La democrazia nelle mani della Consulta di Franco Corleone L’Espresso, 17 ottobre 2025 L’iter sul decreto Sicurezza e il conflitto di attribuzione rappresentano uno spartiacque. Il decreto legge Sicurezza rappresenta uno spartiacque per il funzionamento del Parlamento e l’esistenza della democrazia per le caratteristiche liberticide presenti nei 38 articoli con quattordici nuove fattispecie di reato e numerosi aggravamenti delle pene per i reati previsti. Per questo gli ex presidenti della Corte Costituzionale e oltre 257 giuristi lanciarono vanamente un appello per fermare una deriva inconcepibile. Tutto questo fa parte della nuova Costituzione materiale: decreti legge esaminati solo da un ramo del Parlamento e uno o due voti di fiducia. La novità assoluta in questo caso è rappresentata dalla sospensione dell’esame del disegno di legge con gli stessi contenuti, approvato dalla Camera dei deputati e all’ordine del giorno del Senato nella seduta del 15 aprile. Inopinatamente il Consiglio dei ministri del 4 aprile 2025 delibera per la decisione a favore del decreto legge che viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’11 aprile con il numero 48. È evidente che non esistevano le ragioni di necessità e urgenza richieste dall’art. 77 della Costituzione, tanto più che il Senato avrebbe approvato immediatamente il disegno di legge, ben prima del completamento dell’iter della conversione del decreto. Molti si sono interrogati sui motivi di questa scelta (tralasciando le ridicole dichiarazioni del ministro Piantedosi sulla lentezza del Parlamento), dalla necessità di propaganda per il congresso della Lega alle incertezze sul voto di alcuni emendamenti dovute a contrasti interni alla maggioranza. Sono invece convinto che la ragione di questa forzatura avesse un carattere di vera svolta autoritaria, cioè nel voler dimostrare che il governo può fare tutto, rendendo evidente la cancellazione del Parlamento. Un messaggio di violenza istituzionale a cui ha risposto solo Riccardo Magi, segretario di +Europa, sollevando un conflitto di attribuzione contro il governo davanti alla Corte costituzionale per la lesione delle prerogative del Parlamento. Ora la Corte è investita di una questione delicatissima e il 20 ottobre sarà decisa l’ammissibilità del ricorso. Avrebbero dovuto porre la questione i presidenti di Camera e Senato, ma la loro latitanza è un altro segno del degrado delle istituzioni. È comunque assodato che il conflitto possa essere sollevato da un singolo parlamentare quando abbia subito un’evidente menomazione delle sue attribuzioni, e nel caso in cui la lesione venga da un potere esterno al Parlamento. Siamo di fronte a un colpo di mano (o di Stato?) del governo e l’equilibrio dei poteri può essere ripristinato solo dalla Consulta. Il costituzionalista Michele Ainis ha stigmatizzato che si trasformi in delitto la resistenza nonviolenta, che si inventino nuovi tipi di omicidio e si aggiunga poi il femminicidio, “una ennesima affermazione del diritto penale simbolico”, come ha denunciato l’Unione delle Camere penali. Per non parlare della legge che trasforma la maternità surrogata in un reato “universale”. Se la Corte deciderà per l’ammissibilità del conflitto di attribuzione, sarà un passo importante per affermare la dignità del Parlamento, per giungere alla cancellazione della delibera del Consiglio dei ministri e quindi del decreto. Siamo di fronte a una partita decisiva per l’affermazione dello stato di diritto. Occorre manifestare solidarietà alla Corte Costituzionale perché non subisca pressioni o ricatti. Decreto sicurezza e “scippo” del disegno di legge al Parlamento di Andrea Pugiotto sistemapenale.it, 17 ottobre 2025 Alla Consulta il conflitto di attribuzioni sollevato dall’On. Magi. Le ragioni di una difficile ammissibilità. Lunedi 20 ottobre la Corte costituzionale prenderà in esame il controverso decreto-legge “sicurezza” (n. 48 del 2025). Ad essere oggetto d’impugnazione non è una sua qualche disposizione, ma l’intero atto normativo. E non per i suoi contenuti di più che dubbia costituzionalità, bensì perchè la procedura seguita nel deliberarlo ha interferito in un procedimento legislativo in corso: il Governo - come si ricorderà - travasò nel suo decreto un disegno di legge già approvato alla Camera e in dirittura d’arrivo al Senato, espropriandolo al Parlamento. Il ricorso che ora chiama in causa la Consulta non è promosso da un giudice durante un processo, nato da uno dei tanti reati di nuovo conio così introdotti. Proviene, invece, da un singolo deputato (l’on. Magi) che lamenta, nell’iter descritto, il sostanziale svuotamento della funzione parlamentare e l’evidente lesione delle proprie prerogative costituzionalmente riconosciute. Tecnicamente, si tratta di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. La Corte costituzionale, dunque, non misurerà direttamente la costituzionalità della normativa introdotta dal decreto “sicurezza”. Dovrà, semmai, giudicare se le modalità attraverso le quali il Governo ha agìto abbiano illegittimamente vanificato le attribuzioni che la Costituzione assegna ad ogni parlamentare. In gioco c’è - come chiede il ricorso - l’annullamento del decreto-legge, assunto in assenza dei necessari requisiti di straordinarietà, necessità e urgenza: deliberandolo, il Governo avrebbe “leso gravemente le prerogative delle Camere e, insieme, dei singoli parlamentari”. 2. Il solo modo per non sbagliare previsioni è non farle. Correrò il rischio, affermando che difficilmente il conflitto in esame sarà dichiarato ammissibile e affrontato nel merito. Al tempo stesso, è altrettanto facile predire che tale esito sarà strumentalizzato dal Governo e dalla sua maggioranza, a smentita dei tanti (oltre 250 costituzionalisti, l’Associazione Italiana dei professori di diritto penale, l’UCPI, l’ANM) che, di quel decreto-legge, hanno denunciato i gravissimi profili di incostituzionalità e l’impostazione autoritaria e illiberale, in alcune norme addirittura più feroce del codice Rocco. Sullo sfondo, incombente, resta il problema di come rimediare e, prima ancora, prevenire l’abuso nel ricorso alla decretazione d’urgenza. Tanto più se adoperata - come in questo caso - per moltiplicare i reati, inasprire le pene e aggravare la detenzione. 3. Sgombriamo il tavolo da un falso problema: ogni deputato o senatore può sollevare un conflitto tra poteri, se e quando sia in gioco una sfera di prerogative che, per Costituzione, spettano al singolo parlamentare: in ordine - ad esempio - all’esercizio del libero mandato (art. 67), al potere di iniziativa legislativa (art. 71, comma 1), alla partecipazione alle discussioni e alle deliberazioni, comprensiva del potere di proporre emendamenti (art. 72). È quanto la Consulta ha riconosciuto espressamente con ord. n. 17/2019, più volte confermata. Che, poi, nessun ricorso del genere abbia fatto breccia non smentisce l’assunto: la relativa inammissibilità, infatti, è sempre derivata da come il conflitto si atteggiava in concreto. In tutti i casi finora portati alla sua attenzione, infatti, la Corte costituzionale non ha mai rilevato una lesione diretta e specifica delle attribuzioni del parlamentare ricorrente. Sul punto, il suo è sempre stato un preliminare scrutinio a maglie strette, per evitare un duplice pericolo: l’eccessiva politicizzazione del contenzioso costituzionale e - specularmente - l’eccessivo interventismo della propria giurisdizione nella dialettica politico-parlamentare. Evenienze che non fanno bene né all’indipendenza della Consulta né all’autonomia della politica. 4. Il caso ora in esame, come già in passato, riguarda la dinamica del procedimento legislativo. Ma, diversamente dai precedenti (nati da situazioni conflittuali interne all’Assemblea), questa volta “l’attacco alle prerogative dei singoli parlamentari viene da un potere esterno al Parlamento (cioè dall’Esecutivo)”. Tanto basterà per essere affrontato nel merito? C’è da dubitarne. Il ricorso ha certamente ragione laddove motiva, in riferimento al decreto “sicurezza”, “la totale mancanza originaria dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza” che, soli, giustificano un decreto-legge governativo. Ha parimenti ragione nel denunciare l’amputazione arbitraria di “un dibattito [parlamentare] che era in corso da un anno e mezzo”. È vero: si è così consumata “una deroga alla divisione dei poteri” costituzionalmente ingiustificata, tramite la quale il Governo ha mortificato la funzione legislativa del Parlamento. Ma proprio qui è la pietra su cui inciampa il ricorso: la funzione legislativa, infatti, “è esercitata collettivamente dalle due camere” (art. 70 Cost.), non dal singolo parlamentare, le cui attribuzioni sono state vanificate solo di riflesso. Dunque, titolati a sollevare il conflitto contro il decreto-legge del Governo erano la Camera e/o il Senato. Hanno deciso altrimenti, ma ciò non legittima una concorrente iniziativa individuale di un loro membro (in tal senso, cfr. le precedenti ordinanze nn. 129/2020, 66 e 67/2021). Tanto più che, nel caso in esame, a ricorrere alla Consulta è un deputato. Il decreto “sicurezza”, infatti, ha interrotto il dibattito in corso al Senato su un disegno di legge il cui esame, alla Camera, si era già regolarmente svolto e concluso. Se lesioni alla funzione di parlamentare ci sono state, è a danno dei membri di Palazzo Madama, non di Montecitorio. 5. C’è una seconda pietra d’inciampo. Dal tenore delle relative doglianze è chiaro che il ricorrente, censurando la delibera assunta dal Consiglio dei ministri, mira in realtà a colpire il conseguente decreto-legge perché privo dei necessari presupposti di cui all’art. 77 Cost. Intendiamoci: sul punto, le censure sono solide e la finalità perseguita è più che condivisibile. Ma il fine non giustifica il mezzo adoperato. Il conflitto non può mascherare una quaestio: può sì avere ad oggetto un atto legislativo, purchè ne dimostri l’invasione o la lesione di attribuzioni costituzionali del potere ricorrente. Diversamente, se ne farebbe un uso distorto, dunque inammissibile. È ciò che traspare dalla formulazione del ricorso in esame. Il suo dispositivo finale non riassume le norme costituzionali a tutela del parlamentare, asseritamente violate. Chiede, invece, alla Consulta di annullare il decreto-legge n. 48 del 2025 “nella sua interezza o - in subordine - nelle parti che essa riterrà prive del requisito originario della straordinaria necessità e urgenza”. 