Andrea Ostellari, del commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio, si è fatto il punto sullo stato di avanzamento lavori previsti fino al dicembre 2027, che porteranno a un totale di 11.178 posti detentivi, fra quelli realizzati dall’ottobre 2022 a quelli in fase di completamento entro il 2027. Tra gli istituti interessati dai lavori dal 2026 c’è anche la Rocco D’Amato. Non trapelano dettagli, ma l’ipotesi è che si riprenda in mano l’intervento di ampliamento già avviato nel 2020, che prevedeva l’installazione di alcuni moduli prefabbricati che avrebbero accolto un totale di 200 detenuti. Venezia. Infestazione di cimici, stop di altri due mesi all’ingresso di nuovi detenuti Corriere del Veneto, 1 ottobre 2025 La richiesta del direttore del carcere per finire le bonifiche. L’infestazione delle cimici dei letti non è ancora debellata e il direttore del carcere maschile di Venezia Enrico Farina alla scadenza del periodo di moratoria per nuovi ingressi dovuto alle necessità di disinfestazione, ieri ha chiesto altri due mesi di tempo per bonificare le celle. Sovraffollate, quasi il doppio dei detenuti rispetto alla capienza. Le cimici dei materassi muoiono con disinfestazioni che portano le temperature a livelli estremi e l’esigenza primaria è liberare le celle e spostare i detenuti per somministrare la cura di caldo o freddo. Ma con 270 persone a fronte di una capienza di 170, si procede a rilento. E la moratoria a nuovi ingressi, avviata il 28 agosto, finiva ieri. “Abbiamo fatto richiesta che permanga il blocco degli ingressi - informa il direttore - Attendiamo un provvedimento di conferma”. La questione ieri è entrata prepotente nelle aule di giustizia con un processo per direttissima che ha visto davanti alla giudice Francesca Zancan il caso di un giovane e albanese di 22 anni che abita a Mira. Ha un precedente per spaccio e la procura ha un’indagine aperta sul traffico di cocaina che lo coinvolge, così ha delegato i carabinieri di Mirano di effettuare verifiche. Quando i militari lo hanno fermato l’altro giorno, gli hanno trovato alcune dosi in auto. La perquisizione si è poi ampliata alla sua abitazione e ai dintorni, aiutata dai cani antidroga: nel giardino prospiciente la sua abitazione era stato trovato un calzino nascosto nel quale erano occultate altre dosi. In totale, 100 involucri e 60 grammi. Il pm di turno Roberto Terzo ha chiesto la convalida dell’arresto con la custodia in carcere. L’avvocato difensore Damiano Danesin aveva chiesto i domiciliari e il braccialetto elettronico facendo presente la difficoltà della situazione carceraria: “A Venezia per il problema delle cimici non sono ammessi nuovi ingressi”, aveva argomentato, spiegando che l’eccesso di ristretti non permette di liberare le celle per la bonifica. Dopo una lunga camera di consiglio, la giudice Zancan ha deciso che la gravità delle accuse dell’indagine in corso richiede la misura cautelare in carcere. Causa cimici, il giovane non è stato inviato a Santa Maria Maggiore ma in un istituto in una provincia vicina. Frosinone. Nuovi spazi per detenuti semiliberi e lavoranti grazie a IKEA e Seconda Chance di Marco Belli gnewsonline.it, 1 ottobre 2025 Un nuovo volto per gli spazi interni della Casa circondariale di Frosinone. Grazie all’associazione Seconda Chance e alla collaborazione con IKEA Roma, sono stati inaugurati ieri i nuovi ambienti dedicati alle persone in regime di semilibertà e ammesse al regime del lavoro all’esterno. Alla cerimonia di inaugurazione sono intervenuti, fra gli altri, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise Giacinto Siciliano, il Direttore reggente della Casa Circondariale di Frosinone Anna Del Villano, la Presidente di Seconda Chance Flavia Filippi, il Market Manager di IKEA Porta di Roma Ivan Gardini e il Sustainability Leader IKEA Roma Mimma Pecora, oltre a una piccola rappresentanza di detenuti del reparto. I nuovi ambienti accolgono 11 uomini detenuti e sono stati arredati con mobili pensati per le specifiche finalità del luogo. In particolare, sono stati allestiti una cucina condivisa, un’aula studio con postazioni scrivania e libreria, il cortile esterno e gli spazi comuni di socialità, che favoriranno l’interazione tra i detenuti. L’area destinata all’incontro dei padri con i figli, attrezzata con tavoli, sedie e giochi, è stata trasformata in un luogo più caldo e ospitale, capace di custodire momenti di vicinanza e serenità. Un progetto di rinnovamento concepito come parte di un più ampio percorso di reinserimento sociale, che mira a trasformare gli ambienti carcerari in luoghi che favoriscano la