Le “mie” prigioni di Umberto Brindani Gente, 16 ottobre 2025 Giorni fa sono entrato in un carcere per una breve lezione di giornalismo. E adesso mi domando se l’incontro con quei detenuti abbia fatto più bene a loro o a me. L’altro giorno sono finito in carcere. Ma no, cosa avete capito? Non mi hanno arrestato: mi è stato consentito l’accesso in un penitenziario per tenere a un piccolo gruppo di detenuti una breve lezione di giornalismo. Ho attraversato cancelli, sbarre, guardiole ed enormi cortili per arrivare nella sezione che mi era stata assegnata, dove in una stanza aperta sul corridoio delle celle mi aspettava una dozzina di carcerati. Ci sono rimasto un paio d’ore. E non so se quell’incontro abbia fatto bene più a loro che a me. Il carcere è la Casa di reclusione di Bollate, vicino a Milano. Circa 700 celle per oltre 1.400 detenuti. Sovraffollato, come tutte le prigioni italiane, e anch’esso segnato dal dramma dei suicidi, ma per molti versi differente da altri istituti di pena e considerato in qualche misura un modello. “Intanto non è un carcere di massima sicurezza”, mi dice uno dei miei “allievi”, un signore alto e magro sulla sessantina. “Molti lavorano, anche fuori, e all’interno, rispettando le regole, abbiamo margini di movimento. Vorrei dire di libertà, se questa parola, qui dentro, si potesse pronunciare senza fare un sorriso amaro”. Sono qui grazie all’impegno di un collega che per molti anni ha lavorato proprio a Gente, Renzo Magosso, che da qualche anno al carcere di Opera è l’animatore di un vero giornale realizzato dai reclusi (si chiama OperaNews) e che adesso sta cercando di allargare l’esperienza anche a Bollate. Un periodico che non vuole essere solo rivolto all’interno, ai problemi carcerari, ma che al contrario è aperto a ciò che succede “fuori”, in Italia e nel mondo. I redattori riflettono su Gaza e sulla guerra in Ucraina, per esempio. Non si piangono addosso. Studiano e vogliono capire, e dare spiegazioni, e approfondire. Mi hanno fatto tante domande, curiosi dei piccoli segreti del mestiere, ma poi abbiamo finito per parlare di tutto, di cronaca e attualità, di geopolitica e problemi della giustizia. Erano presenti due o tre giovani, ma la maggior parte aveva più di 50 anni. Il sessantenne alto e magro era particolarmente preparato e ciarliero: sta scontando una pena di molti anni, probabilmente era un manager o un imprenditore, chissà quale reato l’ha rinchiuso qui. Quasi tutti sorridevano. Uno, un tipo con la barbetta arrivato in ritardo, ha portato una ventata di allegria. Uscendo, mi sono domandato quante volte, nella mia testa o pubblicamente, ho usato la frase “buttare via la chiave”. Quante volte ho citato, senza crederci fino in fondo, l’art. 27 della Costituzione che stabilisce: “Le pene devono mirare alla rieducazione del condannato”. Quante volte ho detto che 16 anni di galera, o 20, erano pochi. Ora quel gruppo di persone mi ha costretto a ragionare. E a farmi riflettere: quegli uomini, indipendentemente da ciò che avevano fatto nella loro vita precedente, hanno diritto a una seconda chance. A nessuno dovrebbe essere negata, dopo la giusta punizione, la possibilità di ricominciare. I minori entrano in carcere arrabbiati col mondo. Nel podcast “Cattivi” li abbiamo fatti parlare di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2025 Finalmente è stato messo un microfono in mano a questi ragazzi e a queste ragazze. Finalmente sono stati ascoltati. Dal penale al sociale è stato lo slogan che ha accompagnato le battaglie politiche e sintetizzato l’approccio culturale della nostra associazione Antigone negli ultimi decenni. La reazione delle politiche penali deve lasciare il campo alla prevenzione delle politiche sociali, intese nella maniera più ampia e integrata possibile. Se davvero accadesse questo, il carcere si svuoterebbe dei grandi numeri che oggi lo gonfiano. Le carceri non recludono la grande criminalità bensì la grande marginalità, portatrice di ogni tipo di povertà - a cominciare da quella sanitaria - e di problema sociale. La prigione costituisce vergognosamente l’ultima frontiera del welfare. C’è un posto dove più che mai si tocca plasticamente con mano tutto questo: sono le carceri minorili, dove i ragazzi più fragili e senza paracaduti di sorta vengono