6. Non vorrei essere frainteso. L’abuso a danno del Parlamento c’è stato. Camera e Senato, però, non hanno reagito. Anzi: senza colpo ferire, hanno convertito in legge (n. 80 del 2025) il decreto “sicurezza”, per di più senza modificare alcuna delle sue molte norme incostituzionali. Né il Quirinale ha inteso rilevare vizi di sorta, formali o sostanziali, nell’esercizio della decretazione d’urgenza. Eppure - come insegna la giurisprudenza costituzionale - la carenza dei requisiti di straordinarietà, necessità e urgenza rende invalido il decreto-legge e la relativa legge di conversione. Una carenza che, nel decreto “sicurezza”, assume caratteri di assoluta evidenza. All’on. Magi va riconosciuto il merito di reagire a questa generalizzata acquiescenza: c’è almeno un deputato che rifiuta di intendere il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo come sudditanza e subordinazione del primo alla volontà del secondo, spinte fino all’umiliazione delle camere e del loro ruolo. Se la sua iniziativa non avrà successo, tutti i vizi formali e sostanziali del decreto ora convertito in legge rimarranno impregiudicati. Toccherà ai giudici, in sede di applicazione delle sue norme, proporli alla Consulta: sarà allora che, finalmente, si deciderà il destino di una normativa tra le più repressive che la Repubblica abbia mai conosciuto. Giustizia in Aula a ottobre. Verso referendum a marzo di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2025 Separazione delle carriere. Con l’ok del Senato il 28 ottobre è possibile staccare il voto dalle comunali: l’obiettivo è depoliticizzare la riforma e attrarre l’opinione pubblica moderata. Celebrare il referendum confermativo sulla separazione delle carriere il prima possibile, già a marzo, senza attendere la possibile electron day di giugno conle comunali. L’ipotesi è caldeggiata soprattutto da Forza Italia (“prima è meglio è”, dice il capogruppo in Senato Maurizio Gasparri) e comincia ad essere sempre più concreta anche a Palazzo Chigi. Due i vantaggi: separando il voto sulla riforma da quello amministrativo si prova a depoliticizzare il referendum costituzionale con l’obiettivo di intercettare più facilmente il favore dell’opinione pubblica moderata anche fuori dal centrodestra; inoltre si evita l’effetto trascinamento nei centri urbani, dove tradizionalmente il centrosinistra è più forte. Non andranno al voto le città più grandi ma sono molti i comuni capoluogo superiori ai 100mila abitanti interessati: Venezia, Reggio Calabria, Bolzano, Andria, Arezzo, Matera, Crotone, Agrigento, Trani, Chieti, Lecco, Mantova, Macerata, Nuoro, Aosta, Enna. Da qui la decisione del governo di arrivare al sì definitivo del Parlamento (manca solo la seconda lettura del Senato) già a fine ottobre, il 28. In questo modo la prima data possibile per celebrare il referendum confermativo, che a differenza di quello abrogativo è senza quorum, è fine marzo o più probabilmente inizio aprile. Come spiega Peppino Calderisi, esperto della materia referendaria: “Devono passare tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale a scopo notiziale, e si arriva al 28 gennaio. Poi c’è il controllo delle firme da parte della Cassazione: in caso di richiesta da parte di 500mila elettori servono 20/30 giorni, se invece la richiesta viene solo dai parlamentari ne bastano 10. Infine si arriva all’indizione, da 1 a 60 giorni, con data di svolgimento compresa trai 50 e i 70 giorni successivi”. Nulla vieta, in ogni caso, di celebrare il referendum più avanti anche se la riforma viene approvata a fine ottobre: basta infatti approvare, anche con decreto, le disposizioni per l’accorpamento con le amministrative. Insomma, le strade sono ancora entrambe aperte, ma la bilancia pende decisamente verso marzo/aprile. D’altra parte, come fa notare il direttore dell’Istituto Cattaneo Salvatore Vassallo, l’orientamento dell’opinione pubblica è molto cambiato dai tempi di Tangentopoli e del successivo “Resistere, resistere, resistere come su un’irrinunciabile linea del Piave” pronunciato da Francesco Saverio Borrelli nel 2002. “Può darsi che, con la decisione di staccare il referendum dalle amministrative, il centrodestra punti sul fatto che a mobilitarsi saranno stavolta in maggior parte i favorevoli alla riforma”. I sondaggi sembrano in effetti dare ragione ai pro riforma. E a parte l’avvocatura, già sul piede di guerra (è di ieri la denuncia dell’Unione delle Camere penali contro il sindacato delle toghe, l’Anm, per la scelta “inammissibile” di presentare il Comitato per il No all’interno del Palazzo di Giustizia di Napoli), anche le opposizioni sono divise o quantomeno perplesse. In favore del Ddl Nordio ha votato Carlo Calenda con la sua Azione mentre Matteo Renzi con la sua Italia Viva si è astenuto. E voci in favore della riforma si sono levate anche all’interno del Pd, dove il tema della separazione delle carriere è da tempo presente, tanto da comparire nella mozione di Maurizio Martina al congresso del 2o1.9 poi vinto da Nicola Zingaretti: non solo gli eredi del migliorismo di Libertà Eguale - da Enrico Morando a Stefano Ceccanti, da Giorgio Tonini a Claudia Mancina - che si sono di fatto schierati per il Sì, ma anche personalità provenienti dalla sinistra del partito come Goffredo Bettini. Insomma, il tema non è propriamente di quelli in grado di trasformare l’opposizione trainata dal Pd in una falange. Esattamente come accaduto con il referendum (fallito) contro il renziano Jobs act. La separazione delle carriere non basta. Nordio: “Ora la riforma sulla prescrizione” di Conchita Sannino La Repubblica, 17 ottobre 2025 Forza Italia in pressing sul Guardasigilli che promette “una revisione totale” delle norme. La maggioranza rilancia il testo di due anni fa già approvato alla Camera. E se la riforma sulla generosa prescrizione targata FI fosse la ciliegina che manca alla torta? L’appetito del centrodestra, è il caso di dire, non si placa sul versante giustizia. E mentre il Senato si prepara a varare con l’ultimo sì, a fine ottobre, il ddl di revisione costituzionale sulla separazione delle carriere tra pm e giudici (che poi dovrà essere sottoposto al referendum confermativo), dalla Camera ieri si rilancia con un’altra crociata che viene da un vecchio sogno berlusconiano, che era stato momentaneamente tenuto nel cassetto, dopo la prima approvazione a Montecitorio, avvenuta quasi due anni fa. Il nuovo obiettivo riemerge dal question time, ieri in aula. Il pressing è di Pietro Pittalis, deputato di FI e vicepresidente della commissione Giustizia, già primo firmatario della riforma, con relatore Enrico Costa (che dopo la parentesi in Azione è tornato tra le braccia, non tanto morbide, dei vecchi colleghi di partito). La promessa è del ministro Nordio che, di fronte alla sollecitazione del parlamentare e avvocato sardo, “di far approvare il provvedimento in tempi rapidi anche nell’altro ramo del Parlamento”, traccia una rotta: “Dobbiamo riprendere il percorso riformatore già avviato. ll nostro intento è quello di procedere a una revisione totale dell’istituto della prescrizione”, chiarisce il ministro della Giustizia. Che scende nel dettaglio: “Vogliamo riportare la forma della prescrizione alla sua originaria natura di estinzione sostanziale del reato e non dell’azione penale”. Insomma, “dal campo procedurale a quello sostanziale”. Applaudono dai banchi della maggioranza, il deputato sardo si compiace perché “la prescrizione è un caposaldo del nostro programma elettorale”, è ciò che garantisce sì “efficienza della macchina giudiziaria” ma soprattutto tutela “i diritti degli imputati che non possono restare in eterno in balìa delle pretesa punitiva dello Stato”. Quella portata avanti dal centrodestra è la quarta riforma sul tema, in sette anni. E stringendo i tempi della procedibilità, non fa eccezione per reati gravi come revenge porn o tortura. Oggi, in che tempi si prescrive un reato? Assodato che questi vanno calcolati in relazione al massimo della pena fissato dal codice, per le contravvenzioni il termine minimo è di quattro anni, per i delitti si passa a sei, che si possono raddoppiare di fronte a condotte particolarmente gravi (vedi la violenza sessuale, il femminicidio), e che non valgono mai per i reati puniti con l’ergastolo. La riforma si avvicina al modello Orlando: il tempo di estinzione del reato viene congelato per un periodo non superiore a due anni, in primo grado, e non superiore a un anno, per il secondo grado. Strada tutta in discesa, dunque? Non del tutto: perché in FI sono i primi a sapere che la maggioranza on è compatta su questo punto, “abbiamo varie sensibilità”, ma soprattutto Meloni ha già messo in guardia dal rischio di aprire troppi fuochi interni alla magistratura, con un effetto “boomerang” che potrebbe compattare le toghe-vittime e compromettere il risultato del referendum. D’altro canto, FI promette di tornare all’attacco: “Ringrazio il ministro per questa stagione di riforme autenticamente liberali e garantiste”. Ora o mai più, avverte il sottotesto. Chissà che non si arrivi anche alla responsabilità civile dei magistrati, un altro vecchio pallino di Pittalis e compagni. Femminicidi, punire di più serve a fermare la violenza? di Valentina Stella Il Dubbio, 17 ottobre 2025 Dopo la morte di Pamela Genini per mano del compagno si riaccende il dibattito sull’efficacia della risposta penale. La morte di Pamela Genini per mano del compagno che voleva lasciare, Gianluca Soncin, ci porta a chiedere: a questo punto davvero leggi più repressive servono a deflazionare certi atti criminosi? Lo abbiamo chiesto ad una politica, ad una magistrata, ad una avvocata e ad una accademica. Per la senatrice di Fratelli d’Italia, Susanna Donatella Campione, “leggi più severe non servono a prevenire il fenomeno ma hanno la funzione di conferire alla condotta violenta un particolare disvalore sociale. Siamo consapevoli che l’ultimo problema dell’uomo violento sia la sanzione nella quale incorre e tuttavia non si può rinunciare a punire severamente tali condotte”. Per la parlamentare, infine, “altro piano è quello della prevenzione che nella legislazione che abbiamo introdotto ha un ruolo primario sebbene richieda tempi lunghi per dare risultati. Certamente la denuncia tempestiva è lo strumento principe per impedire che i comportamenti violenti si aggravino fino all’esito letale”. Secondo Rachele Monfredi, presidente della commissione Pari opportunità dell’Anm, “neppure una risposta sanzionatoria che sia al contempo certa e severa servirà a contenere il fenomeno, senza un massiccio sforzo sul piano culturale e politico che vada alla radice del problema”. Per Monfredi, “la violenza di genere affonda le sue radici nell’atavica disparità che caratterizza i rapporti di forza tra uomini e donne, ancora caratterizzati (nonostante le tante conquiste) dalla logica del dominio e della sopraffazione, invece che da quella del rispetto e della parità”. “È la stessa logica - conclude la magistrata di Magistratura democratica - che sta alla base dello sfruttamento della potenza generatrice della terra e va ribaltata, attraverso un incessante e capillare lavoro di sensibilizzazione educativa nelle diverse articolazioni della società (nessuna esclusa) e attraverso interventi normativi che incidano concretamente sul piano sociale, sostenendo le donne in difficoltà ed aiutandole ad affrancarsi dalla propria condizione di soggezione non solo dopo le denunce, ma molto prima”. “Come è noto - ci ricorda invece Giulia Boccassi, vice presidente Unione Camere penali - la Convenzione di Istanbul è la pietra miliare in tema di contrasto alla violenza di genere e in essa vengono individuate le famose 4 P come obiettivi per sconfiggere questo gravissimo fenomeno che affligge la nostra società. La P di prevenzione, la P di protezione e la P di punizione e la P di politiche integrate per un percorso di autonomia delle donne”. Il ddl sul femminicidio dovrebbe dunque inserirsi “in questo piano di attuazione delle linee guida dettate dalla Convenzione di Istanbul, anche se in verità si concentra prevalentemente sulla P di punizione, trascurando le altre. Cedere infatti all’idea di un sistema penale legato ad una legislazione inutilmente ed eccessivamente punitiva - conclude la penalista - non produce alcun efficace risultato in termini di contrasto e di deterrenza alla violenza di genere che vede le donne vittime per elezione. È infatti un dato di realtà che il processo penale e le sue pene non funzionano mai come deterrente, nemmeno rispetto ai reati più gravi. Scommettere sulla punizione piuttosto che sulla prevenzione e sulla protezione ha certamente un valore propagandistico e di bandiera, efficace sul piano mediatico, ma totalmente fallimentare sul piano pratico”. Infine il commento di Antonella Marandola, ordinario di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi del Sannio: “Negli anni, il legislatore ha fornito, sempre più, alle forze dell’ordine e all’autorità gli strumenti per fare fronte a tali comportamenti e condotte illecite e la stessa magistratura si è dimostrata capace di fronteggiare quello che non è più un fenomeno emergenziale, ma una grave piaga endemica del nostro Paese”. Come ci ricordano, in ogni occasione, “la Cedu e la stessa Corte costituzionale, è infatti compito del legislatore, prima, e delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria, poi, assolvere a tale impegno ogniqualvolta la vittima si sia rivolta ad esse. Ecco il nodo della questione: purtroppo nel caso di Milano non risultano denunce e, molto spesso si