L’eterno braccio di ferro tra politica e magistratura di Giuseppe Ariola L’Identità, 18 ottobre 2025 La giustizia si conferma terreno di scontro sia politico che istituzionale. Il continuo botta e risposta tra i partiti, i dibattiti parlamentari a tratti infuocati e le accuse reciproche tra la maggioranza e la magistratura, sembrano aver riportato le lancette al periodo berlusconiano. Tra proposte divisive, su tutte quella della separazione delle carriere dei magistrati prevista dalla riforma costituzionale, indagini che colpiscono esponenti di primo piano del governo e toghe che inscenano proteste fuori e dentro i tribunali, sembra riproporsi proprio quello stesso clima che ha accompagnato la stagione del leader di Forza Italia. La Giustizia come terreno di scontro - I soggetti sono, ovviamente, diversi, ma le dinamiche e i ruoli dei protagonisti gli stessi. Ministri, Associazione nazionale magistrati ed esponenti politici con in tasca la tessera dei partiti che vogliono cambiare la macchina della giustizia o di quelli pronti a urlare allo scandalo dinanzi a qualsiasi proposta di riforma. Non mancano, però, alcune differenze. Su tutte l’evoluzione - o involuzione - di un modo di fare politica che bada più all’apparenza che alla sostanza. L’affaire Almasri - Accade così che, pur di non apporre il segreto di Stato su una questione chiaramente afferente alla sicurezza nazionale, tre componenti del governo vengono dapprima indagati per presunti reati commessi nell’espletamento del proprio incarico e poi sono destinatari di una richiesta di autorizzazione a procedere. La Camera la respinge, ma non basta a chiudere il sipario sul caso Almasri. Sul palcoscenico viene trascinato anche il capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, accusata di aver mentito ai pm per difendere il Guardasigilli. I magistrati la indagano, lo scontro politico si acuisce. Il nodo Bartolozzi - La maggioranza tenta il tutto per tutto con l’obiettivo di blindare il braccio destro del ministro. Matura la convinzione di chiedere anche per lei lo scudo dell’immunità, mentre chi la indaga scrive nero su bianco che per la dirigente non occorre alcuna richiesta alla Giunta delle autorizzazioni, perché accusata di un reato differente, seppure relativo alla medesima vicenda, da quelli imputati al ministro Nordio. La questione finirà probabilmente dinanzi alla Corte Costituzionale. Le accuse a Lo Voi - Nel chiedere che ciò avvenga, la maggioranza mette nel mirino il Procuratore di Roma Francesco Lo Voi, il magistrato che indaga su Bartolozzi, accusato di aver fatto un uso distorto dei propri poteri. E mentre Nordio difende il proprio braccio destro, dicendosi sicuro che abbia “sempre eseguito i miei ordini e ha sempre detto la verità” a prendere le parti di Lo Voi è il consigliere laico del Csm Ernesto Carbone. Il componente dell’organo di autogoverno della magistratura ha infatti annunciato che lunedì aprirà una pratica a tutela del procuratore di Roma. Una telenovela che continua a regalare sorprese in quella che ha tutte le sembianze di una sempre più preoccupante escalation nel conflittuale rapporto tra politica e magistratura. Il caso Santanché - E se qualcuno pensa che già questo basti e avanzi, a dimostrargli che non è così è un’altra inchiesta, quella di Milano contro il ministro del Turismo Daniela Santanché. Nonostante il Senato abbia sollevato un conflitto di attribuzione alla Consulta, rispetto al quale non si può che attendere la decisione della Corte, la procura meneghina ha tentato - invano - di opporsi allo stop delle udienze disposto dal giudice. Decreto Sicurezza, così il governo vuole espropriare il Parlamento di Vitalba Azzollini Il Domani, 18 ottobre 2025 Quando, lo scorso aprile, il governo aveva adottato il decreto legge Sicurezza trasfondendovi il testo dell’omonimo disegno di legge, era apparso subito evidente che si trattava di una forzatura giuridica Forzatura che ora è stata messa nero su bianco in un ricorso per conflitto di attribuzione, presentato alla Corte costituzionale dal deputato Riccardo Magi. Il ricorso contesta una serie di profili: dalla distorsione della decretazione di urgenza alla compressione del ruolo delle Camere. In sintesi, un decreto “fotocopia”, identico a un disegno di legge in discussione da oltre un anno, ha scavalcato il normale dibattito parlamentare senza un’emergenza evidente, mettendo a rischio l’equilibrio istituzionale. Nel sistema costituzionale italiano, la decretazione d’urgenza è un potere eccezionale. consentito al governo solo in “casi straordinari di necessità e urgenza” (art. 77 Cost.), e soggetto a limiti che preservano la centralità del procedimento parlamentare (art. 72). Nel momento in cui il governo ha riprodotto in un decreto legge il contenuto di un disegno di legge già pienamente incardinato nel circuito parlamentare con un mero “copia-incolla” (stessi 38 articoli, aggiungendo solo l’art. 39 sull’entrata in vigore) - si legge nel ricorso - ha di fatto svuotato la funzione legislativa. Non basta affermare che il parlamento è stato comunque coinvolto nella fase di conversione del decreto legge la spada di Damocle dei 60 giorni svilisce il potere delle camere - e dei singoli deputati - di incidere realmente sul contenuto. Tutto ciò è avvenuto senza che vi fosse alcuna evidenza o spiegazione dell’urgenza -presupposto del decreto legge - a cui peraltro non si era mai fatto cenno nell’iter parlamentare. Anzi, il 1° aprile, “con l’intervento del rappresentante del governo”, il disegno di legge era stato calendarizzato in Senato a partire dal 15 aprile 2025. Ma il 4 aprile il Consiglio dei ministri ha deliberato di trasformarlo in decreto legge. Può escludersi - dice Magi che tra il 10 e i14 aprile sia sopravvenuta una necessità straordinaria. E di certo non basta l’aggiunta dell’aggettivo “urgente” “per spiegare l’esistenza in fatto di una situazione urgente necessitante”. Il ricorso richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto la legittimazione del singolo parlamentare a sollevare un conflitto di attribuzione, a tutela delle sue prerogative non solo il diritto di intervenire, fare proposte e votare, ma anche l’effettiva possibilità di incidere sul contenuto della legge. Prerogative che gli spettano come “singolo rappresentante della nazione, individualmente considerato”, e che devono essere esercitate “in modo autonomo e indipendente, non rimuovibili né modificabili a iniziativa di altro organo parlamentare”. Sempre dalle precedenti decisioni della Consulta emerge che il conflitto di attribuzione può riguardare anche un atto legislativo, quando l’effetto sia quello di alterare il riparto delle competenze tra i poteri. Il tutto è aggravato dall’inserimento nel decreto Sicurezza di molteplici disposizioni penali che introducono nuovi reati e aggravanti: quando si deliberano interventi “penetranti e incisivi” in ambito penale si legge nel ricorso - la Corte costituzionale pretende un “adeguato dibattito parlamentare”, poiché esso consente quella ponderazione tra interessi difficilmente possibile con l’uso della decretazione d’urgenza. La Corte, pur riconoscendo la legittimazione dei singoli parlamentari a sollevare conflitti di attribuzione, ne ha finora dichiarato inammissibili i ricorsi perché non superavano la soglia delle “violazioni manifeste” richiesta dalla Corte stessa. Ma il caso in questione è più grave di quelli precedenti: stavolta a ledere le prerogative dei parlamentari non è un organo interno alle camere, ma l’esecutivo che, con l’adozione del decreto legge, ha vanificato la loro partecipazione a un procedimento legislativo in corso. Gli argomenti sull’ammissibilità del ricorso appaiono più solidi. La Corte costituzionale si riunirà il prossimo 20 ottobre, e la sua decisione sarà particolarmente importante in discussione sono le regole che, in un sistema democratico, segnano il confine tra il potere legislativo e il potere esecutivo. L’auspicio è che il decreto Sicurezza, attraverso il ricorso cui ha dato origine, serva almeno a consentire di mettere un punto fermo sulla questione. Prescrizione, il ministro assicura la svolta: ma tutto slitta a dopo il referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2025 Il guardasigilli annuncia una “revisione totale”, ma il testo per ora non andrà avanti, come per la custodia cautelare. “Il nostro intendimento è quello di procedere a una revisione totale di questo istituto. Quindi, dobbiamo riprendere il percorso riformatore già avviato necessariamente e - per quanto possiamo esprimerci in termini molto sintetici oggi (mercoledì, ndr) - riportare la forma della prescrizione alla sua originaria natura di estinzione sostanziale del reato, non quella di estinzione dell’azione penale, quindi dal campo procedurale a quello sostanziale”. Così il ministro Carlo Nordio due giorni fa alla Camera rispondendo ad un interrogatorio parlamentare di Forza Italia. Il deputato Pietro Pittalis , nella replica, gli ha ricordato come il suo partito, “sin dall’avvio di questa legislatura, ha presentato una proposta di legge a mia prima firma, già approvata dalla Camera un anno e mezzo fa e ora all’esame del Senato, che ha ricevuto proprio le modifiche proposte dal governo per un ritorno alla prescrizione sostanziale. Mi auguro - ha proseguito Pittalis rivolto al Guardasigilli - che, grazie ai suoi buoni uffici, possa essere esitata anche da quel ramo del Parlamento in tempi rapidi alla fine di ripristinare un istituto di civiltà giuridica, qual è appunto la prescrizione del reato”. Anche perché, ha concluso, si tratta “di una riforma volta non tanto a soddisfare l’avvocato o il magistrato, ma di un nuovo passo per garantire, da un lato, l’efficienza della macchina giudiziaria e, dall’altro, tutelare i diritti degli imputati che non possono restare in eterno in balia della pretesa punitiva dello Stato”. Pittalis ci ha poi annunciato che “a cadenza fissa, probabilmente ogni quindici giorni, presenteremo una nuova interrogazione parlamentare per rafforzare la nostra attività di mobilitazione su questa questione. Il ministro - ha aggiunto - ha detto di essere d’accordo sul merito quindi non ci sono ragioni per ritardare l’approvazione del provvedimento”. Insomma sulla carta non ci sarebbero ostacoli. Fino ad ora a Palazzo Madama la prescrizione non è stata proprio messa in freezer, ma ha proceduto con lentezza. Il testo approvato a Montecitorio il lontano 16 gennaio 2024 è stato poi trasmesso alla commissione Giustizia del Senato a marzo dello stesso anno ma fino ad ora sono state fatte solo due audizioni. Da Palazzo Chigi era arrivata l’indicazione di congelare tutto per concentrarsi sull’unica riforma davvero importante: la separazione delle carriere. Che poi, come fa notare qualche altro parlamentare di Forza Italia, “la riforma costituzionale era discussa nella commissione Affari costituzionali e non Giustizia. Quindi ora che sarà approvata in quarta lettura a fine mese non ci sono più scuse per non accelerare sulla prescrizione”, conclude la nostra fonte. Il rischio è che la prescrizione potrebbe finire nel cassetto come la riforma della custodia cautelare. Pure sollecitata da Forza Italia, con Tommaso Calderone, ma rimandata a dopo il referendum di primavera perché la Commissione ministeriale Mura non ha trovato una quadra. La conclusione è che tutto deve fermarsi perché non si può rischiare che agli occhi degli elettori di destra-centro si facciano riforme garantiste che potrebbero indebolire la campagna verso l’ok alla riforma delle carriere dei magistrati. Sicuramente a quel tipo di elettorato fa piacere lo stallo sul carcere. Sempre Nordio, questa settimana, ha risposto a diverse interrogazioni sollecitate da Partito democratico e Italia viva che chiedevamo cosa stesse facendo il governo contro l’emergenza sovraffollamento e contro quella dei suicidi, arrivati ??a 67. Anche qui Nordio ha alzato bandiera bianca: “È una situazione sicuramente molto difficile che però si è sedimentata nei decenni”, si è difeso il Guardasigilli che poi ha fatto il solito elenco delle attività messe in atto dal suo dicastero, come l’istituzione di un nuovo commissario per l’edilizia carceraria. Ma i risultati non si vedono ancora. E ancora siamo in attesa della relazione della task force sul carcere istituita a luglio: “Il gruppo, insediato oggi, si riunirà con cadenza settimanale e trarrà le sue conclusioni entro settembre 2025”, si leggeva in un comunicato di via Arenula del 15 luglio. Ma fonti interne della task force fanno sapere che non ci sono state riunioni con la cadenza annunciata. Molte meno di quelle previste. Abbiamo chiesto al ministero i dettagli e se sono state tratte le conclusioni, ma la nostra domanda, per ora, è rimasta senza risposta. Moussa, la morte e il silenzio delle indagini di Petronio Corriere di Verona, 18 ottobre 2025 Oggi manifestazione nazionale dalla stazione. “Bisogno profondo di giustizia”. “Questo silenzio, con gli atti secretati, sta diventando un po’ troppo lungo”. Le parole sono dell’avvocato Fabio Anselmo, riferite all’uccisione, il 20 ottobre del 2024, di Moussa Diarra. “Francamente non abbiamo la minima idea di cosa stia accadendo, perché ormai sono passati tanti, tanti mesi. E questo silenzio, con gli atti secretati, sta diventando un po’ troppo lungo...”