abbandonati nella miseria di una cella senza prospettive. Tantissimi sono minori stranieri non accompagnati, arrivati in Italia con i traumi di viaggi disperati e lasciati senza accoglienza né cura a vivere in mezzo alla strada. Ragazzi che dovremmo proteggere per il passato difficile dal quale provengono, ragazzi giovani, giovanissimi, che raggiungono le nostre coste spesso prima ancora dell’età imputabile, i quattordici anni. Dal momento in cui li compiono, è difficile per loro non finire per incrociare il sistema penitenziario. La vita di strada li spinge verso i piccoli furti, le dipendenze, il piccolo spaccio. Entrano in carcere esausti e arrabbiati col mondo degli adulti. Qui cercano di parlare, ma gli strumenti per farsi ascoltare sono sempre troppo pochi: ci si taglia, si mette a soqquadro la cella, si protesta rumorosamente. Ma tendenzialmente nessuno ascolta. Giornali, sindacati di polizia, governanti parlano di loro come dei rivoltosi. Ma nessuno entra là dentro per chiedere cosa vogliano. Abbiamo tentato di farlo noi, in un podcast che vi invito ad ascoltare. Si chiama “Cattivi. Le carceri dei ragazzi viste da dentro”. Finalmente è stato messo un microfono in mano a questi ragazzi e a queste ragazze. Finalmente sono stati ascoltati: questo era il nostro principale obiettivo, insieme a quello di portare la loro voce a più persone possibile. Andrea, Fatima, Vilson, Vittoria, Youssef: questa storia la raccontano loro. E dalle loro parole e dalle loro vite emerge in tutta la sua chiarezza quello che dicevo all’inizio: se ci prendessimo cura delle persone, a cominciare dai nostri giovani, con serie politiche di prevenzione, avremmo tanto meno bisogno di metterle in galera. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone L’importanza del lavoro per le persone in carcere di Alessandra Vescio Marie Claire, 16 ottobre 2025 “Ho sentito meno il carcere, psicologicamente ti risolleva. Io avevo una condanna di sette anni: vedere persone, uscire a lavorare e poter socializzare rende più facile il reinserimento nella società. Di solito i carcerati si uccidono per il troppo stress che vivono. Ma se dai loro la possibilità di uscire, di lavorare, allora loro cambiano, sentono di avere uno scopo. Progetti come questi possono veramente dare una possibilità e cambiare delle vite”. Allo sciopero del 3 ottobre, indetto in sostegno alla popolazione palestinese e in seguito all’attacco israeliano alla Global Sumud Flotilla, hanno partecipato persone di tutte le età, contesti, background. Persone che hanno voluto manifestare la propria indignazione e il proprio dissenso contro il trattamento degli attivisti e delle attiviste della Flotilla, contro il genocidio, contro il silenzio e l’inadempienza della politica. Tra queste, ci sono state anche le persone detenute nel carcere di Bologna. Come hanno scritto in una lettera coloro che lavorano per “Fare imprese in Dozza”, azienda interna all’istituto, “Per noi reclusi andare a lavorare è un momento di libertà dal contesto carcerario in cui viviamo ogni giorno. Nonostante ciò, rinunciamo a un giorno di libertà e al nostro stipendio. Questa decisione è stata presa per manifestare tutta la nostra indignazione per il genocidio tuttora in atto e per supportare le persone della Flotilla, arrestate con l’unica colpa di essere ambasciatori d’umanità. Questo è il minimo che possiamo fare per poter ringraziare tutti quei cittadini che ogni giorno si battono per i diritti dei detenuti”. La descrizione del lavoro come “momento di libertà” in un contesto di reclusione fa comprendere bene il significato che il lavoro può avere per le persone detenute. Nella Legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, il lavoro è descritto come importante per il reinserimento sociale dopo la detenzione. Perciò, si specifica nel testo, deve essere garantito e favorito “in ogni modo”, retribuito, non “afflittivo”, in linea con i “desideri”, le “attitudini” e l’esperienza di chi è recluso e tenendo conto anche di quanto potrà essere svolto una volta fuori. Le stime ci dicono che sei persone detenute su 10 sono state già in carcere almeno una volta, ma il tasso di recidiva si abbassa notevolmente per coloro che hanno avuto la possibilità di lavorare durante la detenzione: secondo i dati condivisi dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro nell’ambito del progetto “Recidiva Zero”, potrebbe ridursi addirittura al 2%. Il lavoro però non è importante solo per il dopo, ma anche durante la detenzione: il tempo vuoto, sospeso, fatto di giornate tutte uguali trascorse quasi interamente all’interno di una cella, in un contesto oltretutto di sovraffollamento, incuria e carenza di risorse, svilisce, abbatte e fa ammalare. Secondo il report condotto da Censis per CNEL, però, a lavorare oggi è soltanto il 34,3% delle persone detenute mentre il 7,2% del totale partecipa a corsi di formazione professionale. I numeri sono in aumento, ma non ci dicono tutto. Come ha scritto l’associazione Antigone, “per essere conteggiati tra i detenuti lavoratori può bastare che la persona lavori anche solo poche o pochissime ore settimanali, con conseguente scarsa o scarsissima remunerazione”. Sono pochi ad esempio i detenuti che hanno datori di lavoro esterni: oltre l’85% invece lavora per l’amministrazione penitenziaria, a volte per poche ore al giorno o al mese, e in molti casi svolgendo attività che richiedono una bassa qualificazione e una bassa retribuzione. Questo è vero soprattutto per le detenute. Per quanto, come ha scritto Antigone, siano inserite in percorsi lavorativi in misura maggiore rispetto agli uomini, si tratta comunque di un numero insufficiente e soprattutto in molti casi di lavoro poco qualificante. Le donne in carcere infatti si ritrovano a svolgere soprattutto attività che impegnano e pagano poco, mentre i corsi di formazione professionale in vari casi “appaiono appiattiti su stereotipi di genere”. In ogni caso, quello che pesa di più tanto per le detenute quanto per i detenuti è la carenza del lavoro e delle opportunità. A provare a fornire opportunità di lavoro qualificato alle persone detenute c’è Banda Biscotti, un progetto di produzione dolciaria nato nel 2007 all’interno della Casa Circondariale di Verbania. Negli anni il progetto è cresciuto, ha ampliato gli spazi e la produzione e soprattutto ha offerto opportunità di lavoro a oltre cinquanta detenuti. Tra questi c’è P., che ha iniziato a lavorare con Banda Biscotti nel 2021 e che continua a farlo ancora oggi che è un uomo libero. P. aveva già esperienza nel settore, ma, dice, “vedo tanti ragazzi che arrivano che non sanno nulla di pasticceria o di come si fanno i biscotti. Questo non è un problema, ci aiutiamo a vicenda: ci sono diversi incarichi e impari a fare un po’ tutto, dall’impasto a usare i macchinari, alla parte di confezionamento. E poi c’è chi si specializza in qualcosa nel tempo. Il progetto ti dà la possibilità di avere in mano un lavoro concreto, di saper fare delle cose, che poi ti possono aiutare quando sei fuori”, spiega. Poter lavorare mentre era in carcere per P. è stato fondamentale: “Mi ha dato una grande mano, soprattutto per la mia famiglia, per poter crescere i miei due figli. Mi ha aiutato tanto, sono riuscito a comprare la casa per la mia famiglia e continuare a sostenere i miei genitori, ora anziani. Il lavoro mi ha concesso di offrire ai miei figli una vita normale”. Ma per lui lavorare ha avuto anche un altro valore: “Ho sentito meno il carcere, psicologicamente ti risolleva. Io avevo una condanna di sette anni: vedere persone, uscire a lavorare e poter socializzare rende più facile il reinserimento nella società. Di solito i carcerati si uccidono per il troppo stress che vivono. Ma se dai loro la possibilità di uscire, di lavorare, allora loro cambiano, sentono di avere uno scopo. Progetti come questi possono veramente dare una possibilità e cambiare delle vite”. Lavorare, e farlo con retribuzioni e contratti regolari come nel caso di chi è impiegato in Banda Biscotti, commenta infatti P., “ti dà la forza e il coraggio per andare avanti, senza questo è facile ricadere: se non ci sono opportunità, non ci sono associazioni o cooperative che si mettono in funzione, è più facile tornare a commettere reati, non perché vuoi delinquere, ma perché non hai alternative. È la strada giusta per i detenuti, nascono una seconda volta, viene offerto loro un futuro, una possibilità per non ritornare sulla strada sbagliata”. E lui sente che grazie a questa iniziativa è “rinato una seconda volta: senza la possibilità di uscire e