ritiene che la legge non abbia funzionato quando, in verità, non è mai stata presentata una denuncia. Del pari, la questione non è quella legata alla capacità repressiva o meno della nostra legislazione a “contenere” tali reati”. Per la professoressa “la nostra disciplina in materia è indubbiamente una delle più complete (attivazione immediata delle indagini, misure di prevenzione, misure cautelari, attività trattamentali per l’autore del fatto, informazioni alla persona offesa, gratuito patrocinio indipendentemente dal reddito della vittima), ma quello penal-processuale rappresenta solo uno dei tanti tasselli, purtroppo, l’ultimo di un fenomeno complesso su quale occorrerebbe investire di più portando a conoscenza delle donne i tanti strumenti che la legge gli fornisce e dall’altro, oltre allo studio del fenomeno sociale della violenza di genere, occorre un intervento strutturale per una formazione culturale e sociale che consenta di radicare nella nostra società il valore della persona in quanto tale, delle sua libertà e dei suoi diritti”. Ma la famiglia conta più della legge di Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 17 ottobre 2025 Quasi ogni giorno, aprendo il giornale, ci si trova di fronte all’omicidio di una donna. La situazione, anziché migliorare, sembra peggiorare. Già una legge del 2023 che rafforzava le misure contro la violenza sulle donne non ha portato a risultati apprezzabili. Attualmente è all’esame del Parlamento un disegno di legge che introduce nel nostro codice penale il reato specifico di femminicidio e lo punisce con l’ergastolo. C’è da sperare che funzioni, ma visto il precedente non è detto. Chi arriva ad uccidere un essere umano è difficile che si lasci fermare dal rischio di ricevere una sanzione pur grave: l’irrazionalità, la follia e le spinte emotive prevalgono troppe volte sulla ragionevolezza e sui freni inibitori. Questo vale a maggior ragione se si tratta di femminicidio, perché qui entrano in gioco vecchi e assurdi retaggi culturali sul ruolo e sulla natura della donna, che possono lasciare spazio alla degenerazione di passioni e pulsioni particolari nei suoi confronti. Quando si parla di un uomo si dice: “È bravo”. Quando si parla di una donna si dice: “È bella”. Già questo è indice di una posizione radicalmente sbagliata, perché dimostra una precisa sottovalutazione della donna: come se questa, cioè, meritasse di essere considerata solo per le sue doti estetiche, e avesse per sua natura capacità intellettuali inferiori a quelle dell’uomo. Inoltre, finché un uomo continuerà a dire con tono di supremazia: “Questa donna è mia” non ne usciremo mai. È vero che - come ha scritto ieri Fabrizia Giuliani - noi ci portiamo dietro vecchi schemi del Novecento, e anzi ben più vecchi. Ma il tempo passa. Il cambiamento di mentalità non può certo essere veloce come quello tecnologico, ma anch’esso deve avvenire. E dopo tanto tempo è assurdo che non si riesca a scostarsi dai vecchi schemi e dai relativi pregiudizi. Il femminicidio trova le sue radici profonde in una mentalità frutto di carenze educative e culturali. Ma allora la colpa è anche nostra, perché spesso non diamo ai nostri figli, fin dall’inizio, le corrette coordinate per quello che deve essere un comportamento morale, etico e addirittura “naturale” verso ogni essere umano, uomo o donna che sia. Se tralasciamo questo insegnamento non possiamo poi dare alla società la colpa di ciò che avviene e, soprattutto, non possiamo pretendere che il potere politico risolva il problema a forza di leggi penali. Se questo è vero, bisogna dunque partire da quando la mentalità si forma, e cioè dalla scuola e soprattutto dalla famiglia. Gli insegnanti devono approfittare di ogni occasione, facendo anche il confronto con i costumi di tempi passati, per instillare nei bambini il concetto di rispetto e di assoluta parità fra tutte le persone. E, quanto alla famiglia, il bambino che vede il padre trattare la madre dall’alto, con degnazione o persino con disprezzo, e magari anche con violenza verbale o addirittura fisica, crescerà per forza con la testa storta. Mentre il bambino che si rende conto che la famiglia non è una monarchia, ma una diarchia in cui entrambi i genitori hanno lo stesso ruolo e si riservano reciprocamente lo stesso rispetto, troverà un modello di comportamento. Crescerà naturalmente con una mentalità imperniata su un corretto rapporto fra padre e madre e quindi fra uomo e donna. E da grande tenderà ad agire di conseguenza in ogni occasione che la vita gli presenterà. “Riforma Cartabia da abolire: il nostro appello ai politici” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 ottobre 2025 Superato il Pnrr, torni “il vero processo, sia nel civile sia nel penale”, dice il presidente del Cnf Francesco Greco. Il XXXVI Congresso nazionale forense di Torino si è aperto ieri con un minuto di silenzio dedicato ai tre carabinieri morti nell’esplosione del casolare di Castel d’Azzano, in provincia di Verona. Un momento toccante che ha suscitato la commozione dei circa 2.500 rappresentanti dei Coa riunitisi per discutere sul futuro della professione forense nel “Teatro Regio”. Prima degli interventi dei rappresentanti dell’avvocatura e delle istituzioni, il presidente del Cnf, Francesco Greco, ha letto un messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello Stato ha augurato la migliore riuscita del Congresso. “Gli avvocati - ha scritto Mattarella - svolgono un ruolo di grande importanza nella promozione dei valori costituzionali, oltre che nello sviluppo del pensiero giuridico. Il tema scelto per il XXXVI Congresso nazionale forense testimonia l’ambizione e la consapevolezza del ruolo dell’avvocatura nel promuovere la tutela dei diritti in una delicata fase di transizione, che include la sfida delle tecnoscienze”. Dopo 56 anni, i lavori congressuali sono stati ospitati nel capoluogo piemontese. “La convocazione della massima assise forense - ha detto la presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino, Simona Grabbi - arriva in un momento di grande rilevanza per la professione, come dimostrato dalla partecipazione di oltre duemilatrecento avvocati da tutta Italia. Per tre giorni, come nel 1861, quando qui nacque l’Italia unita, Torino torna a essere capitale d’Italia: la capitale dell’avvocatura, chiamata a riflettere sul proprio futuro. Per immaginarlo, ci vogliono visione e un grande senso di responsabilità. Il Foro torinese ha già dimostrato nella sua storia di possedere queste due caratteristiche fondamentali per il lavoro che ci attende. Parlando di visione, voglio riportare tutti voi a oltre 140 anni fa, al 9 agosto 1883, quando il nostro Consiglio iscrisse la prima donna all’albo degli avvocati in Italia, Lidia Poët”. Quando ha preso la parola, il presidente del Cnf Francesco Greco ha fatto salire sul palco chi lo ha preceduto alla guida di via Del Governo Vecchio: Maria Masi, prima presidente donna del Consiglio nazionale forense negli anni bui della pandemia. Quello di Greco è stato un intervento appassionato, interrotto più volte dagli applausi di chi affollava il “Teatro Regio” quando sono stati richiamati gli interventi degli ultimi anni sulla giustizia. “Aboliamo la riforma Cartabia!”, ha affermato Greco. “È stata - ha commentato la riforma peggiore che il nostro sistema giudiziario, civile e penale abbia subìto, che ha snaturato il rito civile, trasformandolo in un processo senza il processo, prevedendo un contraddittorio senza contraddittori, un dibattimento senza alcuno che dibatte, che ha introdotto un sistema che consente un abuso della trattazione scritta. Avere un’udienza in presenza, discutere il processo, dibattere in udienza con la controparte, è diventato un miraggio”. Molto apprezzati i passaggi sul penale. “Nel processo penale - ha rilevato il presidente del Cnf - sono state introdotte norme che possono essere definite spaventose, come quella che prevede che per interporre appello al difensore deve essere rinnovata la procura, dimenticando o forse nella consapevolezza che i meno abbienti, ai quali in udienza viene nominato il difensore d’ufficio, mai si recheranno a conferire il mandato di fiducia al difensore per proporre appello. Nei confronti di costoro ci sarà solo un grado di giudizio”. Secondo Greco, inoltre, il processo penale telematico, è stato fatto partire quando gli uffici erano del tutto impreparati. “Ancora, sempre nel rito penale - ha aggiunto -, le norme i cui effetti si sono già registrati per cui il derubato che blocca in flagranza di reato il ladro non può trattenerlo in attesa che sopraggiunga la polizia, rendendosi altrimenti responsabile del reato di sequestro di persona, semplicemente perché impedisce al delinquente di fuggire. Aboliamo la Cartabia, questo deve essere il nostro impegno a partire dal giugno 2026, superato il periodo di osservazione del Pnrr. In questo contesto l’avvocatura deve essere capace di cambiare, di seguire il passo dei tempi. Non è immaginabile rimanere fermi, inerti mentre il mondo cambia a velocità supersonica”. Greco ha riflettuto poi sul nuovo ordinamento professionale con il tavolo della riforma al quale hanno partecipato tutte le rappresentanze dell’avvocatura: “Mai in passato vi era stata una così corale partecipazione alla redazione di un testo di riforma dell’avvocatura. Il testo da noi elaborato è stato recepito e fatto proprio dal governo, e quindi trasformato in un disegno di legge delega che oggi è all’esame del Parlamento, cui seguirà, non appena approvata la delega al governo, la redazione dei decreti legislativi attuativi, che ripercorreranno il testo del nostro disegno di riforma. Mai in passato era accaduto che il governo italiano facesse proprio un testo scritto dall’avvocatura. Abbiamo subito tutte le riforme che la politica ci ha propinato, mentre questa volta l’abbiamo scritta”. Anche Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, ha sottolineato l’importanza della riforma della legge professionale, che dovrà declinare “le esigenze della difesa con le innovazioni alle quali stiamo assistendo. Abbiamo bisogno di un confronto parlamentare su un terreno di responsabilità comuni”, ha aggiunto. Rossomando ha definito quella sull’equo compenso una “battaglia storica” per garantire qualità del servizio e dignità della professione. Per il governo ha parlato il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro: “Il Congresso nazionale forense è una occasione per riflettere sul sistema giustizia in Italia. Il titolo dei lavori congressuali fotografa il tempo che stiamo vivendo e indica le sfide che l’Intelligenza artificiale pone di fronte alla nostra professione. Usiamo gli strumenti che la tecnologia ci offre, ma non sviliamo la professione forense”. Sull’avvocato in Costituzione il sottosegretario alla Giustizia considera sempre più impellente il suo inserimento nella Carta per ribadire “la funzione fondamentale di chi difende i diritti”. Si è collegato da remoto il vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, secondo il quale non ci si può sottrarre da una costante riflessione sulla giustizia e sul ruolo degli avvocati nella società del futuro. In rappresentanza della magistratura sono intervenuti Pasquale D’Ascola (primo presidente della Corte di Cassazione) e Lucia Musti (procuratore generale presso la Corte d’appello di Torino). Il coordinatore dell’Organismo congressuale forense, Mario Scialla, ha fatto riferimento al ruolo che dovrà ritagliarsi l’avvocato del futuro: “La legge professionale forense ora al vaglio del Parlamento è stata preparata al meglio dal lavoro di Ocf, predisponendo un terreno sul quale abbiamo cercato, con un lavoro corale e costante, di mettere al meglio ciò che spettava a noi seminare. C’era chi preconizzava un ritorno al passato: non bisognava invece limitarsi a un passaggio neutro. Abbiamo scelto di progredire, di tagliare su misura il profilo di un avvocato proiettato nel futuro”. Unire sempre le forze, a detta di Maria Annunziata (presidente di Cassa