La lunga notte delle carceri italiane di Daniela Barbaresi* collettiva.it, 19 ottobre 2025 Tra sovraffollamento e suicidi la situazione è sempre più drammatica. Il Governo risponde con un giustizialismo sfrenato. Non c’è più tempo: bisogna cambiare subito. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo sancisce il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana. Ma qual è la condizione di vita in carcere? Quali reali possibilità di rieducazione e di recupero sociale ci sono in un sistema alle prese con criticità insostenibili? Sovraffollamento, degrado strutturale, spazi fatiscenti e invivibili, sempre più ridotti e angusti. Condizioni detentive degradanti e disumane, celle spesso non riscaldate o senza acqua calda né doccia, con bagni a vista; dove i detenuti dormono su materassi a terra, strutture con spazi individuali inferiori ai tre metri quadrati, molti reparti con detenuti chiusi nelle proprie camere di pernottamento anche di giorno. In carceri in cui un terzo dei detenuti sono tossicodipendenti e numerosissime le persone con sofferenze mentali, risultano drammatiche anche le condizioni di salute con troppe difficoltà nell’accesso a cure, terapie e controlli. Il sintomo più evidente delle criticità delle condizioni detentive è quello tragico dei suicidi: dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita in carcere 67 detenuti, praticamente un suicidio ogni quattro giorni. Numeri che lasciano presagire un nuovo e terribile record, particolarmente intollerabile visto che le persone ristrette si trovano sotto la custodia dello Stato. Una situazione insostenibile anche per chi in carcere lavora: polizia penitenziaria, educatori, psicologi, personale sanitario, costretti a misurarsi quotidianamente con difficili condizioni di lavoro e con la frustrazione di lavorare senza strumenti adeguati per svolgere la loro funzione. Sono queste le condizioni del nostro sistema carcerario, che la politica securitaria del governo Meloni, espressione di un pericoloso populismo penale, non fa che aggravare. Da ultimo, con il dl 48/2025 (cosiddetto “pacchetto sicurezza”), anziché affrontare la disumanità delle condizioni detentive sono stati introdotti nuovi reati, nuove aggravanti e nuove fattispecie ostative specifiche dei detenuti. Persino la proposta del Presidente del Senato, seppur minimale e non risolutiva, di domiciliari ai detenuti con residuo di pena inferiore a 18 mesi, è tramontata senza neppure passare in commissione. A conferma della volontà dell’esecutivo di procedere senza limiti nella direzione ostinatamente intrapresa di giustizialismo sfrenato. I dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, aggiornati a settembre, parlano chiaro e consentono di tracciare un ritratto a tinte fosche del sistema carcerario italiano: 189 istituti penitenziari con 51mila posti regolamentari a fronte dei quali sono presenti oltre 63mila persone, ovvero 12 mila in più e in continua crescita anche nell’ultimo anno. Numeri che portano a un tasso di sovraffollamento medio del 123%, che arriva al 153% nelle carceri della Puglia, al 150% in Friuli Venezia-Giulia, 146% in Veneto e in Lombardia, e che supera il 150% in ben 45 istituti. Tassi tra i più alti in Europa, ancora più drammatici in molte strutture: come a Brescia dove la popolazione detenuta è di più del doppio dei posti (204%), Bergamo (189%), Foggia (184%), Verona (181%), Roma a Regina Coeli (180%). Il quadro peggiora ulteriormente se si considera che i posti effettivamente disponibili non arrivano a 47mila, dunque ci sono oltre 16mila persone ristrette in eccesso e il sovraffollamento reale è del 135%. Condizioni ai livelli record di quindici anni fa, che portarono la Corte europea dei Diritti dell’uomo alla sentenza dell’8 gennaio 2013, Torreggiani e altri, di condanna dell’Italia per violazione dei diritti umani. Non c’è più tempo. Occorre affrontare il sovraffollamento non aumentando i posti nelle carceri ma con soluzioni capaci di coniugare i diritti fondamentali dei detenuti, in primo luogo la tutela della dignità umana, con il bene della sicurezza e soprattutto della funzione della pena, di rieducazione, recupero e reinserimento sociale, nel rispetto dei valori costituzionali. Nonostante il ministro Nordio sia arrivato anche ad affermare che non ci sia nessuna correlazione fra sovraffollamento e suicidi e le misure deflattive vengano rappresentate come una resa dello Stato, servono provvedimenti di clemenza. Occorre far accedere a misure alternative al carcere coloro che devono scontare pene brevi, prevedere sanzioni sostitutive e misure di comunità; serve poi la depenalizzazione dei reati minori e un minore ricorso alla carcerazione preventiva. La lunga notte delle carceri italiane deve finire. *Segretaria confederale della Cgil Carceri, torna il silenzio. Ma si continua a morire di David Allegranti La Nazione, 19 ottobre 2025 Secondo i calcoli di Ristretti Orizzonti sono 192 i detenuti morti in prigione nel 2025. Non ha senso parlare di emergenza, perché quello che doveva emergere è già emerso. Le carceri sono di nuovo sparite dal dibattito pubblico. Eppure nelle prigioni italiane si continua a morire, non solo perché ci si suicida. Secondo i calcoli di Ristretti Orizzonti sono 192 i detenuti morti in prigione nel 2025. Non ha senso parlare di emergenza, perché quello che doveva emergere è già emerso. A Sollicciano. A San Vittore. A Regina Coeli, dove pochi giorni fa è crollato un pezzo della seconda rotonda del carcere e una parte dei detenuti sfollati è stata spedita in Sardegna. Come un pacco postale. “Per fortuna non si è fatto male nessuno. Il crollo della volta della seconda rotonda di Regina Coeli mi sembra una metafora delle condizioni del nostro sistema penitenziario”, ha detto il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. “È importante che, con i vigili del fuoco, ci sia andato anche il capo dell’amministrazione penitenziaria, per rendersi conto di persona di cosa si tratti. Non abbiamo quasi neanche più la voce per dirlo: così non si può andare avanti”. Secondo l’Unione Sarda, sono 103 i detenuti trasferiti in Sardegna dopo il crollo a Regina Coeli. Ma la soluzione “tampone” è già stata contestata, riferisce il quotidiano sardo. Roberto Melis, segretario della confederazione dei sindacati penitenziari, Consipe, dice che “secondo segnalazioni interne” molti dei trasferiti non sarebbero provenienti dal settore realmente compromesso dal crollo, bensì da altri rami del carcere, sollevando dubbi sulla correttezza dei criteri adottati. “In piena emergenza, si sarebbe dunque trovato il tempo per selezionare e inviare in Sardegna i soggetti più problematici, trattenendo invece quelli più gestibili”. Ma i problemi sovrastrutturali sono ovunque. Di Sollicciano ci siamo occupati a lungo su questo giornale. Ma che dire di San Vittore? Il vice presidente dei senatori del Pd Franco Mirabelli, primo firmatario di una interrogazione al Ministro della Giustizia Nordio, dice che la situazione che emerge nel carcere milanese “appare sempre più drammatica e quanto mai fuori controllo perdurando, ormai da molti anni, una quanto mai complicata condizione di sovraffollamento, dal momento in cui si registra un numero di detenuti che rappresenta il doppio di quello sostenibile dalla sua capienza normale”. Nei giorni scorsi ci sono state due vittime tra i detenuti, mentre altri tre sono stati ricoverati, presumibilmente per via dell’assunzione di sostanze stupefacenti “o a causa di un’intossicazione, in fase di accertamento. Fatto ancora più grave, ancora oggi perdura l’assenza di una direzione stabile dal momento in cui deve ancora insediarsi la direttrice nominata mesi fa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. C’è poi la questione della giustizia minorile. Secondo le ultime rilevazioni diffuse dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, in tutta Italia alla data del 30 settembre risultavano 16.534 minorenni o giovani adulti complessivamente in carico agli uffici territoriali: rispetto all’inizio dell’anno si è verificato un incremento di 1.566 unità, corrispondente a un tasso del 10,5%. Notte bianca della giustizia, la legalità per i giovani: “La Costituzione è il faro” di Luigi Nicolosi Il Mattino, 19 ottobre 2025 Un lungo applauso per Sigfrido Ranucci. La notte bianca della giustizia inizia con un tributo al conduttore di “Report” vittima pochi giorni fa di una gravissima intimidazione. Poi un concetto ribadito senza esitazione dai vertici dell’Associazione nazionale magistrati: l’urgenza di tutelare la libertà di stampa e di espressione, oltre alla centralità della Costituzione. Un dibattito vivace, quello che ha preso vita ieri pomeriggio nella sala Arengario del tribunale di Napoli in occasione della “Giornata della Giustizia” promossa dal distretto partenopeo dell’Anm - ad aprire i lavori il presidente Claudio Siragusa - e che ha visto la partecipazione, oltre che di magistrati e avvocati, anche di esponenti del mondo della cultura, tra cui la cantante Fiorella Mannoia e la scrittrice Viola Ardone, e di tanti studenti. Tra i relatori il procuratore capo Nicola Gratteri, la procuratrice minorile Patrizia Imperato, i giornalisti Giovanni Floris e Massimo Giannini, in un confronto moderato dalla caporedattrice di “Repubblica” Conchita Sannino. Proprio il capo dei pm napoletani, a margine del convegno, ha voluto ricordare l’importanza del “confronto con i giovani sul tema della Costituzione”. Gratteri non si è tirato indietro quando gli è stato chiesto di commentare le parole del ministro della Giustizia in merito all’inopportunità di organizzare un comitato del “no” alla riforma della giustizia all’interno del tribunale: “Nordio dice tante cose, salvo poi essere smentito dalla storia e dai fatti”. Sempre il procuratore capo, replicando alla posizione del guardasigilli a proposito del richiamo al Csm a vigilare sul turn over dei giudici nei maxi-processi, ha evidenziato: “Nei processi di mafia il cambio di collegio non prevede una rinnovazione dibattimentale, dunque non c’è perdita di tempo”. Un riferimento alla recente decisione dei vertici del tribunale di Napoli di “accelerare”, con una fitta serie di udienze settimanali, l’iter processuale che da tre anni vede in aula presunti boss e colletti bianchi del clan Moccia e che in piena estate ha portato a una raffica di scarcerazioni per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare: “Non posso stare zitto davanti a queste cose e non posso assuefarmi”, la conclusione tranchant di Gratteri. Sul tema e sulla centralità della giustizia ha invece fatto leva la presidente della Corte di appello di Napoli, Maria Rosaria Covelli, definendola “un pilastro della nostra democrazia, che promuove la pace, tutela i diritti, sanziona le violazioni, ma è anche luogo di rieducazione e rinascita”. Covelli ha richiamato i principi della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: “La Costituzione - ha affermato - non è solo un insieme di norme, ma un patto morale e civile nato dalle macerie della guerra per garantire che nessuno venga più privato della propria libertà e umanità. È una Carta concreta che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza sostanziale dei cittadini”. La presidente ha quindi citato alcuni progetti concreti, come il coinvolgimento di detenuti nei servizi amministrativi del Palazzo di Giustizia e la riapertura del teatro di Nisida, dedicato a Eduardo De Filippo, “esempi di come la cultura e il lavoro possano restituire dignità e speranza, trasformando luoghi di pena in spazi di crescita e rinascita”. Spazio anche alla piaga della violenza di genere: “Una ferita profonda al patto di civiltà”. Sugli atti criminali che ancora lacerano la nostra società si è focalizzato il procuratore generale Aldo Policastro: “Quando un giornalista come Sigfrido Ranucci vede saltare in aria le sue auto, è il segnale terribile di un momento terribile”, aggiungendo che “oggi, checché ne dica la Costituzione che ci indica la strada democratica ed antifascista segnata dalla Resistenza, c’è odio e rancore che traspare nelle istituzioni, nelle scuole, tra ragazzi e adulti e nel dibattito pubblico”. Ed è ai giovani che si è rivolta la cantautrice Fiorella Mannoia: “Vedendo così tanti ragazzi, sento di rivolgere loro le mie scuse. Gli stiamo consegnano un mondo difficile e complicato”. Al termine dei lavori, la presentazione del comitato promotore per il “no” alla riforma costituzionale della giustizia. Riforma Giustizia, presentato a Napoli il comitato del “no” di Dario Sautto Corriere del Mezzogiorno, 19 ottobre 2025 “I magistrati sono innanzitutto cittadini. Non capisco perché noi che siamo addetti ai lavori non possiamo dire la nostra sulla riforma, mentre i medici possono parlare di Sanità. Il ministro Carlo Nordio? Dice tante cose, salvo poi essere smentito dalla storia e dai fatti”. Il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, non ha risparmiato l’ennesima stoccata al Guardasigilli, dopo la polemica collegata all’organizzazione della “Giornata della Giustizia”, un evento organizzazione dall’Associazione nazionale magistrati di Napoli con giornalisti e artisti, aperto a scuole e cittadini. Un incontro molto criticato perché ieri si è presentato anche il Comitato per il “no” alla riforma con la separazione delle carriere in magistratura. “Siamo qui per spiegare con termini non tecnici i problemi della giustizia ai giovani. Poi del “no” alla separazione delle carriere possiamo parlare un’altra volta, perché potrebbe essere motivo di strumentalizzazione per chi non è in buona fede e che si misura nel proprio abito. Con i ragazzi mi trovo a mio agio, perché parlo da sempre con loro, conosco le loro esigenze, le loro difficoltà e i loro problemi, quindi discuto di loro con loro”. Il Comitato si è presentato verso la fine dell’evento, con i magistrati Gerardo Giuliano e Marinella Graziano, che hanno spiegato come nel comitato ci siano anche avvocati e accademici, ma che non accoglierà persone con responsabilità politiche, anche passate, e che “non sarà un’opposizione al governo”. Ma è stato Gratteri a rubare la scena, definendosi “una soubrette, ormai tutti mi vogliono perché aggrego e attiro migliaia di persone”. Tra i temi toccati già a margine dell’incontro, il capo della Procura partenopea è entrato sull’argomento telefonini: “Ogni riforma che viene fatta aumenta la difficoltà a cercare la prova sia nella fase delle indagini preliminari sia poi a processo. Una corsa ad ostacoli. Ad esempio: sul sequestro dei telefonini e dei computer, anche all’interno della maggioranza stanno litigando: a Fratelli d’Italia non va bene la proposta portata avanti da Forza Italia sul fatto che il pm dovrebbe chiedere l’emissione di un decreto di sequestro, esattamente come se fosse un’intercettazione telefonica. Eppure Nordio, da piazza San Marco, ha già preannunciato che nel 2026 farà una modifica affinché l’ordinanza di custodia cautelare venga firmata da tre giudici per le indagini preliminari. Vorrei sapere da lui, che ha cominciato a riaprire tribunali come quello di Bassano del Grappa, e mediamente i tribunali sono piccoli, dove li trova i gip per firmare le ordinanze e poi i gup per fare i processi”. Nel corso del suo intervento, però, Gratteri ha punzecchiato di nuovo il ministro sul caso del processo al clan Moccia: “Nordio non sa che per i processi di mafia non c’è bisogno di rinnovare l’istruttoria dibattimentale, se ci sono spostamenti dei giudici il processo non ricomincia daccapo, ma continua. Sono i processi ordinari che rischiano. Non è esatto dal punto di vista procedurale ciò che ha detto Nordio. Significa essere ignoranti, non conoscere l’argomento. E non posso stare zitto davanti a queste cose, anche a costo di disturbare il manovratore”. In sala con magistrati e studenti, erano presenti avvocati, esponenti del mondo della cultura come Fiorella Mannoia (“Nel vedere tutti questi ragazzi mi viene da chiedere scusa. A tutti loro. E dobbiamo farlo in quanto adulti perché stiamo consegnando loro un mondo difficile, complicato”, ha detto la cantante), don Luigi Ciotti e, dopo i saluti della