lavorare, sono sicuro che sarei tornato a percorrere la vecchia strada, perché non avevo niente. E so che è così anche per altre persone che sono nel progetto, rinasciamo”. E aggiunge: “Oggi non penso più al passato, guardo avanti e mi impegno per continuare a sostenere la mia famiglia, e grazie a questo progetto ho avuto la possibilità di farlo”. Il discredito della magistratura e la coscienza del magistrato di Guido Vitiello Il Foglio, 16 ottobre 2025 Non si parla di corda in casa dell’impiccato. L’impiccato è Aldo Scardella, il ragazzo di ventiquattro anni che si uccise in una cella di isolamento del carcere di Buoncammino a Cagliari il 2 luglio 1986, dopo sei mesi di detenzione da innocente. Quanto alla casa, non è difficile trovarne l’indirizzo: è quella in cui si parla malvolentieri della corda. L’avvocato Patrizio Rovelli, dopo aver raccolto migliaia di firme per intitolare a Scardella l’aula magna del Palazzo di Giustizia di Cagliari, si è sentito rispondere dai presidenti del Tribunale e della Corte d’appello che “ricordare un errore giudiziario getterebbe discredito sulla magistratura”. Risposta franca ma, credo, anche bugiarda: il problema non è il discredito, dunque l’immagine pubblica, bensì l’angoscia, dunque il foro interiore. Non la vergogna, ma la colpa. Era stato Leonardo Sciascia, in un articolo del 1983, a spiegare psicologicamente la riluttanza della corporazione togata ad ammettere la possibilità dell’errore. Poiché la società li ha delegati “a punire la violenza con la violenza”, i magistrati si sentirebbero inibiti a esercitarla “se non riuscissero a respingere ai margini, in un marginale baluginio della coscienza, la preoccupazione dell’errore”. Per la stessa ragione resistono con tanta sintomatica tenacia all’istituzione di una giornata nazionale in memoria delle vittime degli errori giudiziari. Non possono tollerare che si punti un faro accecante su un abisso che vorrebbero illuminato solo dal tenuissimo baluginio di cui parlava Sciascia. Si tramanda che nella Repubblica di Venezia il segretario del Consiglio dei Dieci, massimo organo giurisdizionale penale, ammonisse così i consiglieri che si apprestavano a pronunciare una sentenza: Recordéve del povaro fornareto, ricordatevi del povero fornaretto, vittima di un errore giudiziario del 1507. Si tramanda, ma è una leggenda, non c’è niente di vero. Anche allora, come oggi, era sconveniente parlare di corda. Separazione delle carriere al rush finale: la riforma in aula al Senato il 28 ottobre di Valentina Stella Il Dubbio, 16 ottobre 2025 Il presidente dell’Ucpi replica alle accuse dei magistrati progressisti: “Difendiamo i diritti dei cittadini, il divorzio tra giudici e pm una battaglia di libertà”. Il ddl di riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati arriverà in aula al Senato il 28 ottobre per l’ultimo passaggio parlamentare. Lo ha deciso ieri la capigruppo di Palazzo Madama. “Noi come maggioranza - ha spiegato il capogruppo di FI, Maurizio Gasparri - chiedevamo il 23 ma, chiarito che all’unanimità si poteva fare il 28, abbiamo accolto la proposta del presidente del Senato, La Russa. Di fronte alla certezza dei tempi non abbiamo avuto nulla da obiettare”. La maggioranza punta a tenere il referendum a fine marzo 2026. Intanto il 25 ottobre la magistratura farà sentire forte la sua voce di dissenso contro la riforma: quel sabato infatti è prevista una assemblea in Corte di Cassazione. L’obiettivo è quello di intercettare seriamente gli elettori. Per questo è stato organizzato tra dieci giorni quell’ “importante momento di confronto che vedrà la partecipazione di numerosi esponenti di rilievo della giustizia, della società civile, del giornalismo, della cultura”, recita un comunicato dell’Anm. Guest star sarà sicuramente il procuratore di Napoli Nicola Gratteri che forse per la prima volta partecipa ad un evento Anm di tale portata. Con lui Giancarlo De Cataldo, l’ex magistrato autore di Romanzo criminale, l’ormai scrittore Gianrico Carofiglio, il penalista Mitija Gialuz, Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci ucciso dalla mafia. Ma anche gli artisti Edoardo Bennato e Sabina Guzzanti. Bisognerà poi capire l’impatto mediatico che avrà un tale evento sulla società civile. Sicuramente il dibattito andrà in un’unica