forense), deve essere la regola da prediligere: “Cnf, Cassa, Ocf, associazioni, avvocate e avvocati, la filiera che deve andare nella direzione del benessere professionale e reddituale dell’avvocatura. Invito le colleghe e i colleghi a fare squadra con Cassa forense”. Emilia Romagna. Scuola, lavoro e sanità: le sfide strategiche della Regione per il carcere bolognatoday.it, 17 ottobre 2025 Scuola, lavoro sanità. Questi gli asset strategici del “pianete carcere” in cui, nel triennio 2021-2023 la Regione Emilia-Romagna ha investito progetti e risorse pari a 25,5 milioni di euro (di cui 18 milioni, tra fondi statali e regionali, in sanità, e 7,5 milioni per sociale e sanità) per rendere la pena non solo momento di “espiazione”, ma in primo luogo come un momento di “ricostruzione” della persona per il suo reinserimento nella società. E’ quanto è emersa nel corso della commissione Parità presieduta da Elena Carletti dove è stata presentata e discussa la clausola valutativa della legge regionale del 2008 per la tutela delle persone ristrette avvenuta nel corso della commissione Parità. Scorrendo la relazione si vede come ogni azione ha dovuto fare i conti con l’emergenza del sovraffollamento carcerario visto che nel 2025, la popolazione detenuta in Italia ammontava a 62.761 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 51.296 posti, con un tasso medio di affollamento del 122%. In Emilia-Romagna, la situazione è ancora più critica: con 3.859 detenuti (di cui solo il 5% donne e il 48% straniero) e poco più del 5% rispetto ai 2.933 posti disponibili, per un tasso del 131%, con picchi significativi a Bologna e Parma. A fronte di questi problemi, l’impegno delle istituzioni è stato forte sul tema istruzione, con risultati che parlano da soli: nel 2023 ai corsi organizzati da CPIA si sono iscritti 979 persone (il 45% al carcere minorile del Pratello di Bologna), di cui l’86% ha scelto corsi di alfabetizzazione; mentre nel corso dello stesso anno ai corsi organizzati dagli IISS si sono iscritte 312 persone (in crescita rispetto ai 267 del 2021-2023), di cui 62,5% hanno scelto corsi di tipo professionale e il restante 37% corsi tecnici. Venendo al profilo del detenuto-studente si vede che la maggior parte ha tra i 20 e i 50 anni (con il picco del 37% nella fascia d’età 31-40 anni) e il 60% ha la licenza media, mentre una piccolissima minoranza è laureato. Venendo al capitolo lavoro si vede che sono stati 1.158 i detenuti occupati, di cui l’85% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (ovvero svolgendo attività all’interno del carcere, o comunque collegato al mondo carcerario), mentre solo il 15% ha un datore di lavoro in un altro ente pubblico o privato. Interessanti anche i numeri relativi all’attività del servizio sanitario pubblico in carcere: sono stati trattati casi relativi a 8.643 cartelle cliniche (visto il forte turn over delle detenute e dei detenuti da un carcere all’altro o il fatto che la stessa persona può aver subito più carcerazioni nello stesso anno), il 30% delle quali riguarda problematiche di tipo psichiatrico, mentre il 45% dei casi ha malattie croniche, il 20% problemi di dipendenze e il 52% è fumatore a fronte del 24% tra le persone libere. La presentazione della relazione ha dato vita a un confronto tra i gruppi consigliari. “Occorre trovare una soluzione ai malati oncologici senza fissa dimora che, perché privi di una casa e di una rete sociale, non possono accedere agli arresti domiciliari: mi hanno detto che nel carcere di Modena queste persone sono assistite da altri detenuti”, spiega Vincenzo Paldino (Civici), mentre Valentina Ancarani (Pd) sottolinea la necessità di capire quante persone che al momento dell’entrata in carcere non hanno dipendenze o problemi cronici sviluppino tali situazioni perché recluse. Simona Larghetti (Avs) ricorda come i numeri molto alti relativi all’uso di psicofarmaci siano correlati al fatto che questi medicinali vengono utilizzati per “tranquillizzare” alcune tipologie di detenuti. Sulla stessa linea Elena Ugolini (Rete civica) che invita a trovare un modo per impiegare il tempo dei detenuti, mentre Niccolò Bosi (Pd) invita a capire se ci sia una compensazione per il numero di detenuti che arrivano in Emilia-Romagna da altre Regioni (ovvero se ci sia un trasferimento pari dall’Emilia-Romagna a altre Regioni). Dai banchi di Fratelli d’Italia Luca Pestelli invita a investire su progetti di reinserimento anche coinvolgendo il privato sociale e Ferdinando Pulitanò indica le possibili soluzioni al sovraffollamento carcerario nella costruzione di nuovi istituti di pena e nelle misure alternative alla reclusione. A tirare le somme della commissione è la presidente Carletti per la quale è importante affrontare e trovare soluzioni ai problemi dell’universo carcerario. Sardegna. “Dopo il crollo a Regina Coeli trasferiti nell’Isola i detenuti più problematici” di Andrea Scano L’Unione Sarda, 17 ottobre 2025 Sono 103 i detenuti trasferiti in Sardegna dopo il crollo di una parte del carcere romano di Regina Coeli. Ma la soluzione “tampone” è già stata contestata: come denuncia Roberto Melis, segretario Consipe, “secondo segnalazioni interne” molti dei trasferiti non sarebbero provenienti dal settore realmente compromesso dal crollo, bensì da altri rami del carcere, sollevando dubbi sulla correttezza dei criteri adottati. “In piena emergenza, si sarebbe dunque trovato il tempo per selezionare e inviare in Sardegna i soggetti più problematici, trattenendo invece quelli “più gestibili”. “Alla luce di tali anomalie - continua Melis - sarebbe doveroso che il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ndr.) disponga un’ispezione urgente presso la Direzione dell’istituto di Regina Coeli, al fine di verificare la correttezza delle procedure adottate e accertare eventuali responsabilità”. “La gestione emergenziale sta generando una crisi operativa senza precedenti - prosegue Melis -. Il personale di Polizia Penitenziaria è costretto a turnazioni estenuanti e a gestire situazioni cliniche e operative complesse. Il risultato è un aumento documentato dello stress lavoro-correlato e un rischio concreto di collasso psicofisico del Corpo”. Da qui la richiesta di un invio immediato di rinforzi di Polizia Penitenziaria, l’assegnazione urgente di personale sanitario negli istituti in emergenza, e una revisione complessiva della logica dei trasferimenti nazionali e regionali. Melis sottolinea inoltre che, per quanto riguarda la Casa di Reclusione di Alghero, è stato chiesto un incontro urgente tra il Provveditore regionale e il personale per affrontare “in modo costruttivo e trasparente le gravi criticità che stanno emergendo”. Venezia. “Accuse inesistenti, deve tornare” Scudo su Farina di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 17 ottobre 2025 I ritardi dei lavori per ultimare gli alloggi destinati alle agenti penitenziarie, potrebbero essere stati il pretesto per allontanare Enrico Farina da Santa Maria Maggiore. Il condizionale è d’obbligo perché non è ancora chiaro il motivo della revoca a direttore del carcere maschile e il trasferimento provvisorio a quello di Belluno. “Rispetto alla questione alloggi del personale di polizia, non esiste uno straccio di norma che preveda da parte delle amministrazioni dello Stato l’obbligo di garantire alloggi al personale di polizia a ordinamento civile, diversamente da quanto è invece previsto per i militari - dice Michela Romanello della Uilpa Venezia. Già questo farebbe comprendere l’inesistenza di fondate motivazioni, qualora l’allontanamento da Venezia di Farina fosse stato disposto per sua inefficienza”. Romanelli, come tutti gli addetti ai lavori, dal personale penitenziario agli operatori fini al mondo del volontariato, spera che si chiariscano i motivi dell’improvvisa revoca spiegata come “provvedimento di sospensione temporaneo per motivi organizzativi”. Per qualcuno il direttore si è dimostrato fin troppo attivo, dal contesto veneziano a quello nazionale come dimostra lo stretto legame con il Vaticano, motivo per cui potrebbe essere risultato anche ingombrante. Per ora nessuno vuole dare spiegazioni, a partire da Roma. Molte le dimostrazioni di stima espresse in questi giorni come quelle del “Granello di senape”, associazione di volontariato penitenziario, che auspica che si augura il ritorno quanto prima del dottor Farina per proseguire tutte quelle iniziative “che hanno dato nuove speranze alla popolazione detenuta di Venezia nonostante i vari problemi che ci sono”. “Questo provvedimento preoccupa perché fa intravedere l’intenzione di costruire intorno ai più sfortunati, anche se colpevoli, muri sempre più alti e fili spinati intorno”, sottolinea Mara Rumiz di Emergency. Lanciano (Ch). Cancellata dopo 15 anni la squadra di calcetto dei detenuti di Stefania Sorge Il Centro, 17 ottobre 2025 La decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è arrivata come una doccia gelata, insieme alla mancata autorizzazione a disputare una partita con una squadra di studenti. Correre dietro a un pallone, sfidare squadre avversarie, disputare un vero campionato, era per loro un assaggio di libertà. Non era solo calcio il progetto “Mettiamoci in Gioco”, primo a coinvolgere i detenuti di un penitenziario, quelli del supercarcere di Villa Stanazzo. Ma ora, dopo oltre 15 anni, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha deciso di porre fine a questa iniziativa virtuosa, che vedeva la collaborazione di Figc e Lnd Abruzzo. La decisione è arrivata come una doccia gelata, insieme alla mancata autorizzazione a disputare una partita con gli studenti del corso di laurea in Diritto dell’ambiente e dell’energia, che avrebbe dovuto anticipare il convegno di oggi, dalle 9 a Palazzo degli studi, su lavoro, istruzione e sport come strumenti di inclusione per chi si trova dietro le sbarre. Il progetto, che rappresentava un modello virtuoso di rieducazione e reinserimento sociale attraverso lo sport, ha consentito ai detenuti, con la squadra Libertas Stanazzo, di partecipare al campionato regionale di Calcio a cinque di Serie D, favorendo un contatto positivo con il mondo esterno e promuovendo valori come il rispetto delle regole, il lavoro di squadra e la responsabilità personale. I familiari dei detenuti della casa circondariale di Lanciano non ci stanno e chiedono alle istituzioni e alla società civile di non restare indifferenti. “Grazie a Mettiamoci in Gioco”, spiegano in una nota, “i nostri cari avevano l’opportunità di sentirsi parte attiva della società, di costruire relazioni sane e di guardare al futuro con speranza. La decisione del Dipartimento di interrompere questo percorso è per noi una grande delusione. L’esclusione della squadra del carcere di Lanciano dal campionato 2025-2026 non è solo una perdita sportiva, ma una ferita simbolica ai principi costituzionali di rieducazione della pena”. Il convegno di oggi, organizzato dal Rotary club Lanciano Costa dei trabocchi in collaborazione con l’Università di Teramo, la casa circondariale di Lanciano, l’Ipa Abruzzo e l’ente di formazione Human Factory, verte proprio sulla rilevanza del lavoro, dello sport e dell’istruzione nel percorso riabilitativo dei detenuti, riconoscendone il valore non solo come strumento di reinserimento sociale, ma come veicolo di crescita personale e sviluppo dell’autonomia. Torino. Il tabù dell’amore in carcere nello spettacolo dei detenuti di Monica Sicca La Stampa, 17 ottobre 2025 La privazione affettiva è il tema della piece “Ma l’amore no”. La vita in carcere significa sofferenza e difficoltà sia per chi è recluso, sia per i familiari, entrambi in attesa di un colloquio, un contatto, un messaggio. In carcere manca tutto, ma l’assenza più forte è quella affettiva, con il detenuto privato di una parte fondamentale della sua vita: i sentimenti. Come si può sopravvivere a questa privazione? Davvero in un percorso di riabilitazione e di presa di coscienza dei propri errori è necessario eliminare l’affettività e l’amore? Domenica 19 