presidente della Corte d’Appello Maria Rosaria Covelli e del procuratore generale Aldo Policastro, che ha citato l’episodio delle minacce a Sigfrido Ranucci, alla discussione moderata da Conchita Sannino hanno preso parte anche la procuratrice minorile Patrizia Imperato, e i giornalisti Giovanni Floris e Massimo Giannini. Nel corso dei loro saluti, il referente Anm Napoli, Claudio Siragusa, ha sottolineato che il tribunale “è casa nostra, trascorriamo quasi tutta la settimana qui. Noi siamo tecnici e possiamo avere i nostri dubbi sulla riforma della giustizia. Non si comprende che il Referendum è un momento fondamentale di partecipazione per tutti i cittadini, che devono sentire tutte le opinioni. E l’Anm rivendica il suo diritto alla libera manifestazione del pensiero”. Riforma della giustizia, un referendum per la democrazia di Roberta Lisi collettiva.it, 19 ottobre 2025 La magistrata Silvia Albano spiega cosa cambia e perché al referendum confermativo bisogna votare No: “A rischio lo stato di diritto”. È la presidente di Magistratura democratica, è giudice presso il Tribunale di Roma si occupa di migranti: Silvia Albano spiega perché la riforma della giustizia mette a rischio la democrazia e lo stato costituzionale di diritto come lo abbiamo conosciuto finora. Dottoressa, ci spiega se e come questa riforma faciliterà il rapporto dei cittadini con la giustizia, quanto e come velocizzerà i processi? In nessun modo. Lo hanno detto in molti, dal ministro Nordio all’onorevole Buongiorno: la riforma non c’entra nulla con l’efficienza e l’efficacia dell’azione giudiziaria. Non velocizzerà i processi, non darà alcun beneficio ai cittadini e non si vede neanche l’urgenza di farla approvare così rapidamente senza discussione. Le riforme costituzionali dovrebbero essere il frutto di una sintesi tra tutte le anime del Paese: una riforma costituzionale dovrebbe essere pensata e approvata da tutti e non essere espressione di una maggioranza di Governo. Neanche esponenti del Governo e della maggioranza che avevano perplessità su alcune parti della riforma hanno potuto presentare emendamenti. Le riforme costituzionali dovrebbero unire, non dividere il Paese. Diciamo che lo spirito costituente non alberga in questo momento in Parlamento e questo è un limite... È un grandissimo limite. Se si tocca la Costituzione, peraltro in una parte così rilevante visto che modifica un punto fondamentale come l’equilibrio e la separazione dei poteri, non può essere un colpo di mano della maggioranza, ma dovrebbe essere il frutto di un lavoro condiviso. La nostra Costituzione si fonda su un principio che lei ha appena ricordato: la divisione dei poteri, quello esecutivo, quello legislativo, quello giudiziario. La riforma costituzionale mantiene questo equilibrio? In realtà no. Il cuore di questa riforma non è la separazione delle carriere, è la riforma della magistratura e dell’ordine giudiziario. E non si mantiene questo equilibrio innanzitutto perché si sdoppia il Csm. Il Csm è l’organo di autogoverno della magistratura e garantisce l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, perché se fosse governata da altri poteri dello Stato non sarebbe più indipendente, ma sarebbe dipendente da un altro potere. Lo sdoppiamento del Csm con la creazione di quello di soli pubblici ministeri crea di fatto un altro potere dello Stato: ci saranno due Csm entrambi meno autorevoli dell’unico Csm attuale. Si dice poi che si vuole ridimensionare il ruolo dei Pm, ma in questo modo in realtà gli si dà un potere enorme. Attualmente nel Csm i pubblici ministeri sono 5 su 20 togati: sono governati dai giudici, domani si governeranno da soli, diventerà un altro potere dello Stato che avrà - peraltro - al suo servizio la polizia giudiziaria. E poi? Inevitabilmente la tappa successiva sarà la sottoposizione dei Pm al potere esecutivo. In nessun Paese al mondo esiste un pubblico ministero che abbia un proprio organo di autogoverno diventando potere autonomo dello Stato. Se rimanesse così ci sarebbe da esser preoccupati, del resto questo vulnus è stato rilevato anche da esponenti importanti del centrodestra come il giurista Marcello Pera. Sempre la Costituzione afferma che i cittadini e le cittadine sono tutti uguali di fronte alla legge, qualunque lavoro svolgano, qualunque incarico istituzionale ricoprano. Sarà ancora così? Il rischio di avere una magistratura più influenzabile dai poteri forti è grande. L’indipendenza e l’autonomia della magistratura garantiscono l’imparzialità del magistrato nel giudizio, chiunque si trovi davanti. La divisione in due del Csm, la nomina per sorteggio dei componenti togati, la limitazione delle competenze dei Csm, prima fra tutte la giurisdizione disciplinare nei confronti dei magistrati, rendono grande questo rischio. Secondo la riforma, la governance della magistratura sarà gestita da due Csm e da una super commissione disciplinare. Cosa significa? L’esercizio del potere disciplinare posto fuori dall’organo di autogoverno ha un’influenza enorme sull’indipendenza della magistratura: può essere esercitato in modo minaccioso e intimidatorio - qualche volta è già accaduto - e questo spettro è stato più volte agitato. Attualmente il Giudice disciplinare è composto da componenti togati e laici di nomina politica del Csm. Mettere il potere disciplinare fuori dal Csm significa togliere una funzione fondamentale dell’autogoverno che garantisce l’indipendenza della magistratura. Oggi esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, domani? Domani vedremo. Temo sarà uno dei prossimi obiettivi. Non credo che potrà reggere per molto l’obbligatorietà dell’azione penale insieme ai pubblici ministeri potere autonomo. Il Parlamento troverà un modo per contenere il potere dei Pm; la via potrebbe essere proprio quella che la maggioranza indichi quali sono i reati da perseguire e quali no. Mi pare un esito abbastanza probabile. Torniamo alla vicenda dei due Csm più una super commissione disciplinare, non più eletti dalla comunità dei magistrati e dal Parlamento, ma composti per sorteggio. Ci spiega perché non va bene? Si dice che si vuole ricorrere al sorteggio perché si vogliono evitare altri “scandali Palamara”. Il sorteggio non solo non garantisce questo, perché il sorteggiato può essere chiunque e non è detto che sia il magistrato più onesto del mondo, ma in realtà può favorire scandali e degenerazioni perché diventa tutto meno trasparente. L’elezione, anche su designazione dei gruppi associativi, dovrebbe comportare che l’eletto abbia il dovere di rendere conto al proprio elettorato, debba dire prima cosa va a fare al Csm e poi abbia la responsabilità di una coerenza nei comportamenti. Con l’elezione si favorisce un controllo democratico dell’azione dei componenti del Csm. I sorteggiati non avranno nessuna responsabilità politica nei confronti di nessuno. Il sorteggio non garantisce nulla rispetto a legami poco trasparenti che il sorteggiato potrebbe avere con la politica, gruppi d’affari o territori. Senza contare che non avendo rappresentatività, non solo non si garantisce il pluralismo delle idee, fondamentale nell’organo di governo autonomo, ma avranno anche meno autorevolezza rispetto ai membri laici. Ma le correnti sono questo male assoluto che dipingono? I gruppi associativi sono stati un fattore di grande crescita della magistratura. Hanno garantito un dibattito di idee sul modello di magistrato, sul ruolo della giurisdizione, sul modo di rendere giustizia, sulla giurisprudenza. Magistratura Democratica è nata negli anni ‘60 proprio per la necessità che sentivano le persone che l’hanno fondata di costituzionalizzare l’ordinamento giuridico che era ancora molto impregnato di leggi provenienti dal fascismo. Insomma, ha fatto crescere la magistratura che è diventata più consapevole del proprio ruolo, interpretandolo in modo meno burocratico nella consapevolezza della necessità di rendere un servizio ai cittadini. E i gruppi associativi sono anche grandi luoghi di partecipazione democratica e di controllo anche rispetto alle scelte dell’autogoverno, lo dicevo prima. Dopodiché sicuramente non sono esenti da critiche, ci sono state delle degenerazioni con le quali non si è fatto sufficientemente i conti: non bastava rimuovere Palamara dalla magistratura, ci sarebbe stato maggiormente bisogno di fare i conti con quelle pratiche e trovare correttivi adeguati. Ma come dicevo, la riforma non è la soluzione e rischia da questo punto di vista di fare peggio. Oggi si punta a smantellare l’associazionismo giudiziario per normalizzare la magistratura, polverizzarla. L’associazionismo è a sua volta garanzia di indipendenza del magistrato, che così non è solo quando amministra la giustizia e deve adottare provvedimenti che possono essere sgraditi alla politica: non è solo di fronte ad attacchi molto violenti che pure ci sono stati. L’indipendenza è quella che fa sì che il magistrato possa garantire l’effettiva eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la tutela dei diritti di ognuno. Come dicevamo all’inizio si andrà al referendum confermativo, visto che la riforma è passata, fortunatamente, solo a maggioranza semplice. Come fare per arrivare alla vittoria dei no? La presa di posizione dell’Anm per votare No alla riforma nel referendum, che inevitabilmente ci sarà non è a difesa di una corporazione, che continuerà comunque ad avere il proprio status e il proprio stipendio, ma a difesa della giurisdizione come possibilità di continuare a garantire i diritti di tutti e tutte. Questa riforma riguarda la democrazia e lo stato costituzionale di diritto come lo abbiamo conosciuto finora. Esiste a livello mondiale - basti vedere ciò che accade negli Usa - un’insofferenza nei confronti di qualsiasi controllo o limite al potere: se si ha la maggioranza si può fare come si vuole. È chiaro che il primo obiettivo è la magistratura, proprio perché garante della legalità anche nell’azione dei poteri pubblici. L’indipendenza della magistratura è stata garantita dai costituenti a tutela dei diritti delle persone, perché quello che era accaduto non potesse accadere mai più. Pensiamo poi che, se la riforma entrasse in vigore, bisognerebbe riscrivere completamente le norme dell’ordinamento giudiziario, attraverso le quali si possono ulteriormente aggravare gli effetti della riforma. La direzione verso la quale si vorrebbe andare anche in Italia mi pare abbastanza ben delineata ed è preoccupante: la legge sicurezza, l’eliminazione dell’abuso di ufficio (tutela penale contro gli abusi del potere nei confronti dei cittadini), la limitazione della libertà di stampa e la criminalizzazione del dissenso (la critica politica viene dipinta come odio), la riforma del premierato che concentra il potere nelle mani dell’Esecutivo. Anche a livello internazionale le Corti, garanti del diritto contro la legge del più forte, vengono costantemente attaccate: si stanno compiendo crimini tremendi e si sanzionano non gli Stati che li commettono, ma i giudici che vorrebbero perseguirli. Non si può prescindere dal contesto, anche mondiale, in cui questa riforma costituzionale si inserisce. Del resto gli esponenti del Governo hanno chiaramente detto quali sono gli obiettivi della riforma: evitare che ci siano giudici che con le decisioni possano ostacolare la loro politica. “La giustizia può far male. Ok alle carriere separate” di Hoara Borselli Il Giornale, 19 ottobre 2025 L’ex sindaco di Lodi, Simone Uggetti: “La mia vicenda non è isolata. Centinaia di amministratori colpiti ingiustamente”. Simone Uggetti, 52 anni, dirigente di azienda, ex sindaco Pd di Lodi. Anche ex detenuto. Lo arrestarono il 3 maggio del 2016. Era sindaco da tre anni e godeva di molto consenso. Lo accusarono semplicemente di avere favorito una società (in gran parte del Comune) nell’assegnazione della gestione di due piscine comunali. Prigione, domiciliari, gogna, sette anni di sofferenze: poi l’assoluzione piena. Dice la sentenza: ha scelto quella società perché era la soluzione migliore per il Comune e per i cittadini. Ora Uggetti ha scritto un libro sulla sua vicenda. Si intitola “Storia di un Sindaco - da San Vittore all’assoluzione” Perché ha deciso di scrivere un libro? “È un atto di testimonianza civile e politica. La mia vicenda non è un caso isolato. Ci sono stati in questi anni centinaia di amministratori colpiti ingiustamente dalla giustizia. Loro hanno avuto la vita rovinata e il corso della democrazia è stato deviato”. Lei ne è uscito del tutto riabilitato... “Io sono stato fortunato in questa vicenda giudiziaria. Perché non basta essere innocenti, ci vuole anche un tribunale che lo certifichi. Io lo ho trovato. Poi devi trovare la forza e la capacità per ricostruirti una vita. Non è facile”. Cosa pensa della giustizia? “La giustizia è una cosa essenziale in una comunità. Però dobbiamo sapere che se non è amministrata con cautela e precauzione può distruggere la vita delle persone”. Come si ricostruisce una vita? “Balli sul filo sottile tra farcela e non farcela. Io ho abbandonato la mia vita precedente e sono riuscito a diventare amministratore di un’azienda che funziona”. È stata dura? “Ho vissuto diversi mesi che mi alzavo la mattina e vedevo il nero. Tutto nero”. Che vuol dire vedere nero? “Tu hai la tua vita professionale, bella, ti piace, io ero un sindaco, avevo fatto l’assessore. Mi piaceva tantissimo. Da un giorno all’altro finisce tutto. Sei niente”. Come è stata la sua esperienza in carcere? “Io sono un turista del carcere. Fortunato. Solo 10 giorni. Poi 25 ai domiciliari”. Quella mattina quando sono venuti a prenderla? “Ho sentito suonare alla porta. Era un tenente colonnello che conoscevo. Entrano in quattro o cinque. Io pensavo di dover firmare qualcosa. Qualche ordinanza. Iniziano a parlare, la prendono un po’ alla larga. Poi mi dicono che mi arrestano. Non capivo perché. Li ho pensato: è finita la mia vita”. Perché un Pm e una Gip hanno deciso di arrestarla? “Me lo sono chiesto. Credo che sia stato un momento di grande incompetenza. Non c’era nessuno dei motivi previsti dalla legge per arrestarmi”. Lei è favorevole alla separazione delle carriere dei magistrati? “Aspettavo la domanda. Ci sono giuristi autorevoli che sono contrari, altri sono a favore. Io penso che la separazione abbia un senso solo se va insieme ad una riforma che stabilisce la responsabilità dei giudici e a una riforma che abolisce l’obbligatorietà dell’azione penale. E poi c’è il problema della spettacolarità giudiziaria”. Cioè? “Io ho la sensazione che alcune figure di magistrati vengano promosse non se fanno bene ma se appaiono. Non vengono giudicate per il loro lavoro ma per la loro celebrità. Non gli vengono imposte delle responsabilità. Questo rovina la magistratura”. Non sia diplomatico? È favorevole o no alla separazione? “Io non sono contrario alla separazione. Così però mi sembra una riforma un po’ monca”. C’è una parte maggioritaria della sinistra che è contro… “Questo dipende dal clima politico”. Carcerazione preventiva: cosa ne pensa? “La carcerazione preventiva è da usare in casi eccezionali. A volte vedo che c’è una spettacolarizzazione anche di questo strumento. Io mi sono preso la gogna sulle prime pagine dei giornali perché ero in carcere. Se avessi ricevuto solo un avviso di garanzia non sarebbe successo”. Dice Palamara che quando un Pm, un Gip e un giornalista sono d’accordo... “Quando quei tre si mettono insieme sei finito. Finora nessuno è riuscito a fermarli”. Come si comportò la stampa con lei? “(Ride ride) Mi massacrarono”. Il suo partito come si comportò? “Mi vennero a visitare alcuni parlamentari e alcuni consiglieri regionali del Pd”. Anche qui è un po’ diplomatico... “I partiti sono fatti di persone. Alcune furono molto vicine, alcune un po’ vicine, alcune non vicine”. Si aspettava di più? “Si. Poi ebbi la sfortuna che il mio arresto avvenne pochi giorni prima delle elezioni. Questo allontanò molti”. Lei si è pentito di avere fatto il sindaco? “No. Non ci si pente di fare il padre e il sindaco. Fare il sindaco è il mestiere più bello del mondo”. Dopo quello che è successo, lo rifarebbe? “Io lo rifarei se i cittadini mi