socialità, lo studio e la crescita personale. Grazie all’impegno congiunto di istituzioni e comunità, questi spazi offrono opportunità concrete di recupero, mirate a sostenere i detenuti nel loro cammino verso l’autonomia e il reintegro nella società. “Siamo davvero grati a Seconda Chance e IKEA Roma per l’attenzione e la sensibilità dimostrate nei confronti dei detenuti e del personale del nostro istituto e, più in generale, della realtà del carcere”, ha affermato Anna Del Villano, Direttore reggente della Casa circondariale di Frosinone. “I nuovi ambienti rappresentano per i detenuti un beneficio concreto, perché consentono loro di sperimentare spazi di autonomia nella gestione collettiva della vita quotidiana e li avvicinano alla prospettiva della vita libera. Oltre al dato puramente materiale, la donazione ha comportato un’importate iniezione di fiducia sia per noi che lavoriamo ogni giorno in Istituto, sia per i detenuti, che vedono oggi una società esterna interessata ai loro bisogni e pronta ad accoglierli al termine dell’esecuzione della pena”. “Da sempre la visione che guida IKEA è quella di creare una vita quotidiana migliore per la maggioranza delle persone”, ha sottolineato Ivan Gardini, Market Manager di IKEA Porta di Roma. “Essere parte di un progetto come questo è un onore, perché ci permette di creare spazi che possano restituire speranza e dignità. Crediamo che un ambiente accogliente, funzionale e stimolante possa davvero fare la differenza nella vita di ognuno di noi”. “L’opportunità che IKEA Roma ci ha donato dà ulteriore sprint al team di Seconda Chance profondamente legato al carcere di Frosinone. Con la nostra Associazione del Terzo Settore focalizzata sul reinserimento socio lavorativo di detenuti ed ex detenuti abbiamo procurato finora 650 offerte di lavoro sull’intero territorio nazionale. Ma siamo concentrati anche sul tentativo di migliorare le condizioni detentive dei ristretti e il riuscitissimo esperimento di Frosinone ci rende felici e speranzosi di poter proseguire questo splendido percorso”, ha dichiarato Flavia Filippi, presidente di Seconda Chance. Bolzano. Sopralluogo del Sindaco al carcere: il nodo degli alloggi per gli agenti di Lorenzo Nicolao Corriere dell’Alto Adige, 1 ottobre 2025 Monti: presto la convenzione per impiegare i detenuti in lavori socialmente utili. Il nodo degli alloggi e la proposta di coinvolgere i detenuti in attività socialmente utili, possibilmente focalizzate sulla pulizia pubblica e sulla cura del verde urbano. Sono il problema, ormai annoso, e l’iniziativa elaborata dai vertici della casa circondariale di Bolzano per favorire un percorso di integrazione e restituzione sociale. L’occasione migliore per parlarne, la visita del sindaco Claudio Corrarati e dell’assessora alle Politiche sociali Patrizia Brillo. “Un supporto che ci trasmette coraggio e motivazione - ha esordito il direttore del penitenziario Gianni Monti. La visita del primo cittadino è per noi segno di vicinanza da parte delle istituzioni. Rappresenta per noi anche il riconoscimento di un lavoro svolto in condizioni poco agevoli e con criticità ancora non risolte”. Sindaco e assessora, nel corso della visita, hanno avuto modo di conoscere da vicino difficoltà e problemi che le guardie e addetti devono affrontare ogni giorno. Tra le emergenze più evidenti, la forte carenza di alloggi in città per il personale. “Questi ragazzi vengono spesso da regioni come Campania, Calabria e Sicilia. A Bolzano, per servizi e qualità della vita, si trovano bene - spiega Monti - ma è poi di fatto impossibile trovare una casa accessibile dal punto di vista economico, soprattutto nel medio e nel lungo termine”. Gran parte delle guardie carcerarie provengono da fuori provincia. La situazione comporta così la difficoltà generale di reperire risorse e garantire continuità lavorativa all’interno della struttura carceraria, con inevitabili conseguenze sull’organico (al momento circa 50 addetti, degli 85 necessari, per poco più di cento detenuti). Trattato anche il problema di una popolazione carceraria in continua evoluzione, spesso composta da persone con precedenti esperienze di marginalità sociale e comportamenti violenti, che rendono particolarmente complessi anche i percorsi di recupero. A tal fine, il direttore Monti e i vertici dell’istituto penitenziario hanno consegnato a sindaco e assessora la proposta di una convenzione, che sarà posta al vaglio della giunta comunale, per promuovere lavori di pubblica utilità che vedano i detenuti protagonisti. L’obiettivo è quello di offrire loro, previa autorizzazione della Magistratura, la possibilità