ottobre alle 18,30 il Sermig - Arsenale della Pace di Torino (in piazza Borgo Dora 61) ospita lo spettacolo “Ma l’amore no” di Grazia Isoardi e Marco Mucaria (quest’ultimo anche coreografo). Lo portano in scena i detenuti della sezione di alta sicurezza della Casa di Reclusione di Saluzzo, lo promuove il Fondo Alberto e Angelica Musy, da oltre 10 anni impegnato nel sostegno ai detenuti. Nato dal progetto teatrale della Cooperativa Voci Erranti, lo spettacolo dà voce ai pensieri e alle emozioni dei detenuti, affrontando un tema ancora troppo poco discusso, come il diritto all’affettività in carcere. Un viaggio intenso che ricorda come l’amore resti un bisogno fondamentale e universale, anche dietro le sbarre. “Ma l’amore no” è il risultato del lungo cammino della compagnia Voci erranti, oggi ponte tra i cittadini reclusi e quelli liberi, come opportunità di crescita culturale e luogo di formazione per artisti e studenti universitari. È significativo che si tratti dell’unica realtà in Italia di teatro in carcere che va in trasferta senza la scorta della polizia penitenziaria, grazie alla volontà della direzione dell’istituto penale di Saluzzo. L’ingresso è gratuito, ma la prenotazione è obbligatoria sul sito donorbox.org. Bologna. “Trasparenze di teatro carcere”: al Mambo approda il teatro nato all’interno della Dozza di Paola Naldi La Repubblica, 17 ottobre 2025 Prende il via il 24 ottobre al museo di Bologna il festival che prevede 14 spettacoli negli istituti penitenziari di otto città della regione. C’è un teatro che nasce in carcere, dal lavoro e dalle riflessioni di detenute e detenuti, adulti e ragazzi, ma che poi esce da quegli spazi di reclusione per invadere la città, i luoghi pubblici, i palcoscenici più insoliti. È così che il Mambo, il Museo d’arte moderna in via Don Minzoni 14, si trasforma ancora per ospitare, il 24 e il 25 ottobre alle 20.30, lo spettacolo “Acini di Furore” che vedrà in scena le attrici della Compagnia delle Sibilline, nata all’interno della Dozza. Lo spettacolo è nato dai laboratori tenuti alla casa circondariale da Paolo Billi, regista, autore, drammaturgo, con una vita dedicata a portare l’arte teatrale tra chi deve scontare una pena, come mezzo di crescita e di consapevolezza. In questo caso lui e un gruppo di donne hanno elaborato le parole e il senso di un grande romanzo del Novecento, “Furore” di John Steinbeck, dando vita a una pièce messa in scena con le musiche elaborate dagli studenti del Conservatorio di Bologna, diretti da Aurelio Zarrelli. Lo spettacolo è il primo appuntamento dal festival “Trasparenze di Teatro carcere” che ha coinvolto diversi istituti di pena della regione e le compagnie che qui portano avanti laboratori teatrali. Una rassegna che si svolge dentro e fuori le case circondariali con 14 spettacoli in 9 istituti di 8 città (Bologna, Modena, Castelfranco Emilia, Parma, Ferrara, Forlì, Ravenna, Reggio Emilia) sotto il titolo “Artaud, gli artisti nei luoghi di reclusione”, prendendo spunto dalla figura dell’artista francese che fu internato per sette anni in un istituto psichiatrico. Su questo tema la compagnia delle Sibilline porterà in scena, ma alla Dozza, l’11 e il 12 dicembre “Le figlie del Cuore capitolo secondo: Cenci”, con la storia di Beatrice Cenci, la nobildonna romana vissuta nel 1500, condannata per aver ucciso il padre che abusò di lei. Nel programma rientra poi il reading “Prologo. La voliera” realizzato dai giovani del Teatro del Pratello, che sarà letto il 21 novembre all’Istituto di pena per i minorenni. A Modena si vedrà invece il 22 novembre al Teatro dei segni “Macbeth Prova aperta”, a cura del Teatro dei Venti, con attori e attrici delle Case circondariali di Modena e di Castelfranco Emilia. Poi nelle carceri delle due cittadine andranno in scena altre pièce ispirate a Artaud e a Beckett. A Ferrara a partire da dicembre sono in programma alla Casa circondariale Satta spettacoli tratti da Maeterlink e Artaud, con gli attori-detenuti guidati da Teatro Nucleo. Il carcere di Reggio Emilia sarà palcoscenico per opere curate dal Centro Teatrale MaMiMò. A Parma la rassegna si divide tra il Centro musicale Arturo Toscanini e il carcere cittadino. A Forlì il sipario dell’istituto di pena si alzerà il 24 e il 25 novembre con una pièce ispirata a Artaud. A Ravenna gli attori-detenuti si presentano al pubblico il 27 e il 28 novembre con una pièce a cura di Lady Godiva Teatro. Il progetto “Trasparenze di Teatro carcere” si completa poi con un laboratorio che coinvolgerà gli studenti delle scuole superiori delle diverse città in cui si va in scena. Per accedere agli spettacoli nelle carceri occorre un’autorizzazione giudiziaria competente. Info: teatrodelpratello@gmail.com. Napoli. Un teatro per i detenuti a Nisida, così il sogno di Eduardo prende forma a Napoli di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 17 ottobre 2025 Un sogno che prende forma, un progetto che sta diventando realtà. Un teatro da restaurare per i ragazzi di Nisida, quelli del carcere di mare, che ieri hanno vissuto una giornata particolare. Hanno assistito all’impegno di istituzioni e sponsor privati per la rinascita del teatro a Nisida e hanno incrociato per una intera mattinata il dialogo con ragazzi poco più grandi: gli studenti e i volontari dell’Università Luiss, giovani con cui condividere una certa idea di futuro. Una svolta concreta, ieri a Coroglio, grazie al progetto della Fondazione Severino, animato dalla docente (ed ex ministro della Giustizia) Paola Severino, per la rinascita del teatro donato da Eduardo ai giovani reclusi dell’istituto minorile. Un progetto che ha intercettato la disponibilità concreta da parte di finanziatori privati, ma anche del Ministero, che dovrebbe decollare entro la prossima primavera. Tra il 2026 e il 2027 la realizzazione di un’idea di casa circondariale, legata alla formazione culturale, all’espressività, al rigore scenico, al lavoro di gruppo. C’è un flashback doveroso, come emerge dalle immagini ricavate dagli archivi Rai: anno 1981, l’allora senatore Edoardo De Filippo risponde all’appello dei giovani detenuti del carcere minorile Filangieri. Immagini in bianco e nero, mentre Edoardo chiede ai microfoni nazionali: “Chi sarebbe disposto ad assumere degli avanzi di galera?”. Una domanda che impone ancora oggi, a distanza di 44 anni, una riflessione sulla necessità di creare opportunità di inserimento. Tocca alla professoressa Severino spiegare il senso della sua iniziativa: “Provo in questo posto esperienze contrastanti: le stanze chiuse e la maestosità del mare, un terribile contrasto tra restrizione e bellezza del posto. Abbiamo deciso di valorizzare il teatro per riassumere la contraddizione in cui vivono questi ragazzi: il teatro è un luogo chiuso in cui si scatenano libertà, fantasia, espressività”. Poi un ragionamento sulla recidiva: “Gli studi ci dicono che se c’è un lavoro tra mondo di fuori e mondo di dentro si abbassa la percentuale di recidivi”. Guarda negli occhi i ragazzi di Nisida e li invita a una riflessione: “Vedete quanti sistemi si parlano attorno a questo progetto? Fondazione Severino, Ministero, associazioni, interventi di privati”. Grazie alla moderazione della giornalista Gaia Tortora, si alternano voci, esperienze e prospettive differenti. Tocca all’avvocato Eleonora di Benedetto della Fondazione Severino commentare le immagini dei primi anni Ottanta: “C’era un deficit di attenzione nei confronti dei più giovani. Edoardo lo ha capito e ha donato un teatro alla città di Napoli perché conosceva il potere salvifico del teatro, per questo come Fondazione abbiamo raccolto la sfida per mantenere vivo il sogno di Eduardo”. È il momento del direttore de Il Mattino Roberto Napoletano che si rivolge ai giovani detenuti: “Per occuparci di chi sta dentro dobbiamo parlare con loro, con questi ragazzi, ma anche lavorare bene all’esterno dei penitenziari. Mancavo da Napoli da trent’anni ed ero stanco del racconto tutto in negativo che si fa di questa città. Come giornalisti non bisogna fare sconti alla realtà, ma la realtà va raccontata in tutti i suoi aspetti, rinunciando a priori a stereotipi precostituiti”. Poi, il racconto di un antefatto: “Pensate - spiega il direttore de Il Mattino - l’armatore di America’s Cup ha raccontato di aver scelto Napoli come sede delle regate perché la ritiene una città sicura, dove si sanno organizzare gli eventi. Chiaro? Sicurezza e capacità organizzativa, come per altro emerso di recente con le centinaia di migliaia di persone che si sono riversate in strada per i concerti, le kermesse artistiche, per la vittoria dello scudetto: qui c’è stata una gioia collettiva durata dieci giorni, senza neppure un ferito. A Parigi per la vittoria della Champions ci sono stati tumulti, morti, feriti e arresti”. Un invito dunque a “coltivare il futuro, a sentirsi futuro. È un fatto che anche i giovani hanno abbandonato la prospettiva del posto fisso, superata alla luce delle opportunità offerte dalla nuova trama di start up e di piccole e medie imprese”. Tocca alle istituzioni intervenire sui progetti in campo e su quelli realizzati. Spiega il sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari: “Abbiamo investito in più istituti minorili, ma siamo attenti anche al mondo esterno, come appare evidente dal modello Caivano, a proposito della possibilità di valorizzare sport e attività rieducative, al di là dei meri interventi di polizia giudiziaria”. Nella sala riunioni spiccano i vertici degli uffici giudiziari napoletani, tra cui il presidente di Corte di Appello Maria Rosaria Covelli, il procuratore generale Aldo Policastro, la procuratrice per i minori Patrizia Imperato e il presidente del Tribunale per i minori Paola Brunese. È il momento dell’arte. Interviene l’attore Ninetto Davoli, un curriculum che va da Pasolini a Totò, passando proprio per il teatro di Edoardo: “Bisogna dare una possibilità a tutti - arringa - in fondo chi è che non ha mai sbagliato?”. Scorrono le immagini del film La Salita, prodotto da Riccardo Brun, di Massimiliano Gallo, mentre un invito a sostenere progetti di formazione viene ribadito da monsignor Davide Milani, segretario generale della Fondazione Pontificia Gravissimum educationis. Arte e formazione, detenzione e rispetto delle regole, dunque. Un concetto approfondito dal capo del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità Antonio Sangermano: “Il carcere non può essere solo custodia passiva, assieme alla sicurezza ci deve essere un percorso che consenta ai ragazzi di recuperare il senso di responsabilità e dello stare insieme. È così che crediamo in questo progetto”. Como. “Bassone quale umanità?”, le immagini del carcere in mostra di Paola Pioppi Il Giorno, 17 ottobre 2025 Le immagini della casa circondariale Bassone di Como, sono protagoniste della mostra “Bassone quale umanità?” che si inaugura questa sera alle 20.30 al Santuario dei Missionari Passionisti di Santa Gemma di Erba, in via XXIV Maggio, dove rimarrà allestita fino al 26 ottobre. Realizzata dalla Caritas cittadina di Como, che ha raccolto l’invito di Papa Francesco, nell’anno del Giubileo, ad ascoltare e testimoniare il disagio di tanti detenuti che “sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte”, è un progetto itinerante: la visita alla mostra vuole offrire un’importante occasione per conoscere la realtà che si nasconde dietro le mura del carcere, le fragilità di uomini e donne, ma anche ogni aspetto della vita privata della libertà e soggetta alle regole imposte dalla condizione di detenuto. In occasione dell’inaugurazione, alle 20.30, è inoltre previsto un incontro con la partecipazione di padre Zeno Carcereri, cappellano del Bassone, Giovanni Savignano, Ispettore superiore della Polizia penitenziaria, e Teresa Somma funzionario giuridico pedagogico della Casa Circondariale di Como. “Ci sono realtà - spiegano gli organizzatori - che fatichiamo a vedere e che non trovano spazio di attenzione se non in relazione a tragici fatti di cronaca. La condizione delle