votassero”. La nuova riforma Nordio: (Ri)cambia la custodia cautelare di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2025 La bozza del ddl: carcere preventivo solo per i reati di mafia o con uso della violenza: salvi tutti gli altri inclusi corrotti, ladri e truffatori. Sei un corrotto, un bancarottiere, un ladro di appartamenti, un trafficante di droga o un truffatore di anziani? A breve il tuo rischio di essere arrestato e finire in carcere potrebbe ridursi a zero. Merito del nuovo assalto alla giustizia messo in cantiere da Carlo Nordio: la riforma della custodia cautelare, che dopo mesi di annunci e anticipazioni ha assunto i primi contorni ufficiali. Il prossimo 11 novembre la commissione di studio nominata dal Guardasigilli - presieduta da Antonio Mura, capo dell’Ufficio legislativo del ministero - presenterà le sue proposte per riscrivere il Codice di procedura penale, destinate poi a trasformarsi, in tutto o in parte, in un disegno di legge del governo. E il cuore del provvedimento sarà proprio la limitazione del carcere preventivo, storica ossessione “garantista” di Forza Italia, venduta pubblicamente da Nordio come soluzione all’emergenza del sovraffollamento penitenziario al posto di un indulto. Così, nella foga di svuotare le celle, gli esperti del ministro hanno usato l’accetta: nella loro relazione finale suggeriscono di abolire di fatto la custodia cautelare in carcere per tutti i reati non violenti, cioè sia quelli tipici dei colletti bianchi (come corruzione o falso in bilancio) sia vari delitti “di strada” come furti, spaccio e traffico di stupefacenti, truffe, estorsioni o usura. Un risultato paradossale per una maggioranza che ha fatto della sicurezza un totem. Il progetto è contenuto nel documento della sottocommissione dedicata alle misure cautelari (coordinata dal professore dell’Università di Ferrara Daniele Negri e dal magistrato Gastone Andreazza, presidente di sezione in Cassazione) che il Fatto ha potuto leggere in anteprima. La proposta modifica la norma sulle esigenze cautelari, cioè i casi in cui il giudice, su richiesta del pm, può restringere la libertà personale prima di una condanna definitiva. Delle tre motivazioni previste dal codice, quella di gran lunga più frequente -e quindi più detestata dagli avvocati - è il pericolo che l’indagato o imputato commetta altri delitti simili a quello di cui è accusato. Ed è qui che interviene la riforma: in base al testo ministeriale, in questi casi il pm potrà chiedere la custodia in carcere - cioè la misura cautelare massima - solo per i reati di mafia, terrorismo, commessi con l’uso di armi o “tali da ledere o mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o psichica, l’autodeterminazione sessuale, la libertà delle persone, nonché la libertà sessuale e la dignità dei minori”. Quindi niente delitti contro la pubblica amministrazione (corruzione e simili), contro l’economia (falso in bilancio, bancarotta), contro il patrimonio (furto, truffa), o in materia di droga: gli indagati per questi reati non potrebbero più finire in carcere preventivo, anche se le indagini dimostrassero - ad esempio - che hanno pagato tangenti milionarie o gestito un traffico internazionale di cocaina. Unica eccezione è la recidiva specifica, cioè il caso in cui abbiano già una condanna definitiva per fatti dello stesso tipo. Gli incensurati invece avrebbero la garanzia di evitare la cella, salvo che l’accusa non riesca a provare una delle altre due (rarissime) esigenze cautelari, cioè il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove. Per scendere nel concreto, solo limitandoci ai casi di cronaca recente, con questa legge non sarebbe finito in carcere l’imprenditore Andrea Bezziccheri, accusato di aver corrotto un membro della Commissione Paesaggio nell’inchiesta sull’urbanistica a Milano (in seguito è stato liberato dal Riesame). E nemmeno l’ex presidente del Porto di Genova Paolo Emilio Signorini, arrestato a maggio 2024 insieme all’allora governatore ligure Giovanni Toti per aver preso mazzette dal terminalista Aldo Spinelli (tutti e tre hanno patteggiato). Andando più indietro nel tempo, l’ex presidente dell’Assemblea capitolina Marcello De Vito (condannato in primo grado a otto anni e otto mesi) si sarebbe evitato i suoi tre mesi e mezzo in custodia a Regina Coeli, l’ex governatore abruzzese Ottaviano Del Turco (morto lo scorso anno) i suoi 28 giorni nel carcere di Sulmona. Si dirà: anche senza il carcere resta possibile tutelare le esigenze cautelari con misure meno pesanti, a partire dagli arresti domiciliari (applicati molto più di frequente a politici e imprenditori). In realtà la riforma svuota anche questa possibilità con un’altra previsione, più subdola e tecnica ma almeno altrettanto pericolosa. Per chiedere qualsiasi misura - dal carcere a un semplice obbligo di firma - il pm dovrà infatti motivare il rischio di reiterazione del reato con “comportamenti o atti concreti diversi rispetto al fatto per il quale si procede”. Tradotto: non si potrà più ritenere l’indagato pericoloso “soltanto” perché lo si è già osservato vendere centinaia di dosi o svaligiare dieci appartamenti, ma bisognerà portare qualcos’altro di “diverso”, di estraneo alle modalità con cui è stato commesso il reato. In sostanza, quindi, serviranno anche in questo caso dei precedenti penali: un modo per proteggere ulteriormente gli incensurati, che diventerà molto più difficile sottoporre a misure cautelari. D’altra parte il governo si era impegnato ufficialmente in questo senso in Parlamento, accogliendo due ordini del giorno del deputato di Forza Italia Enrico Costa. Ma l’effetto potrebbe essere deleterio soprattutto nelle indagini per i reati di violenza sulle donne come maltrattamenti e stalking: con il nuovo requisito, infatti, sarebbe quasi impossibile anche disporre un semplice divieto di avvicinamento alla vittima, non potendolo più motivare sulla base della condotta persecutoria dell’indagato. Nella relazione degli esperti di Nordio, ovviamente, di queste considerazioni non c’è traccia. In compenso però si usano fiumi d’inchiostro per giustificare la salva-ladri con aulico linguaggio accademico: la custodia cautelare, si legge, “stenta a conciliarsi con il principio costituzionale della presunzione di innocenza, (...) che vieta di attribuire alle limitazioni della libertà personale precedenti al giudicato funzioni assimilabili a quelle tipiche della pena”. Per questo, “quando è in gioco la restrizione più intensa della libertà personale, l’esigenza di tutela della collettività deve rimanere circoscritta a fattispecie criminose che ledano o mettano in pericolo un numero chiuso e adeguatamente selezionato di beni”, “operando una selezione più aderente alla natura della custodia cautelare in carcere quale extrema ratio e al connesso criterio di proporzionalità”. E tanti saluti alla destra “legge e ordine”. Rimedio risarcitorio per violazione dei diritti umani del detenuto di Vincenzo Giglio terzultimafermata.blog, 19 ottobre 2025 Finalità e determinazione della competenza secondo la giurisprudenza di legittimità. Cassazione civile, Sez. 1^, ordinanza n. 9218/2025, 11 febbraio/8 aprile 2025, ha chiarito, in tema di detenzione in condizioni non conformi all’art. 3 Cedu, che il ricorso ex art. 35-ter, comma 3, O.P. ha lo scopo di evitare il protrarsi della violazione dei principi enunciati in materia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, prevedendo, in via eccezionale, il rimedio indennitario ex lege di otto euro al giorno solo quando non è possibile la riduzione della pena, prevista dal comma 1 del citato art. 35-ter. Di conseguenza, il soggetto che, dopo un periodo di custodia cautelare in carcere, venga rimesso in libertà, può invocare il ristoro entro sei mesi dalla cessazione della misura custodiale, solo ove non sia sottoposto, per il medesimo titolo, ad altro periodo di detenzione; se, invece, dopo essere stato rimesso in libertà per il venir meno della misura, venga condannato, il successivo inizio del nuovo periodo di detenzione non gli consente di chiedere il ristoro nella cd. forma specifica per la precorsa carcerazione preventiva, potendo egli, con riferimento al secondo periodo detentivo fondato su un diverso titolo, far valere il rimedio, ove ne ricorrano nuovamente i presupposti. Il collegio di legittimità ha ulteriormente chiarito che il ricorso ex art. 35-ter, comma 3, O.P. rientra nella competenza non del magistrato di sorveglianza, bensì del tribunale civile del capoluogo del distretto in cui l’ex detenuto ha la residenza, che decide in composizione monocratica nelle forme previste dall’art. 737 c.p.c., attesa l’esigenza di assicurare uno strumento processuale agile ed effettivo, e la legittimazione ad avvalersene spetta a coloro che hanno subito una detenzione inumana a titolo definitivo o non definitivo, purché, nel primo caso, la pena sia cessata e, nel secondo, la custodia cautelare non sia convertibile in pena espiata. Nel caso sottostante al ricorso, la persona che aveva sofferto la custodia cautelare in condizioni inumane non era poi stata condannata. Bologna. Nel carcere 800 detenuti in 457 posti, la Regione Emilia Romagna: stop nuovi ingressi di Lorenzo Pastuglia Il Resto del Carlino, 19 ottobre 2025 Lettera dell’assessora Conti al ministro Nordio: “Serve un intervento urgente per garantire condizioni di detenzione dignitose e sicurezza a chi lavora”. Proposto un tavolo tecnico permanente tra Ministero, Regione e Comune. Ottocento persone in uno spazio pensato per poco più della metà. Al carcere della Dozza ‘Rocco D’Amato’ di Bologna, la matematica del carcere non torna più: 800 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 457 posti. Un numero che racconta, meglio di qualsiasi parola, la misura del disagio che attraversa oggi uno degli istituti penitenziari più grandi e problematici dell’Emilia-Romagna. Di fronte a una situazione ormai insostenibile, la Regione è intervenuta ufficialmente scrivendo al ministero della Giustizia per chiedere la sospensione dei nuovi ingressi e un piano immediato di adeguamento degli spazi. La lettera, datata 8 ottobre e firmata dall’assessora al Welfare e Terzo settore Isabella Conti, è indirizzata al ministro Carlo Nordio. L’obiettivo: “decomprimere” le sezioni più affollate e riportare condizioni minime di vivibilità per detenuti e operatori. La Dozza, già segnata da criticità croniche, rischia infatti di vedere peggiorare ulteriormente la propria situazione. Il rientro della sezione temporaneamente destinata ai ‘giovani adulti’ nel circuito penale ordinario apre la strada a nuovi trasferimenti da altri istituti, stimati tra 70 e 90 unità. Numeri che, se confermati, spingerebbero l’istituto oltre qualsiasi soglia di sostenibilità. “Serve un intervento urgente - ha scritto Conti - per garantire condizioni di detenzione dignitose e la sicurezza di chi lavora all’interno della struttura”. Sempre nella lettera, la Regione chiede inoltre l’apertura di un tavolo tecnico permanente tra Ministero, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Regione e Comune, con l’obiettivo di coordinare gli interventi strutturali e definire una nuova distribuzione delle sezioni. Un lavoro condiviso che tenga conto delle categorie più vulnerabili - dai detenuti protetti alle persone con fragilità psichiatriche - e che consenta di stabilire standard minimi di vivibilità e sicurezza. Il tema, sottolineano la Regione e il governatore Michele de Pascale, non riguarda soltanto i numeri, ma la tenuta dell’intero sistema penitenziario: “La situazione della Dozza è il simbolo di un’emergenza che non può più essere ignorata - dichiarano de Pascale e Conti - Trattare le persone in condizioni disumane significa rinunciare alla funzione rieducativa della pena. È indispensabile una gestione condivisa e responsabile che metta al centro dignità e sicurezza, tanto per chi è recluso quanto per chi ogni giorno vi lavora”. La Regione, spiegano ancora presidente e assessora, continuerà a fare la propria parte nei settori di competenza: dalla sanità penitenziaria al sostegno psicologico, fino ai percorsi di reinserimento. Ma serve, ribadiscono, una misura immediata: “Stop ai nuovi ingressi e riorganizzazione degli spazi - dicono - Senza un equilibrio numerico sostenibile, nessuna buona pratica potrà durare nel tempo”. Bologna. L’installazione choc, una cella in piazza Maggiore: “Così si vive dietro le sbarre” di Chiara Gabrielli Il Resto del Carlino, 19 ottobre 2025 Iniziativa della Camera Penale per sensibilizzare i cittadini sul sovraffollamento. De Pascale: “Bisogna fare di più”. Bergonzoni: “Buttiamo via chiavi e porte”. Due lettini singoli, dei mini sgabelli, un mobiletto, un bagno. All’unica finestra, delle sbarre. Il carcere nel cuore del centro storico, con cella a ricordare a tutti che ci sono migliaia di persone che vivono lì, ogni giorno. Chi si trova a passare da piazza Maggiore (ieri e oggi fino alle 19) non può fare a meno di notarla. Questa è la vita dietro le sbarre, di cui la grande installazione nel cuore del centro diviene il simbolo, proprio per sensibilizzare i cittadini sulle condizioni carcerarie. L’obiettivo è di fare conoscere, toccare con mano per comprendere. Non è casuale la scelta di piazza Maggiore, cuore simbolico della città, per ospitare ‘La vita dietro le sbarre’, l’iniziativa promossa dalla Camera Penale di Bologna Franco Bricola, assieme al proprio Osservatorio ‘Diritti Umani, carcere ed altri luoghi di privazione della libertà’, in collaborazione con Extrema Ratio e con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna e del Comune di Bologna. Oggi è atteso qui il cardinale Matteo Zuppi. L’installazione, una cella carceraria a grandezza reale, fedelmente arredata e ricostruita grazie alla collaborazione e alla realizzazione del Lions Club Borgo Panigale Emilia Ponente, è liberamente visitabile da chiunque voglia varcarne la soglia e confrontarsi con uno spazio che diventa confine, con la misura ristretta entro cui si consuma la quotidianità di tante persone. Solo ieri sono state oltre mille le ‘visite’ all’interno dell’installazione. “Entrate - invitano -, è un palcoscenico agghiacciante, uno spazio claustrofobico”. Molti i problemi citati ieri (uno su tutti, il sovraffollamento, quasi 800 i detenuti alla Dozza) e molti gli interventi. Tra cui quello del governatore Michele de Pascale: “È fondamentale che ciascuno cerchi di fare meglio e di più. I numeri della nostra Regione devono essere pubblici” e bisogna agire per “le misure alternative e il reinserimento. Per chi vuole intraprendere un cammino nuovo e incontra difficoltà. Dobbiamo far sì che la società fuori sia pronta a riceverli e accoglierli”. “Noi, cittadini, siamo a migliaia di chilometri dallo spazio carcerario, siamo lontani anni luce da questo mondo - dice l’artista e scrittore Alessandro Bergonzoni -. E l’iniziativa è pensata proprio per avvicinare. Vorremo portare i detenuti in teatro per tutta la stagione riservando loro dei posti”. Fa il pieno di applausi. Bisogna, insiste, “dare dei diritti, non dei favori. Io sono per buttare via la chiave. Ma che non ci siano più le porte”. Tra i tanti che hanno preso la parola l’avvocato Luca Sebastiani, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale Bologna, il professor Flavio Peccenini, presidente Ordine degli avvocati Bologna, l’avvocato Ettore Grenci, il professor Nicola Mazzacuva, presidente Camera penale bolognese, l’architetto Stefano Simoncini, l’avvocato Francesco D’Errico, presidente Extrema Ratio, il garante dei detenuti Antonio Ianniello, giusto per citarne alcuni. Nei giorni scorsi è partita la richiesta - a firma dell’assessora regionale Isabella Conti -, al ministro Carlo Nordio: in attesa della riorganizzazione della Casa circondariale, siano sospesi i nuovi arrivi e si dia all’amministrazione penitenziaria la possibilità di adeguare gli spazi. Reggio Calabria. “Disagio in carcere: sovraffollamento, personale carente, sanità al lumicino” di Francesco Tiziano Gazzetta del Sud, 19 ottobre 2025 L’emergenza negli istituti penitenziari “San Pietro” ed Arghillà analizzata dal responsabile