di svolgere attività e servizi a favore della comunità. “Pensiamo si possa fare tanto sopratutto per il verde pubblico, con attività di giardinaggio e pulizia degli argini dei corsi d’acqua, anche a supporto della Seab. Rispetto ad altre realtà del Distretto, Bolzano è ricca di zone naturali. Entro qualche giorno vorremmo già iniziare a mettere in atto la proposta”. L’assessora Brillo ha sottolineato l’importanza di attività di questo tipo per la pulizia e anche il decoro urbano, mentre il sindaco ha evidenziato come possano rappresentare “un modo concreto per superare l’idea del carcere come corpo estraneo, distante dalla città, trasformandolo invece in occasione di integrazione e di restituzione sociale”. Bolzano. Lavori socialmente utili per i detenuti, accordo in vista con il Comune rainews.it, 1 ottobre 2025 Incontro fra il sindaco Corrarati e il direttore della struttura Monti. Tra gli impieghi ipotizzati, la manutenzione e pulizia di spazi verdi e giardini pubblici o interventi di decoro urbano come la rimozione di graffiti. Massima attenzione al lavoro degli agenti, a percorsi di recupero e ad un progetto di impiego esterno dei detenuti in attività socialmente utili alla comunità. Ieri mattina (30 settembre) il Sindaco Claudio Corrarati e l’assessore alle politiche sociali Patrizia Brillo hanno effettuato una visita alla casa circondariale di Bolzano accompagnati dal direttore Giovanni Monti. L’incontro ha permesso di conoscere da vicino il lavoro svolto quotidianamente dagli agenti penitenziari e le difficoltà che questi ultimi si trovano ad affrontare. È emersa, in particolare, la criticità legata alla mancanza di alloggi in città, in particolare per il personale proveniente da fuori provincia: una situazione che rende complicato reperire nuove risorse. Durante la visita sono stati apprezzati i lavori recentemente realizzati e in parte ancora in corso, volti a migliorare la qualità e la dignità degli spazi destinati alle attività didattiche e formative dei detenuti. Parallelamente, è stato evidenziato il problema di una popolazione carceraria in continua evoluzione, spesso composta da persone con precedenti esperienze di marginalità sociale e comportamenti violenti, che rendono complessi anche i percorsi di recupero. Lavori socialmente utili - Punto centrale dell’incontro la bozza di convenzione tra Comune di Bolzano ed istituto penitenziario, a breve all’esame della giunta comunale. L’obiettivo è quello di offrire ad alcune persone detenute, valutate idonee e autorizzate dalla Magistratura, la possibilità di svolgere attività e servizi a favore della comunità. Tra le ipotesi allo studio: la manutenzione e pulizia di spazi verdi e giardini pubblici o interventi di decoro urbano come la rimozione di graffiti; più in generale, lavori utili per la città. L’assessore Brillo ha sottolineato l’importanza di includere in tale percorso anche attività di supporto alla pulizia cittadina, mentre il sindaco Corrarati ha evidenziato come questa iniziativa possa rappresentare “un modo concreto per superare l’idea del carcere come corpo estraneo, distante dalla città, trasformandolo invece in occasione di integrazione e di restituzione sociale”. Il primo cittadino ha infine espresso sincera gratitudine per il lavoro quotidiano svolto all’interno della casa circondariale, riconoscendo l’impegno e la professionalità di chi opera in un contesto tanto delicato, quanto complesso. Palermo. “Rivedere la vita”, ottocento paia di occhiali donate ai detenuti palermotoday.it, 1 ottobre 2025 Mille paia di occhiali sono state donate ai detenuti degli istituti penitenziari Pagliarelli e Ucciardone di Palermo e Piazza Lanza di Catania. L’iniziativa è della Fondazione OneSight Essilor Luxottica Italia, nell’ambito del progetto “Rivedere la vita”, elaborato dalla fondazione Myra con il patrocinio dell’assessorato regionale della Famiglia e delle politiche sociali e la partecipazione delle associazioni “Un nuovo giorno” e “Koinè”. “Grazie a questo progetto - dichiara l’assessore Nuccia Albano - verrà data la possibilità a mille detenuti delle carceri siciliane di ricevere gli occhiali per la presbiopia, ciascuno secondo la gradazione più adatta alle esigenze, che altrimenti non avrebbero potuto acquistare. Interventi concreti di questo tipo, oltre a migliorare le condizioni di vita dei detenuti, possono favorire percorsi di reinserimento sociale e lavorativo, promuovendo opportunità di riscatto personale. Il governo Schifani continuerà a sostenere partnership pubbliche-privato volte a offrire attenzioni utili al percorso di reintegrazione e a rafforzare la