. Le parole sono dell’avvocato Fabio Anselmo. Il silenzio, assordante, è quello di un’indagine di cui - a un anno di distanza dai fatti - non è dato sapere nulla. Taciturnità a cui fa da contraltare il “rumore”. Quello di chi non dimentica. E non vuol far dimenticare. Era una domenica mattina, il 20 ottobre di un anno fa. La mattina in cui, all’ingresso della stazione di Porta Nuova Moussa Diarra, 26enne maliano, venne ucciso da uno dei tre colpi di pistola sparati ad altezza d’uomo da un agente della Polizia ferroviaria, dopo un’alba trascorsa in un delirio psicotico che lo aveva portato a girare brandendo due coltelli da cucina e a infrangere alcune vetrine dell’ingresso della stazione. Ucciso da un colpo al cuore Moussa, che in Italia era regolare e che lavorava raccogliendo frutta e verdura. Moussa che quel disagio psicologico lo covava dal viaggio di venuta in Italia, dalla detenzione nei capi profughi in Libia dove aveva visto morire suo fratello. Quel disagio che si era risvegliato quando aveva saputo che l’unico luogo che considerava casa a Verona - il Ghibellin Fuggiasco - doveva essere abbandonato. E che gli si ripresentava l’odissea di trovare un luogo dove dormire. E vivere. È indagato per eccesso colposo di legittima difesa, il poliziotto che a Moussa ha sparato. E il corpo di quel ragazzo maliano con il mae di vivere è da 12 mesi in una cella mortuaria. Scadono con il mese di ottobre, i tempi per l’indagine preliminare. Vale a dire tra una manciata di giorni. Era stato detto che si sarebbe chiuso entro la fine dell’estate il “caso Diarra”. L’estate è ormai scemata. “E tutta questa “segretezza” non ha senso”, dice Anselmo che con le colleghe Paola Malavolta e Francesca Campostrini rappresenta la famiglia di Moussa. “Anche perché c’è un’incoerenza di fondo tra i comunicati stampa, numerosi e anticipatori, fatti dal procuratore della Repubblica dopo l’omicidio di Moussa e questo silenzio. Silenzio che un giorno si piacerebbe riscontare che è stato giustificato da atti particolarmente delicati dell’indagine”. Silenzio che comunque verrà spezzato oggi, con una manifestazione nazionale voluta dalla Comunità Maliana in Italia e dal Comitato Verità e Giustizia per Moussa Diarra e alla quale hanno aderito una quarantina di associazioni - che prenderà le mosse da quel piazzale della stazione. “Moussa non si dimentica”, l’imperativo. “A distanza di un anno questa comunità resistente sostiene il complesso lavoro del team legale, continua a raccontare questo profondo bisogno di giustizia, ad alimentare il presidio di memoria collettiva in stazione contro ogni atto di rimozione, a costruire dal basso iniziative e proposte”. Con quel trascorrere del tempo - e del silenzio - che viene ribadito. “A distanza di un anno, e con una dinamica dei fatti tuttora poco chiara, continuiamo con forza a chiedere verità e giustizia, e un processo che restituisca a Moussa e alla sua famiglia almeno in parte la dignità che gli è stata tolta in una vita di diritti negati. E continuiamo a pensare che questa morte abbia radici profonde e che l’arma usata dall’agente della Polfer abbia prodotto solo l’ultima delle ferite che hanno segnato la vita di Moussa. Ferite profonde, frutto di scelte politiche precise che hanno finanziato l’orrore dei campi di detenzione in Libia e, in Italia, dei centri di permanenza per i rimpatri in Italia, che hanno imposto leggi come il decreto Salvini del 2018 e tutto il contesto sociale e politico che Moussa ha attraversato una volta arrivato in Italia”. Passerà anche davanti al tribunale la manifestazione di oggi che dalla stazione si snoderà su via Città di Nimes, circonvallazione Oriani, corso Porta Nuova, piazza Bra, via degli Alpini, via Pallone, Lungadige Capuleti, via Montecchi, via dello Zappatore, via Santissima Trinità, via Battisti. Verrà attraversato Corso Porta Nuova e poi, a ritroso, la “zona rossa” di piazza Pradaval, via Valverde, via Giberti, piazza Renato Simoni, di nuovo via Città di Nimes e il ritorno in stazione “per pretendere politiche di cura, non di repressione e di marginalizzazione”. Palermo e la nuova paranza: l’ascesa (col placet di Cosa Nostra) dei giovani aspiranti gangster di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 ottobre 2025 L’esplosione di un fenomeno che fino a pochi anni fa apparteneva solo alla camorra. Negli anni 80 la Mafia condannava a morte i piccoli criminali, ora li lascia fare, anzi se ne serve, sapendo di poterli eliminare quando vuole. Il vero motivo per cui Gaetano Maranzano ha ucciso Paolo Taormina è che non voleva essere messo in cattiva luce davanti agli altri. Palermo si sta “paranzizzando”: un neologismo che descrive la trasformazione del crimine in paranze, gruppi di giovani, giovanissimi, che si uniscono per vincoli di amicizia, parentela e, soprattutto, di territorio, e iniziano a delinquere. Non si pongono obiettivi precisi: cercano l’affermazione di sé attraverso la spavalderia, la diffusione della paura, il farsi rispettare incutendo timore. Tutto questo per l’ambizione di poter ricevere incarichi, la gestione di piazze di spaccio, il controllo estorsivo. Il sogno è quello di poter fondare una famiglia, di poter essere affiliati, se i libri mastri di un clan si riaprono per tornare ad affiliare. Nell’attesa, provano a essere qualcuno: e qualcuno significa diventare un gangster. Ma come si diventa gangster nel nostro tempo, in Italia, in una terra dove Cosa Nostra affilia con il contagocce, dove le organizzazioni criminali non hanno più l’ossessione del controllo territoriale ma la missione del dominio economico, sempre più slegato da un ordine sociale? Il look del futuro “boss” - Si parte dall’aspetto: dal sembrare gangster. E non ci sono più gessati, borsalini, né eleganza di sartoria. In questo senso, Gaetano Maranzano, il 28enne che ha sparato in testa a Paolo Taormina l’11 ottobre, è un archetipo del criminale di paranza: barba lunga (quando possono farsela, perché la maggior parte ha meno di diciotto anni e non ha ancora peli in faccia - in quel caso sostituiscono con un baffetto di peluria adolescenziale); borsello a tracolla con ben visibile il logo della marca; scarpe mai al di sotto del valore di mille euro; collane d’oro con simboli di pistole o AK-47. Al primo sguardo non incutono paura ma ridicolo. Si muovono persino in modo maldestro, costantemente impegnati a proclamare di essere duri, di decidere quando farti attraversare la strada, quando chiudere un locale, solo quando loro vogliono andar via. Decidono loro come e dove puoi parcheggiare, se puoi guardarli negli occhi o no. I loro comportamenti e i loro abiti sembrano un’imitazione scadente di un cantante trap o di un mafia movie. Ma il ridicolo si muta facilmente in dramma quando sparano, ammazzano. Maranzano ha dichiarato che Paolo aveva importunato sua moglie (sembra che le avesse solo messo like a una foto) e che, quella notte, al locale, si era sentito minacciato di fare una cattiva figura. Ecco le sue parole: “Siccome lui era in difetto con me, mi guardava male, nel suo cervello mi voleva sfidare”. Il “difetto”, per Maranzano, è l’aver contattato la moglie. E aggiunge: “I ragazzi facevano casino e lui è venuto a prendere di petto me. In più io avevo astio con lui per la cosa di mia moglie. Parlava verso di me, diceva “qua non si deve fare vucciria”. Mi voleva mettere in cattiva luce davanti alle persone”. Quando tutto diventa sfida - Ecco il vero motivo per cui ha sparato: la cattiva luce davanti agli altri. Tutto diventa sfida. Ogni atto, fatto o subito, è un banco di prova. Taormina dava una mano ai genitori, proprietari del locale O’ Scruscio, e cercava di calmare gli animi quella notte, la sua ultima notte. Ma Maranzano si è sentito leso e il “capitale” che ha voluto difendere è la capacità di intimidazione, quindi ha estratto la pistola e ha sparato in testa a Paolo. Se qualcuno viene a chiedere di farla finita, nella sua lettura significa che non ha paura, che non ha rispetto. E così ammazza. Maranzano è figlio di una famiglia criminale in ascesa nello Zen, assolta nel processo che li vedeva imputati come uomini d’onore, ma il padre, Vincenzo “Gnu Gnu” Maranzano, è stato condannato per tentato omicidio di un membro della famiglia rivale, i Colombo. Cosa Nostra non li affilia: sono la frantumaglia a cui delega il narcotraffico locale, da cui pesca se porta risultati importanti. Le paranze palermitane spesso provengono da famiglie con precedenti penali, ma non sempre. Tutti però provengono da quartieri difficili, dove il lavoro è solo in nero e dove è impensabile credere che l’impegno possa essere un mezzo per superare la miseria e ottenere dignità. Un modello internazionale - Paranza è il nome dato a Napoli ai gruppi di ragazzini che controllano pezzi di territorio, ma il modello è ormai internazionale: dal Cairo a Manila, da Marsiglia a Palermo, giovanissimi con lo stesso aspetto (con varianti etniche), le stesse prassi confuse e arroganti, si organizzano con l’intento di diventare gangster prima ancora che mafiosi. La differenza è sostanziale: diventare mafioso significa entrare in una dinamica gerarchica; essere gangster vuol dire rispondere solo a se stessi. E Palermo, per lungo tempo, non ha permesso a nessuno di agire rispondendo solo a se stesso. Ma nell’ultimo decennio le cose sono cambiate, e oggi sono diventate incontrollate. Il gangster segue un percorso diverso: prova subito a essere capo, dei suoi coetanei e di affari miserabili. Si percepisce ribelle, infrange le regole della società che considera da perdenti, perché costringe ad abbassare il capo, a restare poveri. Non vuole nemmeno tentare di ottenere qualcosa dal sistema - lavoro, progetti, possibilità - perché tutto ciò significa essere perdenti. Vuole scalarlo con la furbizia, la forza, l’inganno. È disposto - anzi, ognuno vorrebbe - a diventare uomo d’onore, ma ne teme la fatica: dover passare da capetto a gregario, dover dimostrare dentro regole il proprio valore criminale. Finire dentro è una meta, non un rischio - Da gangster, invece, si definisce da solo. Eppure, considerano i codici mafiosi il vero ambito in cui “essere qualcuno”, ricevere rispetto e non essere soli. Ed è per questo che non temono il carcere. Finire dentro è una meta, non un rischio. In carcere inizia l’apprendistato per riuscire - o, più spesso, fallire - nel diventare criminali dentro una famiglia. È in carcere che sanno di poter diventare qualcuno: la prova di essere stati duri, cattivi, capaci di sparare. Dopo la strage di Monreale dell’aprile scorso, compiuta da ragazzi di meno di 20 anni, e dopo quanto accaduto a settembre, quando paranze rivali - una del quartiere Zen e una della zona Marinella - si sono affrontate ferendo una donna incinta, abbiamo la prova che la Sicilia sta vivendo una trasformazione strutturale del proprio crimine. Il cambio di paradigma criminale - Negli anni Ottanta, la mafia condannava a morte con propri tribunali chi rubava auto, i topi d’appartamento, gli spacciatori. Ogni crimine doveva essere autorizzato. Oggi, invece, permette le paranze, e lo fa di buon grado, esattamente come la camorra, perché non conviene più controllare il territorio. E non è più conveniente mantenere a stipendio centinaia di famiglie. Quindi permettono tutto questo, anzi, ne traggono beneficio: possono affidare loro mansioni, e di volta in volta decidere se usarli, abbandonarli, eliminarli o promuoverli. La sintesi più drammatica l’ha data un ragazzino di 14 anni arrestato a Napoli con quaranta dosi di cocaina. Alla domanda dei carabinieri sul suo comportamento, ha risposto: “Vado da Pomigliano a Castello di Cisterna per lavorare”. Quando gli hanno ricordato che quello non era un lavoro, ha precisato: “Non so fare altro che spacciare”. Il fallimento della democrazia. Giovanni Riina resta al 41-bis, non ha superato le logiche mafiose di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2025 Pesa il ruolo sovraordinato rispetto agli altri sodali della famiglia di Corleone e l’assenza di una volontà reale di recidere i legami con il sodalizio. Giovanni Riina, figlio del “capo dei capi Totò”, resta al 41-bis. Sul no al suo ricorso contro la proroga del regime speciale pesano, oltre ai gravi reati commessi, il ruolo sovraordinato rispetto agli altri sodali della famiglia di Corleone e l’assenza di una volontà reale di recidere i legami con il sodalizio di provenienza. Le motivazioni della Suprema corte - La Cassazione ha depositato le motivazioni, con le quali, il 12 settembre scorso, aveva confermato il carcere duro per Riina junior, in carcere dal 1996, dove sta scontando l’ergastolo per tre omicidi avvenuti a Corleone nel 1995. In aggiunta ai reati, che vanno dall’associazione di stampo mafioso all’omicidio plurimo, dalla soppressione di cadavere alla ricettazione e violazione della legge sulle armi, i giudici del riesame hanno - correttamente ad avviso della Suprema corte - fatto pesare sia la posizione, assunta nella famiglia mafiosa di Corleone, definita in termini di “sovra ordinazione” rispetto agli altri sodali, sia l’assenza di segnali sintomatici di un effettivo ravvedimento del detenuto. E, considerato che l’associazione mafiosa è ancora attiva nel territorio di Corleone, il Tribunale del riesame “ha ritenuto di ravvisare non l’attualità di collegamenti con il contesto criminale, quanto la perdurante potenzialità del detenuto di relazionarsi con soggetti appartenenti all’organizzazione criminale”. Il ruolo sovraordinato - A supporto della sua decisione, il collegio ha richiamato gli atti della Dda di Palermo, relativi a un procedimento che ha portato alla condanna di Giuseppe Salvatore Riina, consentendo di accertare “come