direzione: quella di contrarietà alla riforma costituzionale targata Nordio e Meloni. Ad esempio, pare infatti essersi interrotto definitivamente il confronto con l’avvocatura. Lo ha detto dal palco del congresso di AreaDg a Genova lo stesso presidente dell’Anm Cesare Parodi: “Basta parlare tra noi e professori e avvocati, dobbiamo arrivare ai cittadini” per vincere il referendum. Non a caso, fino ad oggi, è stata esclusa la possibilità che all’assemblea del 25 ottobre vengano invitati a parlare i rappresentanti di quella parte maggioritaria dell’avvocatura favorevole alla modifica dell’ordinamento giudiziario. In fondo, poi, è una assemblea, non un congresso. Fatta eccezione per Franco Coppi, che è tra quelli che interverranno e per cui la separazione delle carriere non risolve i problemi della giustizia: “Io non ho mai pensato di aver vinto o perso una causa perché il pm faceva parte della stessa famiglia del giudice”, è il suo mantra. Che l’aria sia tesa lo dimostra anche la replica di Francesco Petrelli, presidente dell’Ucpi, alle dichiarazioni di alcuni magistrati rilasciate off e on al congresso di AreaDg. Qualcuno aveva detto che l’avvocatura penalista si è venduta l’anima al governo per portare a casa la separazione delle carriere. Poi il leader delle toghe progressiste, Giovanni Zaccaro, aveva in pratica criticato una presunta incoerenza dei vertici dell’associazione dei penalisti che parlano tanto di garanzie ma poi a difendere gli ultimi nei processi ci mandano i legali d’ufficio. “Chi parla dell’anima dell’Unione non conosce l’Unione e non sa nulla della sua storia di contropotere di difesa degli interessi dei cittadini e di vicinanza agli ultimi”, ha detto Petrelli. “Non so chi sia stato a scendere così in basso nella polemica politica - ha proseguito - ma non è proprio nello stile e nella storia dell’Unione il venire a patti con il potere. E lo abbiamo dimostrato ogni volta che si è trattato di difendere i diritti di libertà e la dignità dei detenuti, contro il Dl sicurezza e contro lo scandalo del sovraffollamento e dei suicidi, e sempre dalla parte dello Stato di diritto”. Per Petrelli, “quella della separazione delle carriere è una riforma che l’Unione ha voluto, ha scritto e ha portato in Parlamento per prima e saranno quegli stessi cittadini che hanno firmato nelle strade la nostra proposta di iniziativa popolare che voteranno “Sì” per questa legge al referendum confermativo”. E poi rivolto direttamente a Zaccaro: “Qualcuno nella magistratura si ricorda solo ora della difesa d’ufficio alla quale invece l’Unione ha sempre dedicato con il suo Osservatorio grande attenzione perché il diritto di difesa trovasse effettiva attuazione nell’interesse dei più deboli. Questa polemica mi pare solo un modo non elegante di voler fare politica ma poi di sfuggire al confronto”. Il no dei giudici alla riforma: “Notte bianca per i diritti dei cittadini” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 16 ottobre 2025 Una battaglia per la difesa della Costituzione, dialogo e confronto serrato su alcuni punti cardine dell’assetto democratico in Italia. È questa la sfida del comitato che si batte contro la riforma della giustizia. Una sfida che parte da Napoli che avrà il suo punto di svolta sabato pomeriggio, con la nuova edizione della notte bianca della giustizia. Ci saranno magistrati, ma anche scuole e docenti. Artisti (tra cui la cantante Fiorella Mannoia), ma anche il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, i giornalisti Giovanni Floris e Massimo Giannini, don Luigi Ciotti (modera la giornalista di Repubblica Conchita Sannino). Un appuntamento che ha inizio sabato 18 ottobre nella sala arengario del Tribunale di Napoli, una sorta di notte bianca della giustizia al cospetto di scuole e docenti e di quanti - tra cittadini e utenti - vorranno prendere parte. Un appuntamento organizzato dalla giunta distrettuale dell’Anm (presidente Claudio Siragusa, segretario Valerio Riello). Ieri, il primo no alla riforma Nordio che verte - tra l’altro - sulla separazione delle carriere tra pm e giudici. Spiega il presidente Siragusa: “Vorremmo far capire che la nostra non è una battaglia corporativa, perché non abbiamo alcun interesse di casta da difendere. Anzi, è vero il contrario. La separazione delle