fiducia delle persone nelle proprie capacità di cambiamento”. Andrea Rendina, segretario generale fondazione Onesight Essilor Luxottica ha consegnato le lenti questa mattina, in via Trinacria, a Palermo, ai direttori delle tre Case circondariali. Presenti, oltre all’assessore Albano, Antonio Cimò e Nicola Armonium, rispettivamente presidente e responsabile per i rapporti con le istituzioni Fondazione Myra, Antonino De Lisi, garante per i detenuti della Regione Siciliana, Elisabetta Zito, direttrice del Prap Sicilia, e Gabriella Di Franco, presidente Uiepe Palermo. Seicento le lenti donate all’Istituto penitenziario Pagliarelli, duecento all’Ucciardone e duecento al Piazza Lanza di Catania. In una seconda fase, che inizierà il prossimo gennaio, saranno effettuate visite oculistiche da un’equipe medica e ottica all’interno degli istituti penitenziari. Dal silenzio alla parola: i libri di Katya Maugeri sulla realtà carceraria di Sveva Scocco lurlo.news, 1 ottobre 2025 La giornalista e scrittrice, Katya Maugeri ha scelto di occuparsi di un tema scomodo e spesso lasciato a sé stesso: il carcere. Con libri come “Liberaci dai nostri mali” e “Storie dal silenzio”, ha raccontato le vite di uomini e donne reclusi, trasformando le loro testimonianze in una lente sociologica capace di mostrare non solo la condizione dei detenuti, ma anche le fragilità della società che li giudica. Il suo lavoro nasce dall’esigenza di comprendere: “Quando entrai per la prima volta nel carcere di Augusta, durante uno spettacolo teatrale dei reclusi mi chiesi che tipo di padre potesse essere quell’uomo sul palco. Da lì è iniziata la mia ricerca: capire cosa c’è dietro una vita segnata dal reato”. Dalle sue inchieste emerge con forza la carenza strutturale e gestionale del sistema penitenziario italiano. Katya denuncia come spesso le strutture non siano adeguate ai bisogni delle persone che vi abitano: un esempio emblematico riguarda le carceri femminili, nate da un modello pensato per uomini e per questo motivo incapace di rispondere alle esigenze specifiche delle donne. Il problema non è solo infrastrutturale, ma culturale: la società civile mostra scarso interesse per il destino dei detenuti, lasciando che associazioni e volontari si assumano il compito di colmare un vuoto istituzionale. “Scrivere del carcere significa avere una responsabilità precisa: combattere la disinformazione e abbattere i pregiudizi”, afferma la scrittrice. Nei suoi libri non c’è spazio per la retorica del perdono: i protagonisti stanno scontando la pena e sono consapevoli del proprio reato. Ciò che viene raccontato è la realtà quotidiana delle celle, fatta di salute mentale compromessa, tossicodipendenza, difficoltà relazionali e desiderio di rinascita. Non si tratta di giustificare, ma di comprendere. Capire perché una persona ha commesso un reato non significa assolverla, ma permettere alla società di prevenire altri reati. Per Katya Maugeri il giornalista che sceglie di occuparsi di tematiche sociali deve avere alcune qualità imprescindibili: empatia, sensibilità, capacità di ascolto attivo. “Un giornalista non deve giudicare, ma raccontare. Deve saper dare voce a chi voce non ha, senza filtri e senza distorsioni. Solo così si costruisce un racconto onesto e utile alla collettività”. È un approccio che chiede di superare la superficialità del dibattito pubblico, spesso limitato alla cronaca nera, per restituire invece un quadro più complesso e umano. Un tema ricorrente nel lavoro di Maugeri è quello della frattura generata dal reato: tra chi lo ha commesso e la società, ma soprattutto tra il detenuto e la vittima. I suoi libri mostrano come questo rapporto resti aperto e doloroso, anche dopo anni di detenzione. Alcuni detenuti hanno riflettuto sul proprio percorso, altri continuano a farlo dentro le mura. In entrambi i casi, ciò che emerge è la necessità di non ridurre il reato a una semplice etichetta, ma di comprenderne il peso umano e sociale. La giornalista è convinta che la società abbia bisogno di ascoltare queste storie, non per commuoversi, né per schierarsi a favore dei detenuti, ma per intraprendere un percorso di consapevolezza collettiva. Con una maggiore coscienza critica, la società potrebbe affrontare le cause alla radice, evitando che le carceri continuino a riempirsi. Dal carcere alla musica, la nuova vita del rapper El Simba gnewsonline.it, 1 ottobre 2025 Carcere e musica, l’arte per costruirsi una nuova vita. È la storia di Alex Simbana, in arte El Simba, che dopo anni passati nel carcere minorile Beccaria è tornato per il videoclip della sua canzone rap. “Una speranza, mille