carceri, delle persone detenute, degli operatori che vi lavorano è molto complessa, a causa principalmente del sovraffollamento degli istituti penitenziari, che pone problemi di sicurezza, rende difficili i percorsi di riabilitazione, compromettendo la possibilità di reinserimento nella comunità. Il tasso di affollamento reale si attesta in media quasi il 135 per cento fino a raggiungere in alcune carceri il 190 per cento”. “Il silenzio dentro”, viaggio all’interno delle carceri italiane di Emiliano Reali huffingtonpost.it, 17 ottobre 2025 Francesca Ghezzani entra nel sistema penitenziario italiano per narrare le contraddizioni, ma anche i tentativi di rinascita. L’obiettivo è unire testimonianze, dati e riflessioni per restituire complessità a un tema spesso semplificato o ignorato. “Il silenzio dentro - Quando raccontare diventa un atto di giustizia” è un viaggio all’interno e intorno alle carceri italiane per raccontare, con sguardo costruttivo, le molteplici realtà che vivono dietro e oltre le sbarre. “Il silenzio dentro” di Francesca Ghezzani (Swanbook Edizioni, 2025) è un libro di narrativa d’inchiesta che entra nel sistema penitenziario italiano per narrare le contraddizioni, ma anche i tentativi di rinascita. Giornalista e voce del giornalismo costruttivo, Ghezzani attraversa le mura del carcere dando voce a chi lo abita e a chi vi lavora ogni giorno: operatori, direttori, psicologi, magistrati, volontari, esponenti del clero, del mondo associativo e culturale. L’obiettivo è unire testimonianze, dati e riflessioni per restituire complessità a un tema spesso semplificato o ignorato, partendo da un punto fermo: l’articolo 27 della Costituzione italiana, che stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le interviste a figure come Alessio Scandurra (Antigone), Enrico Sbriglia, Monica Bizaj, Don Luigi Ciotti, Carmela Pace, Pino Cantatore e Claudio Bottan offrono una visione plurale di un sistema in affanno alle prese con temi quali sovraffollamento, salute mentale, condizione femminile, infanzia negata, ma talvolta, accanto ai problemi, emergono esperienze virtuose: progetti di formazione, lavoro e cultura che trasformano la detenzione in occasione di crescita personale e sociale. Francesca Ghezzani con uno stile sobrio e un approccio di ascolto attivo non dà vita a un saggio tecnico né a un’inchiesta fredda, così come non giudica né giustifica, consapevole che raccontare possa essere una forma di rinascita. E allora “Il silenzio dentro” diventa un libro su una realtà che molti preferiscono ignorare, un invito a “non sprecare il dolore” ma a trasformarlo in rispetto, giustizia e sicurezza per sé stessi e per la società intera una volta scontata la pena, almeno per coloro che desiderano davvero cambiare rotta. L’attentato di Fiumicino e la criminalizzazione dei flussi di “stranieri” di Antonio Gibelli Il Manifesto, 17 ottobre 2025 “Annibale alle porte”, il libro dello studioso di temi migratori Amoreno Martellini, uscito per Il Mulino. Da molti decenni la questione delle migrazioni è al centro della politica italiana, europea e più in generale - basti pensare agli Stati Uniti dell’era Trump - occidentale. Mai seriamente affrontata in modo attivo e propositivo, è stata ed è agitata come uno spauracchio ad alta efficacia demagogica: il flusso crescente dei migranti verso il cuore del mondo sviluppato è un’invasione, costituisce un pericolo mortale per l’identità, la sicurezza, le tradizioni nazionali, persino una minaccia di sostituzione etnica. Gli stranieri, in quanto tali, sono portatori di disordine, devianza, in breve di criminalità. Per quanto ci riguarda, la criminalizzazione dei migranti è cominciata nel momento del passaggio dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione, verificatosi negli anni Settanta, ma si è consolidata e ha avuto il suo primo momento di espressione compiuta come conseguenza di un tragico episodio accaduto quarant’anni fa: l’attentato di un gruppo di terroristi palestinesi contro la sede della compagnia aerea israeliana El Al nell’aeroporto di Fiumicino. Fu in quella occasione che prese forma l’identificazione degli stranieri come terroristi, e dell’immigrazione come una minaccia incombente: Annibale alle porte, come suona il titolo di un libro dello studioso di temi migratori Amoreno Martellini uscito quest’anno per i tipi del Mulino (pp. 208, euro 20), in una serie della collana Percorsi denominata “Dal porto al mondo”, patrocinata dal Centro internazionale di storia dell’emigrazione italiana (Cisei) di Genova. Il libro comincia con un’ampia ricostruzione di quell’episodio. È venerdì 27 dicembre 1985. Mancano pochi secondi alle nove quando quattro giovani mediorientali tirano fuori da un borsone bombe a frammentazione e kalashnikov e aprono il fuoco sul pubblico dei viaggiatori in attesa. Sono momenti di terrore. Una tempesta di colpi sbriciola i cristalli e crivella le pareti mentre gli agenti della sicurezza israeliana e italiana reagiscono sparando anche loro all’impazzata. Quando le armi tacciono, a terra ci sono i corpi senza vita di tredici vittime dell’attentato e di tre terroristi. Il quarto viene catturato ferito ma vivo: ha 18 anni, è vissuto nel campo profughi di Sabra e Shatila, dove falangisti libanesi coperti e coadiuvati dall’esercito israeliano hanno consumato tre anni prima uno dei più feroci massacri di rifugiati palestinesi di tutta la loro storia prima del genocidio di Gaza. Nelle sue tasche viene trovato un biglietto dove si rivolge ai nemici sionisti con queste parole: “Come voi avete violato le nostre terre, il nostro onore, il nostro popolo, così noi violeremo ogni vostra cosa. Le lacrime che abbiamo versato saranno ricambiate con altro sangue. Un fiume di sangue”. L’attentato fu collegato immediatamente all’eccesso incontrollato di stranieri presenti sul suolo nazionale e presto vide lievitare l’allarme. Il saggio segue passo passo il dibattito a cui la drammatica vicenda diede corso, nelle aule parlamentari, sulla stampa, nelle sedi politiche, nei centri di ricerca, attingendo anche a fonti d’archivio come le carte del ministero dell’Interno. Vediamo così delinearsi inesorabilmente lo stereotipo razzista e xenofobo destinato a orientare in modo determinante la politica italiana nei decenni a seguire, dilagando progressivamente come fattore decisivo di formazione delle opinioni pubbliche e quindi degli orientamenti elettorali. Principale - anche se non sufficiente - argine contro questa deriva, la Chiesa cattolica, da sempre impegnata nella difesa e nell’accoglienza dei migranti. Illusoria invece la convinzione, per alcuni anni coltivata, che potesse fungere da antidoto la memoria del passato migratorio degli italiani: luogo comune di cui Martellini fornisce un ampio repertorio. CERTO, oggi lo stereotipo, ancora dominante, non si riferisce tanto al fenomeno terroristico ma piuttosto alla criminalità comune, a proposito della quale si citano spesso in maniera semplificata o scorretta le statistiche della popolazione carceraria. Anzi, e peggio: il crimine è divenuto la migrazione stessa in quanto tale. Nell’era della globalizzazione gli unici che non possono muoversi liberamente sono gli esseri umani. E in quanto tali sono perseguitati. Costruendo recinti, progettando detenzioni illegali, espulsioni e deportazioni, ostacolando i salvataggi, criminalizzando per delitto transitivo le organizzazioni di soccorso. La traiettoria cominciata negli anni ottanta ha raggiunto così il suo culmine e i governi come quello italiano, che praticano queste politiche anche a costo di plateali sprechi e di vistosi insuccessi pratici, registrano una certa stabilità nei consensi a dispetto dell’inconcludenza su questo e sugli altri maggiori problemi sociali. Se la scuola è anaffettiva di Chiara Saraceno La Stampa, 17 ottobre 2025 I femminicidi sono all’ordine del giorno e così violenze di ogni tipo sulle donne, per lo più all’interno di rapporti familiari o comunque intimi, da parte di compagni, mariti, amici. Ne sono autori uomini adulti di ogni condizione sociale ma anche adolescenti. Eppure c’è ancora chi pensa che non ci sia alcun bisogno di un’educazione all’affettività e alla sessualità, al riconoscimento e controllo delle emozioni legate al corpo proprio e altrui, alla maturazione di relazioni affettive basate sulla cura e il rispetto reciproco. Già il disegno di legge Valditara sull’educazione sessuo-affettiva nelle scuole prevede mille vincoli alla sua effettiva realizzazione, a partire dall’esclusione delle scuole dell’infanzia e primarie e, per le altre, l’assenso sia del collegio docenti sia di ciascuna famiglia. Come se si trattasse di un optional e non ci fosse il rischio molto elevato che siano proprio le famiglie meno sensibili alla necessità di fornire un’educazione in questo senso, o quelle caratterizzate da anaffettività e violenza, a non dare il proprio assenso. Ora un emendamento della Lega, approvato dalla maggioranza, vuole escludere anche gli studenti della scuola secondaria di primo grado da questa educazione. Come se la violenza di genere fosse un fenomeno non solo marginale, ma scoppiasse all’improvviso in età adulta in maschi disturbati, e non avesse invece il suo terreno di coltura nella combinazione micidiale di stereotipi di genere e una carente educazione affettiva, ai sentimenti ed emozioni - in famiglia innanzitutto, ma anche negli altri contesti educativi - fin dall’infanzia. Eppure esiste ormai un corpus di conoscenze interdisciplinari che mostra come le basi delle capacità non solo cognitive ma anche emotive e relazionali siano poste nell’infanzia, e vadano continuamente arricchite e rafforzate lungo tutto il processo di crescita, accompagnando sia lo sviluppo e la diversificazione delle relazioni, sia il cambiamento del corpo, proprio e altrui. Aggiungo che proprio il cambiamento del corpo e le emozioni che questo provoca è un’esperienza centrale dell’adolescenza che andrebbe accompagnata con attenzione, in famiglia, certo, ma anche là dove avviene il confronto quotidiano tra pari, che molte ricerche segnalano essere fonte di dubbi, incertezze, anche bullismo. Dovrebbe anche preoccupare che diverse ricerche segnalano come tra gli adolescenti siano diffuse esperienze di coppia in cui sono frequenti pretese di controllo stretto ed anche forme di violenza fisica o psicologica. D’altra parte, sempre le ricerche mostrano che gli e le adolescenti vorrebbero parlare dei loro dubbi e delle loro curiosità relativamente al corpo, alla sessualità, alle emozioni, con persone competenti, ma non sempre le trovano. Chi si oppone all’educazione sessuo-affettiva a scuola spesso lo fa in nome del rischio che questa promuova una fantomatica teoria gender che incoraggi bambine/i e adolescenti a cambiare sesso e/o identità di genere, oppure che promuova una sessualizzazione precoce. Come dimostrano le varie esperienze che in modo più o meno accidentato si sono fatte e fanno in Italia e soprattutto nei Paesi in cui l’educazione sessuo-affettiva è da tempo parte integrante dei curricula scolastici anche dei piccolissimi, sono preoccupazioni senza fondamento di adulti spaventati che preferiscono chiudere gli occhi di fronte alla responsabilità di affrontare le domande, le emozioni connesse all’avventura della crescita, che non è una strada sempre lineare e senza scosse. Costruiscono un nemico inesistente per non uscire dalla comfort zone delle proprie sicurezze, anche a costo di ignorare, e perciò rafforzare, quelle dei propri figli, allievi, cittadini in crescita. Gino Cecchettin: “Lo stop all’educazione sessuale a scuola è un passo indietro grave e pericoloso” di Elisa Forte La Stampa, 17 ottobre 2025 Il papà di Giulia boccia l’emendamento della Lega: “I ragazzi chiedono strumenti per capire”. Un emendamento della Lega produce uno stop all’educazione sessuo-affettiva nelle scuole medie. La Fondazione Cecchettin lo giudica “un passo indietro grave e culturalmente pericoloso”. Stando così le cose, il ddl Valditara stabilisce che