dell’Osservatorio dell’unione delle Camere penali italiane, Gianpaolo Catanzariti. Attualissima anche in questi giorni l’emergenza carceri a Reggio. Prima a “San Pietro” (aggredito un assistente della Polizia penitenziaria per ottenere un trasferimento verso un’altra sede di suo gradimento), poi ad Arghillà (un detenuto affetto da disturbi psichiatrici ha colpito con un pugno al volto un giovane agente), in appena 24 ore due episodi hanno riportato in primo piano la violenza all’interno delle strutture penitenziarie della città. Anche di questa criticità abbiamo parlato con l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’osservatorio carcere dell’unione delle Camere penali italiane. Personale della Penitenziaria e sanitari, detenuti che lamentano evidenti problematiche, strutture carcerarie inadeguate. È sempre emergenza carceri nel distretto di Reggio. “Le carceri reggine non sfuggono alle criticità del sistema nazionale. Sovraffollamento inarrestabile, personale carente, servizio sanitario al lumicino, tempo vuoto in sezioni sempre più chiuse rappresentano il terreno fertile per le manifestazioni plastiche di un diffuso disagio. In questo contesto si alimentano le aggressioni, gli atti di autolesionismo, i suicidi, le morti in carcere, svuotando di significato la pena detentiva e rendendo insopportabili e disumane le condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti”. Novara. Jail Career Day al carcere: il lavoro come strumento di rinascita per evitare recidive di Van Anh Phan Thi quotidianopiemontese.it, 19 ottobre 2025 Alla Casa Circondariale di Novara il primo Jail Career Day del Piemonte: imprese e detenuti insieme per nuove opportunità di lavoro. Il 20 ottobre 2025 la Casa Circondariale di Novara ospiterà il primo Jail Career Day del Piemonte, un’iniziativa che mira a mettere in contatto il mondo delle imprese con quello penitenziario, offrendo nuove opportunità di reinserimento lavorativo per i detenuti prossimi alla fine della pena. L’evento fa parte del progetto “Passaggi - Competenze per il dopo carcere”, finanziato dal Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte e promosso da Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, in collaborazione con Essere Umani e con l’adesione del Comune di Novara e dell’Università del Piemonte Orientale. L’iniziativa nasce per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, attraverso un dialogo diretto tra imprese e persone detenute che hanno maturato competenze professionali durante il percorso di formazione in carcere. Imprese e detenuti si incontrano per costruire opportunità - Nel corso della giornata, 15 detenuti con profili professionali già formati parteciperanno a colloqui individuali con aziende selezionate appartenenti a diversi settori produttivi. L’obiettivo è quello di avviare tirocini finanziati o contratti di lavoro che prevedono benefici fiscali e contributivi per le imprese, offrendo allo stesso tempo ai detenuti un’occasione concreta di riscatto sociale e professionale. Il lavoro come strumento di dignità e rinascita - Il Jail Career Day rappresenta un esempio concreto di collaborazione tra istituzioni, mondo produttivo e società civile. Il lavoro in carcere non è solo un atto di responsabilità sociale - sottolineano gli organizzatori - ma anche una leva strategica per la crescita delle imprese e per la costruzione di una comunità più inclusiva. Restituire dignità attraverso il lavoro significa, infatti, costruire futuro e sicurezza, offrendo nuove possibilità di reinserimento e riducendo il rischio di recidiva. Brindisi. Scuola e Carcere, un incontro che educa entrambi unogenio.it, 19 ottobre 2025 Convivenza civile e sociale: studenti di IISS Majorana e Liceo Palumbo incontrano i detenuti del carcere di Brindisi. Fare incontrare due mondi apparentemente lontani, due ambienti che appaiono quasi in contrapposizione l’uno con l’altro, ma che nascondono potenzialità inesplorate e similitudini. È da qui che prende vita il progetto dell’Associazione “SinP”, Sociologia in Progress ODV, dal titolo “Parliamo di convivenza civile e sociale”. Il progetto, giunto alla sua 11ª edizione, è rivolto agli studenti del triennio delle scuole secondarie di secondo grado da un lato e ai detenuti della casa circondariale di Brindisi dall’altro. Un progetto fuori dagli schemi che stimola l’incontro tra due mondi diversi che a turno, frequenteranno l’uno il mondo dell’altro. Quest’anno nel progetto, che ha preso il via nelle scorse settimane, sono coinvolte 11 classi dell’IISS Majorana e 2 del Liceo Palumbo, oltre 300 studenti. Valori e metodo - La sociologa e criminologa Maria Nimis e la sociologa Nunzia Conte, sono le guide che cercano di facilitare l’interiorizzazione dei valori che stanno alla base della convivenza civile, prestando attenzione ai personali comportamenti quotidiani all’interno della comunità di appartenenza, stimolando sia negli studenti che nei detenuti, la consapevolezza che le norme non devono essere rispettate solo per evitare di incorrere in una sanzione, ma perché da questo rispetto si ricavano evidenti vantaggi. Il progetto si articola in quattro interventi formativi sui due fronti coinvolti, quello scolastico e quello penitenziario. È nel contesto scolastico che viene svolto il maggior carico di lavoro. Gli studenti delle classi quarte, affiancati dall’esperta dell’associazione che propone il progetto, hanno compilato un questionario per raccogliere dati riguardanti la percezione di legalità ante et post progetto. Successivamente hanno analizzato e discusso l’ordinamento scolastico con la possibilità di evidenziarne e discuterne eventuali inadeguatezze con apertura di spazi dedicati a proposte migliorative. Per arrivare preparati all’incontro con i detenuti, gli studenti hanno visionato un video, una testimonianza di vita carceraria che suscita riflessioni profonde e offre spunti di dialogo. Il percorso, alquanto coinvolgente e per certi versi innovativo, offre una interessante occasione agli studenti che varcheranno nelle prossime settimane le porte dell’istituto penitenziario brindisino per incontrare i “colleghi” di progetto e interfacciarsi attraverso domande e scambio di opinioni. Gli obiettivi specifici puntano a promuovere l’assunzione di comportamenti corretti, rispettosi di sé, degli altri e dell’ambiente che ci circonda, a favorire la formazione di cittadini responsabili, a sviluppare capacità critiche e consapevolezza delle proprie scelte. Chi ha vissuto negli anni passati questa esperienza racconta di momenti di crescita personale e di maggiore consapevolezza su valori quali il rispetto e la civile convivenza. Perché se è vero che il futuro si costruisce mattone su mattone, è anche vero che inciampare e poi rialzarsi fanno parte di questa crescita, e l’iniziativa dell’Associazione “SinP” è parte attiva in questo processo di crescita e consapevolezza. Cuneo. La San Vincenzo De Paoli celebra 170 anni di speranza, dignità e pace di Paolo Roggero unionemonregalese.it, 19 ottobre 2025 Venerdì 24 e sabato 25 ottobre al Centro Incontri della Provincia duplice evento su carcere e speranza. Presente anche la presidente nazionale Paola da Ros. Venerdì 24 e sabato 25 ottobre il Centro Incontri della Provincia di Cuneo ospiterà l’evento organizzato dalla Società San Vincenzo De Paoli, un duplice evento in occasione del suo compleanno “1855-2025. 170 anni di bene in città”. Dalle 17.30 alle 19 del venerdì, il Consiglio Centrale di Cuneo sarà protagonista di “La cura dentro le mura”, pomeriggio dedicato al mondo del carcere. Dalle 10 alle 16.30 del sabato il Coordinamento interregionale Piemonte e Valle d’Aosta organizza una giornata dedicata al tema “Sulle strade della speranza: vincere la povertà, generare pace”. A entrambi gli appuntamenti presenzieranno la presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, Paola Da Ros. Gli incontri sono aperti alla cittadinanza (l’ingresso è libero e gratuito, prenotazione possibile su www.eventbrite.it) ed è prevista la possibilità di interventi dal pubblico. Nel pomeriggio del venerdì, dedicato alle carceri, verrà allestita negli spazi del Centro Incontri della Provincia la mostra fotografica “I Volti della povertà in carcere” (Editrice EDB), con i testi di Rossana Ruggero e le fotografie di Matteo Pernaselci. Tra gli interventi sono attesi Antonella Caldart (Responsabile Settore Carcere e Devianza Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV) che parlerà del settore carcere devianza; Franco Prina traccerà un bilancio di cinquant’anni di riforme alla luce dei principi costituzionali, dall’ordinamento penitenziario alle riforme più recenti; Alberto Valmaggia si soffermerà sul ruolo del territorio per la tutela dei diritti, in particolare sull’ascolto e l’offerta di opportunità ai detenuti. Sono anche previste testimonianza di volontari carcerari e di associazioni che lavorano nel mondo del carcere. Nel corso del pomeriggio verrà anche presentato il mosaico realizzato dai detenuti del Cerialdo con l’aiuto tecnico della Scuola Edile di Cuneo, raffigurante il logo della Società di San Vincenzo De Paoli, che verrà donato alla San Vincenzo di Cuneo in ringraziamento per l’ecografo che i Vincenziani hanno regalato al carcere cuneese. La giornata del sabato si aprirà con l’intervento della presidente della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, Paola Da Ros, che traccerà un quadro delle nuove povertà in Italia. Seguirà Chiara Bugnone (presidente associazione Hikikomori Italia Genitori - Piemonte, terrà una relazione sul tema “Hikikomori: giovani che si auto-isolano”. Sarà quindi il Sermig a raccontare la sua rivoluzione per costruire la pace disarmando la guerra. Il giornalista e biografo di San Pier Giorgio Frassati, Luca Rolandi, farà un intervento sull’impegno sociale di Frassati, mentre Padre Giovanni Burdese accompagnerà la platea in alcune riflessioni sull’Esortazione Apostolica di Papa Leone XIV “Dilexi te”. In conclusione, verrà data voce alle testimonianze autentiche di alcuni “poveri di pace” provenienti da Paesi in guerra, che si racconteranno tra devastazione e speranza. Milano. A Opera detenuti in scena con “Selvatico Ancestrale” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 19 ottobre 2025 “È importante non sentirsi a proprio agio. Ciò che non ci sorprende non ci trasforma”. Lo scrive Eliane Brum in Amazzonia, un libro che denuncia la distruzione umana della natura. Che muove il mondo, ma non ha voce per reagire. Questo libro contiene i temi ispiratori di “Selvatico Ancestrale”, il nuovo spettacolo che la compagnia di detenuti ed ex detenuti del carcere milanese di Opera mette in scena il 24 e 25 ottobre dentro l’istituto. L’iniziativa è aperta al pubblico esterno. Da 18 anni Ivana Trettel, regista della compagnia, insegna nei laboratori di formazione dell’attore e di drammaturgia a Opera. È “dentro” da così tanto tempo perché “il carcere - dice a GNews - è un grande amplificatore di ogni cosa, di gioie e dolori, e anche, dal mio punto di vista, dell’arte teatrale”. La compagnia Opera Liquida è mista: detenuti ed ex detenuti, giovani e adulti. “Alcuni hanno lavorato con me per anni e altri sono appena entrati: si mescolano competenze diverse”, spiega Trettel. Tra i decani del gruppo c’è Carlo Bussetti: ex recluso, fondatore a Bollate della compagnia “Corpi Bollati”, ora insegna il mestiere dell’attore, nel carcere di Monza. “Selvatico Ancestrale” ruota intorno al gioco di somiglianze: tra la natura e i detenuti, tra l’uomo “distruttore” e gli ex detenuti. Questi ultimi vittime, come le persone libere, di un mondo dominato dalla logica utilitaristica: in nome del profitto, tutto è sacrificabile. A differenza dei detenuti che, come la natura, “normalmente non fanno uscire le proprie voci”, spiega Trettel. Sul palco e dietro le quinte, lo spettacolo è interamente prodotto dai reclusi. Costumi, scenografie, sono fatti con le loro mani, sotto la guida di professionisti di ciascun settore. Dal 2018, infatti, Opera ospita corsi di formazione nei mestieri del teatro. Le scenografie realizzate in carcere riproducono la “Struttura tricroma” di Giovanni Anceschi, alla sua terza collaborazione con Opera Liquida. I costumi, disegnati da Salvatore Vignola, sono realizzati dai detenuti-costumisti guidati da Tommaso Massone. “Selvatico Ancestrale” è ispirato alla mostra fotografica di Giuditta Pellegrini, che per 10 anni ha fotografato le foreste del mondo. Le foto della giornalista, stampate su seta, compongono i costumi degli attori, insieme ai tessuti donati dall’azienda tessile Ratti. Ogni minimo dettaglio punta a rendere lo spettacolo “un’esperienza immersiva, un rito collettivo”, dice Trettel. In un carcere, il processo di selezione per entrare in una compagnia teatrale ha le sue peculiarità. A Opera si parte con una sorta di “call” a ogni piano, per tutti i settori, anche per i mestieri del teatro. Una prima selezione dei candidati viene fatta dall’area educativa e dalla direzione. Poi il resto viene da sé: “la voglia di impegnarsi, perché il teatro è una cosa molto seria; la voglia di stare in gruppo, di comprendere che lo spettacolo è un lavoro collettivo in cui ognuno porta un pezzettino molto importante”, dice la regista. I bravi attori, dentro le mura di un carcere, hanno un marchio speciale. “Sono arrivate persone che hanno imparato l’italiano frequentando il laboratorio e poi sono diventati dei grandi interpreti”, racconta Trettel. Il metro di giudizio non è avere una dizione perfetta. Innegabile, per la regista, è che i detenuti “portano una verità scenica molto intensa: penso che questo faccia la differenza. Quando raggiungono il corretto livello di concentrazione, sono persone che portano delle grandi verità. Questo risuona”. I biglietti per lo spettacolo “Selvatico Ancestrale” sono disponibili sul sito di Opera Liquida e possono essere acquistati entro il 20 ottobre. Milano. Carcere, in un libro volti di povertà e di speranza che segnano una rinascita di Marina Tomarro vaticannews.va, 19 ottobre 2025 A Milano, nella Basilica di Sant’Ambrogio, presentato il volume “I volti della povertà in carcere” delle Edizioni Dehoniane Bologna, con le foto di Matteo Pernaselci e i testi di Rossana Ruggiero e il racconto delle storie dei detenuti a San Vittore. Aperta anche la mostra fotografica, esposta nell’Atrio di Ansperto della Basilica fino al prossimo 2 novembre. Una rosa fatta con gli scarti delle saponette e uno stelo ricavato dal legno della cassetta per la frutta. È così che si presenta Giuseppe, uno dei quattro custodi presenti all’incontro sul libro “I volti della povertà in carcere”, che si è tenuto ieri sera in uno dei luoghi più rappresentativi della città meneghina: la Basilica di Sant’Ambrogio. “Ho passato tanti anni in carcere purtroppo - racconta emozionato - e li devi imparare a non buttare nulla e riutilizzare ogni cosa. Come il sapone, la plastica o il pane raffermo. Nel carcere a volte il cibo viene sprecato e allora non riutilizzarlo?”