sentimenti” è stato girato nel penitenziario milanese grazie al progetto “La Statale al Bekka”, il laboratorio teatrale nato dalla collaborazione tra l’Università Statale di Milano, la compagnia teatrale Puntozero e l’istituto Cesare Beccaria. “Una speranza, mille sentimenti che è stato girato dentro l’Istituto e che spero diventi spunto di riflessione per raccontare anche in altri modi il mondo carcerario”, afferma il rapper venticinquenne nato in Ecuador. “La sala del teatro del Beccaria ha una porta verso l’esterno e una verso l’interno. E’ il punto d’incontro fra “dentro” e “fuori” dove si svolgono gli spettacoli e i laboratori dove sono cresciuto artisticamente”, sottolinea El Simba. Un progetto di reinserimento sociale che unisce teatro e musica: “Sono uno strumento di formazione e trasformazione, capaci di contrastare la violenza e di offrire ai giovani detenuti una possibilità di cambiamento”, spiega Cristina Cavecchi, docente di teatro inglese a Unimi e ideatrice del progetto “La Statale al Bekka”. Medio Oriente, gli ostacoli al piano Usa di Lucio Caracciolo La Repubblica, 1 ottobre 2025 Il piano di Trump per la pace in Medio Oriente era appena stato annunciato dall’autore con la sobria retorica che lo distingue e già cominciava il festival delle interpretazioni. Ognuno vi legge quel che preferisce. Normale. Ovvio che il testo, frutto di centinaia di consultazioni, revisioni ed emendamenti necessari a ottenere il via libera di Israele e della pletora di Stati arabi e islamici chiamati a rinverdire la prospettiva degli accordi di Abramo, sia assai raffazzonato. Ridotto, fra l’altro, da 21 a 20 punti con l’esclusione della promessa israeliana di non ribombardare il Qatar dopo la fallita strage del politburo di Hamas riunito il 9 settembre a Doha. Netanyahu se l’è cavata con una telefonata di scuse al leader qatarino, testimone Trump. Resta senza risposta la questione regina: questo documento, dichiarazione di princìpi tutti da negoziare fra i belligeranti, porterà almeno al cessate-il-fuoco e allo scambio di prigionieri palestinesi contro ostaggi israeliani? Due gli ostacoli principali: le parti in causa. Anzitutto Hamas. Chi ha diritto di parlare per l’organizzazione che ha scatenato il massacro del 7 ottobre? Non si hanno notizie sulla salute dei suoi capi scampati alla morte nel raid israeliano, dopo che i predecessori sono stati fatti fuori. Alcuni potrebbero essere seriamente feriti. Eppoi non c’è mai stato un solo Hamas. Oggi più di ieri i suoi principali dirigenti sono nascosti in diversi paesi della regione, fra cui spicca la Turchia di Erdo?an, presidente della Repubblica ma anche riferimento della rete dei Fratelli Musulmani che comprende il ramo palestinese assediato a Gaza. Per convincere le milizie ancora annidate nei tunnel e fra le macerie della Striscia che operano di fatto in autonomia ci vorrebbe un leader riconosciuto da tutti. Sufficientemente carismatico. Non c’è o se c’è non si fa vedere. Né basterebbe un comunicato ufficiale di generica accettazione del Piano da parte di qualcuno che pretenda di parlare per Hamas. Trump e Netanyahu sono stati chiari. Si chiama piano ma è un ultimatum. In caso di rifiuto, “finiremo il lavoro”. Quel “lavoro sporco” per il quale Bibi a suo pubblico dire viene privatamente congratulato dai colleghi europei e occidentali che ufficialmente lo criticano (solo il cancelliere tedesco ha avuto il coraggio di farlo a favore di media). Sappiamo in che cosa consiste questo lavoro secondo Netanyahu: liquidare tutti i terroristi, senza sottilizzare fra civili e miliziani, espellere quanti più gaziani possibile, controllare ed eventualmente annettere la Striscia. Per avviare la pacificazione di Gaza, scintilla della “pace eterna” nella regione evocata da Trump, Hamas vorrà comunque negoziare sui punti più controversi. Su tutti, il disarmo. Solo gli sconfitti gettano le armi. Non risulta che gli autori del pogrom da cui tutto è partito si sentano tali e anelino la pensione. Anzi. Gli uomini delle brigate al-Qassam non conoscono altri mestieri oltre quello delle armi. Più di ogni altra condizione, questa appare la meno digeribile ai nemici di Israele. E tutto quel che riguarda il graduale passaggio di consegne dalle Forze di difesa israeliane (Idf) all’imprecisata Forza di stabilizzazione internazionale (ci saremmo anche noi ad addestrare la polizia locale?) è vaghissimo. Decisiva sarà forse la battaglia politica già in pieno corso nello Stato ebraico. Mai come oggi i poteri sono divisi, a partire dall’intelligence. E il capo delle Idf aveva da tempo fatto conoscere a Netanyahu e al mondo la