Giovanni Riina, nonostante lo stato detentivo, godendo di una maggiore libertà di movimento rispetto al padre, all’epoca sottoposto al regime differenziato, si servisse del fratello libero e avesse assunto, tra il 2000 e il 2002, una posizione di primo piano all’interno della famiglia di Corleone”. Giovanni Riina, sebbene detenuto - scrivono i giudici - “era, infatti, divenuto un punto di riferimento strategico per la consorteria mafiosa, nonché l’ispiratore di larga parte delle iniziative criminali dell’epoca, assumendo un ruolo di assoluto rilievo anche in costanza di detenzione. In quel momento, invero, anche attraverso l’investitura paterna, egli aveva esercitato poteri decisori sia quanto alla direzione da imprimere alle diverse attività illecite, sia quanto ai destinatari pro quota dei proventi raccolti attraverso tali attività, interloquendo in modo attivo - e sempre in una posizione di riconosciuta leadership - con altri segmenti dell’associazione mafiosa, in quell’attività di ridefinizione organizzativa che, in quel momento, aveva caratterizzato tale sodalizio mafioso e, in particolare, il gruppo dei corleonesi dopo l’arresto di Salvatore Riina”. Il rifiuto dei lavori umili - Non è positivo neppure il giudizio sul percorso carcerario a ulteriore riprova del giudizio di attuale pericolosità, il collegio di merito ha evidenziato che, malgrado Riina abbia intrapreso, in carcere “un graduale percorso introspettivo, che lo ha reso consapevole delle dinamiche che lo hanno condotto ad assumere un ruolo significativo all’interno di Cosa Nostra, il suo percorso trattamentale è stato comunque caratterizzato da aspetti assai negativi, in grado di gettare una luce assai poco rassicurante sul piano prognostico”. A Riina viene contestata anche l’assenza di un gesto di riconciliazione con i familiari delle vittime e il rifiuto di svolgere leattività lavorative, previste nel cosiddetto carcere duro, di “portavitto” e “scopino”. Una scelta per marcare la differenza tra la propria condizione e quella degli altri detenuti per “mantenere inalterato il suo ruolo carismatico, che verrebbe sminuito dalla prestazione di attività lavorative umili come quelle propostegli”. Per i giudici, dunque, Giovanni Riina non ha “ancora manifestato una reale intenzione di superare le logiche proprie dell’agire mafioso e di recidere i legami con il sodalizio di provenienza”. Da qui il giudizio sulla persistenza del pericolo di riattivazione dei canali di collegamento con l’esterno. Friuli. I cani entrano in carcere: la pet therapy contro ansia e disagio dei detenuti di Paola Tissile friulioggi.it, 18 ottobre 2025 La pet therapy in carcere a Udine e Tolmezzo. Il Dipartimento di Salute Mentale (DDSM) di Udine lancia un progetto innovativo nelle carceri del Friuli per contrastare il disagio psicologico legato alla detenzione: a partire dal 22 ottobre, la pet therapy verrà introdotta negli istituti penitenziari di Udine e Tolmezzo come strumento alternativo e preventivo alla somministrazione di farmaci. La gestione sanitaria in carcere e il ruolo del Ddsm - Dal 2015, la normativa in Friuli Venezia Giulia stabilisce che le Aziende Sanitarie competenti debbano garantire la continuità delle cure ai detenuti. In questo quadro, il Ddsm si occupa non solo di assistere le persone che manifestano problematiche psicopatologiche, ma anche di promuovere iniziative che favoriscano il benessere psicologico generale dei ristretti. Il disagio in detenzione: oltre la terapia farmacologica - La vita in carcere è spesso segnata da solitudine, ansia per i familiari e preoccupazione per la lontananza da casa. La presenza di lunghi “tempi vuoti” spinge le persone a cercare attività per occupare la mente, ma molti sviluppano sintomi ansiosi o depressivi, e il rapporto con gli altri può risultare difficoltoso. Per questo motivo, il Ddsm di Udine mira a superare la risposta al disagio unicamente medica o farmacologica. L’obiettivo è agire in modo preventivo e relazionale per ridurre la sintomatologia ansiosa, migliorare le condizioni generali e favorire una migliore convivenza. Il Progetto: Attività Socio/Educative con i Cani - Il progetto di “Attività socio/educative con i cani” è stato affidato alla cooperativa sociale “Venchiarutti & Giove” e partirà il 22 ottobre. L’iniziativa sfrutta la mediazione dell’animale per creare uno spazio terapeutico alternativo alla classica visita ambulatoriale. L’interazione con i cani nel contesto del carcere offre ai detenuti l’opportunità di riscoprire e praticare competenze relazionali e sociali spesso sopite. I benefici della Pet Therapy per i detenuti - L’efficacia della pet therapy (o Interventi Assistiti con Animali - Iaa) è ampiamente riconosciuta nel migliorare la qualità di vita percepita in contesti di detenzione. L’interazione con gli animali stimola una forma di cambiamento e rinnovamento, in quanto sviluppa empatia e responsabilità: l’animale insegna la cura incondizionata e il senso di responsabilità; migliora le relazioni sociali: stimola le capacità relazionali e comunicative dei detenuti; rinforza autostima e fiducia: il raggiungimento di piccoli successi nell’interazione con il cane rinforza il senso di autostima e fiducia in sé stessi. Napoli. Si continua a morire in carcere: le parole d’allarme del Garante di Serena Uvale metropolisweb.it, 18 ottobre 2025 Nelle carceri italiane si continua a morire. Lo conferma la nota di Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone private della libertà personale, relativa alle ultime morti di due detenuti, una delle due per cause ancora da accertare. Solo nel carcere di Poggioreale dall’inizio dell’anno si contano 2 suicidi, 25 tentativi di suicidio, 202 atti di autolesionismo, 3 decessi per cause da accertare e 9 decessi per cause naturali, come ricorda la stessa nota. Anche nel resto d’Italia la situazione non è diversa rispetto a quella del carcere campano, infatti, dagli anni precedenti al 2024 c’è stato un pesante aumento di vittime e in generale l’anno precedente è stato quello con più morti nelle carceri italiane come riportato dall’associazione Antigone che si occupa dei diritti e delle garanzie dei detenuti. Gli ultimi due decessi avvenuti a Poggioreale sono l’ennesimo pezzo di un puzzle già tristemente noto in Italia, che vede le carceri sovraffollate e in condizioni igieniche pessime. Il ventisettenne Konte Allhaje, lo scorso 30 settembre viene ricoverato all’Ospedale Cardarelli e poi trasferito al Cotugno, per una grave forma di Tubercolosi, morendovi in data 10 ottobre 2025. Il Magistrato ha predisposto l’autopsia per comprovare il motivo del decesso. “In riferimento al decesso del giovane gambiano, ho scritto al Provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria, al Direttore del Carcere di Poggioreale ed al Direttore Sanitario dello stesso per chiedere informazioni sulla vita del detenuto durante la detenzione - spiega - se soffrisse di patologie, se vi fossero possibilità che il virus tubercolosi fosse già incubato nel soggetto senza però ricevere una diagnosi. In considerazione del fatto che i suoi compagni di cella mi hanno riferito che soffriva da tempo di dolori, tossiva, perdeva sangue dalla bocca. I 5 compagni di cella sono stati testati con analisi specifiche risultando negativi al virus tubercolosi, ma il giovane morto era un lavorante, in questo senso ho chiesto alle autorità competenti se le aree frequentate dal detenuto siano state sanificate, disinfettate e se, alcuni detenuti in contatto con Konte Allhaje siano stati testati”. La seconda vittima è un uomo italiano deceduto questa notte per cause ancora da accertare. La salma è stata trasferita, nell’obitorio del Secondo Policlinico di Napoli, per l’autopsia. Ciambriello nella giornata di ieri è stato a Poggioreale ed ha messo in evidenza il già noto problema del sovraffollamento delle carceri: “il sovraffollamento è arrivato alla presenza di 2.165 detenuti, in Campania se ne contano per un totale di 7.713 detenuti con un indice di sovraffollamento pari al 139%”. Il garante ha inoltre fatto notare anche quanto le condizioni igieniche e di sicurezza siano fatiscenti: “A tal proposito, proprio nel Padiglione Salerno, ho avuto modo di incontrare un detenuto malato di Talassemia, in condizioni fisiche cagionevoli che avrebbe dovuto effettuare una trasfusione di sangue, di cui necessita settimanalmente, che è saltata proprio per mancanza di scorta. In aggiunta, un altro detenuto mi informa che doveva essere trasferito presso un nosocomio pubblico per essere sottoposto ad un intervento chirurgico di asportazione di una massa tumorale in sede maxillofacciale, saltato per ben due volte. Ho più volte denunciato lo stato di degrado e di abbandono in cui versa la struttura carceraria e, soprattutto, la disumanità alla quale i detenuti e gli agenti penitenziari sono condannati”. Infine, Ciambriello lancia una critica anche al governo italiano: “La politica tace, fa solo passerelle! Ma mi auguro che possa intervenire al più presto la Procura di Napoli e la stessa Magistratura di Sorveglianza, oltre all’ASL di riferimento”. Avellino. Paolo Piccolo, morto a 26 anni dopo un pestaggio in carcere di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 18 ottobre 2025 Nella notte, all’ospedale “Moscati”, è morto Paolo Piccolo. Aveva 26 anni. Da quasi un anno viveva in stato vegetativo, dopo il pestaggio subito nel carcere di Bellizzi Irpino nell’ottobre del 2024. Piccolo aveva trascorso la maggior parte del tempo proprio al “Moscati”, dove era stato ricoverato sin dai giorni immediatamente successivi all’aggressione. Era stato trasferito alla struttura “Don Gnocchi” di Sant’Angelo dei Lombardi, ma un improvviso peggioramento lo aveva costretto a tornare subito in ospedale. “Non possiamo accudirlo”, dissero. Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre il suo cuore ha smesso di battere. Un anno di sofferenza senza sollievo - Un anno di sofferenza che non ha trovato sollievo. L’aggressione, avvenuta il 24 ottobre 2024, aveva sconvolto la comunità irpina per la sua brutalità. Bastonate, ferite inferte con oggetti acuminati, dentro la sezione “primo piano destro” del penitenziario. Le lesioni - fratture multiple, un polmone perforato, gravi traumi cranici - lo avevano condannato a un silenzio senza ritorno. La battaglia della famiglia: domanda di verità e giustizia - Da allora, la famiglia ha continuato a chiedere verità e giustizia. Ha seguito ogni udienza del processo che vede dieci persone imputate per tentato omicidio aggravato, resistenza a pubblico ufficiale e sequestro di persona. Ora che Paolo non c’è più, quelle parole tornano con più forza. In una cella si è spenta una vita, ma resta la domanda su come sia stato possibile. Perché in un Paese civile la pena non può mai diventare violenza. Monza. Il giallo del carcere, detenuto morto: indagati in tre di Dario Crippa Il Giorno, 18 ottobre 2025 Nel fascicolo i nomi del compagno di cella e quelli dei sanitari che lo hanno visitato. Ci sono tre indagati per la misteriosa morte di un detenuto nel carcere di Monza. L’uomo, 63 anni, italiano, soffriva già di svariate gravi patologie, ma il suo decesso non sembrerebbe dovuto a cause naturali. A insospettire gli inquirenti, la lite avuta il giorno prima con un compagno di cella, finita in infermeria. La vittima infatti avrebbe chiesto aiuto ai medici della casa circondariale per un dolore intenso al costato, conseguenza a suo dire del colpo infertogli dal rivale. Il caso sarebbe stato affrontato con la somministrazione di un antidolorifico e l’uomo sarebbe poi stato riaccompagnato in cella e separato dal compagno. Un dolore che però non è passato l’indomani, anzi. Per l’uomo quindi un nuovo passaggio in infermeria, altri farmaci e la firma di nuove dimissioni. Poi la tragedia. Lunedì, dopo la morte del detenuto, i carabinieri del Nucleo investigativo sono entrati in carcere. Escluso subito il suicidio come possibile causa del decesso, era girata la voce che ci potesse essere una partita killer di droga tagliata male in circolazione all’origine della morte. Starà all’autopsia disposta dalla Procura di Monza fornire risposte certe. Intanto, per chiarire un eventuale collegamento tra la lite, il colpo all’addome sferrato dal compagno di cella e una ipotetica condotta omissiva da parte dell’infermiere e del medico in servizio, il magistrato ha aperto un fascicolo. Indagati, oltre al compagno di cella, i due sanitari in servizio in carcere quei giorni. “Era una persona sola, che viveva ai margini della società, volto noto della stazione. Viveva di espedienti ed è finito in carcere per qualche piccolo reato - raccontano di lui i volontari che operano in stazione -. Riuscivano ad avvicinarlo ogni tanto solo i servizi sociali”. Firenze. L’amore negato a Elena e il suicidio in carcere di Natalino Benacci La Nazione, 18 ottobre 2025 È una storia terribile quella di Elena. Una storia di abbandono, sfruttamento e solitudine, fino al suicidio, a 26 anni, nel carcere di Sollicciano a Firenze. Originaria della Romania, aveva lasciato la sua famiglia a 14 anni. Una vita segnata dalla violenza e dalla detenzione. Elena era finita due volte in carcere: prima all’Istituto penale minorile di Pontremoli poi a Sollicciano. Quando è arrivata a Pontremoli, qualche anno fa, Elena non aveva nulla se non un grande bagaglio emotivo, affettivo, umano. La ricordano Mario Abrate, ex direttore dell’Istituto e le educatrici Manuela Ribolla e Alessia Leonardi. La prima cosa che ha chiesto giunta all’istituto Penale per i Minorenni di Pontremoli è stata: “Davvero potrò farmi una doccia ogni giorno senza dare nulla in cambio?”