. E da questa idea è nato un piccolo laboratorio che da una nuova vita al pane avanzato: “Nascono crostini, torte di pane, focacce che mi ricordano quella di Bari, la mia città, e niente viene buttato”. Giuseppe è uno dei protagonisti delle foto del libro e insieme ad Alessandro, Said e Massimo, si aggirano lungo l’atrio della Basilica guardando stupiti ed emozionati quelle foto esposte dove i protagonisti sono proprio loro. Genova. Nel carcere di Marassi si è svolta la “Festa delle Famiglie” gnewsonline.it, 19 ottobre 2025 I sorrisi radiosi dei bambini, i loro occhi pieni di emozione nell’atto di ricevere, alla festa che martedì 14 ottobre nella Casa Circondariale Genova Marassi ha celebrato l’inizio dell’anno scolastico. La Festa delle Famiglie ha coinvolto, alla presenza degli operatori penitenziari, i padri detenuti e i loro congiunti. Si è trattato di un’occasione di socialità, con attività ideate per favorire la condivisione tra genitori e figli minorenni, che ha previsto anche la merenda collettiva, offerta in carcere grazie al contributo della Coop. Il fulcro della manifestazione è stata la consegna ai bambini di trenta “kit scuola”, realizzati con materiale di cancelleria raccolto in precedenza: oltre trecento articoli, tra quaderni, fogli, matite colorate, pennarelli, acquerelli. Insomma, tutto quanto é necessario per la carriera da studenti. La distribuzione dell’occorrente per la scuola proseguirà nelle giornate del 21 e del 24 ottobre e le donazioni riguarderanno soprattutto i bambini che frequentano lo Spazio Barchetta, un’area riservata in cui opera una squadra di operatori specializzati, organizzata per i figli minorenni dei detenuti, creata nella zona in cui sorge l’istituto penitenziario. L’evento fa parte di un più ampio progetto, dal titolo ‘La Semina dei sogni: l’infanzia tra carcere, scuola e comunità’, nato, con il supporto della Regione Liguria, attraverso una rete di enti del terzo settore, tra i quali la Veneranda Compagnia della Misericordia, a cui si deve, tra l’altro, la predisposizione della raccolta del materiale scolastico. Il programma, selezionato dalla società Con i bambini, che opera con il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, prevede una serie di iniziative, da portare a termine nei prossimi quattro anni negli istituti penitenziari di Genova Marassi, Genova Pontedecimo, Chiavari e Sanremo, coinvolgendo centri educativi e servizi territoriali. Si tratterà di prendere in carico circa cinquecento minori, dalla più tenera età fino ai quattordici anni, con percorsi individuali e di gruppo, realizzando una trentina di eventi dentro e fuori del carcere, con l’obiettivo di nutrire la relazione tra bambini, famiglie e comunità. Gli interventi previsti agiranno su diversi livelli, andando dal sostegno scolastico alla riqualificazione degli spazi dedicati all’incontro tra detenuti e minori, per arrivare a circuiti specifici per i genitori reclusi, anche in relazione al tema della violenza domestica. Il punto di partenza della Semina dei sogni è perseguire l’equità sociale, nel rispetto del diritto all’istruzione per tutti i bambini, e alla continuità dei legami parentali. L’impegno è quello di promuovere, nelle istituzioni e nella società civile, una cultura attenta alla condizione dei minori che vivono le difficoltà della detenzione di un genitore, emancipandoli dall’emarginazione e sottraendoli allo stigma e alla diffidenza. Udine. In biblioteca si possono donare dei Codici di diritto e di procedura per i detenuti udinetoday.it, 19 ottobre 2025 È un’iniziativa nasce dall’Università di Udine, dall’associazione studentesca Sisifo e dai volontari dell’associazione Icaro. I volumi si possono lasciare alla biblioteca civica Joppi o a quella economica e giuridica dell’ateneo. Tra il 20 e il 24 ottobre sarà possibile donare codici di diritto e di procedura, penale e civile - preferibilmente aggiornati alla riforma Cartabia del 2022 - per metterli a disposizione dei detenuti della Casa circondariale di Udine. È un’iniziativa di beneficenza nata dall’Università di Udine, promossa dal dipartimento di Scienze giuridiche, dall’associazione di studenti universitari Sisifo e dai volontari dell’associazione Icaro. “L’iniziativa è profondamente radicata nei principi della nostra Repubblica - recita un post della biblioteca civica Joppi su Facebook -. In ottemperanza all’articolo 27 della Costituzione, che stabilisce la finalità rieducativa della pena, e in linea con le garanzie del giusto processo (articolo 111 del codice di procedura penale), è fondamentale assicurare l’accesso agli strumenti di conoscenza legale a chi si trova in stato di detenzione”, si legge. Di raccogliere i codici si occuperanno la sezione Moderna della biblioteca civica Joppi di via Bartolino 5 e la biblioteca economica e giuridica dell’ateneo di via Tomadini 30. Alla Joppi si potranno lasciare lunedì dalle 14 alle 19, martedì dalle 9 alle 19, mercoledì e giovedì dalle 9 alle 20, venerdì dalle 9 alle 19, sabato dalle 10 alle 19. Alla Biblioteca economica e giuridica, invece, l’orario designato è da lunedì a venerdì dalle 9 alle 19. Pavia. Nella Casa circondariale fiorisce l’orto dei miracoli di Marco Belli gnewsonline.it, 19 ottobre 2025 È passato poco più di un anno da quando, all’interno della Casa circondariale di Pavia, è iniziata un’esperienza di orto-coltura molto desiderata. All’interno dell’istituto infatti erano presenti tanti spazi verdi ancora incolti e più volte è nato il desiderio di immaginare uno spazio verde: un orto, un giardino, magari tutti e due, dove le persone detenute potessero, con le loro mani e la loro fantasia, coltivare qualcosa. Così, dove c’era solo un terreno incolto e piuttosto disarmonico, sono partiti i lavori di spianamento e la prima grossa bonifica, a cui è seguita la delimitazione dello spazio con una recinzione. Fondamentale è stato il lavoro coordinato dall’assistente coordinatore di Polizia penitenziaria Enzo Di Tota con la sua squadra di persone detenute ammesse a lavorare all’esterno, bravi giardinieri carichi di passione e forza, sotto l’occhio vigile di don Dario Crotti, il cappellano-agronomo. Grazie ad alcuni contributi raccolti dalle offerte della sartoria “A filo Libero” interna all’istituto, è stato acquistato il primo materiale di coltivazione e anche una bella casetta dove poter sistemare il materiale necessario per coltivare l’orto. Alcuni incontri di sensibilizzazione con il territorio hanno permesso di recuperare zappe, vanghe, rastrelli, carriole, innaffiatoi e favorito un dialogo sempre più aperto tra il carcere, la città e la diocesi di Pavia, con tanti cittadini che hanno fornito successivamente piantine e sementi. Poi, nell’ottobre dello scorso anno, i primi lavori di coltivazione: vangatura, concimazione, le prime semine e il trapianto delle piantine a semina autunnale, fave, spinaci, carciofi, piselli. Con loro anche alcune piante di viole invernali, per rendere lo spazio accogliente come un vero orto-giardino: un luogo che potesse essere anche di incontro con la bellezza per chi vi lavorava, per i volontari e per tutti coloro che attraversavano quell’area dell’istituto. Con la primavera è nato di tutto: insalate, cipolle, pomodori, zucchine, melanzane, peperoncino piccante, prezzemolo, basilico, verze, zucche e una quantità di bellissime erbe aromatiche. Colori e profumi della natura che hanno richiamato alla mente orizzonti differenti di importante benessere. “Ho baciato le terra, ho guardato il cielo azzurro, ho respirato profumi nuovi, io qui mi sento bene”, hanno detto Josè, Alessandro, Daniele, Manuel, Rigen, i cinque detenuti che dal lunedì al venerdì lavorano in quello spazio di terra. La volontà nel prendersi cura dell’orto e la gioia nel vedere la bellezza dei frutti raccolti è certamente un valore che si aggiunge a quanto viene prodotto. Con il tempo, per prevenire il propagarsi di erbe infestanti, anche lo spazio circostante è stato coltivato con prato e fiori. All’ingresso e lungo i lati del perimetro sono stati piantati gelsomini che hanno reso la recinzione piena di verde. E per unire allo spazio di lavoro anche uno spazio di cultura, sono stati affissi pannelli con scritte legate alla cura della natura: il Seminatore di Van Gogh, il Piccolo Principe (attorno alle rose), l’uomo che piantava alberi, l’Infinito di Leopardi, l’”uscimmo a riveder le stelle” di Dante. Oggi il personale di Polizia penitenziaria, quello educativo, le mediatrici e i familiari delle persone detenute si soffermano spesso ad ammirare e godere di questa oasi di pace e bellezza. Nato dove una volta non c’era nulla, solo terra e sassi. “Quando è arrivata la notizia del concorso ci è parso subito un dovere partecipare: far conoscere tanta bellezza e tanto impegno in una realtà difficile e insolita come quella del carcere. All’iscrizione ha pensato don Dario, ai bellissimi scatti una fotografa professionista come Marcella Milani e a rendere l’orto-giardino sempre più bello le persone detenute”. Così ci dice Stefania Mussio, la direttrice dell’istituto. Il concorso ‘Orto Bello’, indetto dal Comune di Pavia, ha visto la partecipazione di moltissimi orti del pavese, coltivati soprattutto da cittadini privati. “Il nostro orto-giardino è salito sul podio”, ricorda emozionata la direttrice. “Un terzo posto che ha premiato la sua bellezza estetica e il contesto in cui è cresciuto, che era un indice di valore per qualificare gli orti. Inaspettato, poi, il primo posto nel ‘Premio social’, per avere ottenuto la nostra fotografia i like più numerosi. ‘Coltiviamo Speranza’ - conclude Mussio - è il nostro motto: seminare la speranza di vedere rinascere, nel ciclo delle stagioni, in ogni tempo e in ogni luogo, la dignità anche in chi è inciampato in terreni incolti e aridi. È una prima tappa. Siamo pronti per l’anno prossimo a recuperare acque piovane e a predisporre un impianto di irrigazione ecosostenibile, immaginando qualche panchina, una tettoia e un luogo di contemplazione e lettura davanti… sì, a pomodori, zucchine e profumi aromatici”. La verticale del potere che cancella l’umanità di Andrea Malaguti La Stampa, 19 ottobre 2025 Incontro con gli studenti a Torino. Alla fine, una professoressa del liceo Regina Margherita mi si avvicina e mi dice: “Rilegga Primo Levi. Se questo è un uomo”. Mi consegna il libro con una frase sottolineata. È potentissima, sostiene lei. Ha ragione. “Allora ci siamo accorti per la prima volta che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa: la demolizione di un uomo”. Aggiunge una di quelle cose da sociologi che lì per lì non capisco: “Descrive perfettamente i disastri della verticale del potere. Da Gaza al femminicidio di Pamela Genini”. La ringrazio perplesso. Saluto. Gaza e Pamela? Mi sembra assurdo. Poi sempre un po’ meno. Ci ripenso. Mi viene voglia di approfondirla. La rivaluto in mezzo ad una serie di dialoghi che mi capitano in settimana. Uno, in particolare, con Damiano Rizzi, presidente e fondatore di Soleterre, organizzazione di cooperanti, medici e operatori umanitari nata nel 2002 “per tutelare il benessere psico-fisico di bambini, donne e uomini in condizioni di vulnerabilità, malattia, povertà e violenza in Italia e nel mondo”. È lui, Rizzi, che ispira larga parte delle riflessioni di questo articolo. È uno psico-oncologo che ha girato il pianeta nei suoi angoli più bui, dalla Costa d’Avorio a Kiev, dal Kosovo alla Cisgiordania, e contemporaneamente ha fondato un’associazione che si chiama “Tiziana Vive”. È dedicata a sua sorella, uccisa a 36 anni dal marito, con la stessa modalità con cui Gianluca Soncin ha massacrato Pamela Genini. Solo, se si può fare il cinico comparato dell’orrore, ancora più brutalmente. Centoundici coltellate. Qual è il nesso tra Gaza e Pamela? Chiedo anche a lui. Risponde senza esitare. “Se ci riflette, la matrice è simile. Se si accetta l’idea del dominio, che sia patriarcale o di potere, l’effetto è questo. Il potere vuole salvaguardare lo status quo, il suo privilegio. E anche il patriarcato. Così smette di vedere l’altro”. E lo usa. Lo sovrasta. Oppure, lo annichilisce. Il principio fondamentale di ogni autoritarismo. Putin, Trump, Hamas, Netanyahu, Turetta o Soncin. Dal grande al piccolo, l’innesco è il medesimo. L’altro non è più un fine, solo un mezzo. Con il dopoguerra, l’Unione europea e tutta la retorica sui valori Occidentali ci eravamo illusi che le responsabilità si distribuissero orizzontalmente nelle società, con pesi e contrappesi, riducendo le distanze tra chi governa e chi viene governato, producendo alternanza e aggredendo le diseguaglianze. Adesso la ruota ha ricominciato a girare al contrario. Lo ha detto il presidente Mattarella parlando della forbice imbarazzante tra salari sempre più leggeri e bonus sempre più pesanti per i supermanager, ma il discorso si potrebbe allargare all’infinito dai paperoni del calcio ai milionari venditori di fuffa di Youtube. La differenza esplode. La speculazione spazza via il senso e l’equilibrio, producendo lacerazioni sociali. I fragili precipitano. Tornano gli imperatori e gli uomini forti. Se ci pensate, il destino di miliardi di persone è in mano ad un pugno di autocrati. Persino quando si parla di pace a Gaza o a Kiev. Il risultato si ottiene attraverso la logica del più forte e non sulla mediazione legata ad una ipotetica idea di giustizia. Si smette di sparare - a volte - e questo è un risultato benedetto. Ma si smette anche di pensare. Di ragionare sulle conseguenze, come se la vita fosse un film in cui tutto si ferma con i titoli di coda. “Lei lo sa quello che sta succedendo in queste ore a Gaza?”, mi dice Rizzi. Il quadro è sconfortante. I tagliagole di Hamas, improvvisamente investiti di poteri di polizia (non è surreale?), giustiziano per le strade i presunti collaborazionisti, mentre dai valichi chiusi migliaia di bambini e adulti gravemente malnutriti, malati o feriti non riescono a raggiungere gli ospedali in Cisgiordania, in Egitto o in Europa dove sono attesi. Così riprende la conta dei morti e i farmaci salvavita si esauriscono, mentre i coloni attaccano i camion con gli aiuti umanitari. “Lei questa la chiama pace? O tregua?”. Mi racconta di Musa, un bambino colpito alla spina dorsale da un proiettile che rischia di lasciarlo paralizzato per sempre. Ha un braccio amputato ed è in una lista che dovrebbe consentirgli di volare in Italia per recuperare l’uso delle gambe. “Non lo fanno partire. Nessuno di noi sa perché. A Pavia, dove lavoro io, o al Rizzoli di Bologna, sarebbero in grado di rimetterlo in piedi. Ma ogni ora che passa, ogni giorno che passa, rende questa speranza più difficile. Sa quanti sono i pazienti come Musa che non riescono a passare i confini? Oltre quindicimila. Molti sono in bilico tra la vita e la morte. La violazione dei diritti umani continua. Ma su questo disastro è calato nuovamente il silenzio. È inaccettabile”. Racconta della costante sottrazione dello spazio vitale degli abitanti dalla Striscia alla Cisgiordania, dei suoi collaboratori medici ormai senza denti, irriconoscibili a loro stessi, della “sindrome palestinese” che colpisce per tre generazioni. “Nonni, padri e figli. Che non fa dormire la notte, che provoca ansia e paura costanti, che ferma lo sviluppo fisico e psichico, attaccando le capacità motorie e alcune cognitive. Un blocco in cui l’anima si congela per poter sopravvivere”. Torna in mente Renad Attallah, la ragazzina di undici anni di Gaza, famosa per le sue ricette di cucina. Ospite di Geppi Cucciari, a Splendida Cornice, dove aver spiegato che vorrebbe ricongiungersi con la sua famiglia ha detto: “Sembra che sia finita, ma poi la guerra torna sempre”. Danni permanenti, depositati in fondo ai cuori. “Il 7 ottobre ha prodotto un salto quantico in questa tragedia. Israele non crede più alla possibilità di convivenza. Nell’assalto di Hamas sono rimasti uccisi proprio coloro che, vivendo a ridosso del confine, a questa convivenza credevano di più. Pacifisti e progressisti. Ora che cosa rimane? Credo che Trump e Netanyahu immaginino un pianeta in cui tra cento anni il problema dei palestinesi non se lo porrà più nessuno”. Il teologo tedesco Johann Baptist Metz, ereditando la lezione di Eschilo, sosteneva che “c’è un’autorità riconosciuta in tutte le grandi religioni: è l’autorità di coloro che soffrono”. Patehi-mathos, si impara soffrendo. Non è più così. Non impariamo più nulla. Soffriamo e basta. “Vede, noi siamo anche in Ucraina con Soleterre e io sono convinto che Putin sia stato il primo a dimostrare - attaccando Kiev, bombardando gli ospedali - che si poteva uccidere senza essere puniti”. L’effetto domino non si è più fermato. “Siamo mammiferi, cerchiamo la scimmia dominante. Anche se l’unico modo per uscire da questo disastro guidato da un gruppo di sociopatici, è invertire la narrazione di morte. Sostituirla con una narrazione di vita. Bisognerebbe che intellettuali e artisti si mettessero assieme per crearla”. Un tentativo di inclinare la verticale del potere. Che in fondo è quello che fanno le piazze dove ancora hanno spazio, è quello che hanno fatto ieri gli americani scesi in strada contro il re Trump. Dal grande al piccolo, esiste ancora una possibilità. Da Gaza a Pamela Genini. “Sui femminicidi è come se guardassimo il problema da una prospettiva sbagliata. Ci concentriamo sui comportamenti delle vittime, anziché su quello dei colpevoli, che sono maschi, senza educazione, che probabilmente non sono mai riusciti a superare il distacco dalla madre. Ma io mi chiedo: se quando un bambino nasce viene sottoposto obbligatoriamente a sette esami, perché non rendiamo vincolante anche la presenza di uno psicologo nella nostra vita pubblica?”