sua avversione per l’attacco a Gaza City, troppo rischioso e non dirimente. La guerriglia dei tunnel può continuare per anni via sortite mordi e fuggi. Certo i soldati israeliani non amano fare i poliziotti a vita. E viceversa. Il piano americano raccoglie la linea dei vertici dell’Idf e smentisce Netanyahu. Per quale motivo Bibi dovrebbe rinunciare a sabotarlo e continuare la guerra che non vuole finire, comunque non a queste condizioni? Intanto Smotrich e Ben Gvir, ministri dell’ultradestra teocratica, sparano a zero sul piano Trump. L’opposizione si riorganizza e punta ad elezioni entro febbraio. Secondo alcuni sondaggi potrebbe farcela. Infine, l’incognita strategica. Netanyahu continua a lasciarsi aperta l’opzione di un nuovo attacco all’Iran per distruggere i 450 chili di uranio nascosti dal regime in un luogo che lui afferma di conoscere. Se ci riuscisse, otterrebbe di liquidare in un colpo il programma atomico iraniano, forse far saltare il regime, quindi lo Stato, per portare a termine il mai abbandonato sogno del Grande Israele, di cui Gaza sarebbe periferia. Il bottino vero è la Cisgiordania, ovvero Giudea e Samaria, dove i coloni avanzano con l’appoggio di Smotrich. Per ora la guerra continua. Dalle parole ai fatti, almeno all’avvio del piano, molto ne corre. Nella migliore ipotesi, si sarà aperto un nuovo capitolo di un conflitto trattabile solo con palliativi. Sempre meglio una sporca tregua che un genocidio a man salva. Serve un piccolo miracolo, non la “pace eterna”. Afghanistan. I talebani hanno spento Internet di Flavia Amabile La Stampa, 1 ottobre 2025 Gravi disagi per la popolazione: voli cancellati, servizi fermi, aree del terremoto irraggiungibili, diritti a rischio. L’Onu chiede una ripresa immediata delle comunicazioni. L’Afghanistan è totalmente isolato. Dopo giorni di interruzioni parziali in diverse province, lunedì l’Emirato Islamico ha bloccato Internet e ogni comunicazione a livello nazionale. Decine di milioni di persone che vivono nel Paese non hanno più contatti con il resto del mondo, privi di accesso ai social, della possibilità di comunicare con mail, applicazioni di messaggistica e anche alcune linee fisse. L’isolamento sta creando enormi problemi. Le famiglie colpite dal terremoto del 31 agosto non possono comunicare con le organizzazioni che hanno il compito di coordinare gli aiuti. I voli internazionali per l’Afghanistan sono stati cancellati, secondo il sito web Flightradar24, che monitora il traffico aereo globale. Gli afghani non riescono a contattarsi tra loro, i sistemi bancari e di shopping online sono paralizzati e la diaspora non può più inviare le rimesse di cui alle famiglie rendendo ancora più difficile la situazione in cui vivono. Le Nazioni Unite hanno chiesto al governo talebano una “ripresa immediata delle connessioni”. “L’interruzione dell’accesso ha quasi completamente isolato l’Afghanistan dal resto del mondo e rischia di causare danni considerevoli al popolo afghano, minacciando anche la stabilità economica ed esacerbando una delle peggiori crisi umanitarie al mondo”, ha dichiarato la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan in una nota. Inoltre ha “conseguenze estremamente gravi sui diritti umani”, con donne e ragazze particolarmente colpite, ha denunciato l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani su X, sottolineando che “donne e ragazze, già escluse dalla vita pubblica, sono particolarmente colpite”. Questa interruzione “costituisce anche un’ulteriore restrizione all’accesso alle informazioni e alla libertà di espressione in Afghanistan”, ha aggiunto la missione Onu. Ufficialmente il governo talebano ha iniziato a interrompere le connessioni Internet a banda larga in alcune province all’inizio di questo mese per prevenire “vizi”, su ordine della Guida Suprema Hibatullah Akhundzada. L’interruzione era iniziata con lo stop alla banda larga in alcune province a inizio settembre, fino al crollo della connettività a meno dell’1% dei livelli normali nella serata di lunedì. Ne sono derivati blocchi anche a banche e commercio online. L’Onu segnala difficoltà aggiuntive per le proprie comunicazioni interne, con linee fisse fuori uso, e sta trattando una deroga per i suoi stessi sistemi di connessione. Azerbaijan. I giornalisti detenuti rivelano le pessime condizioni delle carceri di Arzu Geybullayeva balcanicaucaso.org, 1 ottobre 2025 A partire dal novembre 2023 in Azerbaijan sono stati arrestati una trentina di giornalisti. Da dietro le sbarre, questi hanno rivelato le pessime condizioni del sistema penitenziario, cosa prima impossibile per lo scarso accesso