carriere tra pm e giudici è duramente contrastata anche dai giudici. Vorremmo far capire ai cittadini che un pm disancorato dalla prospettiva di terzietà del giudice, e quindi vincolato al raggiungimento del risultato, incide gravemente sui diritti dei cittadini”. Una posizione sostenuta anche dagli altri esponenti della giunta distrettuale, vale a dire Cristina Curatoli, Claudio Ragozzino, Maria Concetta Criscuolo, Giuseppe Sica, Pina D’Inverno, Giuseppe Sepe. Una conferenza stampa, quella di ieri, in cui si è discusso anche del caso Moccia, con la decisione dei penalisti di proclamare quattro giorni di sciopero per tutte le udienze, con l’invito a superare lo strappo da parte dei vertici del distretto (presidente di corte di appello Maria Rosaria Covelli e pg Aldo Policastro). Hanno spiegato ieri i magistrati: “Sbagliato colpevolizzare i giudici per la scarcerazione di 15 imputati per decorrenza, una magistratura delegittimata agli occhi della opinione pubblica è un rischio per la tenuta democratica del Paese”. “Contro i reati inutili altre leggi o pene più alte: sono soltanto propaganda” di Lorenzo Giarelli Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2025 “La sicurezza non si ottiene creando nuovi reati, né continuando ad aumentare le pene. Difficilmente i Governi incidono sulla frequenza dei delitti ogni volta che promettono di occuparsene”. Marzio Barbagli è un sociologo tra i più noti in Italia. Professore emerito di Sociologia all’Università di Bologna e autore di svariati saggi, da anni studia i numeri e le tendenze della criminalità, osservandone l’impatto sulla società. Di fronte ai dati dei delitti commessi in Italia, fa una premessa da studioso: “Per fare valutazioni specifiche sui singoli reati, bisognerebbe essere a conoscenza di serie storiche degli ultimi decenni”. Professor Barbagli, l’approccio politico al tema della sicurezza è fuori fuoco? È noto che i partiti di sinistra evitano del tutto di parlare dell’argomento, forse credono di poter far finta di niente, la destra invece - e quindi nei partiti che ora sono al governo, la Lega in particolare - batte sempre sulla criminalità, utilizzandola come arma di propaganda. Ma non sono i singoli provvedimenti che possono modificare l’andamento di reati come i furti in appartamento, i borseggi e i cosiddetti reati di strada in genere. Dipendono da altri fattori, alcuni noti e altri no, ma diciamo che le serie storiche non mostrano negli ultimi decenni grandissime variazioni per questo tipo di delitti. Difficilmente i vari governi riescono a influire, quando promettono di occuparsene. A cosa si riferisce, quando parla di fatto che incidono sul numero di reati commessi? Ci sono sistemi che forse infiammano meno i cuori della propaganda, ma sono più efficaci. La letteratura scientifica per esempio ha a lungo studiato il caso del sindaco Giuliani, a New York. Una soluzione ha a che fare con un utilizzo più efficiente delle forze dell’ordine, che in Italia passa anche da un coordinamento migliore tra Polizia e Carabinieri. Sembra una banalità dirlo, ma la distribuzione degli agenti andrebbe fatta pensando alla frequenza dei reati in determinate zone. Un altro sistema è la “prevenzione situazionale”, ovvero rendere più difficile commettere certi reati, oppure renderli meno remunerativi per chi lo commette. Ad esempio? Se si riduce il più possibile l’uso del contante, col passare del tempo ci saranno meno persone che rubano il portafoglio, perché sanno che dentro ci troveranno pochi soldi. Dunque aumentare le pene non ha effetti? Nessun effetto. Semmai un effetto ce l’ha la frequenza con cui si riesce a trovare gli autori dei reati, che è una frequenza in genere molto bassa, soprattutto per i reati come il borseggio. C’è poi anche un aspetto culturale che condiziona certi reati? Spesso viene citato a proposito di omicidi e femminicidi… Gli omicidi sono in straordinaria diminuzione negli ultimi decenni. Oggi sono stabilizzati intorno ai 300 l’anno, quindici anni fa erano il doppio. La percezione dell’opinione pubblica probabilmente è opposta. Perché in tema anche qui non credo sia merito di particolari interventi da parte dei governi. Sugli omicidi ci sono studi che vanno indietro fino al 1300 e permettono di capire come il principale elemento in grado di