. Servirebbe a guardarci dentro. A capire che o siamo relazione o non siamo. Ciò che è vivo non ha copie. Scrive Vasilij Grossman in Vita e destino: “Due persone, due arbusti di rosa canina non possono essere uguali. È impensabile. E dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne”. La gentilezza fa bene alla salute mentale di Claudio Mencacci* Corriere della Sera, 19 ottobre 2025 Ricerche scientifiche dimostrano il suo impatto positivo su depressione e ansia. Dobbiamo difendere la gentilezza, costruire un baluardo, viviamo in un tempo che corre più veloce della nostra capacità di comprenderlo. Guerre, crisi ambientali, disuguaglianze, precarietà: tutto cambia rapidamente, spesso in peggio e l’ostilità e la durezza sembrano diventare il linguaggio comune, nei social media, nel dibattito pubblico, perfino nei rapporti quotidiani. In questo scenario la gentilezza appare come un valore fragile, quasi fuori posto. Ma è proprio qui che rivela la sua forza più grande: quella di chi sceglie di non rispondere alla violenza con la violenza. Non è debolezza né fuga dal reale: essere gentili significa scegliere di non somigliare al mondo che ci ferisce. È un gesto politico, un atto di resistenza civile, un modo per restare umani nel caos, è coraggio morale. Essere gentili non significa essere ingenui, è la decisione consapevole di non lasciarsi trascinare nella spirale dell’aggressività, della sopraffazione, del cinismo. È il rifiuto di farsi disumanizzare. In un mondo che premia chi urla più forte, la gentilezza è una forma di resistenza, ponte tra tutte le persone, anche se non parlano la stessa lingua, catena che tiene legati gli uomini. Ricerche recenti dimostrano che la gentilezza ha effetti positivi sulla salute mentale, sulle relazioni sociali e sul benessere emotivo. In particolare la gentilezza verso gli altri ha mostrato di provocare una diminuzione di depressione, ansia e solitudine. Una specifica emozione, chiamata dal sanscrito Kama “muta-mosso dall’amore”, è un sentimento di unità, appartenenza e connessione con altri esseri umani. La gentilezza scivola tra le dita della vita, nutrendo chi la riceve e chi la dona, dovrebbe diventare il modo naturale della vita, non l’eccezione. Ascoltare, rispettare le opinioni diverse, sorridere, essere pazienti, mostrare interesse verso gli altri. Non è un sentimento privato, ma una responsabilità pubblica. Essere gentili significa rifiutare la cultura dell’odio, delle ostilità, della violenza. Richiede forza interiore per non rispondere alla rabbia con altra rabbia, per non lasciarsi trascinare dal cinismo. La gentilezza diventa così un modo per affermare la propria libertà contro la brutalità dei tempi, non cambia il mondo in un giorno, ma cambia il modo in cui ci stiamo dentro. E da quel piccolo, quotidiano cambiamento può nascere la possibilità di una convivenza nuova, più giusta, più accogliente, più umana. In tempi di disordine, la gentilezza è una forma di ordine. Richiede forza interiore per non rispondere alla rabbia con altra rabbia, per non lasciarsi trascinare dal cinismo. Diventa così un modo per affermare la propria libertà contro la brutalità del contesto. “In un mondo che tenta di renderti duro, rimanere gentile è una vittoria”. *Direttore Emerito Neuroscienze Salute Mentale, Asst FBF-Sacco, Milano Valditara: “L’educazione sessuale a scuola resta, ma no a teorie gender e indottrinamento” di Federico Capurso La Stampa, 19 ottobre 2025 Il ministro dell’Istruzione: “Le opposizioni strumentalizzano il tema dei femminicidi”. Da giorni, ormai, rimbalzano le polemiche intorno al Ddl Valditara sul consenso informato. Le opposizioni accusano il governo di voler vietare l’educazione sessuale a scuola. “Strumentalizzazioni infondate”, risponde il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara. “Il centrosinistra fa finta di non comprendere un testo chiarissimo: “Fermo restando quanto previsto dalle Indicazioni nazionali”. Sta dicendo che si potranno tenere corsi su queste materie? “Nelle nuove Indicazioni nazionali - quelli che un tempo si chiamavano “programmi scolastici” - l’educazione sessuale, in senso biologico, è ampiamente prevista. Si affronta l’argomento con apposite lezioni innanzitutto all’interno dei corsi di scienze alle elementari e alle medie. E resta la possibilità, per gli istituti, di organizzare corsi pomeridiani che abbiano come oggetto quei temi previsti all’interno del programma scolastico”. Cosa intende per “educazione sessuale in senso biologico”? “Lo studio delle differenze sessuali fra maschio e femmina, per esempio, della riproduzione, del concepimento, della procreazione, della pubertà. Si fa anche riferimento alla necessità di conoscere i rischi derivanti dalle malattie sessualmente trasmissibili”. Perché avete previsto l’obbligo del consenso informato? “Per evitare che i bambini affrontino tematiche complesse e potenzialmente disorientanti come quelle legate alla identità di genere: non è facilmente comprensibile da un bimbo la teoria secondo cui accanto ad un genere maschile e femminile ci sarebbero altre identità di genere che non sono né maschili né femminili”. Le opposizioni però insistono nel sostenere che avete abolito l’educazione sessuale… “La norma è chiarissima, ma visto che c’è chi fa finta di non capire e inquina il dibattito con falsità può essere opportuno specificare l’obiettivo della legge: cioè che prima della adolescenza venga vietata la realizzazione di attività didattiche e progettuali afferenti a teorie e concetti relativi all’identità e alla fluidità di genere. Non è un “tornare indietro”, è semplicemente la necessità di evitare le strumentalizzazioni”. Il disegno di legge prevede che i corsi eventualmente offerti dalle scuole al di fuori del programma scolastico vengano svolti da soggetti con una riconosciuta professionalità scientifica: cosa significa? “A tutela dei ragazzi è importante che i corsi siano svolti da psicologi, medici, docenti universitari”. Quindi a chi chiuderete le porte? “Alle associazioni improvvisate che hanno solo l’obiettivo di andare nelle scuole a indottrinare, magari pure a pagamento. L’indottrinamento non sarà consentito. Scopo della educazione scolastica è infatti quello di far maturare la consapevolezza, favorire la discussione e l’approfondimento delle tematiche affrontate, non quello di imporre teorie sulla identità di genere”. Gino Cecchettin, il padre di Giulia, in un’intervista a questo giornale ha definito il provvedimento “un passo indietro grave e culturalmente pericoloso”. “Gli ho parlato e gli ho spiegato che non c’è alcun passo indietro. C’è stata, piuttosto, una rappresentazione disonesta di questo provvedimento da parte della sinistra, che mi ha lasciato amareggiato”. Perché “disonesta”? “Perché non è vero che non si affrontano certi argomenti nelle scuole e, soprattutto, perché strumentalizza un tema così delicato e così drammatico come quello dei femminicidi per fare della propaganda politica. Mentre noi abbiamo introdotto l’educazione alle relazioni e all’empatia, loro non hanno fatto niente di tutto questo quando erano al governo. Noi abbiamo fatto dunque un passo avanti importante”. Quindi lei non pensa che questi insegnamenti siano responsabilità esclusiva della famiglia… “Nelle nuove Linee guida sulla educazione civica, noi prevediamo espressamente che nelle scuole si insegni l’educazione al rispetto e al contrasto della violenza di genere. Per me è fondamentale che al ruolo educativo della famiglia, che per Costituzione è originario, si aggiunga quello della scuola”. L’opposizione sostiene che i corsi di educazione sessuale servirebbero a contrastare il fenomeno dei femminicidi. “Come dimostra l’esperienza dei Paesi nordici, non è con l’educazione sessuale che si combattono femminicidi e violenze sessuali, che là raggiungono tassi fra i più elevati nel mondo occidentale. È semmai l’educazione al rispetto che favorisce un cambiamento di mentalità”. Chi terrà queste lezioni di educazione al rispetto, alle relazioni e all’empatia? “I docenti, non solo nelle ore di educazione civica ma anche nelle ore disciplinari”. Sono preparati per farlo? “Abbiamo incaricato Indire di avviare una specifica formazione degli insegnanti. Aggiungo che i corsi sono già iniziati da settembre 2024. E con ottimi risultati”. Quali? “A giugno abbiamo mandato un questionario a tutte le scuole, statali e paritarie: nove scuole su dieci avevano avviato percorsi di educazione al rispetto verso la donna e di educazione alle relazioni. E secondo i docenti, nel 70% dei casi si è registrato un cambiamento positivo nel comportamento dei ragazzi, con relazioni più corrette e più sane. Ma c’è anche un altro tema su cui una seria educazione è fondamentale”. Quale? “La pornografia online. È un argomento di drammatica attualità. Numerosi studi scientifici hanno dimostrato come favorisca lo svilupparsi della violenza contro la donna, dà una immagine distorta della sessualità e del rapporto fra i sessi. Educare a rapporti maturi, consapevoli e rispettosi tra i giovani è la migliore arma contro ogni forma di prevaricazione e di violenza”. Migranti. Cpr in Albania, Zan e Strada (Pd) scrivono alla Commissione Ue di Lorenzo Stasi L’Espresso, 19 ottobre 2025 “Agisca contro le violazioni italiane, anche avviando una procedura d’infrazione”. La lettera degli eurodeputati dem insieme a 55 colleghi contro il progetto voluto dal governo Meloni, “un sistema di gestione delle migrazioni che non rispetta la giurisdizione europea, con rimpatri direttamente dal territorio albanese, in violazione del diritto Ue”. Il progetto dei Cpr in Albania potrebbe arrivare in Europa. Non come modello, come ventilato tante volte dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma perché ora oltre 50 eurodeputati - tra cui Alessandro Zan e Cecilia Strada del Partito democratico - chiedono che “la Commissione europea agisca contro le gravi violazioni governo italiano in Albania, anche avviando una procedura d’infrazione”. Nella lettera, sottoscritta da 57 europarlamentari di diverse nazionalità e schieramenti (S&D, Greens, The Left), con tutti i partiti dell’opposizione italiana, chiedono che il commissario per gli Affari interni e le migrazioni Magnus Brunner “non faccia orecchie da mercante: Giorgia Meloni in Albania ha violato il diritto europeo come denunciamo da mesi con interrogazioni parlamentari, e la Commissione ammette che ne è al corrente. Ora ci aspettiamo misure concrete”. I Cpr in Albania sono, in realtà, una deviazione rispetto al costoso progetto originario del governo Meloni, che inizialmente aveva previsto di esternalizzare al di là dell’Adriatico le procedure accelerate di frontiera. Ma dopo diverse pronunce della magistratura italiana, che non ha convalidato la maggior parte dei trattenimenti dei migranti, e dopo la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sui “Paesi sicuri”, l’esecutivo italiano ha deciso di trasformare i centri di Shëngjin e Gjadër in centri di permanenza per il rimpatrio. Un progetto comunque ritenuto in violazione del diritto europeo, secondo Zan e Strada. “Il governo Meloni ha creato un sistema di gestione delle migrazioni che non rispetta la giurisdizione europea, con tanto di rimpatri direttamente dal territorio albanese, in violazione del diritto dell’Unione. Il modello imposto dal governo italiano mina lo Stato di diritto - si legge nella lettera -, è costosissimo e crea una pericolosa ‘zona grigia’ fuori dal perimetro della legalità europea dove le persone migranti vengono private delle tutele previste dalla Carta dei diritti fondamentali e dalle convenzioni internazionali”. La Corte di giustizia Ue, ricordano gli eurodeputati, “ha già confermato l’incompatibilità di questo modello col diritto dell’Unione, e ora anche la Corte di Cassazione italiana ha chiesto un pronunciamento sulla legittimità dei Cpr in Albania”, spiegano. Zan, Strada e colleghi sottolineano che la Commissione, pur a conoscenza delle operazioni anche grazie a diverse loro interrogazioni, si sia finora limitata a dichiarare di monitorare il rispetto delle norme. “Un atteggiamento inaccettabile che rischia di tradursi in una complicità per inerzia. La Commissione deve difendere i trattati, non fare da spettatrice a queste continue ed evidenti violazioni. È tempo che la Commissione agisca, adottando misure concrete. In ballo non ci sono solo i diritti delle persone migranti, ma la credibilità stessa dell’Unione europea come spazio di libertà, democrazia e diritto”, concludono. Migranti. “L’Italia ha violato gli obblighi”. Almasri, l’Aja affonda il colpo di Mario Di Vito Il Manifesto, 19 ottobre 2025 La Corte penale verso il deferimento all’Onu: il governo ha ancora tempo fino al 31 ottobre per le ultime giustificazioni. Ma a Roma il caso è ormai quasi chiuso. Che sul caso Almasri l’Italia “non ha rispettato i propri obblighi internazionali” è un fatto. Si può scrivere all’indicativo, non c’è alcun dubbio sul punto. La prima sezione della Corte penale internazionale ritiene di averlo accertato e ieri ha reso pubbliche le carte a sostegno di questa convinzione: quando a gennaio non venne convalidato l’arresto dell’ex capo della polizia giudiziaria libica avvenuto a Torino, l’Italia è venuta meno agli impegni presi con la sottoscrizione dello statuto di Roma. RESTA un solo punto da decidere: se deferire o meno il nostro paese al consiglio di sicurezza dell’Onu e all’assemblea degli stati parte della Cpi. Entro il 31 ottobre sono dunque attese all’Aja eventuali nuove informazioni su procedimenti in corso che in qualche modo potrebbero ostacolare la cooperazione. Su questo, peraltro, le tre giudici del collegio si sono divise: per Iulia Antoanella Motoc e Reine Adélaïde Sophie Alapini-Gansou l’Italia in passato aveva fatto sapere che c’erano procedimenti in corso e ora vogliono sapere nello specifico quali. María del Socorro Flores Liera, che ha firmato una partially dissenting opinion, invece pensa che non ci sia bisogno di aspettare altro tempo per procedere con il deferimento, definito “l’unica misura appropriata da adottare e l’unico strumento disponibile per ottenere cooperazione in futuro”. Si tratta di un colpo durissimo perché, durante le sue claudicanti giustificazioni delle prime settimane, Nordio aveva citato un’altra dissenting opinion di Flores Liera (secondo la quale, dalla fine di Gheddafi, non c’è più alcuna situation in Libya che possa interessare la Cpi) per giustificare il proprio silenzio opposto alla Corte d’appello di Roma, che chiedeva l’intervento ministeriale per sanare il vizio procedurale avvenuto durante l’arresto di Almasri e, dunque, confermarlo. Che da via Arenula non sia arrivata nemmeno mezza parola fu la causa diretta della liberazione del boia di Mitiga. È per questo che le tre giudici ritengono “all’unanimità che l’Italia non abbia agito con la dovuta diligenza né utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione”. Il governo, inoltre, non ha offerto “alcuna valida ragione giuridica o ragionevole giustificazione” al volo di stato gentilmente offerto per riaccompagnare Almasri in Libia. Perché i “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni” evocati per giustificare il rimpatrio sono “spiegazioni molto limitate” e, sul pratico, continua ad essere “non chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo”. Sugli errori di forma (alcune date in cui sono stati commessi i crimini: omicidi, violenze sessuali, sevizie) presenti nell’atto fatto pervenire alle autorità italiane insieme al red notice dell’Interpol, la prima sezione dice che il refuso tipografico si capiva “icto oculi” e che comunque c’è stata una palese mancanza italiana nella decisione di non “consultare preventivamente la Cpi o cercare di rettificare eventuali