alle informazioni sul sistema penitenziario. Un tempo, la corruzione nelle carceri azere era quasi impossibile da denunciare per i giornalisti, poiché l’accesso alle informazioni era severamente limitato. La situazione è cambiata dopo che le autorità hanno incarcerato circa 30 giornalisti indipendenti a partire da novembre 2023. Da dietro le sbarre, questi giornalisti hanno rivelato le condizioni del sistema penitenziario: per un governo così preoccupato della propria immagine, il quadro che emerge da queste storie è tutt’altro che lusinghiero. Quando l’attivista per i diritti dei lavoratori Afiaddin Mammadov ha tentato di descrivere le condizioni del carcere in cui era detenuto, la linea telefonica è stata interrotta. Numerosi tentativi dopo, quando la famiglia è riuscita a ricontattare l’attivista, la linea è stata interrotta bruscamente non appena Mammadov ha ripreso a parlare. Da quel poco che è riuscito a raccontare alla sua famiglia: “Ci sono topi in cucina, dove viene conservato il cibo, e lo mangiano. È una situazione insalubre. Ci sono anche grossi ratti nella zona notte. Ci sono molte persone [nelle celle] e ci sono code di ore ai bagni”. L’attivista è stato condannato a 8 anni di carcere nel gennaio 2025. Il giornalista Ali Zeynal ha descritto in dettaglio il sistema di racket interno alla struttura medica del Centro di detenzione investigativa, dove l’accesso ai farmaci è diventato un’ulteriore fonte di estorsione. I detenuti sono costretti a pagare diverse volte il prezzo di mercato per ottenere le loro medicine. I farmaci che normalmente costano 25 AZN (circa 12,5 euro) all’esterno, possono costare fino a 70 AZN (circa 35 euro) in tangenti. Anche i prezzi dei medicinali a basso costo sono maggiorati in base alla situazione finanziaria del detenuto. Chi ha mezzi a disposizione può procurarsi ciò di cui ha bisogno senza difficoltà, ma i detenuti più poveri devono affrontare lunghi ritardi, infinite trattative o addirittura vedersi negare le cure. In alcuni casi, i medici cedono solo quando la salute del detenuto è peggiorata fino a raggiungere un punto critico. Zeynal ricorda di aver sentito uno dei medici in servizio presso la struttura carceraria dire che l’unica cosa a cui teneva erano i soldi e che non voleva perdere tempo con chi non ne aveva. Zeynal è stato arrestato nel marzo 2024 nell’ambito di un’indagine contro l’emittente televisiva Toplum TV per accuse di contrabbando di valuta. Un altro giornalista, Polad Aslanov, ha riferito di come un medico del carcere fosse presumibilmente coinvolto in un’operazione di vendita di letti per 200 AZN (circa 100 euro). Oppure che articoli come dentifricio, spazzolini da denti, vestiti, prodotti per l’igiene e scarpe per l’esercizio fisico (forniti dallo Stato) vengano invece venduti. Aslanov è stato condannato a 16 anni di carcere nel 2020 per alto tradimento. Secondo la Risoluzione n. 22 del Consiglio dei ministri, alle persone detenute nei centri di detenzione preventiva dovrebbero essere forniti 100 grammi di pesce, 100 grammi di carne, 300 grammi di verdure, 100 grammi di frutta, 100 grammi di succo di frutta, 2 uova, 500 grammi di patate e 120 grammi di cereali al giorno. “Nell’anno e 8 mesi in cui siamo state detenute qui, non abbiamo visto distribuire alcun prodotto ittico”, ha scritto una delle sette giornaliste di Abzas Media dal carcere, Nargiz Absalamova. “Non due uova al giorno, ma uno a settimana. Non 40 grammi di zucchero in polvere al giorno, ma 40 a settimana. Secondo la direzione del centro di detenzione, ai detenuti devono bastare quattro cucchiaini di zucchero in polvere per una settimana. Al posto di 100 grammi di succo di frutta ogni giorno, viene somministrata acqua aromatizzata alla frutta ogni 4-5 mesi. Nel 2025, è stata distribuita da gennaio a marzo e due volte ad agosto.” Absalamova e i suoi colleghi sono stati condannati a pene detentive dai sette ai nove anni nel giugno 2025. Secondo altri giornalisti incarcerati, per il servizio penitenziario il governo azero ha stanziato 196 milioni di AZN (circa 98 milioni di euro) nel 2025 e circa 837 milioni di AZN (418 milioni di euro) negli ultimi cinque anni. Nel 2017, il sistema penitenziario azero ha ricevuto oltre un milione di euro nell’ambito di un pacchetto di riforme progettato e finanziato dall’UE e dal Consiglio d’Europa. Secondo quanto riportato da Forbidden Stories e da documenti pubblici, questo si aggiunge ai 23 milioni di euro stanziati dal 2014 per finanziare programmi di sviluppo volti a generare “rafforzamento delle capacità del sistema giudiziario”, “formazione del personale”, “maggiore