. Famiglia inesistente, aveva dovuto subire i soprusi e gli abusi del patrigno. Appena adolescente era stata avviata al racket della prostituzione. Viveva a Firenze, qua e là, dove capitava. “Elena parlava poco l’italiano, non sapeva leggere, né scrivere - ricordano. Mostrava quasi con orgoglio le foto che la ritraevano di fronte a macchine di lusso o in note località balneari, insieme a uomini italiani molto più grandi di lei, a dire il vero, anziani, che la esibivano come un trofeo, come un oggetto da mostrare. Ma Elena questo non lo capiva. Era come se il suo cervello, come meccanismo di difesa, avesse messo in stand by la capacità di giudizio e si fosse accontentata di capire il meno possibile di quello che la vita le stava riservando. A Pontremoli in Ipm Elena aveva trovato una sua dimensione. Aveva imparato a leggere e a scrivere. Era un po’ la mascotte dell’Istituto: rispettosa, educata, benvoluta da direttore, educatori, Polizia Penitenziaria e personale amministrativo. Aveva una dote: quella di saper comunicare attraverso i suoi occhi. E con la voce”. Non mancavano mai le sue “esibizioni” nei momenti conviviali. “Cantava le canzoni di Èdith Piaf senza conoscere le reali parole del testo - raccontano -. Ma la sua voce arrivava dritta all’anima. Protagonista in diversi spettacoli teatrali diretti da Paolo Billi, Elena era riuscita anche ad ottenere una borsa lavoro, che le permetteva ogni giorno di uscire dall’Ipm e recarsi in una nota azienda produttrice di testaroli, dove ha lasciato un ottimo ricordo di sé. Fino al suo collocamento in comunità. Elena non ha retto. Si era allontanata. Da allora il silenzio, fino a qualche giorno fa, quando il suo volto ha fatto capolino su giornali e social”. Il ricordo più dolce di lei? “Appena arrivata aveva conosciuto i brillantini colorati - raccontano. Non li aveva mai visti. Li metteva su tutto: sul suo viso, sulle lettere che ci scriveva, sugli oggetti. Aveva un cuore grande Elena, come i suoi occhi, come il desiderio di ricevere un po’ d’amore”. Al funerale nessun familiare. “Ciao Elena, scusaci per quello che siamo diventati. Grazie per l’esempio che ci hai donato. Grazie per la tua anima bella, pura, infinita” è il messaggio di Abrate, Ribolla e Leonardi. Firenze. Carcere grande assente di Raffaele Palumbo Corriere Fiorentino, 18 ottobre 2025 No, non ci siamo. La gravità della situazione nelle nostre carceri si mescola e si intreccia alla situazione che riguarda la governance del sistema penitenziario e passa da un livello a un altro, da un carcere a un altro, da un provvedimento a un altro, come in un groviglio vizioso e senza un comprensibile bandolo della matassa. A Firenze il potenziamento degli organici della Polizia Penitenziaria finisce in farsa. Nonostante le promesse degli organismi preposti dal governo, alla fine sembra di assistere al gioco delle tre carte. A Sollicciano, a fronte di 75 uscite fra pensionamenti e trasferimenti, arriveranno 76 nuovi assunti. Se non chiederà di essere trasferito - quella fiorentina non è certo la sede più ambita - avremo un solo agente a rappresentare il potenziamento tanto atteso. Di tutto il resto, neanche a parlarne. Sono gli stessi agenti, per esempio, a invocare come vera emergenza la necessità di generare relazioni, attività sociali, lavorative come antidoto principale al degrado che è prima di tutto morale. Nel frattempo a Firenze stiamo conoscendo una situazione mai vista prima. Il tema del sovraffollamento non riguarda più solo il carcere di Sollicciano, ma il Centro di prima accoglienza, previsto dal sistema penale minorile per ospitare temporaneamente i minorenni in stato di arresto o fermo e soprattutto l’Istituto penale per minorenni. La situazione è inedita ed è figlia del così detto decreto Caivano. E dunque dell’uso eccessivo e generalizzato della custodia cautelare in carcere, che aumenta il numero di detenuti minorenni senza risolvere le cause profonde del disagio sociale. E che genera sempre maggiori analogie tra il trattamento penale di adulti e minori, con un peggioramento delle condizioni giuridiche e procedurali per i minorenni, in contrasto con i principi costituzionali e internazionali sul diritto minorile. Anche in questo caso, chi lavora al minorile di Firenze sta facendo il diavolo a quattro per cercare di mantenere servizi e attività finalizzate al reinserimento sociale, alla scolarizzazione e altre azioni diventate sempre più difficili nella situazione attuale. Anche qui, il tema del carcere si mescola con l’altro tema che da decenni viene affrontato solo per essere strumentalizzato, ovvero l’immigrazione. Corto circuito perfetto, quello - per esempio - dei minori non accompagnati. Nel frattempo è appena finita una campagna elettorale dove quasi nessuno dei 900 candidati ha speso una parola sulla questione carcere, che non porta né voti e nemmeno tanti consensi. Anche se a occuparsene toccherebbe la Politica. E invece stiamo seminando e coltivando criminalità per poi raccogliere insicurezza sociale, disuguaglianze, marginalità che ricadranno su tutti noi. E siamo ancora fermi a Silvio Pellico: “Prima della galera, ero un povero contadino, pochissimo intelligente, una specie d’idiota; e la galera m’ha cambiato. Ero stupido e sono diventato malvagio; ero un ceppo e sono diventato tizzone”. Bergamo. La relazione della Garante dei detenuti: “Entrare oggi nel carcere mette i brividi” di Paolo Aresi primabergamo.it, 18 ottobre 2025 Non solo è stato toccato il record del sovraffollamento (605 reclusi su 319 posti), ma è sempre più difficile accedere ai laboratori e alle attività. Il carcere è un quartiere della città, con mille abitanti. Seicento sono detenuti. Il carcere è il quartiere peggiore della città, non soltanto perché gran parte di quelli che ci vivono sono privati della libertà, ma anche perché le condizioni abitative sono al limite del sopportabile. E le prospettive per le persone si sono fatte via via più anguste nell’ultimo anno. Risulta sempre più difficile accedere alle misure alternative e alle possibilità di lavoro e di educazione. Per quali motivi? Della situazione del carcere ha parlato in maniera lucida e accorata Valentina Lanfranchi al Consiglio comunale lunedì sera, 13 ottobre. L’onorevole Lanfranchi è la garante dei detenuti, designata dal sindaco di Bergamo: una figura che rappresenta un ponte tra il mondo della detenzione e la città. Il 6 ottobre il carcere di via Gleno ha toccato il suo record negativo: 605 le persone recluse contro i 319 posti previsti. Gli agenti di custodia sono duecento, ben al di sotto di quanti dovrebbero essere. Negli uffici dell’amministrazione gli addetti sono quattordici, ma dovrebbero essere ventitré. E mancano anche gli educatori: quattro contro i sei previsti. Il Consiglio comunale ha ascoltato compatto, con molta attenzione, la relazione della garante, per una volta maggioranza e opposizione si sono sentite unite e l’aula ha approvato all’unanimità i due ordini del giorno presentati che da un lato chiedono al Governo e al Ministero della Giustizia di intervenire e allo stesso tempo chiedono che vengano potenziati i progetti di reinserimento sociale con le postazioni di lavoro sia interne che esterne al carcere. La paladina dei detenuti - Valentina Lanfranchi si occupa dei problemi carcerari da più di quarant’anni, da quel 1979 in cui venne eletta deputata nelle fila del Pci, Partito comunista italiano. In Parlamento il suo posto si trovava tra due figure di enorme spicco: Pietro Ingrao stava alla sua destra, Pio La Torre alla sua sinistra. Come parlamentare il suo primo atto fu quello di chiedere di potere entrare in carcere per una visita. In carcere, oggi, a 86 anni, Valentina Lanfranchi ha un suo ufficio e vi si reca tutti i giorni. Per i detenuti lei davvero è un ponte, non soltanto con la città, con il mondo fuori, ma con la possibilità del riscatto. Torino. Troppo grasso per stare in cella, nuovo trasferimento di Sandro Marotta La Stampa, 18 ottobre 2025 Da un carcere sovraffollato a un altro, cambia solo la città: il detenuto che soffre di diabete e obesità è stato trasferito di nuovo, questa volta dal carcere di Genova a quello di Torino. L’ultimo aggiornamento sull’odissea del cinquantenne, che ora pesa tra i 230 e i 260 kg, risale a una settimana fa. “A Torino gli hanno preparato una stanza con un letto bariatrico, su cui sta sdraiato tutto il giorno - spiega Roberto Testi, direttore della Medicina legale dell’Asl Città di Torino - ha anche delle operatrici sanitarie a curarlo”. L’adattamento che ha innescato il trasferimento consiste nell’unione di due celle del padiglione A: “In questo modo ha una porta più grande e più spazio calpestabile” aggiunge Testi. Il detenuto si muove su una carrozzina elettrica di notevoli dimensioni, cosa che nel carcere di Genova non gli permetteva di entrare in sala colloqui e lo obbligava a parlare con la famiglia in videochiamata. Odissea tra arresti e rifiuti - La sua storia è fatta di tante tappe: dopo l’arresto a Lecce e i domiciliari a Cuneo, è stato ricoverato in una Rsa di Bra e poi cacciato per aver minacciato il personale, da lì l’ordine di carcerazione al Cerialdo, dove non è mai entrato perché le celle non sono abbastanza grandi. Per più di un mese è stato ospitato all’ospedale “Santa Croce”, fino al trasferimento flash a Genova e il “rimbalzo” verso Torino. La prima questione problematica è la scelta del carcere, dato che il “Lorusso e Cutugno” (così come il genovese Marassi) è saturo. Ci sono 1.118 posti disponibili, ma 1.457 detenuti, ovvero un tasso di sovraffollamento del 130%. Delle 937 stanze, 7 sono per detenuti portatori di handicap. Il “repartino” alle Molinette - La casa circondariale torinese tuttavia ha un hub sanitario con una sezione ad alta intensità, cioè 22 posti letto “deputati a ospitare detenuti con patologie acute o riacutizzate che necessitino di supporto sanitario costante”. All’ospedale Molinette di Torino c’è il “repartino”, una sezione riservata esclusivamente ai detenuti. Nella stessa struttura, unica in Piemonte, si pratica anche la chirurgia bariatrica per i pazienti obesi. Tuttavia, sembra l’ambiente carcerario in sé a non essere adatto. “Il problema è logistico - continua Testi. Alcune barriere architettoniche sono state superate, ma comunque decideranno i magistrati, non i medici. C’è da dire anche che il carcere non guarisce le persone e il suo è un caso estremo”. Intanto si aggrava - Quando è entrato in cella nel 2021 il detenuto pesava circa 140 kg, ora 260. Nonostante versi ogni mese 108 euro come “quota di mantenimento”, il carcere sta peggiorando le sue condizioni di salute, in contrasto con quanto previsto dalla legge sull’ordinamento penitenziario. “Stiamo monitorando il caso - dice la garante dei detenuti di Torino, Diletta Berardinelli -. L’attenzione è alta. Con il garante regionale valuteremo come muoverci”. Torino. Rivolta al Ferrante Aporti: condanne per 35 anni di carcere a 9 minorenni di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 18 ottobre 2025 Il primo agosto 2024 i detenuti appiccarono il fuoco e distrussero celle, uffici, aule e palestra a colpi di sedie e tavoli. Le rivolte scoppiate contemporaneamente al carcere minorile Ferrante Aporti e al Lorusso e Cutugno di Torino la sera del 1 agosto 2024 non furono collegate. O almeno, così la pensano magistrati e polizia giudiziaria che hanno indagato per ricostruire i fatti di quella notte. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza con cui il Tribunale minorile a luglio ha inflitto 35 anni di carcere a 9 minorenni, processati per devastazione, saccheggio, violenza e resistenza. Le pene per coloro che hanno scelto il rito abbreviato vanno da 3 a 4 anni e 8 mesi di carcere, mentre per l’unico che ha scelto il dibattimento la sentenza è attesa l’11 novembre. Il “fumo” - Nei motivi il collegio s’interroga sul perché della rivolta, rimasto fumoso. Una delle ipotesi - per dirla con le parole messe a verbale da un detenuto - è che sia scoppiata “per un po’ di fumo beccato ai colloqui nel pomeriggio”. Nelle ore precedenti, infatti, il fratello di uno dei ragazzi condannati come registi dei disordini fu sorpreso a portare dell’hashish in carcere e perciò arrestato. Anche la “perfetta sincronicità cronologica” con l’iniziativa dei reclusi di un altro padiglione, che si rifiutarono di rientrare in cella lamentando un guasto alla tv, per i giudici resta solo un “dato sospetto”. L’unico dato certo è che quella notte una ventina di reclusi appiccò il fuoco in varie parti dell’edificio e distrusse celle, uffici, aule e palestra a colpi di sedie e tavoli, usati come spranghe. I rivoltosi filmarono tutto e postarono i video su TikTok e altri social network. Gli agitatori furono una decina e agirono “in modo coalizzato e compatto”. Perché lo fecero? Secondo i giudici per esaltare un “modello alternativo alla legalità”, nell’ottica di un “euforizzante autocelebrazione intrisa di aperta ribellione alle regole interne e alle Autorità preposte”. Lo dimostrerebbero in particolare i video condivisi in tempo reale sui social e trasmessi da giornali e tv, utili a evocare “l’immagine inquietante del totale sovvertimento delle regole carcerarie e il rivendicato dominio rispetto alla pp (polizia penitenziaria, ndr), con evidente gravissimo vulnus alle istituzioni”. Le battiture, gli incendi e le “grida furenti” - tutto immortalato nei filmati - furono l’ostentazione di una “rabbia esternalizzata ai massimi livelli (anche acustici) tali da suscitare in chiunque l’associazione a estrema pericolosità sociale”. Tutti gli imputati minorenni, con la sola eccezione dell’adolescente già condannato per il lancio della bici ai Murazzi, sarebbero dovuti uscire al più tardi nell’autunno 2026. Per loro i fatti del 1 agosto furono una reazione a “condizioni invivibili”: “C’è il materasso sporco, dormiamo per terra”, “Ci mancavano gli armadi, la tv è rotta”, “La rivolta è scoppiata anche per il caldo”, hanno dichiarato agli inquirenti. Al momento della rivolta in effetti il numero dei detenuti aveva superato la capienza massima. Trento. Fiorire in carcere curando il verde. Il Comune forma i detenuti gnewsonline.it, 18 ottobre 2025 Rimodellare le aiuole poste all’ingresso del carcere è stato il proposito di un progetto realizzato nella casa circondariale di Spini di Gardolo, organizzato in collaborazione con il Comune di Trento e il Liceo Antonio Rosmini. L’iniziativa, collegata alla manifestazione Fiori in centro, inaugurata a giugno di quest’anno nelle zone centrali della città, e proseguita con la conquista di luoghi periferici, ha previsto che quattro detenuti ammessi al lavoro all’esterno partecipassero a un laboratorio volto ad abbellire gli spazi tramite il verde. La direttrice del carcere, Annarita Nuzzaci, racconta a Gnews che i detenuti, l’estate scorsa, hanno frequentato cinque lezioni “professionalizzanti”, finalizzate all’apprendimento di tecniche e procedure utili all’intervento di riqualificazione dell’istituto. Grazie ai tecnici del Comune di Trento, esperti nella creazione e nella tenuta del verde pubblico, e sotto la supervisione di Lucrezia Aielli, funzionario giuridico pedagogico del carcere, tra luglio e settembre i partecipanti sono stati protagonisti di questo percorso formativo e lavorativo, ponte tra il mondo carcerario e la comunità esterna. Al termine del programma di addestramento, i quattro detenuti hanno modellato le aiuole in forma di lettere, in modo da creare la scritta CC Trento. L’intento, chiarisce Nuzzaci, è “creare bellezza, opponendosi al brutto del carcere”; la zona in cui sono poste le aiuole, infatti, “è dentro l’istituto, fuori dalla zona detentiva”. Si tratta di “tamponare il grigiore di questo luogo”, prosegue la direttrice, e il progetto si inserisce in un insieme di iniziative alla cui realizzazione concorrono gli Enti locali e l’istituto di istruzione Rosmini, il quale cura, dentro il carcere, le lezioni scolastiche regolari e, grazie al volontariato degli operatori, eroga l’insegnamento anche durante i mesi estivi. Grazie al corso di formazione professionale seguito dai detenuti, l’attività, promossa da Andreas Fernandez, assessore in materia di tutela e valorizzazione verde e parchi del Comune di Trento, ha raggiunto un luogo decentrato e marginale come il carcere, operando una scelta di inclusione, considerando le persone ristrette come parte della comunità, e l’istituto penitenziario come parte della città. Come dichiara ancora a Gnews la direttrice, la finalità del progetto è far sentire che il carcere, pur nella sua peculiare identità, è espressione della società trentina. L’insegnamento erogato ai detenuti risponde sicuramente all’obiettivo di creare delle competenze professionali, trampolino di lancio per un’occupazione lavorativa, una volta fuori dal carcere, e misura di contrasto alla recidiva. Al tempo stesso, l’impegno dei detenuti nel conferire decoro all’ambiente ribadisce la funzione rieducativa della pena e la possibilità di una palingenesi del recluso, stimolando una sensibilità nuova, che porti in sé la misura della collettività. “Bisogna dare ai detenuti una seconda chance”, conclude Nuzzaci, facendo diventare il carcere un luogo di rinnovamento e fioritura. Bologna. Una cella in piazza per sensibilizzare sulla vita in carcere gnewsonline.it, 18 ottobre 2025 L’iniziativa dei penalisti bolognesi “La vita dietro le sbarre: una cella al centro della città”, che avrà luogo questo fine settimana, 18 e 19 ottobre, porterà una cella carceraria nel centro cittadino con l’obiettivo di avvicinare le persone alla vita dei detenuti e sarà una ricostruzione a grandezza reale e fedele nei dettagli. La possibilità di visitare questa installazione, anche se per pochi minuti, permetterà a chiunque di sperimentare in prima persona la spazialità con la quale si rapporta la vita del “ristretto”. L’avvocato Luca Sebastiani, responsabile dell’osservatorio Carcere per la Camera penale felsinea Franco Bricola, chiama “a partecipare tutta la città” - e sottolinea come - “la cella installata sarà di pari dimensioni a quelle del carcere bolognese Dozza e si utilizzerà proprio lo stesso mobilio, che l’amministrazione penitenziaria, che ringrazio, ci presta per l’occasione”. La riproduzione della cella in piazza rivestirà, quindi, la valenza simbolica del trasferire la dimensione carceriera fuori dal suo perimetro fisico. Oltre alla cittadinanza sono state invitate le principali istituzioni locali e le associazioni. Hanno confermato la loro presenza tra gli altri il Cardinale, Matteo Maria Zuppi e il presidente della regione Emilia-Romagna, Francesco De Pascale. Domani mattina alle 11 la conferenza di inaugurazione, con gli interventi dei presidenti delle associazioni che hanno organizzato l’evento e di Alessandro Bergonzoni. Milano. Colletta Alimentare, si parte dalla Casa di Reclusione di Opera adnkronos.com, 18 ottobre 2025 Lancio dell’iniziativa che si terrà in oltre 12.000 supermercati in tutta Italia il prossimo 15 novembre. Parte dalla Casa di reclusione di Milano Opera il cammino verso la Giornata nazionale della colletta alimentare, che si terrà il prossimo sabato 15 novembre in tutta Italia. Un luogo simbolico per lanciare un’iniziativa che, da 29 anni, coinvolge milioni di persone in un gesto semplice e condiviso di solidarietà: donare parte della propria spesa per chi è in difficoltà. La scelta del carcere di Opera come sede dell’evento di lancio non è casuale: rappresenta il valore educativo e rigenerativo della Colletta, capace di raggiungere e coinvolgere tutti, anche chi vive situazioni di fragilità e restrizione. Da oltre 15 anni, infatti, la Colletta Alimentare è presente anche negli istituti penitenziari, grazie all’iniziativa di associazioni quali Incontro e Presenza, il cui presidente Fabio Romano ha ricordato che nel 2024 hanno aderito circa 40 carceri in tutta Italia, dove le persone detenute hanno potuto contribuire acquistando e donando alimenti, diventando parte attiva di una catena di bene che unisce chi dona e chi riceve. Nel suo intervento ha raccontato alcune testimonianze raccolte nelle scorse edizioni: “Quando arriva un’iniziativa come questa, ti senti preso sul serio da qualcuno. Non è solo il non sentirsi dimenticati: è capire che anche da qui dentro possiamo fare qualcosa di buono per gli altri. Possiamo dimostrare a chi è fuori che siamo capaci di gesti generosi. E quando ti senti guardato così - non per quello che hai sbagliato, ma per quello che puoi ancora dare - cominci a credere che è possibile, e persino bello, vivere in un altro modo” e ancora “Il carcere e la Colletta sono diventati per me l’occasione per ritrovare speranza e provare a dare un senso a tutto, anche al carcere”. Un gesto che è reso possibile dalla collaborazione delle istituzioni penitenziarie, come ricordato da Incoronata Corfiati, primo dirigente di polizia penitenziaria provveditorato regionale Lombardia che ha voluto sottolineare come la Colletta Alimentare è un’occasione preziosa per far conoscere la realtà penitenziaria al mondo esterno e offrire un esempio positivo di vicinanza verso chi vive situazioni di fragilità. Un impegno condiviso, quello della Colletta Alimentare, che unisce mondi diversi in un’unica rete solidale. È proprio in questa alleanza che si riconosce il senso più profondo dell’iniziativa, come sottolinea Marco Piuri, presidente di Fondazione Banco Alimentare ETS: “La Colletta Alimentare è un’iniziativa di sensibilizzazione contro la povertà alimentare e un gesto educativo semplice e accessibile a tutti. In un momento in cui cresce la domanda di aiuto - con i recenti dati Istat che ci dicono che nel nostro Paese 5,7 milioni di persone (9,8%) di cui 1,28 sono minori e 2,2 milioni famiglie (8,4%) vivono in povertà assoluta - la Colletta Alimentare diventa ancora più preziosa, perché permette a ciascuno di sentirsi utile per gli altri. È un gesto semplice alla portata di tutti e la partecipazione delle persone detenute testimonia che è un gesto che può generare valore e speranza, anche nei luoghi dove la vita appare più difficile”. Un messaggio ripreso anche dal vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, avvocato Fabio Pinelli che sottolinea la valenza rieducativa dell’iniziativa: “C’è una tendenza sbagliata a considerare la detenzione come qualcosa che non riguarda la società civile, come se il carcere fosse un luogo da rimuovere mentalmente, estraneo alla comunità. Invece il carcere ne è parte integrante: è un luogo dove i principi costituzionali devono trovare piena attuazione e dove la rieducazione può diventare concreta solo attraverso un rapporto virtuoso tra il dentro e il fuori. Iniziative come la Colletta Alimentare, presentata oggi, restituiscono valore a quel legame, coinvolgendo non solo i detenuti ma anche l’intero mondo carcerario - dalla polizia penitenziaria agli educatori - in un percorso comune. È un segnale importante: si può scontare una pena senza essere esclusi dalla società civile”. Anche Mons. Vincenzo Paglia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita, ha ricordato che “è un segno potente vedere nascere da un luogo complesso e doloroso, un’opera di bene così concreta: dimostra che anche un gesto semplice può riaccendere legami umani e sociali, di cui le nostre città hanno oggi profondo bisogno. Vorrei che da qui partisse un messaggio per tutti: sconfiggiamo la tristezza di un mondo chiuso in sé stesso. Nel cuore di ciascuno c’è una scintilla di bene, capace di riaccendere l’amore anche nei luoghi più oppressi. Da qui può ripartire la speranza: si può rinascere, tutti, nessuno escluso”. La Giornata Nazionale della Colletta Alimentare rappresenta per la Fondazione Banco Alimentare l’appuntamento cardine dell’anno, sia per il valore ideale che operativo. Organizzata e coordinata da Fondazione Banco Alimentare con il contributo indispensabile delle Organizzazioni Banco Alimentare territoriali, la Colletta mobilita ogni novembre circa 160.000 volontari presso 12.000 punti vendita della grande distribuzione organizzata, invitando i cittadini a donare parte della propria spesa. Nel 2024 sono state raccolte 7.900 tonnellate di alimenti distribuite poi a oltre 7.600 strutture caritative che aiutano 1.755.000 persone in difficoltà in tutta Italia. Terzo Settore: da oggi anche l’Italia ha un “Piano per l’economia sociale” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 18 ottobre 2025 Il mondo del Terzo settore lo aspettava da una vita, e tra poco sarebbero passati due anni da quando l’Europa stessa lo aveva sollecitato con una specifica “Raccomandazione” nel 2023. Adesso almeno il primo passo è fatto: anche l’Italia ha un Piano nazionale dell’economia sociale. Il testo è contenuto all’interno della manovra finanziaria 2026 approvata dal Governo. Il mondo del Terzo settore lo aspettava da una vita, e tra pochi giorni sarebbero passati due anni da quando l’Europa stessa ne aveva sollecitato la creazione con una specifica “Raccomandazione” del Consiglio europeo datata 27 novembre 2023. Adesso almeno il primo passo è fatto: anche l’Italia ha un “Piano nazionale dell’economia sociale”. Il testo è contenuto all’interno della manovra finanziaria 2026 approvata dal Consiglio dei ministri. Sono 39 pagine di istruzioni volte a “valorizzare le peculiarità del modello italiano con l’obiettivo di promuovere condizioni favorevoli affinché le organizzazioni dell’economia sociale possano prosperare con un impatto trasformativo sulla società”. Molti sono buoni propositi, altre però sono indicazioni precise. A cominciare da quella per l’istituzione di una Direzione generale - presso il Ministero dell’economia - con il compito di coordinare al meglio il sostegno a quel mondo variegato che appunto è il Terzo settore in Italia: una “pluralità” - si legge nel testo - che richiede “una regìa leggera ma presente, capace di favorire sinergie tra i diversi attori e i diversi livelli, nazionale e territoriale; una regìa che assuma la co-progettazione e il partenariato come strumenti ordinari e non eccezionali”. Certo, siamo ancora alla fase preliminare: gli Enti di terzo settore avranno la possibilità di fare le loro osservazioni sul testo e quest’ultimo dovrà poi essere approvato in via definitiva. Ma alcuni elementi di cornice sono fissati: il Piano avrà “durata decennale dal momento della sua approvazione e prevede una revisione di medio termine dopo i primi cinque anni”. È la stessa durata del Piano europeo: che però esiste già dal 2021 e scadrà quindi nel 2031. Dell’attuazione di quello italiano “sarà responsabile, per quanto di competenza del Ministero dell’economia e delle finanze, l’apposita struttura amministrativa istituita a tale scopo” con l’appoggio di un “organismo che darà seguito al lavoro di un tavolo tavolo tecnico” con mandato, modalità operative e composizione