difetti”. I recapiti a cui rivolersi, del resto, erano indicati in calce ai documenti. E però, malgrado “l’ampio tempo a disposizione” e “i ripetuti tentativi di interloquire”, l’Italia non si è mai fatta sentire nemmeno per discutere della “presunta richiesta d’estradizione concorrente” da parte della Libia. A Roma, intanto, la faccenda è virtualmente chiusa: il parlamento ha votato contro la richiesta d’autorizzazione a procedere inoltrata dalla procura di Roma nei confronti del sottosegretario Alfredo Mantovano e dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e così tutto il lavoro svolto dal tribunale dei ministri è destinato a restare letteratura priva di effetti pratici. Resta iscritta nel registro degli indagati la capa di gabinetto del ministero della giustizia Giusi Bartolozzi, ma il reato per lei ipotizzato (le false informazioni ai pm) decade automaticamente in caso di ritrattazione: lo dice il codice penale all’articolo 376. Sarebbe un modo per scrivere la parola fine in fondo alla vicenda giudiziaria senza passare per il conflitto d’attribuzione che la maggioranza ha già chiesto alla presidenza della Camera di sollevare. C’è, in fondo a tutto, un altro ricorso alla Corte costituzionale: quello redatto dall’avvocato Francesco Romeo, che rappresenta Lam Magok Biel Ruei, vittima di Almasri e testimone della Cpi. La richiesta è di far procedere l’indagine per via ordinaria, annullandole decisioni parlamentari. Una strada molto stretta alla quale, però, potrebbe prima o poi associarsi anche la procura di Roma. Migranti. L’accusa all’Italia e il rinvio: cosa ha detto la Cpi su Almasri di Alessia Guerrieri Avvenire, 19 ottobre 2025 La Corte penale internazionale: Roma non ha rispettato gli obblighi internazionali e ha mancato di diligenza e di chiarezza sulla vicenda del trafficante libico rimandato a Tripoli. Ora il governo ha 13 giorni per trasmettere le sue comunicazioni. L’Italia non ha rispettato gli obblighi di cooperazione internazionale. Scampato meno di una settimana fa il rinvio a giudizio chiesto dal Tribunale dei ministri per i responsabili dei dicasteri della Giustizia Carlo Nordio e dell’Interno Matteo Piantedosi e per il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il caso Almastri porta altri guai per il Governo Meloni. Sì perché adesso è la Corte penale internazionale a puntare il dito sull’operato dell’esecutivo italiano nella gestione del caso di Njeem Osama Almasri Habish, meglio conosciuto come Almasri, l’ex capo della polizia giudiziaria libica che, tra il 19 e il 21 gennaio scorsi, era stato arrestato e rilasciato in poche ore dalle autorità italiane sebbene su di lui pendesse un mandato di arresto internazionale spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi). L’Italia, infatti, “non eseguendo correttamente la richiesta d’arresto e consegna” del generale libico Almasri, “non ha rispettato i propri obblighi internazionali” di cooperazione. Nonostante ciò, a maggioranza, la camera preliminare I della Corte penale internazionale ha deciso di rinviare la scelta su un eventuale deferimento dell’Italia all’assemblea degli Stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il Governo, perciò, adesso dovrà fornire entro il 31 ottobre informazioni su eventuali procedimenti interni pertinenti e sul loro impatto sulla cooperazione con la Corte. La Cpi ha così messo nero su bianco che sul caso Almasri “il Governo italiano non ha rispettato i suoi obblighi - sottolinea Alessandro Zan, responsabile Diritti nella segreteria nazionale del Pd ed europarlamentare. In parole povere, ha agito nell’illegalità e ha ignorato la giustizia internazionale. Un fatto gravissimo e una figuraccia mondiale del Governo Meloni che getta discredito sul nostro Paese e sulla sua credibilità. Altro che governo del patriottismo: questo è un governo che svende la dignità nazionale”. Nelle loro conclusioni, le tre giudici della camera preliminare I dell’Aja ritengono difatti “all’unanimità che l’Italia non abbia agito con la dovuta diligenza né utilizzato tutti i mezzi ragionevoli a sua disposizione per ottemperare alla richiesta di cooperazione” della Corte penale internazionale. Il Governo, prosegue ancora la Corte, non ha inoltre fornito “alcuna valida ragione giuridica o ragionevole giustificazione” per il trasferimento immediato di Almasri in Libia, “anziché consultare preventivamente la Corte o cercare di rettificare eventuali difetti percepiti nella procedura d’arresto”. Così secondo le togate (la presidente della camera preliminare I, Iulia Motoc, la beninese Reine Alapini-Gansou e la messicana Maria del Socorro Flores Liera), nonostante “l’ampio tempo a disposizione” e i “ripetuti tentativi d’interloquire con il ministero della Giustizia italiano”, l’Italia non ha mai contattato la Corte per “risolvere eventuali ostacoli” relativi al mandato d’arresto e alla “presunta richiesta d’estradizione concorrente” da parte della Libia, impedendo così alla Cpi “di esercitare le proprie funzioni”. Il Governo italiano ha giustificato il rimpatrio di Almasri con “motivi di sicurezza e il rischio di ritorsioni”, ma la Corte ha ritenuto queste spiegazioni “molto limitate”, osservando che “non è chiara” la scelta di “trasportarlo in aereo verso la Libia”. Inoltre, su questo punto le giudici ricordano che le questioni di diritto interno non possono essere invocate per giustificare una mancata cooperazione con la Cpi, respingendo dunque la tesi italiana. Pur constatando la violazione, tuttavia, le giudici hanno scelto di non deferire subito il caso all’Assemblea degli Stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu, riconoscendo e assicurando di tenere in considerazione la “complessità” del caso. A maggioranza - con Flores Liera in dissenso - è stato deciso di concedere al governo una proroga fino a fine mese per fornire ulteriori chiarimenti e informazioni su eventuali procedimenti interni legati alla vicenda. Il riferimento è a quello del Tribunale dei ministri nei confronti della premier Giorgia Meloni, dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e del sottosegretario Alfredo Mantovano. Un procedimento che si è concluso con una archiviazione per la presidente del Consiglio e per un diniego a procedere in giudizio per gli altri tre imputati, grazie al voto dell’Aula della Camera dei deputati con una maggioranza che in certi casi è andata oltre i soli voti del centrodestra, includendo Italia viva, Azione e forse qualche dem. Intanto alla Cpi è arrivata anche un’altra denuncia che riguarda leader italiani e europei: due avvocati hanno depositato una memoria in cui accusano oltre cento funzionari Ue di complicità nella commissione di crimini contro l’umanità nei confronti di migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Tra i leader sotto accusa, anche gli ex premier Renzi, Gentiloni e Conte, i ministri Alfano, Minniti e Salvini, oltre all’ex cancelliera tedesca Angela Merkel e al presidente Francese Macron. Migranti. “Il mare è un gigantesco cimitero, Italia complice della Libia”. La protesta delle Ong di Damiano D’Agostino Il Domani, 19 ottobre 2025 “Ci hanno torturato, la milizia fucilava le persone davanti ai nostri occhi”. Conferenza stampa allo Spin Time e manifestazione a Roma per le associazioni e i sopravvissuti ai lager libici che chiedono al nostro paese di fermare il memorandum. Salvagenti e striscioni parlano chiaro. Nel primo pomeriggio di sabato 18 ottobre, le associazioni e Ong si sono ritrovate a Roma, in piazza Vidoni, per chiedere a gran voce lo stop al memorandum Italia-Libia. L’accordo d’intesa, firmato nel 2017 dal governo di centro sinistra di Paolo Gentiloni (quando Marco Minniti era al ministero dell’interno), per “combattere l’immigrazione illegale”. Un accordo sporco di sangue, secondo le associazioni e Ong, poiché in nome di quel memorandum in realtà si è lasciato piede libero a conclamate violazioni dei diritti umani da parte della guardia costiera libica (con alcune motovedette fornite dall’Italia e usate, a fine agosto, anche per sparare contro la nave Ocean Viking) e delle milizie locali, che gestiscono centri di detenzione in cui i migranti vengono rinchiusi, torturati e uccisi. La manifestazione arriva in un momento caldo: il 15 ottobre, la camera dei deputati ha infatti confermato il rinnovo dell’accordo per i prossimi tre anni, con 153 voti favorevoli, 112 contrari e 9 astenuti. Secondo la maggioranza, il programma d’intesa sarebbe “uno strumento indispensabile per proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti di immigrati e di prevenzione delle partenze dalla Libia”. In piazza, dopo la conferenza stampa ospitata dallo Spin Time, anche i sopravvissuti ai lager libici, arrivati insieme all’organizzazione umanitaria Refugees in Libya dell’attivista David Yambio, ex-vittima di Osama al-Najeem, conosciuto come generale Almasri: il torturatore libico ricercato dalla Corte penale internazionale (Cpi) e liberato dal governo italiano a gennaio di quest’anno. Hassan Zakaria Omer, rifugiato sudanese co-fondatore di Refugees in Libya insieme a Yambio (a inizio anno bersaglio dello spyware Paragon), spiega che “le persone intercettate in mare dalla guardia costiera non vengono liberate, ma tornano nelle carceri libiche, dove vengono torturate. L’ho vissuto sulla mia pelle”. Uno dei sopravvissuti a questo inferno, Rashed (anche lui del Sudan), ha raccontato a Domani di essere stato rapito dalle motovedette dopo un naufragio nel Mediterraneo, per poi essere detenuto in diverse prigioni con innumerevoli tentativi di fuga prima di arrivare in Italia con un corridoio umanitario. “Ci hanno torturato, ci davano poca acqua e poco cibo. La milizia fucilava le persone davanti ai nostri occhi dicendoci che sarebbe stata quella la nostra fine se non avessimo pagato il riscatto”. Rashed, che all’epoca dei fatti aveva solo 17 anni, è stato detenuto anche in quella che gli attivisti chiamano “Guantanamo libica”, il carcere di Almasri a Zawiya, vicino a Tripoli. “Quando sono scappato da Bani Walid ho camminato tutta la notte, da Zawiya invece siamo fuggiti mentre ci stavano sparando. Non so come sia riuscito a salvarmi scalando un gigantesco muro. Per fortuna a Tripoli ho conosciuto una persona che mi ha ospitato a casa sua permettendomi di riprendere le forze. Ero denutrito e non riuscivo a lavorare”. Un altro sopravvissuto, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha invece raccontato a questo giornale del suo periodo detentivo nel lager libico di Tajura. “Ci drogavano e poi ci picchiavano. Ci davano da mangiare un giorno sì e un giorno no. Il riscatto? Se sei del Sudan il prezzo è di tremila dollari, ma se sei eritreo, la cifra aumenta a cinquemila. Abbiamo assistito con i nostri occhi allo stupro di alcune donne migranti”. “Quando mi sono ammalato mi hanno gettato fuori dal carcere perché non volevano curarmi, sono stato per terra tutta la notte e solo la mattina ho trovato le forze di alzarmi e scappare - aggiunge - Prima avevo tentato la fuga nove volte”. “Con questa manifestazione vogliamo denunciare la complicità dell’Italia e dell’Europa per ciò che succede in Libia”, afferma Lam, anche lui sopravvissuto a cinque anni di torture nelle carceri libiche. “Non è un posto sicuro per i migranti, non ti lascia uscire. Siamo solo persone che cercano una seconda possibilità nella vita”. Hassan Nugud, dell’associazione per migranti Welcome United, che ha partecipato alla manifestazione in piazza Vidoni, dice a Domani: “Come rifugiati vogliamo lavorare per un’Europa in cui ogni persona si può muovere liberamente, senza confini. Vogliamo fermare le morti in mare e i respingimenti”. Su quest’ultimo punto un dato allarmante arriva dall’Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni. Secondo l’agenzia Onu, le persone migranti morte nella traversata del Mar Mediterraneo sono 28mila negli ultimi dieci anni. “Con questo memorandum, il mare è diventato un gigantesco cimitero. L’Italia è complice dei crimini contro l’umanità in Libia. E con i centri detentivi in Albania questo Paese sta diventando creativo nel rendere la vita difficile alle persone migranti”, aggiunge Nugud. “Ma in realtà il discorso riguarda tutta l’Europa. Stiamo parlando di un sistema di immigrazione razzista, non importa che sia qui o in Germania. E quando dico sistema non intendo i governi. Quelli cambiano. Parlo della mentalità”. Perché la fame non è un danno collaterale di Anna Foa La Stampa, 19 ottobre 2025 Si parla molto di fame, in occasione dell’80° anniversario della FAO, celebrato a Roma con grande rilievo, alla presenza del presidente Mattarella e di papa Leone. Ambedue hanno posto l’accento sui “nuovi scenari di carestia” (Mattarella) e all’”uso della fame come arma di guerra” (papa Leone). E in effetti, la fame è stata protagonista nei mesi scorsi - e lo è ancora- di almeno uno degli scenari di guerra di questi nostri terribili tempi, Gaza, con il rifiuto israeliano di far entrare sufficienti rifornimenti per quella popolazione già decimata dalle bombe. E abbiamo visto le scene terribili dei civili che allungano una scodella per avere almeno un poco di cibo, mentre il cibo marcisce intatto ai confini della Striscia. L’uso della fame nelle guerre e come arma della guerra stessa non è nuovo. In tutti gli assedi delle città, dal Medioevo fino alla seconda guerra mondiale, nelle città assediate si moriva di fame, e le leggende, o quello che vorremmo fossero solo leggende, ci parlano di cannibalismo, di bambini divorati dai genitori. È il “poscia più che ‘l dolor poté il digiuno” di Dante, almeno in una delle sue interpretazioni. La fame accompagna la guerra, tanto è vero che appena soffiano venti di guerra che potrebbero sfiorarci svuotiamo subito gli scaffali dei supermercati. Di fame si parla molto nelle memorie della seconda guerra mondiale, anche se per molti era una fame temperata dal mercato nero. Ma i primi reduci dai campi nazisti si sentivano spesso rispondere da quanti avevano vissuto più o meno tranquilli nelle loro case che anche loro avevano fatto la fame. Poi c’è la fame del terzo mondo, pensate alla terribile carestia del Biafra, non proprio arma di guerra ma comunque indotta da una guerra e dai blocchi dei rifornimenti. E ancora, c’è la fame dell’Ucraina negli anni Trenta, l’Holodomor, quando i raccolti c’erano ma erano destinati al resto dell’URSS e agli affamati era addirittura proibito di andarsene dal Paese. Ma qui si è parlato, e a ragione, di genocidio. E allora, se la fame è dietro di noi come realtà o come spettro, perché la carestia indotta in questi mesi da Israele, e pervicacemente negata dal governo di Bibi, ci ha fatto così impressione? Perché con la ripresa della guerra nel marzo del 2025 e il blocco quasi totale dei rifornimenti, quella carestia indotta, coi camion fermi dietro il confine, ha sollevato l’indignazione di popoli e governi? Cosa è cambiato che l’opinione pubblica, che nonostante tutto aveva visto i bombardamenti come parte dolorosa ma “normale” di una guerra, si sollevasse ora di fronte alla fame? Perché in Israele nelle manifestazioni di opposizione al governo apparissero sempre più spesso, accanto alle foto degli ostaggi, quelle dei bambini di Gaza denutriti? Questa differenza di percezione rispetto a due modi diversi di infliggere la morte mi colpisce e non sono sicura di avere risposte. Forse perché la morte per fame colpisce prima i bambini ed è lunga e dolorosa. Forse è proprio il fantasma antico della carestia che ci terrorizza e forse è la sovrabbondanza dei cibi in questa nostra parte del mondo a renderci inspiegabile e particolarmente crudele la morte per fame. Mentre noi cerchiamo sempre nuove diete, loro muoiono letteralmente di fame. Forse è il nostro complicato rapporto col cibo, che oscilla fra anoressia e bulimia, a renderci inaccettabile quella morte. Qualunque ne sia la ragione, chi fermava quei camion e impediva al cibo di raggiungere i suoi destinatari ha rapidamente compreso che, se con le bombe si poteva ancora parlare di “danni collaterali”, con la fame questo era impossibile, che la favola che si affamava un intero popolo per impedire ad Hamas di