controllo delle condizioni carcerarie” e “azioni per migliorare la trasparenza e prevenire la corruzione”. Sebbene la Risoluzione del Consiglio dei ministri elenchi i generi alimentari che devono essere forniti ai detenuti, è la famiglia a fornire cibo, vestiario e altri beni necessari. Le condizioni hanno inoltre urgente bisogno di essere migliorate. Il racconto di Mammadov sui topi e le scarse condizioni igieniche è solo uno dei tanti. Il reparto carcerario in cui sono detenute le giornaliste di Abzas Media non ha un sistema di ventilazione o raffreddamento centralizzato funzionante. Tra le 11:00 e le 17:00, le celle diventano insopportabilmente calde d’estate. L’acqua del carcere è piena di cloro e quindi non potabile. L’acqua calda è disponibile solo cinque ore a settimana e le donne sono costrette a fare la doccia in coppia. In alcune celle, le docce non ci sono proprio; le donne devono inginocchiarsi sotto un rubinetto o riempire un secchio e lavarsi a mano. Dopo il crollo del tetto della prigione numero 12, i detenuti sono stati ridistribuiti in altre celle dell’edificio, mettendo a dura prova le strutture. Taleh Baghirzade si è rifiutato di rimanere e ha chiesto alle autorità carcerarie di riparare l’edificio o di trasferire i detenuti in altre carceri. Invece, è stato posto in isolamento e dopo un mese trasferito nel carcere di massima sicurezza di Umbaki, dove si trova al momento della stesura di questo articolo. Non è ancora chiaro se nel frattempo siano stati effettuati lavori di riparazione presso la struttura penitenziaria. Baghirzade, un teologo, sta scontando una pena detentiva di 20 anni. La sua condanna è stata emessa nel gennaio 2017. Le Regole penitenziarie europee sono il principale documento giuridico internazionale che regola le condizioni nei luoghi di detenzione. Secondo queste, ogni detenuto ha diritto a un minimo di garanzie durante il periodo di privazione della libertà: celle di dimensioni adeguate, dotate di illuminazione, riscaldamento e ventilazione, che devono essere ben tenute e non possono essere sovraffollate; accesso a servizi igienici adeguati; prodotti per l’igiene personale; biancheria da letto e asciugamani; nutrizione adeguata, anche per i detenuti con problemi di salute; servizi ricreativi; assistenza medica. Ai detenuti non può essere impedito di contattare le proprie famiglie o di ricevere pacchi e regali. L’Azerbaijan ha introdotto questi standard nel Codice di esecuzione delle pene, nel Regolamento disciplinare interno degli istituti penitenziari e nella legge “Sulla garanzia dei diritti e delle libertà delle persone detenute”. La realtà è ben lontana da questi standard. Quando le giornaliste di Abzas Media Sevinc Vagifgizi, Elnara Gasimova e Nargiz Absalamova hanno iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con la loro collega e direttrice di Abzas Media Ulvi Hasanli, tutte e tre le donne sono state trasferite in celle diverse. Così Elnara Gasimova ha descritto la sua: “La cella in cui mi hanno messa era sporca. Da mezzogiorno alle 20:00, ho cercato di pulire e ambientarmi. Sapendo che nei giorni successivi saremmo diventate più deboli e il nostro sistema immunitario si sarebbe deteriorato, alcune detenute si sono offerte di aiutarci a pulire le stanze, ma il personale non glielo ha permesso”. Sevinc Vagifgizi ha scritto che nella cella in cui è stata trasferita non c’era una doccia. “Le detenute sono costrette a inginocchiarsi sul pavimento per lavarsi. Il rubinetto del lavandino funziona a malapena; esce solo un filo d’acqua. Nonostante fosse piena estate, tutte le finestre erano tenute chiuse tranne una”. Maltrattamenti e corruzione si estendono anche ai tribunali. Secondo la Risoluzione n. 22 del Consiglio dei Ministri, approvata nel 2013, ai detenuti che partecipano alle udienze devono essere forniti determinati generi alimentari e bevande: pane, carne, carne in scatola, salsiccia, pesce, zucchero, tè secco e sale da tavola. Nessuno di questi articoli viene fornito, e i detenuti spesso tornano in carcere affamati dopo una lunga giornata trascorsa in tribunale. Queste testimonianze rivelano un sistema carcerario in cui estorsioni, negligenza e impunità sono la norma, non l’eccezione. La corruzione documentata dai giornalisti incarcerati rispecchia il più ampio decadimento delle istituzioni azere, dove persino gli aiuti internazionali e i pacchetti di riforme sono rimasti lettera morta. Per un governo desideroso di migliorare la propria immagine all’estero, la realtà dietro le mura delle carceri racconta un’altra storia: di abusi sistematici, silenzio e punizioni per chi osa parlare.