da definirsi “con decreto ministeriale entro 60 giorni dall’approvazione del Piano stesso”. Di seguito i contenuti principali. “Fondamentale - si legge nel testo - che le politiche pubbliche di sostegno all’economia civile siano coordinate” e a questo scopo “potrebbe risultare opportuna la costruzione di un’architettura istituzionale unitaria”. Con una Direzione generale deputata al monitoraggio e alla “realizzazione di tutte le azioni necessarie all’attuazione del presente Piano”. Il testo ricorda la peculiarità del non profit italiano, citando gli oltre gli oltre 4,3 milioni di realtà che lo compongono e gli 11,5 milioni di persone che ci lavorano. Dopodiché il Piano affronta, uno per uno, tutti gli aspetti legati al sostegno dell’economia sociale. A partire dal tema fiscale, ricordando in primo luogo la Comfort letter con cui l’Europa aveva riconosciuto mesi fa che i princìpi previsti dal Codice del Terzo settore in materia di tasse non rappresentano un “aiuto di Stato”. Poi il nodo dell’Irap e la precisazione che “un’azione da porre in essere potrà consistere nel ridurne parzialmente l’onere economico” nei confronti degli enti, così come in tema di Iva “appare opportuno un intervento legislativo che garantisca un maggior coordinamento” e “una ulteriore azione che potrà consistere nell’introduzione di meccanismi di semplificazione per gli enti dell’economia sociale”. Stessa attenzione viene promessa parlando di Imu e di altri aspetti fiscali più specifici: “Un impegno da assumere nei confronti degli enti dell’economia sociale - si legge tra l’altro - consiste nel non estromettere (anche solo di fatto) tale categoria di contribuenti dalle evoluzioni più recenti del sistema fiscale italiano che sta introducendo strumenti di compliance preventiva e di dialogo premiale con il Fisco”. E ancora. “L’azione dell’economia sociale si lega fortemente al concetto di sostenibilità” e pertanto “sono ipotizzabili incentivi o agevolazioni correlate a indicatori e rendicontazioni che vadano a misurarne l’impatto reale”, compresi aiuti per “l’elaborazione della rendicontazione di sostenibilità”. E ancora: “In un orizzonte temporale di medio periodo si potrebbe porre l’obiettivo di pervenire a una nomenclatura (evidentemente armonizzata a livello europeo e internazionale) specifica delle attività riconducibili all’economia sociale”. E lotta alla povertà energetica: “Occorre promuovere e valorizzare la nascita dei nuovi soggetti dell’economia sociale, come le Comunità energetiche rinnovabili (Cer) e le cooperative di utenti in ambito energetico, quali strumenti per l’incremento di fonti di energia rinnovabile a livello locale e quale mezzo per favorire l’accesso a fonti energetiche rinnovabile a prezzi accessibili”. E ancora: impegno a sostenere la cooperazione agroalimentare, l’attuazione del Pilastro dei Diritti Sociali, l’intento di introdurre “riserve di destinazione obbligatoria a vantaggio di progetti o iniziative proposte e realizzate da soggetti dell’economia sociale”. Il Piano si propone inoltre di “rafforzare il Partenariato economico e sociale per garantire il suo effettivo coinvolgimento nelle decisioni operative per l’attuazione delle politiche di coesione”. Riconosce l’importanza dell’economia sociale e quindi l’opportunità di sostenerla in tema di transizione e cambiamento demografico, innovazione in tutti gli ambiti, dalla cultura alla lotta contro lo spopolamento. Si impegna al “consolidamento delle forme di amministrazione condivisa”, con un paragrafo particolare in più che tocca un aspetto specifico: “Al fine di conciliare e armonizzare il principio di utilità sociale con il principio di concorrenza, un’ulteriore azione potrò tradursi nell’attivazione di politiche di sensibilizzazione volte a promuovere l’utilizzo di strumenti pro-concorrenziali anche da parte dei soggetti dell’economia sociale”, anche supportando e incoraggiando “il ricorso agli affidamenti riservati” e “la concessione” per “permettere agli enti dell’economia sociale di generare valore aggiunto”. Ulteriori capitoli: promozione del ruolo del volontariato; valorizzazione dell’economia sociale nelle politiche del lavoro (per esempio prevedendo sostegno al fenomeno dei workers buyout); incoraggiamento all’innovazione sociale (tra i diversi esempi citati, il rilancio dell’istituto delle startup a vocazione sociale); la volontà di favorire l’accesso al credito finanziario per le realtà dell’economia sociale; la promozione del ruolo della filantropia; il sostegno a “partnership tra economia sociale e imprese tradizionali”. Un paragrafo in particolare è dedicato alla formazione: “L’economia sociale è scarsamente presente nei percorsi formativi” e tale carenza attualmente “si ripercuote negativamente sulla creazione di nuove organizzazioni dell’economia sociale”, anzi “per molti giovani il mancato incontro con le forme e i principi dell’economia nel proprio percorso formativo riduce l’ambito delle scelte possibili”. Un punto a cui il Piano si impegna a trovare rimedio. Il valore aggiunto del non profit è nei numeri (e nelle scelte) di Giuseppe Notarstefano Avvenire, 18 ottobre 2025 Dal Terzo settore arriva una risposta di cura e attenzione verso i bisogni reali della società che esalta i principi di accoglienza, solidarietà e condivisione. La narrazione della situazione economica e finanziaria, soprattutto a livello macro, continua a proporre scenari di crisi e previsioni di ulteriore riduzione del benessere complessivo del Paese. Rimane spesso messo in ombra il valore economico e sociale generato e distribuito, in gran parte gratuitamente e volontariamente, da un’ampia gamma di settori quali sanità, sport, assistenza agli anziani e alle persone con diversa abilità. Lo scorso 29 luglio, l’Istat aveva contribuito ad accendere alcune luci su tale realtà, ricordandoci che nel 2023, il 9,1% della popolazione italiana di almeno 15 anni di età, pari a circa 4,7 milioni di persone, ha svolto attività di volontariato in forma organizzata e/o personale. In particolare, la componente di volontariato effettuata in forma organizzata, attraverso associazioni o gruppi, è risultata ancora preponderante: il 6,2% della popolazione (3,2 milioni di persone). Un’ampia quota di persone che lavorano volontariamente per il bene comune, prendendosi cura dell’ambiente e delle frange più fragili della nostra società, combattendo così ogni giorno una dura battaglia in presenza di uno Stato che ha risorse sempre più limitate. Lo scorso 10 ottobre, l’Istat ha pubblicato un interessante report aggiornato al 2023 sulla struttura e sui profili delle organizzazioni che operano nel settore non profit completando così il quadro informativo sul volontariato in Italia secondo una prospettiva economica. Al pari delle aziende private e delle istituzioni pubbliche, le istituzioni non profit operano infatti come organizzazioni economiche. Pur non perseguendo un obiettivo di profitto, per agire efficacemente si devono infatti dotare di infrastrutture materiali e tecnologiche, skills e competenze, capacità di raccogliere risorse finanziarie e di organizzare le proprie attività. Spesso, infatti, nei settori in cui operano la capacità di soddisfare efficacemente i bisogni collettivi e individuali richiede anche conoscenze tecniche e normative. È pertanto importante conoscere attraverso il report dell’Istat l’articolazione di questo settore che mostra un elevato grado di diversificazione a livello di dimensione, specializzazione e capacità organizzativa. Al 31 dicembre 2023 il numero di istituzioni non profit in Italia superava le 350 unità (368.367), queste impiegano quasi 950 mila dipendenti (949.200). Il numero di dipendenti è in costante crescita negli ultimi anni, mentre quello delle istituzioni ha seguito un trend comunque crescente, sebbene influenzato da maggiore instabilità. La distribuzione del personale dipendente permane tuttavia concentrata in pochi settori quali assistenza sociale e protezione civile (50,0%), istruzione e ricerca (14,5%), sviluppo economico e coesione sociale (11,0%) e sanità (10,1%). Le istituzioni che operano senza impiegare personale retribuito (dipendenti, esterni e/o collaboratori) si concentrano nei settori dell’ambiente (86,3%), delle attività ricreative e di socializzazione (85,6%), della filantropia e promozione del volontariato (84,7%), della cooperazione e solidarietà internazionale (82,4%). Al di là delle specificità di settore, questa differenza nell’impiego di personale stabile e retribuito si riflette necessariamente in differenze sostanziali nella capacità di organizzare efficacemente e in modo continuativo la propria attività. La mappa del non profit in Italia vede una presenza diffusa sul territorio nazionale, con la presenza tuttavia di regioni che storicamente esprimono un maggior orientamento verso questo settore, misuro dal numero di dipendenti delle istituzioni non profit rispetto alla popolazione residente: le regioni che si caratterizzano per una maggiore presenza di istituzioni non profit, misurata attraverso il numero di dipendenti ogni 10mila abitanti, le Provincie autonome di Trento e Bolzano, la Lombardia, e l’Emilia-Romagna. Nel Mezzogiorno, Sebbene l’orientamento sia inferiore alla media nazionale, una maggiore vocazione si rileva in Sardegna e Basilicata. L’associazione è la forma giuridica che raccoglie la quota maggiore di istituzioni non profit (85,3%) e risulta in crescita, le cooperative sociali (3,9%) sono invece in costante diminuzione. Il settore dello sport raccoglie il numero di istituzioni non profit più elevato (32,3%), seguito da quelli delle attività ricreative e di socializzazione (16,6%), delle attività culturali e artistiche (15,4%), dell’assistenza sociale e protezione civile (9,4%). Rispetto al 2022, le istituzioni non profit crescono nei settori delle attività ricreative e di socializzazione (+13,7%), della filantropia e della promozione del volontariato (+8,9%) della tutela dei diritti e attività politica (+8,8%). I cittadini sembrano tuttavia premiare in modo crescente tale settore. Limitando l’analisi alle scelte effettuate dai contribuenti destinate alle istituzioni non profit attraverso il 5 per mille, il report dell’Istat riporta che nel 2023 sono 71.378 le istituzioni non profit iscritte nell’elenco degli enti destinatari del cinque per mille (19,4% del totale) in leggero aumento rispetto all’anno precedente (+2,9%). Rispetto al 2022, l’importo ricevuto (circa 459,8 milioni di euro) aumenta del 3,0% e anche più consistente è la crescita (+16,5%) del numero di scelte espresse dai contribuenti al momento della dichiarazione che si attestano intorno ai 13 milioni della tutela dei diritti e attività politica (81,7%). In sintesi, il settore non profit si rivela sempre più una presenza significativa e importante per il Paese anche in una prospettiva economica. Operando senza fini di lucro ed in settori in cui i bisogni collettivi e individuali sono più evidenti, tale comparto conferma il suo orientamento al bene comune, anche se gli aspetti fiscali ed amministrativi dovranno cercare di favorire l’originaria vocazione volontaria, vigilando su possibili usi strumentali laddove non addirittura speculativi. In un contesto di risorse pubbliche decrescenti a livello nazionale, regionale e locale, che chiederà anche al Terzo Settore di investire nella sua capacità innovativa e nella sua efficacia organizzativa, da questo settore proviene una risposta di cura e attenzione verso i bisogni reali della società che anima una rigenerazione sociale e comunitaria dei valori più profondi di accoglienza, solidarietà e condivisione che oggi diventano sempre più necessari per sostenere la vita democratica e animare quella economica e sociale. Il suicidio assistito e la burocrazia della morte che dilata i diritti di Chiara Lalli Il Dubbio, 18 ottobre 2025 Al tempo spesso non ci facciamo caso. È il privilegio di chi sta bene. Poi basta una influenza o un malanno superficiale e passeggero a cambiare quella distrazione. A me basta un mal di denti o una puntura di zanzare per avvertire che cinque minuti non sono più solo cinque minuti. Per essere intollerante al dolore e al fastidio, per sentire quel dente o quel centimetro di pelle che prima ignoravo. Ci penso spesso quando leggo e conto le attese di tutte le persone che hanno chiesto di esercitare un loro diritto. La burocrazia della morte dilata, rimanda, rinvia. Che è un modo subdolo e molto efficace per far saltare un diritto e mantenere l’apparenza che vada tutto bene. Vuoi morire? Ma certo, tra 200 anni. Copiamo sempre Corrado Guzzanti in Padre Pizarro. Due giorni fa finalmente il tribunale di Firenze ha riconosciuto davvero a “Libera” i suoi diritti. Dal luglio del 2024 aveva avuto il riconoscimento dei requisiti per il suicidio assistito. Ma c’è un intoppo: “Libera” è completamente immobile e non può bere o spingere un pulsante per essere proprio lei a causare la sua morte. Ecco perché il suo collegio legale, coordinato da Filomena Gallo (segretaria dell’Associazione Luce Coscioni), chiede di autorizzare un medico a somministrarle un farmaco. Che differenza c’è? Moralmente nessuna. Ma i burocrati della morte ce ne vedono milioni. Poi c’è stato il dubbio di legittimità costituzionale, una udienza lo scorso luglio, l’indicazione di trovare un macchinario idoneo e poi dei pareri tecnici dubbiosi sull’esistenza di un tale dispositivo. E finalmente l’ordinanza di Firenze. “Da anni sono immobile in un letto e vivo una sofferenza