gestire gli aiuti era assurda. Ed allora si è semplicemente negato: “La fame non esiste, non c’è mai stata”. “Guardate come sono in carne”. dicono le voci ciniche di chi è pronto ad usare il centimetro per misurare il deperimento dei palestinesi di Gaza. E intanto gli ospedali ci raccontano un’altra storia, ma si sa, i medici, anche in Europa, sono tutti pro Hamas. Medio Oriente. Muqbel Barghouti: “Mio fratello Marwan rischia di essere ucciso in carcere” di Fabio Tonacci La Repubblica, 19 ottobre 2025 L’uomo, 59 anni, mostra la casa d’infanzia a Kobar dove è cresciuto il leader palestinese, detenuto dal 2002: “Si è votato alla causa già a 10 anni, quando l’Idf sparò al nostro cane. Se ci fossero le elezioni Marwan vincerebbe, ha il 60-70 per cento del consenso”. “Mio fratello Marwan è come il popolo palestinese, non lo spezzeranno a forza di botte. Però in carcere possono ucciderlo, siamo molto preoccupati”. A casa di Muqbel Barghouti, 59 anni, fratello minore del più popolare leader palestinese, tre cose non mancano mai: le sigarette, il succo di melograno e l’ansia per la salute del parente illustre. Siamo a Kobar, villaggio a nord di Ramallah: Marwan Barghouti, 66 anni, è nato e cresciuto qui, nella casa di famiglia che adesso è un rudere. Dal 2002 è in carcere per scontare cinque ergastoli. Per Israele è un terrorista, condannato come mandante di cinque omicidi compiuti dalle brigate armate di Fatah. La posizione della famiglia Barghouti è nota: “È stato un processo politico, senza alcuna prova”. Cinque detenuti palestinesi liberati nello scambio con gli ostaggi raccontano che a metà settembre suo fratello è stato aggredito da otto guardie carcerarie. Il governo israeliano nega l’accaduto. Cosa sapete? “Non è la prima volta che lo pestano. Durante l’isolamento, cominciato con la guerra a Gaza, è successo altre tre volte. Rompono le costole a un uomo di 66 anni, che tra l’altro è un membro del parlamento palestinese. Dov’è l’indignazione dei parlamenti del mondo? Perché gli onorevoli dell’occidente non fanno una campagna a difesa dei detenuti palestinesi? Dopo li 7 Ottobre, già 77 prigionieri uccisi nelle carceri dello Stato ebraico”. Teme che possa essere assassinato? “Spero di no, ma durante l’occupazione sionista ho visto accadere qualsiasi cosa. Chiediamo al mondo libero di salvare Marwan Barghouti”. Cosa accadrebbe se morisse in un penitenziario israeliano? “Non voglio nemmeno pensarci”. Quando è l’ultima volta che lo ha visto? “Prima della guerra, nella prigione di Hadarim, stava bene”. Di cosa avete parlato? “Di politica, ovvio… si sentiva ottimista per la Palestina e stava seguendo con interesse quello che succedeva allora in Israele, in particolare le proteste di piazza contro la riforma della giustizia di Netanyahu. Mio fratello parla ebraico, lo ha studiato in cella anche per capire i media israeliani. Mi ha ricordato di quando fece parte della prima delegazione palestinese che visitò la Knesset, nel 1997”. Suo fratello quando ha iniziato a interessarsi di politica? “Negli anni Sessanta Kobar era una roccaforte dei comunisti palestinesi. C’era un piccolo bazar in centro dove ogni sera la gente si riuniva a parlare di politica e resistenza. E poiché non avevamo la televisione, Marwan adolescente passava le sue serate lì al bazar, ad ascoltare i grandi. A 13 anni aveva già un’opinione, mio fratello ha sempre avuto un’opinione”. Da dove arriva questa passione? “Perché ama il nostro popolo e la nostra terra. A 14 anni, alla sua scuola di Birzeit, hanno affidato a lui il ruolo di maestro della cerimonia quando è morto il presidente egiziano Nasser. Non era una cosa da poco”. Siete cresciuti insieme, quando è stato il momento in cui Marwan ha deciso di votarsi alla causa palestinese? “Quando ci hanno ammazzato il cane. Viveva a casa nostra. Gli eravamo affezionatissimi, ci dava sicurezza, era un nostro amico. Nel 1969, durante un pattugliamento, i soldati occupanti israeliani gli hanno sparato. Quell’incidente è stata la leva che ha azionato in Marwan, allora aveva 10 anni, la consapevolezza dell’ingiustizia, del sentimento di oppressione e della resilienza. Avevano ucciso qualcuno che noi amavamo, senza alcuna ragione. C’è stato poi un altro momento decisivo”. Quale? “Nel 1976, 30 marzo, durante la prima protesta dei palestinesi, dalla Galilea al Negev, nota come “land day”. Sei dimostranti vennero uccisi. Marwan era il leader degli studenti di Birzeit, venne arrestato e portato alla Muqata’a, allora base delle Idf a Ramallah. Non aveva neanche 17 anni, lo trattennero per due giorni. Era la prima volta che veniva arrestato. Lo incarcerarono due anni dopo a Tulkarem, con una condanna a 4 anni e mezzo”. Se uscisse, vincerebbe le elezioni presidenziali? “Le vince anche se rimane in prigione, i sondaggi gli danno un consenso del 60-70 per cento”. Perché è così amato? “Arriva da una famiglia umile, mio padre faceva il muratore. Ed è rimasto un uomo umile, generoso. E un leader nato”. Lo scorso agosto è stato diffuso il video del ministro Ben-Gvir andato in carcere a dirgli che i palestinesi non avrebbero mai vinto... “L’incontro è durato 12 minuti ma hanno pubblicato solo 30 secondi. Ho provato rabbia. Se c’è uno che dovrebbe stare in carcere è proprio Ben-Gvir”. Si aspettava di vedere suo fratello fisicamente così provato? “Gli effetti di due anni di isolamento. Ma non si illudano, Marwan non si spezza”. Eravate convinti che sarebbe uscito nello scambio con gli ultimi ostaggi vivi rapiti da Hamas? “Stavolta la famiglia ci credeva davvero. Ma la destra estrema che governa Israele non vuole la pace, quindi non vuole Marwan in libertà. È spaventata dai simboli, e mio fratello è soprannominato il Mandela palestinese, faccia lei”. Come è nato questo soprannome? “Perché Marwan era uno suo fan, conosceva tutto della vita di Mandela. E perché come lui, è un uomo che lotta per la pace”. Quale pace? “Quella che porterà la soluzione dei due stati e due popoli”. È vero che anche Abu Mazen è contrario al rilascio di Barghouti perché spaventato dalla sua popolarità? “Le rispondo così: Abu Mazen poteva fare molto di più per il suo rilascio, ma non ha fatto molto”. Iran. Sprofondare in un carcere degli ayatollah: la distopia dei turisti francesi Cécile e Jacques di Mariano Giustino huffingtonpost.it, 19 ottobre 2025 I due viaggiatori condannati in Iran per spionaggio. Un ricatto di Teheran affinché Parigi rilasci una cittadina iraniana detenuta in territorio francese, Mahdieh Esfandiari. Nel famigerato carcere di Evin vi sono ancora almeno altri ventidue cittadini di altri paesi. Cécile Kohler e il suo compagno Jacques Paris erano in gita per scoprire le meraviglie dell’Iran, ma il loro viaggio turistico si è trasformato in un vero e proprio incubo, finiti rinchiusi in condizioni disumane nel famigerato carcere di Evin con indosso la divisa grigia a righe da carcerato. Di loro si erano perse le tracce dopo che erano stati trasferiti in un luogo segreto. Detenuti arbitrariamente con l’accusa di essere spie al servizio dell’intelligence francese e di quella israeliana. Rapiti, condotti in una località sconosciuta, presi in ostaggio il 7 maggio del 2022 e ora, dopo oltre tre anni di detenzione, il “Tribunale rivoluzionario” della Repubblica islamica li ha condannati a un totale di 63 anni di carcere per spionaggio, per “cospirazione contro il regime” e “corruzione sulla Terra”, accuse che secondo la legge iraniana sono punibili con la pena di morte. Cécile e Jacques, di nazionalità francese, sono professori, impegnati a contribuire allo sviluppo educativo dei loro alunni, dirigenti della Federazione nazionale dell’Istruzione, della Cultura e della Formazione professionale, la più grande federazione sindacale degli insegnanti in Francia. Cécile e Jacques sono diventati pedine di un gioco di ricatto brutale: l’ultimo esempio della campagna iraniana della “diplomazia degli ostaggi”, in cui Teheran arresta occidentali per scambiarli con esponenti del regime detenuti in Europa o negli Stati Uniti, per spionaggio, terrorismo o violazioni dei diritti umani. In Iran stiamo assistendo a una escalation della caccia agli oppositori del regime degli ayatollah e ai malcapitati cittadini stranieri tenuti in ostaggio nelle carceri iraniane dalla Repubblica islamica. Intanto Parigi denuncia i processi “segreti” in corso e fa appello alla Corte di giustiiza internazionale per le accuse rivolte ai suoi cittadini, ritenute “ingiustificate e infondate”. Come è consuetudine nei cosiddetti “tribunali della rivoluzione islamica” in Iran, il processo si è svolto a porte chiuse (cioè in gran segreto) e ai condannati viene negato l’assistenza legale di un avvocato di fiducia e l’inquisito non accesso alle prove raccolte a suo carico. Ad ogni modo, la sentenza contro Cécile e Jacques non è definitiva: i ricorsi possono essere presentati entro 20 giorni presso la Corte Suprema iraniana. L’Iran rapisce gli oppositori del regime e i cittadini stranieri o con doppio passaporto, in una sorta di “diplomazia degli ostaggi” che sistematicamente mette in atto, come è ben noto, dal 1979. Nel famigerato carcere di Evin vi sono ancora almeno altri ventidue cittadini di altri paesi, tra cui statunitensi, del Regno Unito, di Svezia, della Germania e del Belgio. Soprattutto da quando è scoppiata la rivoluzione della “generazione z” guidata dal movimento “Donna, Vita, Libertà”, il regime è grave difficoltà sia interna che a livello internazionale e ricorre a una violenza inaudita e brutale per terrorizzare la popolazione scoraggiandola e facendola desistere da ogni volontà di partecipazione alle proteste. Per questo il regime ha bisogno, se non dell’assenso, del silenzio della comunità internazionale. Gli stranieri arrestati sono di fatto presi in ostaggio per essere utilizzati come oggetto di scambio e per ottenere il silenzio dei governi occidentali. Il loro “sequestro” serve, inoltre, ad alimentare la propaganda interna secondo la quale tali persone sarebbero al servizio di agenti stranieri, in particolare degli Stati Uniti e di Israele, accusati, senza prove, di complottare contro la Repubblica islamica; etichettati pretestuosamente come spie e utilizzati come merce di scambio nei rapporti con i loro rispettivi paesi. Il governo francese ha reagito con fermezza. Il presidente Emmanuel Macron e il ministro degli Esteri Jean-Noël Barrot avevano più volte sollecitato il rilascio dei loro due cittadini, definendo le accuse “una montatura” e il loro arresto del tutto arbitrario. Alla base di questa ultima condanna c’è l’intenzione di Teheran di dotarsi di una leva di ricatto da usare contro la Francia affinché rilasci una cittadina iraniana detenuta in territorio francese, Mahdieh Esfandiari, in cambio della liberazione di Cécile e Jacques. Dalla guerra dei “12 giorni” ad oggi, tra Israele e Iran, sono stati 21 mila i cittadini stranieri e iraniani arrestati per sospetta attività di spionaggio. Si moltiplicano gli appelli degli attivisti iraniani alle istituzioni internazionali e al Parlamento europeo affinché sostengano il popolo iraniano nella sua lotta contro il regime e si astengano da ogni collaborazione con la Repubblica islamica. La condanna di Kohler e Paris arriva in un momento di grande tensione tra Iran e stati occidentali per la riluttanza di Teheran a rinunciare all’arricchimento dell’uranio e per le sanzioni internazionali che hanno messo in ginocchio l’economia del paese. Le organizzazioni per i diritti umani internazionali ne avevano denunciato le orribili condizioni di detenzione e le torture fisiche e psicologiche a cui erano stati sottoposti. Il 6 ottobre 2022, i canali dei pasdaran della Tv iraniana trasmisero un video in cui Kohler e Paris confessavano, dopo indicibili torture psicologiche, di essere stati coinvolti in attività di spionaggio. “Sono Cécile Kohler”, dichiarava la turista francese. “Sono un agente dei servizi segreti e delle operazioni presso la DGSE [Direzione generale per la sicurezza esterna francese]. Eravamo in Iran per preparare il terreno alla rivoluzione e al rovesciamento del regime dell’Iran islamico”. Il suo compagno Jacques Paris a sua volta dichiarava: “Il nostro obiettivo per conto dei servizi di sicurezza francesi era quello di finanziare gli scioperi e le manifestazioni in Iran”. Un destino tragico fu riservato a un altro cittadino francese di nome Ruhollah Zam, anch’egli fu “rapito”, torturato e costretto a rilasciare false confessioni alla Tv iraniana, prima di essere impiccato. Analoga sorte fu riservata a Jamshid Sharmahd, un ingegnere americano di 69 anni, vittima di una esecuzione sommaria avvenuta all’alba di lunedì 28 ottobre nel carcere di Evin al grido di Allahu Akbar. Sharmahd viveva negli Stati Uniti, era stato rapito dai pasdaran cinque anni fa a Dubai, condannato a morte in un processo farsa con l’accusa di “Mofsed fel-Arz”, un’espressione che significa “Diffusore della corruzione sulla terra”, una locuzione questa utilizzata per colpire i dissidenti politici. Il tribunale rivoluzionario di Teheran lo aveva anche accusato di essere responsabile dell’attentato del 12 aprile 2008 compiuto in una moschea di Shiraz, nel sud dell’Iran, che aveva provocato 14 morti e 300 feriti e di essere a capo del gruppo monarchico denominato Tondar, noto come l’Alleanza imperialista dell’Iran, una organizzazione bandita dalla Repubblica islamica. Per il famigerato giudice Salavati, Sharmahd era un agente straniero che avrebbe pianificato 23 attentati terroristici. Salavati è noto con l’appellativo di “giudice della morte” per il numero elevato di impiccagioni comminate ed è uno dei tanti esponenti della Repubblica islamica sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti. Jamshid Sharmahd non era un terrorista, era semplicemente un progettista di software che avrebbe creato il sito Web del gruppo Tondar. Ha pagato con la vita perché era diventato un capro espiatorio, anch’egli ostaggio nelle mani del regime che intendeva così rispondere alle sanzioni statunitensi e a quelle varate il 20 febbraio 2023 dall’Unione europea contro 32 funzionari pasdaran. Sanzioni emesse per la repressione delle proteste scatenate dalla morte di Jîna, Mahsa Amini, la giovane curda-iraniana di 22 anni arrestata e uccisa dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo. Secondo un recente rapporto pubblicato da Bloomberg, i pasdaran starebbero reclutando adolescenti tramite app di messaggistica istantanea come Telegram, WhatsApp e TikTok per addestrarli a colpire obiettivi israeliani in Europa. Il denaro pagato ai giovani individui assoldati dalla Repubblica islamica per un omicidio ammonterebbe a circa 1500 euro, mentre, ad esempio, la tariffa per un attacco a un distributore di benzina sarebbe di 120 euro. Kylie Moore-Gilbert, accademica australiana-britannica, Olivier Vandecasteele, attivista umanitario belga, Johan Floderus, diplomatico svedese e la giornalista italiana Cecilia Sala sono stati gli ultimi clamorosi casi di sequestro di cittadini europei sul suolo iraniano. Presi in ostaggio per costringere i loro paesi a liberare pericolosi criminali pasdaran con le mani grondandi di sangue. Gilbert è docente di Scienze politiche mediorientali; nel 2018 si recò a Teheran per partecipare ad una conferenza su invito ufficiale della direzione della presidente della Repubblica. Dopo la conferenza fu arrestata mentre era all’aeroporto in procinto di lasciare il paese. Rimase a Evin oltre due anni, rinchiusa in una piccolissima cella in condizioni inumane con l’accusa di spionaggio. Fu rilasciata il 25 novembre 2020 in cambio di tre terroristi iraniani condannati in Thailandia perché ritenuti responsabili dell’attentato di Bangkok del 2012. Ora si batte per la democrazia e i diritti umani in Iran e per dare supporto alle vittime prese in ostaggio dalla Repubblica iraniana tramite l’Australian Wrongful and Arbitrary Detention Alliance. Gilbert non smette di denunciare l’approccio morbido e non sanzionatorio dei paesi occidentali nei confronti delle autorità iraniane, “permettendo loro di praticare in piena impunità la presa di ostaggi che avviene in modo sempre più palese e sfacciato”.