l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole medie non si farà e alle Superiori si potrà insegnare solo con il consenso dei genitori. A gennaio, Gino, papà di Giulia, uccisa dall’ex fidanzato nel 2023, è stato ricevuto dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Hanno firmato un protocollo “per definire azioni per contrastare la violenza contro le donne, a partire dalle scuole”. “Lavoreremo insieme. Questo tema è troppo importante per essere strumentalizzato”, aveva sottolineato il ministro. Ora la Fondazione Giulia Cecchettin chiede che “il Parlamento corregga questa rotta”. L’educazione sessuo-affettiva è un tema ideologico? “No, è una questione di prevenzione e di civiltà. I ragazzi non chiedono lezioni di morale, ma strumenti per capire se stessi e gli altri. E questo non si insegna con il divieto o con la paura, ma con la fiducia e con l’educazione condivisa tra scuola e famiglia. Se vogliamo combattere la violenza, dobbiamo avere il coraggio di parlare di affettività prima che diventi cronaca”. Quali sono le conseguenze concrete che rischiamo di vedere nelle scuole medie se questo limite rimane? “I ragazzi continueranno a imparare nel modo peggiore. Alle superiori, quando molti comportamenti sono già formati, rischiamo di arrivare troppo tardi. Se la scuola non offre uno spazio sicuro per parlare di affettività, di rispetto, di emozioni e di corpo, i ragazzi cercheranno risposte altrove: su internet, sui social, nelle serie Tv, dove troppo spesso l’amore viene confuso con il possesso. Lì imparano senza filtri, senza guida”. La Fondazione Giulia Cecchettin ha festeggiato il primo anno di vita: quali sono i vostri progetti? “Abbiamo sostenuto e dato visibilità a molti percorsi già attivi. Ora stiamo compiendo un altro passo: in collaborazione con l’Università di Firenze, abbiamo avviato un progetto di formazione dedicato agli insegnanti della scuola primaria, per offrire loro strumenti pedagogici e psicologici per introdurre in classe i temi dell’affettività, del rispetto e delle relazioni”. “La violenza contro le donne è anche un problema degli uomini che devono cambiare”, sostiene nei suoi incontri. Succede? “Sì, qualcosa sta cambiando, anche se lentamente. Sempre più uomini partecipano agli incontri, ascoltano, fanno domande. Cominciano a capire che non si tratta di fare la guerra ai maschi, ma di mettere in discussione la mascolinità tossica. Il cambiamento vero avverrà quando gli uomini sentiranno che questo percorso non toglie nulla, ma libera”. Tra le ragazze e i ragazzi quali sono le domande più frequenti? “Vogliono capire come ci si può comportare quando vedono episodi di violenza, come realizzare che la violenza è presente e cosa possono fare loro per essere attori in questo processo e non solo spettatori”. Cara Giulia è il titolo del suo libro (Rizzoli). Se dovesse scrivere un lettera a Giulia cosa le direbbe? “Che da sola sta cambiando tantissimo, che le sono grato per quello che mi ha insegnato, e che continuerò ad amarla come ho sempre fatto”. Un murale dedicato a Giulia è stato realizzato dagli studenti del primo liceo Artistico di Torino. Cosa ha provato nel vedere quest’opera? “È stato un momento molto intenso. Tutte le bozze che i ragazzi avevano realizzato erano bellissime: sceglierne una è stato difficile, perché ognuna raccontava Giulia in modo diverso, ma sempre con grande rispetto e sensibilità. Quando ho visto il murale finito, ho provato una profonda gratitudine. È un segno che Giulia continua a parlare ai ragazzi, e che la sua storia è diventata seme di bellezza e di riflessione”. Un’intera classe guidata dal professor Davide Alonge ha disegnato 27 bozzetti per la sua Giulia: cosa vuol dire a questi giovani? “Grazie, davvero. Hanno messo nei loro disegni una sensibilità e una profondità che mi hanno toccato molto. Se Giulia potesse vederli, sono certo che sarebbe orgogliosa di loro”. Il murale sarà inaugurato lunedì: è uno dei progetti del festival Women & The City 2025 subito accolto dal sindaco Stefano Lo Russo e dall’assessora all’Istruzione Carlotta Salerno. Cosa possono fare gli amministratori locali? “Hanno un ruolo fondamentale. Possono creare spazi, sostenere progetti educativi, dare continuità alle iniziative che nascono dal territorio. Dico a chi amministra: lavoriamo insieme, senza bandiere politiche, perché la lotta alla violenza non è un tema di parte, ma un dovere comune”. Suicidio assistito, il macchinario c’è. “Strumenti e farmaci subito”, il giudice dà ragione a “Libera” di Eleonora Martini Il Manifesto, 17 ottobre 2025 Mentre in Senato l’Istituto superiore di sanità dice no, a Firenze un giudice dice sì. Mentre in Senato l’Istituto superiore di sanità dice no, a Firenze un giudice dice sì. Sì, e subito. Ancora una volta, dunque, il diritto ad accedere al suicidio assistito viene garantito per decisione di un Tribunale quando, nello stesso tempo, in Parlamento la maggioranza cerca di far passare - con una nuova e inedita accelerazione - un ddl sul fine vita che, per usare le parole del senatore dem Franco Mirabelli affidate ad Huffington post, “sembra più orientato a ridimensionare le sentenze della Corte costituzionale che a recepirle”. Il tribunale di Firenze infatti ha accolto integralmente le richieste di “Libera” (il nome è di fantasia), la donna toscana di 55 anni affetta da sclerosi multipla primaria progressiva che già più di un anno fa aveva ottenuto dalla propria Asl il via libera alla procedura di suicidio medicalmente assistito. Per lei, completamente paralizzata dal collo in giù, occorre però un macchinario che attivi l’infusione del farmaco letale attraverso un puntatore oculare, vocale o con un altro tipo di sensore. Strumenti ormai facilmente reperibili sul mercato, tanto da essere usati da anni in Svizzera e negli altri Paesi dove il suicidio assistito è parte integrante del servizio sanitario nazionale. Motivo per il quale, richiamando le sentenze della Consulta del 2019 e del 2025, il giudice Umberto Castagnini della Quarta sezione civile fiorentina “ha ordinato all’Azienda Usl Toscana Nord Ovest di fornire entro 15 giorni la strumentazione necessaria all’auto somministrazione, verificandone la funzionalità e la compatibilità, attraverso una pompa infusionale attivabile con sensore di comando o puntatore oculare o altra modalità idonea; e di rendere disponibili farmaci e dispositivi al medico di fiducia di “Libera”, che la assisterà durante la procedura”. A darne notizia è l’Associazione Luca Coscioni che, con il collegio legale coordinato dall’avvocata Filomena Gallo, ha supportato la signora anche quando nel marzo scorso il tribunale di Firenze ha sollevato la questione davanti alla Corte costituzionale. La Consulta a luglio si è espressa chiedendo “con urgenza la verifica a livello nazionale e internazionale, e non solo regionale, dell’esistenza di dispositivi idonei all’auto somministrazione del farmaco per il suicidio assistito”. “Il limite della sopportazione umana del dolore fisico e psichico, per quanto mi riguarda, è stato superato”, era stato lo sfogo di “Libera” appena qualche giorno fa, quando i pareri tecnici del Ministero della Salute, dell’Iss e del Consiglio Superiore di Sanità avevano escluso la possibilità di reperire la strumentazione adatta. Ieri, durante l’audizione nelle commissioni riunite di Affari sociali e Giustizia del Senato, l’Iss ha ribadito che “ad oggi non è possibile certificare un dispositivo medico il cui uso preveda espressamente l’inserimento in una procedura di suicidio assistito” per i pazienti non autonomi. Tuttavia, ha ammesso Palombo dell’Iss, “sono già disponibili tecnologie impiegate in ambiti di disabilità o cura che potrebbero essere adattate a tale scopo, come sensori di pressione labiale, interfacce vocali, sistemi di tracciamento oculare e pompe infusionali a controllo remoto”. Eppure, al giudice fiorentino che aveva richiesto “entro l’8 ottobre informazioni relative all’esistenza e alla concreta reperibilità di strumenti di autosomministrazione per via endovenosa attivabili mediante comando vocale o oculare e altre modalità compatibili con le condizioni cliniche di “Libera”, le istituzioni nazionali avevano inviato “soltanto risposte negative o interlocutorie”. Ma quando, pochi giorni dopo, la Regione ha trovato una ditta fornitrice e la Asl si è detta disponibile, il Ministero della Salute - costituto nel giudizio di “Libera” davanti al tribunale di Firenze - si è tirato indietro. Tramite l’avvocatura di Stato, riferisce ancora l’associazione Coscioni, il ministro Schillaci ha sostenuto “che la competenza operativa in materia spetta al Servizio sanitario regionale, e non allo Stato, contraddicendosi palesemente anche rispetto al ricorso presentato contro la legge regionale toscana 16/2025, nel quale il Governo contesta proprio la competenza regionale”. A dimostrazione delle reali intenzioni del governo. Ora però il sistema sanitario ha l’obbligo di assistere medicalmente “Libera” durante il suo suicidio. Liberamente scelto. Fine vita, il giudice sblocca il caso di “Libera” Ma c’è l’alt dell’Iss di Francesca Spasiano Il Dubbio, 17 ottobre 2025 Il tribunale di Firenze ordina di reperire lo strumento per l’autosomministrazione. Il dibattito sul fine vita cambia rotta e si sposta sull’eutanasia. Un’ipotesi che in Italia è sempre illegale, a differenza del suicidio assistito, e sulla quale tribunali e Parlamento parlano due lingue diverse. Così sembra, almeno, dopo la giornata di ieri. In cui sono successi due fatti uguali e (apparentemente) contrari: da una parte le audizioni al Senato nell’ambito dell’esame del ddl del centrodestra firmato da Pierantonio Zanettin (FI) e Ignazio Zullo (FdI); dall’altra l’ordinanza del tribunale di Firenze sul caso di “Libera”. Una vicenda su cui si arrovellano contemporaneamente la politica e la giustizia perché apre un nuovo capitolo sul fine vita, sia dal punto di vista normativo che tecnologico. È proprio la tecnica, infatti, a poter offrire soluzioni tali da equiparare il suicidio assistito all’eutanasia, quando il paziente che richieda il primo si trovi nell’impossibilità di assumere autonomamente il farmaco letale. Ma esiste, al momento, un dispositivo medico capace di garantire l’autosomministrazione a chi non può muoversi? Il giudice di Firenze ha ragione di crederlo e, accogliendo le richieste di Libera, ha ordinato all’Azienda USL Toscana Nord Ovest di fornirglielo entro 15 giorni, verificandone la funzionalità e la compatibilità. Nelle stesse ore, nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama, è arrivato invece l’alt dell’Istituto superiore di sanità, con l’audizione di Alessandro Palombo, direttore del centro nazionale di IA e robotica dell’ISS. Secondo il quale “ad oggi non è possibile certificare” un “dispositivo medico” il cui uso “preveda espressamente l’inserimento in una procedura di suicidio assistito” per chi è non è autonomo. Come “Libera”, appunto, che è paralizzata dal collo in giù. La 55enne toscana convive da quasi vent’anni con la sclerosi multipla e ha già ottenuto il via libera della sua Asl, perché soddisfa i quattro requisiti di accesso stabiliti dalla Corte costituzionale con la sentenza 242 sul caso “Cappato Dj/ Fabo”. Nell’impossibilità di assumere autonomamente il farmaco, lo scorso marzo la donna ha presentato un ricorso d’urgenza al tribunale di Firenze per autorizzare l’intervento di un terzo, il suo medico. Che rischierebbe fino a 15 anni di carcere secondo l’articolo 579 del codice penale, che parla di “omicidio del consenziente”. Ovvero, di eutanasia. Il giudice ha quindi rinviato gli atti alla Consulta, che lo scorso luglio ha chiesto di verificare in maniera più approfondita la disponibilità sul mercato di un dispositivo adeguato allo scopo. Mistero della Salute, Iss e Consiglio superiore di sanità hanno cercato e risposto: il dispositivo non c’è. E l’Associazione Luca Coscioni, che sostiene Libera nella sua battaglia legale, non ha escluso la possibilità di procedere con una disobbedienza