senza tregua. Oggi spero, finalmente, di poter scegliere davvero: di essere io, anche se paralizzata, con l’aiuto della tecnologia, ad azionare il dispositivo che porrà fine al mio dolore. È la mia libertà, fino alla fine”, ha detto “Libera”. Nell’ordinanza ci sono un po’ di cose importanti. La Corte costituzionale, scrive il giudice, ha ricordato che i “soggetti particolarmente vulnerabili” hanno già il diritto di rifiutare o di interrompere il “mantenimento artificiale in vita” con la sedazione profonda - che prevede l’intervento di qualcun altro. Non c’è niente di passivo se devi spegnere un respiratore o sedare qualcuno. Altro chiarimento: la controversia non riguarda il diritto di scegliere e di morire ma le modalità. E questo è un punto così importante che i pigri conservatori faranno finta di non averlo mai letto. Caduta la sacralità della vita, la vita indisponibile di fascista sapore (ricordo sempre fino alla vostra noia che gli articoli 579 e il 580 sono nel codice Rocco, quindi fate voi l’inferenza) e tutte le altre scuse, cosa rimane? La mia volontà. E se sono consapevole e scelgo di morire, cosa importa il come? “Il giudice e prima ancora l’amministrazione sono tenuti, in ogni caso, a dare concreta attuazione ai principi affermati dalla Corte costituzionale non potendo i vuoti di disciplina risolversi nella non effettività di diritti riconosciuti, dovendosi quindi ricavare dalle coordinate del sistema i criteri direttivi”, continua l’ordinanza. Che mi pare un po’ quello che succede dalla sentenza 242 del 2019. Cioè il contrario. Ci sono dei diritti e la loro attuazione è affidata al caso, alla ASL o USL, all’umore del momento. Un diritto così evanescente non è più un diritto. Poi c’è un altro punto importante. “In assenza di disposizioni legislative dettate specificamente per questa materia il compito affidato al servizio sanitario nazionale, in relazione alla fase esecutiva è di verificare le modalità di esecuzione assicurando che siano idonee a ‘ evitare abusi in danno di persone vulnerabili’, garantire la dignità del paziente’, ‘ evitare al medesimo sofferenze’”. Questa attività non è una mera procedura, una formalità procedurale, ma anche di garanzia fattuale. E tutto questo è dovere del servizio sanitario, a nostra protezione. Quindi la ASL deve, entro 15 giorni dal 15 ottobre, mettere a disposizione i farmaci, trovare la strumentazione (cioè una pompa infusionale con un sensore attivabile come un puntatore oculare o qualcosa di simile) e controllarne la funzionalità e l’efficacia, di mettere a disposizione del medico farmaci e strumentazione. Questa decisione del giudice non è solo per “Libera” ma per tutte le persone in situazioni simili e per tutte le persone che hanno questa idea dei diritti. Che per essere tali devono avere una “concreta attuazione”. Scontro sull’educazione sessuale a scuola. Centrodestra pronto a cancellare il divieto di Federico Capurso ed Elisa Forte La Stampa, 18 ottobre 2025 L’emendamento contestato sarà rivisto: “Ma no a teorie gender”. Il ministro Nordio insiste: “Spetta alle famiglie”. L’opposizione: così si torna al Medioevo. Medici, psicologi, associazioni, sindacati, al fianco delle opposizioni, protestano contro l’emendamento della Lega al Ddl Valditara che, di fatto, introduce uno stop ai corsi di educazione sessuale nelle scuole medie, mentre nelle scuole superiori impone il consenso delle famiglie per far partecipare lo studente a queste attività. “Una vergogna”, tuona la segretaria del Pd Elly Schlein. E così ora, nel pieno di polemiche alimentate anche dall’ennesimo caso di femminicidio, il centrodestra corre ai ripari: quando il provvedimento verrà discusso in Aula, alla Camera, verrà modificato il testo specificando che dalla scuola dell’infanzia fino alle scuole medie “verranno solo vietati quei tentativi di indottrinamento delle teorie gender”, fa sapere una fonte dalla maggioranza. E le lezioni, anche al liceo, “dovranno essere tenute da personalità scientificamente qualificate”. L’obiettivo è dunque riportare il provvedimento all’interno del più contenuto recinto della battaglia ideologica contro la “fluidità di genere”: così la destra conservatrice definisce quella spinta a riconoscere l’esistenza di generi sessuali che vadano oltre la divisione binaria “o uomo o donna”. La norma sarà “un argine”, dice infatti il deputato leghista Rossano Sasso, “alla deriva progressista dell’ideologia gender nelle scuole”. Mentre la maggioranza, in accordo con il governo, lavora a questa via d’uscita, il ministro della Giustizia Carlo Nordio provoca però un ulteriore scossone: “L’educazione sessuale è compito delle famiglie”, dice davanti alle telecamere di Sky. È lì, sostiene, che l’educazione “si dà con l’esempio del rispetto verso l’altro”. Le opposizioni, di scatto, reagiscono: “Pura banalità conservatrice”, attacca Irene Manzi, la responsabile Scuola del Pd. Piuttosto, nota, “il ministro dovrebbe essere promotore di iniziative preventive di contrasto alla violenza”. Anche dal Movimento 5 stelle arriva una sferzata violenta contro la “mentalità retrograda” del Guardasigilli e provocatoriamente si chiede a Nordio se sia il caso di lasciare che “i ragazzi seguano l’esempio che hanno davanti anche se sono in famiglie dove c’è violenza domestica”. Rispetto alle limitazioni che impone l’emendamento della Lega, Schlein lancia quindi una controproposta: “Lezioni di educazione sessuale e affettiva obbligatorie in tutti i cicli scolastici”. Al momento, infatti, l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non prevedere l’obbligatorietà per questo genere di corsi educativi nelle scuole. Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha invece preferito, dallo scorso anno, che di sessualità, rispetto della persona e contrasto alla violenza di genere si parlasse all’interno delle materie di “scienze” e “educazione civica”, in maniera graduale, già a partire dalla scuola dell’infanzia. Questo provvedimento, però, per i Dem è un passo indietro. E i componenti del Pd in Commissione bicamerale di inchiesta sul femminicidio chiedono alla presidente della Commissione Martina Semenzato di avere un’audizione urgente con Valditara e la ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, perché soprattutto l’emendamento della Lega, se non venisse modificato, diventerebbe a loro giudizio “un gravissimo ostacolo ai percorsi educativi, che rappresentano il principale strumento di contrasto al fenomeno della violenza contro le donne e ai femminicidi”. Nel dibattito intervengono anche gli Ordini degli psicologi di Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Puglia, Sicilia e Veneto: “Limitare o escludere la possibilità di promuovere nelle scuole, da parte dei professionisti della salute, attività educative su questi temi significa privare bambini e adolescenti di strumenti fondamentali per comprendere e gestire i cambiamenti fisici ed emotivi legati alla crescita”. E con la stessa preoccupazione, la Federazione nazionale delle ostetriche nota come l’educazione sessuale e affettiva rappresenti “un intervento di salute pubblica di efficacia comprovata, un percorso di crescita che mette il rispetto per la persona al centro dello sviluppo evolutivo”. Come è pericoloso il mondo adulto che non vuole parlare di sessualità a scuola di Monica Lanfranco* Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2025 Ragionare insieme di corpi, relazione, rispetto è una questione di buon senso. Oppure vi sta bene che l’altra scuola, quella del porno online, sia il riferimento primario dei ragazzini? Nel 2007 il Financial Times criticò l’utilizzo dell’immagine femminile in tv in voga in Italia da oltre 20 anni, durante l’impero mediatico delle emittenti berlusconiane (e non solo). Il giornalista Adrian Michaels scrisse, nella sua inchiesta, che in Italia era comune “l’uso di vallette seminude in ogni genere di programma televisivo, gli spot pubblicitari dominati da allusioni sessuali, il prevalere della donna come oggetto”. Raccontava così la nostra serata tv-tipo, citando l’ammiraglia Rai Uno: “Se sei a casa prima del telegiornale delle 20.00 su Rai Uno, il principale canale televisivo italiano, scoprirai che il telegiornale è preceduto da un quiz chiamato L’eredità. Nel programma, di tanto in tanto, quattro ragazze ben messe interrompono la gara per ballare. ‘I miei gioielli’, esclama il conduttore. Il balletto non ha relazione con il resto dello spettacolo: Rai Uno spiega, sul suo sito web, che le ragazze, con la loro presenza e con la loro bellezza, tirano su il morale, soprattutto quello degli uomini”. Due anni dopo Lorella Zanardo mise online il documentario Il corpo delle donne, catalogo spietato dell’armamentario sessista della tv italiana. A distanza di 16 anni sono stati creati enti e meccanismi di controllo sulla qualità dell’immagine e della presenza femminile nei media, nella pubblicità e in tv, ma chi si occupa di educazione, comunicazione e formazione dovrebbe sapere che misoginia e stereotipi sessisti sono la dominanza nell’ambito dell’hate speech nei social, luogo privilegiato di relazione e formazione culturale dei giovani, che da oltre due generazioni attingono informazioni, sapere, e quindi anche materiale emotivo, dal web. E dovrebbe sapere anche che quando si vuole ferire, insultare, dileggiare, umiliare una donna le parole che si usano sono, sempre, quelle che investono la sua sessualità. È un dato di fatto: sex e porn sono le parole più digitate dai computer del pianeta, nelle stringhe di qualunque motore di ricerca. Dal punto di vista di chi fa educazione basterebbe questo per prendere atto che di sessualità è urgente, fondamentale, decisivo parlare con le giovani generazioni. Come in modo eloquente spiegano Miguel Picker e Chyng Sun nel loro documentario del 2008 The price of pleasure, inquietante viaggio nel mondo della produzione del porno, due generazioni di bambine e bambini, con l’avvento dell’era digitale, hanno formato il loro immaginario e attinto informazioni sulla sessualità prioritariamente attraverso la pornografia on line. L’età media del primo contatto con il porno online è 7 anni, attraverso il cellulare. Un immaginario per lo più violento e disumanizzante, che mostra il corpo femminile come territorio da predare, umiliare, e che veicola sessualità umana priva di empatia, di curiosità e di contesto relazionale. Balbettiamo, e siamo in imbarazzo, quando ci rendiamo conto che, proprio attraverso il telefono che abbiamo dato loro, i bambini e le bambine possono accedere a immagini e video che non vorremmo vedere nemmeno noi, che siamo persone adulte. Immagini senza gioia e violente, prive di un contesto che dia loro spessore relazionale, che non possono né vogliono dire nulla della complessità emotiva che il sesso può avere tra persone libere e responsabili. Come è possibile che chi sta oggi al governo non si renda conto che è criminale non affrontare il tema della sessualità a scuola, in particolare nella fase dell’adolescenza, visto che senza la presenza adulta i ragazzini e le ragazzine hanno come unica fonte i siti porno? Ragionare insieme, sin dalla più tenera età, di corpi, relazione, rispetto: una questione di buon senso, verrebbe da pensare, perché affrontare il discorso della sessualità nelle varie età della vita, sin dall’asilo, serve a prevenire non solo gravidanze precoci e indesiderate (oltre che malattie sessualmente trasmesse, altro grande problema), ma soprattutto educa alla convivenza pacifica tra le persone e nelle collettività, avendo l’educazione una potente funzione preventiva nei confronti della piaga della violenza maschile sulle donne, che è alla base di tutte le ulteriori violenze nel contesto umano. In un paese civile e responsabile mettere al centro il corpo, le emozioni, le relazioni, il piacere, la scelta di ogni essere umano di costruire una vita il più possibile condivisa, serena e ricca emotivamente dovrebbe essere uno degli obiettivi di maggiore interesse per una collettività che voglia vivere in pace e armonia. Ma, in Italia, a provare a parlare di sessualità a scuola precipiti in un vespaio senza fine. Un appello alle donne e agli uomini responsabili di questo governo, seriamente: a parte alcune frange hooligans del fondamentalismo di ogni religione dovrebbe essere interesse primario di ogni persona adulta che abbia a cuore la salute fisica e psicologica delle nuove generazioni che a scuola si parli di sessualità. Oppure vi sta bene che l’altra scuola, quella del porno online, sia il riferimento primario dei ragazzini? Come quelli del branco che hanno preso parte allo stupro di gruppo di adolescenti di Palermo dell’agosto del 2023, solo per citare uno degli episodi che, per un po’, hanno fatto scalpore? Vorrei ricordare a chi si oppone all’educazione sessuale, affettiva ed emotiva nelle scuole che gli uomini, anche molto giovani, che popolano i gruppi di maschi che scambiano e commentano amenamente le foto delle compagne e mogli saranno, o sono già, padri di quei bambini che cresceranno con questi uomini come riferimento della maschilità, senza avere alternative. Davvero non volete che la scuola sia un luogo di informazione e dibattito che prevenga quell’infame, tremendo, pericoloso spettacolo di misoginia? Se la scuola, che dopo la famiglia è la più importante agenzia educativa del paese, non si assume la responsabilità di aprirsi al tema della sessualità facendo entrare le emozioni, il rispetto, il piacere, il desiderio (non sono quel desiderio, quella gioia che hanno anche contribuito a metterli al mondo, quei figli e figlie?), allora nega alle generazioni future la possibilità di difendersi dai pericoli della pornografia violenta alla quale sono esposti fin dai primi anni, e dagli effetti micidiali che genera nelle relazioni umane tra donne e uomini. *Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere Migranti. Dossier alla Cpi. Ci sono i nomi dei responsabili europei di torture di Flore Murard Yovanovitch Il Manifesto, 18 ottobre 2025 Il documento include un database di oltre 500 funzionari europei che erano in carica durante il periodo esaminato e un elenco di 122 persone sospettate di aver commesso tali crimini. Gli avvocati della Corte penale internazionale Omer Shatz e Juan Branco hanno presentato ieri alla Corte penale internazionale una memoria legale di 700 pagine rivelando tutti gli organi e le agenzie dell’Ue e degli Stati membri coinvolti in crimini contro l’umanità commessi contro i “migranti” in transito lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Il documento include un database di oltre 500 funzionari europei che erano in carica durante il periodo esaminato e un elenco di 122 persone sospettate di aver commesso tali crimini. I risultati si basano su 6 anni di indagini, supportate dalla Capstone International Law in Action del master in Diritti umani e azione umanitaria presso Sciences Po Parigi. Il caso si basa su tre tipi di prove: interviste condotte con 77 alti funzionari europei; accesso esclusivo ai verbali delle riunioni del Consiglio Ue; analisi di numerose relazioni riservate. I più di 25mila richiedenti asilo senza nome annegati negli ultimi dieci anni (2015-2025) e gli oltre 150mila sopravvissuti rapiti e trasferiti con la forza in Libia, dove sono stati detenuti, torturati, violentati e ridotti in schiavitù, potrebbero aver giustizia se la Corte uscisse dal suo silenzio. Dal 2017, il procuratore della Cpi ha riferito al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che lungo questa rotta vengono commessi crimini contro l’umanità ai danni dei “migranti”. Nel 2019, gli avvocati Shatz e Branco hanno presentato un caso davanti alla Cpi, documentando che questi crimini sono stati commessi in conformità con due politiche dell’Ue basate sulla deterrenza, volte a impedire a tutti i costi gli arrivi in Europa: uccisioni di massa per annegamento e una politica di respingimento di massa tramite terzi. Nel 2020, il caso è stato ammesso e assegnato all’indagine sulla Libia. Nel 2023, la missione di accertamento dei fatti del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sulla Libia ha confermato le accuse formulate nel caso della Corte penale internazionale, constatando che funzionari europei stanno partecipando a crimini contro l’umanità nei confronti dei “migranti” sulla rotta del Mediterraneo centrale. Tuttavia, dal 2019 ad oggi, il procuratore della Cpi non ha indagato né perseguito un solo cittadino europeo. Quando la Corte ha emesso il suo primo mandato di arresto nei confronti di un cittadino libico sospettato di crimini contro l’umanità nei confronti dei “migranti”, un governo europeo, quello italiano, ha ostacolato la giustizia rilasciandolo dalla custodia cautelare e riportandolo in Libia, in aperto contrasto con il mandato della Cpi (caso Al-Masri). I legali hanno invitato il Procuratore ad avviare immediatamente un’indagine sui sospetti identificati. Parallelamente, intendono adire il Presidente delle Camere preliminari, chiedendo che una Camera eserciti il controllo giurisdizionale sui sei anni di inazione del Procuratore. Medio Oriente. Smetterete di dire: “Se lo meritavano”? di Amira Hass L’Unità, 18 ottobre 2025 Una grande giornalista israeliana scrive che gli ottimisti sperano che “verrà un giorno”. Un giorno nel quale le nuove generazioni chiederanno conto degli orrori commessi a Gaza. Tra tutti i giornalisti, non solo israeliani, che in questi decenni hanno raccontato la tragedia palestinese, Amira Hass, storica firma di Haaretz, conosciuta e apprezzata a livello internazionale, è la più coraggiosa, capace. La più brava. Amira Hass la vita dei palestinesi non l’ha solo raccontata in centinaia di reportage, e in libri, che hanno fatto il giro del mondo e che le sono valsi, più che meritatamente, premi e riconoscimenti internazionali; quella vita Amira l’ha vissuta in prima persona, quando ha deciso di trasferirsi per un lungo periodo in Cisgiordania, attirandosi, anche per questo, l’odio, condito da minacce di morte, da parte della destra messianica e dei coloni pogromisti. La sua opinione nasce da una conoscenza pluridecennale della realtà palestinese e di quella israeliana. Che la porta a scrivere su Haaretz un pezzo del quale riportiamo ampi stralci. Scrive Hass: “Gli ottimisti dicono che, alla fine, gli israeliani comprenderanno la portata delle atrocità che hanno commesso nella Striscia di Gaza. La verità penetrerà nella loro coscienza. I vecchi video dei bambini fatti a pezzi dalle nostre bombe a un certo punto raggiungeranno il cuore degli israeliani e li trafiggeranno. Improvvisamente vedranno bambini ricoperti dalla polvere del cemento frantumato sotto cui sono stati salvati, che tremano incontrollabilmente e fissano il vuoto con un’espressione che è un grande punto interrogativo. A un certo punto, dicono gli ottimisti, gli israeliani smetteranno di dire: ‘Se lo meritavano, a causa del 7 ottobre. Hanno attaccato loro’. I numeri smetteranno di essere astrazioni di ‘Chi crede a Hamas’. I lettori capiranno che più di 20.000 bambini sono stati uccisi - un terzo di tutti i morti - per mano nostra. Più di 44.000 bambini sono stati feriti - un quarto di tutti i feriti. Si renderanno conto di aver favorito e sostenuto una guerra di annientamento contro un popolo e di non aver sconfitto una feroce organizzazione armata”. “Ad un certo punto - prosegue Amira Hass - si renderanno conto che la ferocia individuale della vendetta dimostrata da così tanti soldati - spesso accompagnata da scoppi di risate e sorrisi che hanno invaso TikTok - e la fredda, chirurgica e anonima ferocia letale di coloro che giocano ai videogiochi dalle cabine di pilotaggio e dalle sale di controllo - non sono un segno di eroismo, ma una grave malattia. Sociale e personale. I genitori, credono gli ottimisti, non riusciranno a dormire la notte, preoccupati che le X sui fucili dei loro figli segnino donne, anziani e semplici giovani che raccolgono erbe per nutrirsi. Verrà il giorno in cui gli adolescenti chiederanno ai loro padri, che allora erano soldati, se anche loro hanno obbedito all’ordine di sparare a un anziano che aveva oltrepassato una linea rossa sconosciuta. Le figlie dei piloti decorati chiederanno se hanno sganciato una bomba proporzionata che ha ucciso un centinaio di civili per colpire un comandante di medio livello di Hamas. Perché non ti sei rifiutato? singhiozzerà la figlia. I nipoti di una guardia carceraria in pensione chiederanno: hai picchiato personalmente un detenuto ammanettato fino a farlo svenire? Hai obbedito all’ordine di un ministro e negato ai prigionieri cibo e docce? Hai stipato 30 detenuti in una cella destinata a sei? Dove hanno contratto le malattie della pelle? Conoscevi qualcuno delle decine di detenuti morti in una prigione israeliana per fame o per percosse e torture? Come hai potuto, nonno? I nipoti dei giudici della Corte Suprema leggeranno le loro sentenze che hanno permesso tutto questo e smetteranno di andare a trovarli durante lo Shabbat. A un certo punto, credono gli ottimisti, l’oscuramento della realtà da parte dei media israeliani smetterà di fare il lavaggio del cervello e di intorpidire i cuori. L’espressione ‘il contesto’ non sarà più considerata una parolaccia e il pubblico collegherà i puntini: oppressione, espulsione, umiliazione, deportazione, occupazione e tutte le sofferenze che stanno in mezzo. Non sono slogan coniati da ebrei che odiano se stessi, ma descrivono la vita di un intero popolo, per anni, sotto i nostri ordini e le nostre armi”. Scrive Amira Hass: “Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente trattata dai nostri media, articoli e primi piani. Si è sviluppata in risposta e in resistenza al nostro dominio straniero e ostile. La nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata con l’obiettivo di proteggere il nostro bottino: la terra, l’acqua e le libertà da cui abbiamo espulso i palestinesi. Nigeria. 175 graziati in un solo giorno per ricucire le ferite del passato di Sergio D’Elia L’Unità, 18 ottobre 2025 La mossa del presidente Bola Ahmed Tinubu pareggia i piatti della bilancia. E non solo per il presente. In una mossa senza precedenti il Presidente della Nigeria, Bola Ahmed Tinubu, ha graziato 175 persone. Assecondando una legge fondamentale della fisica, in un solo atto, la freccia del tempo è scattata sia in avanti che all’indietro: passato, presente e futuro sono stati colti di sorpresa in un momento di amore per la vita oltre la morte. La grazia ha fatto i conti con la storia della nazione, ha onorato la memoria delle vittime dell’ingiustizia passata, ha riconosciuto l’innocenza rinata nell’uomo della pena cancellando la colpa di quello del delitto, ha seminato la speranza tra i condannati alla pena di morte, a vita e fino alla morte. Ha salvato uomini e donne di ogni genere, di ogni età e ogni ceto sociale, di ogni origine e pensiero politico. Minatori illegali e colletti bianchi, piccoli consumatori e spacciatori di droga, militari e pacifisti, tutti uniti in un unico destino di giustizia riparativa. Una riparazione degli errori del passato per alcuni, un riparo per altri dal pericolo del carcere e financo dalla morte. Con le grazie postume concesse, il Presidente ha pareggiato i piatti della bilancia, corretto le più gravi ingiustizie della storia del paese e promosso la guarigione nazionale. Sir Herbert Macaulay, un’icona della lotta per l’indipendenza della Nigeria, era stato condannato nel 1913 dai coloni inglesi per fatti che molti storici considerano inesistenti. Fu interdetto dai pubblici uffici e portò con sé lo stigma della condanna fino alla sua morte nel 1946. Con il gesto di Tinubu, decenni dopo, la sua fedina penale è tornata immacolata. Il Maggiore Generale Mamman Vatsa, poeta ed ex Ministro del Territorio della Capitale Federale sotto il regime di Babangida, fu fucilato il 5 marzo 1986, dopo che un tribunale militare segreto lo aveva dichiarato colpevole di un tentato colpo di stato. Il caso attendeva da tempo un processo di revisione che la grazia presidenziale di fatto ha concluso con la sua piena riabilitazione. Con un’importante mossa simbolica, il Presidente ha approvato la grazia postuma anche per i “Nove Ogoni”, gli attivisti ambientali e politici guidati dallo scrittore Ken Saro-Wiwa, impiccati dalla giunta militare del generale Abacha il 31 ottobre del 1995. La loro esecuzione, avvenuta dopo appena dieci giorni la fine di un processo segreto, è stata il culmine di una brutale repressione delle proteste pacifiche contro l’inquinamento causato dalle attività petrolifere della Shell nel loro territorio, l’Ogoniland. Erano accusati dell’omicidio di quattro capi tradizionali Ogoni che si opponevano al movimento. Insieme alla grazia per i “Nove Ogoni”, il Presidente Tinubu ha conferito onorificenze nazionali ai “Quattro Ogoni”, un gesto di riconciliazione postuma tra i membri della comunità e di riconoscimento anche dei loro sacrifici. La clemenza forse più significativa è quella concessa a decine di detenuti ignoti. Aluagwu Lawrence, 47 anni, era stato condannato per spaccio di canapa indiana. Ben Friday, 60 anni, per possesso di marijuana. Adesanya Olufemi Paul, 61 anni, per furto. Daniel Bodunwa, 43 anni, per aver falsificato una ricevuta di acquisto di terreni. Nwogu Peters, 67 anni, per frode. Chinedu Stanley, 34 anni, per contraffazione di olio lubrificante. John Omotiye, 28 anni, per atti di vandalismo. Sono stati graziati anche 41 condannati per attività minerarie illegali. Il senatore Ikra Aliyu Bilbis aveva firmato un impegno a farsi carico della loro riabilitazione e reinserimento nella società. In totale, il Presidente ha concesso la clemenza a 82 detenuti e ha ridotto le pene detentive di altri 65. Ha considerato la loro lunga detenzione con buona condotta, la loro età avanzata o la loro giovinezza, ha manifestato misericordia per la loro malattia terminale, ha apprezzato col perdono il loro impegno nella formazione professionale e la frequenza alla National Open University of Nigeria. Inoltre, la pena di sette detenuti nel braccio della morte è stata commutata in ergastolo. Un’altra condannata a morte, Maryam Sanda, 37 anni, è stata invece pienamente graziata, dopo aver trascorso in carcere sei anni e otto mesi per omicidio colposo. Per la sua buona condotta, il suo rimorso e un nuovo stile di vita, era diventata una detenuta modello. La sua famiglia ha implorato il suo rilascio, anche nel migliore interesse dei suoi due figli. È una goccia nel mare se si considera che in Nigeria ci sono ancora quasi 80.000 detenuti nelle carceri e oltre 3.500 persone nel braccio della morte, uno dei più sovraffollati al mondo. Resta, però, il grande valore morale e politico del gesto del Presidente Tinubu. Un atto che mira a sanare vecchie ferite, riabilitare e riconciliare. Un esempio che indica una via, non solo alla Nigeria, ma anche all’Africa e al mondo intero. Quella della giustizia temperata dalla compassione, della verità unita alla riconciliazione.