civile. Fino al colpo di scena, giunto con l’ordinanza di ieri: il 14 ottobre - spiega il giudice Estar (l’Ente di supporto tecnico- amministrativo regionale) ha comunicato di aver concluso un’indagine di mercato tra imprese operanti nel settore degli ausili tecnici per persone con disabilità. E da tale indagine è emersa la disponibilità di una ditta a fornire un comunicatore con puntamento oculare in grado di attivare pompe infusionali. Un tipo di strumento di cui ha parlato anche Palombo, per il quale però è impossibile al momento stimare i tempi di sviluppo e di realizzazione di un dispositivo che funzioni e che sia compatibile con il nostro quadro normativo. Sia perché ogni strumento andrebbe personalizzato e “testato” in base alle esigenze del paziente, sia perché non è chiaro chi dovrebbe assumersi la responsabilità di realizzare uno strumento “che dà la morte”. Tutte obiezioni di cui sembra consapevole anche il giudice, che però affronta la questione considerando la sua urgenza, ovvero la sofferenza di Libera. “Le questioni interpretative sollevate - si legge nell’ordinanza - si collocano in un quadro normativo relativo ai dispositivi medici costruito per finalità diverse e in assenza di una legge nazionale che, nonostante i moniti della Corte Costituzionale, disciplini compiutamente la materia. Il giudice e prima ancora l’amministrazione sono tenuti, in ogni caso, a dare concreta attuazione ai principi affermati dalla Corte costituzionale non potendo i vuoti di disciplina risolversi nella non effettività di diritti fondamentali riconosciuti”. Dunque, verificata l’esistenza di dispositivi combinabili tra loro, “ancorché non sia disponibile sul mercato una pompa infusionale già così congegnata, il principio di effettività, di proporzionalità e necessità giustificano il dovere dell’Azienda sanitaria di fornire tali macchinari, trattandosi della soluzione che - nel bilanciamento dei contrapposti valori in gioco - meglio assicura il diritto all’autodeterminazione del paziente senza richiedere la cooperazione di un soggetto terzo”. Migranti. Il Pd, la Libia e il memorandum di Pirandello di Alessandro De Angelis La Stampa, 17 ottobre 2025 Detta così, sembra essere una storia buona per Pirandello. Si è svolta giovedì scorso alla Camera. La destra, che allora era per i blocchi navali e per i porti chiusi, conferma, in una sua mozione, il famoso Memorandum con la Libia siglato dal governo Gentiloni nel 2017. Chi allora lo sottoscrisse, ovvero il Pd, ne chiede invece una cancellazione tout court, non un cambiamento, più o meno radicale, per renderlo più esigente e adeguato alle nuove condizioni dell’area. La posizione più ragionevole, paradossalmente, è quella di chi allora era contro tutto e tutti, i Cinque stelle. Loro ne invocano una radicale revisione. La storia, che va al di là del singolo voto parlamentare, si presta a una lettura su più piani. Prima, però, capiamo di cosa stiamo parlando. Quel memorandum fu sottoscritto il 2 febbraio del 2017 a Roma assieme a Fayez Al-Serraj, il premier libico del governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Poi fu fatto proprio dall’Ue nel vertice di Malta di due giorni dopo, con tanto di lodi sul “modello italiano”. La finalità: rafforzare le istituzioni libiche nel contrasto al traffico di esseri umani attraverso una serie di strumenti tra cui il sostegno alla guardia costiera. Effettivamente quel governo, ha agito, con Marco Minniti al Viminale, un ruolo in Europa sul tema: 120mila arrivi in meno in un anno senza chiudere un porto o far scorrazzare le navi verso porti più lontani; corridoi umanitari anche in collaborazione con la Cei; 27mila i rimpatri volontari assistiti; il ritorno dell’Onu in Libia che, tra l’altro, gestì direttamente il primo centro di accoglienza a Tripoli; la stipula della pace di Roma tra le tribù del deserto in lotta tra loro; l’accordo con i sindaci dei 13 comuni più coinvolti nel traffico di esseri umani con l’idea: noi vi aiutiamo a costruire città migliori, voi rompete coi trafficanti. Quel che è accaduto successivamente è noto. Prima, dopo sedici mesi, è cambiato il governo. Poi è saltata la Libia: la guerra civile, le due Libie, le zone di influenza russe e turche, la guerra dei clan eccetera. Questo articolo non è una difesa del Memorandum con la Libia, sulla cui evidente necessità di un tagliando si si sono pronunciati anche i protagonisti di allora. È un articolo sulle contraddizioni del Pd. Se il racconto non è quello di un tentativo giusto per governare l’immigrazione e arginare i crimini, da aggiornare laicamente nel nuovo contesto con le medesime finalità, ma è quello di un accordo sin dall’origine criminale, madre di tutte le nefandezze, la conclusione è che lo è l’intera storia recente del Pd. Anche dopo il governo Gentiloni. Dal 2017 ad oggi, sono passati otto anni, quattro dei quali il Pd li ha passati al governo, prima con Giuseppe Conte, poi con Mario Draghi. Durante questo periodo il Memorandum è stato sempre rinnovato così come era. Più volte si è manifestata, sempre a ridosso della scadenza, l’esigenza di cambiarlo, ma poi è stato rinnovato tale e quale: “Il Memorandum - disse Nicola Zingaretti fresco di elezione a segretario - deve cambiare radicalmente, ma io non ho mai creduto al disimpegno unilaterale. La soluzione non è scappare dagli scenari di crisi”. Né qualcuno ha mai tratto le conseguenze di fronte al diniego della Libia. Neanche tra gli attuali sostenitori di Elly Schlein che hanno avuto incarichi di governo. Si dice: con Elly Schlein cambia la musica anche se si andrà al governo. Mai più Memorandum. La vicenda, oltre a quesiti politici che riguardano il rapporto coi Cinque stelle e a quesiti esistenziali che riguardano il rapporto con la propria storia, pone un interrogativo di fondo di non poco conto. La damnatio memorie è chiara, la linea sull’immigrazione meno: l’unica risposta alla destra è la denuncia umanitaria e “l’accogliamoli tutti”. Ovvero: la rinuncia al governo del fenomeno (e pure alla lotta ai trafficanti) nella Libia di oggi come altrove, che è poi la differenza tra un partito politico e un’Ong, tra la costruzione di una prospettiva e un nobile soccorso. Se allarghiamo lo sguardo, registriamo, al tempo stesso, un unicum italiano e una crisi generale del progressismo sulla materia più sensibile in questo tornante della storia. In Italia, ove è all’opposizione, la sinistra è racchiusa solo nell’orizzonte umanitario. Dove invece è al governo, scimmiotta la destra nell’orizzonte securitario. Il modello Albania di Giorgia Meloni ha fatto scuola. Keir Starmer lo ha riproposto sul Kosovo. La Spd lo ha accettato con l’Afghanistan. La premier danese e presidente di turno dell’Ue Mette Frederiksen sul Ruanda. Insomma, è diventato il paradigma condiviso, assieme all’uso della parola deportazioni destinato a diventare realtà entro la fine dell’anno. Morale della favola: la destra non è sfidata né dagli uni né dagli altri su un modello di governo che coniughi la sicurezza e diritti. Che era appunto la logica di quel governo del lontano 2017. Espiata la colpa, resta il problema: chi si occupa della Libia e dell’Africa? Medio Oriente. Coesistenza pacifica, il progetto più bello a cui lavorare insieme di Beatrice Guarrera L’Osservatore Romano, 17 ottobre 2025 Mentre il mondo segue con trepidante attesa gli sviluppi in Medio Oriente, sperando che la tregua sancita tra Israele e Hamas sia davvero l’inizio della pace, il ruolo dei cristiani in Terra Santa si fa sempre più cruciale. “Il senso del perdono è molto fragile nella religione ebraica e in quella musulmana, per cui i cristiani che l’hanno, invece, al centro anche della loro spiritualità, dovranno essere coloro che aiuteranno entrambe le parti a raggiungere questo ideale”. Lo afferma, ai microfoni dei media vaticani, padre Alberto Joan Pari, Segretario di Terra Santa e incaricato del dialogo ecumenico e interreligioso, oltre che responsabile del dialogo con il mondo ebraico per la Custodia di Terra Santa. “Anche il cardinale Pierbattista Pizzaballa, nella primissima lettera che ha scritto pochi giorni fa, quando è stato annunciato l’accordo tra Israele e Hamas - prosegue padre Pari - ha detto che noi dobbiamo insistere sul perdonare e andare oltre, perché se rimaniamo su vendetta e odio, non si può avere un futuro”. La sete di pace della gente, dopo due anni di guerra, è stata subito visibile nelle reazioni di gioia alla notizia del raggiungimento di un cessate-il-fuoco e poi anche nel giorno in cui gli ostaggi israeliani, detenuti a Gaza nelle mani di Hamas, sono stati liberati e hanno potuto riabbracciare le proprie famiglie. “A Gerusalemme attendevamo questo giorno da tempo”, continua il sacerdote, che vive e lavora nella Città Santa: “All’inizio, devo essere sincero, c’è stato un po’ di scetticismo”, “e solo nelle ore del pomeriggio abbiamo cominciato a realizzare che veramente tutto era andato a buon fine”, tirando “un sospiro di sollievo”. Sono stati, infatti, tempi molto duri quelli che hanno avuto inizio dopo il 7 ottobre 2023, “un vero e proprio spartiacque”. “È stato come un grande terremoto - sostiene padre Pari - e all’inizio, sia io, sia tutte le persone con cui collaboro, musulmani e ebrei, abbiamo pensato che tutto fosse distrutto”. Poi, invece, dopo i primi mesi difficili, è stato possibile tornare a incontrarsi e ricominciare le attività quotidiane. “Ho trovato da entrambe le parti, sia dalla parte musulmana che ebraica, persone di buona volontà che volevano veramente il bene del popolo e del Paese, che ancora credono che sia possibile vivere insieme e fare qualcosa di bello insieme - continua padre Pari -. Però è tutto molto difficile, è sempre un po’ come “camminare sulle uova” in questa difficoltà”. La coesistenza pacifica è possibile, secondo l’esperienza del sacerdote, che è anche direttore dell’istituto Magnificat, la scuola di musica della Custodia di Terra Santa, che quest’anno festeggia trent’anni di attività. “Era nata - racconta - come scuola di musica, quindi senza pretesa di essere un luogo di coesistenza pacifica. Però naturalmente lo è diventato, quando hanno cominciato ad arrivare, oltre a pochi insegnanti cristiani, la maggioranza di insegnanti ebrei, mentre la popolazione studentesca è formata, per la maggioranza, da cristiani e musulmani di origine palestinese e poi anche alcuni ebrei”. La sede dell’istituto è anch’essa in un luogo speciale, trovandosi nei locali della Custodia di Terra Santa, nel quartiere cristiano della Città Vecchia di Gerusalemme, zona da sempre di incontro tra i popoli. “Per vivere insieme, per creare comunione, deve esserci una grande volontà da tutte le parti”, rinunciare un po’ a sé, “per aprirsi alla diversità e all’altro”, sostiene il sacerdote. “Anche a scuola abbiamo avuto momenti di grande tensione, come dopo il 7 ottobre 2023, quando l’orchestra del Magnificat, formata quasi tutta da cristiani e musulmani, non voleva più incontrare il direttore che è ebreo israeliano”. Nel delicato momento, il direttore d’orchestra ha voluto, con tanta determinazione, un incontro con i ragazzi. “All’orchestra ha detto: “Lo so che voi in me vedete solo Israele che sta occupando Gaza o l’esercito, ma io non sono né il mio governo, né il mio esercito. Io sono il vostro direttore e qui facciamo tutto tranne che politica. Quindi se mi date fiducia, possiamo veramente creare qualcosa di bello”. Li ha conquistati e da allora si sono incontrati settimanalmente”. Di recente, dopo una tournée in Italia, dopo quindi due anni di lavoro, l’ultima sera, durante un brindisi finale, il direttore ha parlato di nuovo all’orchestra. Padre Alberto ricorda bene il suo discorso: “Ha detto:”Io vi ringrazio tantissimo perché nella mia vita sto facendo la cosa più bella che mai ho fatto, cioè lavorare insieme con voi. È il progetto più bello che mi sia mai capitato”. Ecco: non avremmo mai potuto assistere a questo, se non con la buona volontà di tutti e con la speranza che veramente si può vivere insieme”.