far crollare i dati sia l’affermarsi dello Stato, che detiene il monopolio della forza. Gradualmente si è fatta largo l’idea che non ci si possa fare giustizia da soli. Sembrano cose lontane del tempo, ma riguardano anche anni più recenti. Su questo tema incide una trasformazione culturale molto lunga. Almasri, maggioranza contro Lo Voi: “Uso distorto del potere” di Simona Musco Il Dubbio, 16 ottobre 2025 I capigruppo invocano il conflitto di attribuzioni sulla capo di gabinetto Bartolozzi, indagata per false dichiarazioni. “Un uso distorto” del “potere di qualificazione dei reati”. È un’accusa pesante quella rivolta dai capigruppo di maggioranza al procuratore Francesco Lo Voi, “colpevole” di aver iscritto sul registro degli indagati la capo di gabinetto del ministero della Giustizia Giusi Bartolozzi. A guidare l’attacco sono Galeazzo Bignami (FdI), Paolo Barelli (Forza Italia), Riccardo Molinari (Lega) e Maurizio Lupi (Noi Moderati), che hanno formalmente chiesto di sollevare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, con una lettera di cinque pagine inviata al presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera, Devis Dori. L’indagine della procura di Roma su Bartolozzi, che avrebbe reso false informazioni davanti al Tribunale dei Ministri nell’ambito dell’affaire Almasri, secondo i capigruppo, “sembra configurare una violazione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alla Camera dei deputati”. Il destino di Bartolozzi, a loro dire, avrebbe dovuto seguire quello di Nordio, che insieme al ministro Matteo Piantedosi (Interno) e al sottosegretario Alfredo Mantovano è stato “scudato” dalla Camera, che ha negato l’autorizzazione a procedere. Nella loro lettera, i capigruppo esprimono “perplessità” per le azioni di procura e Tribunale dei Ministri. Quest’ultimo, infatti, ha definito “centrale” il ruolo della capo di gabinetto nella vicenda che ha portato all’espulsione del torturatore libico. Ed è proprio sulla base di questa affermazione che la Giunta ha chiesto chiarimenti, lo scorso 18 settembre, sia al Collegio per i reati ministeriali sia alla procura di Roma, per valutare l’eventuale sussistenza di una connessione teleologica tra il reato contestato a Bartolozzi e quelli attribuiti al ministro Nordio, tale da comportare l’attrazione della sua posizione nell’ambito di competenza della Camera dei deputati. Dalle risposte ricevute è emerso che il 1° agosto 2025 è stato il Tribunale dei Ministri a presentare denuncia nei confronti di Giusi Bartolozzi, a seguito della quale la procura ha proceduto all’iscrizione il 7 agosto. Successivamente, è stato Lo Voi a precisare che, a suo giudizio, “nel caso in esame si è al di fuori del campo di applicazione delle disposizioni della legge costituzionale n. 1 del 1989”, in quanto i reati attribuiti a Nordio e a Bartolozzi differiscono “per titolo e tempi di commissione”, cosa che farebbe rientrare la posizione della capo di gabinetto nella giurisdizione ordinaria. Una “petizione di principio”, la sua, secondo i capigruppo: per Lo Voi, scrivono, “il reato attribuito a Bartolozzi non può essere considerato ministeriale perché l’autorità giudiziaria lo ha qualificato come ordinario”. Ma se è vero che spetta all’autorità giudiziaria qualificare i reati, il problema, affermano, è “l’uso distorto di tale potere, vòlto - non importa se intenzionalmente o meno - a impedire l’esercizio da parte del Parlamento della prerogativa ad esso riconosciuta dall’art. 96 della Costituzione, dalla legge costituzionale n. 1 del 1989 e dalla legge n. 219/ 1989 attraverso la qualificazione giuridica della condotta asseritamente illecita della dottoressa Bartolozzi”. Qui il primo attacco al procuratore, protagonista, a loro dire, di “un vero e proprio sviamento del potere di qualificazione dei reati”, dimostrato dalla “insanabile contraddizione logica che esiste tra la valutazione della condotta della dottoressa Bartolozzi operata dal Tribunale dei Ministri e la mancata richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti in qualità di “coimputato laico”. È stato proprio il Tribunale dei Ministri, infatti, ad assegnare un ruolo significativo a Bartolozzi “nella gestione e nella valutazione delle implicazioni istituzionali dell’arresto di Almasri”, partecipando a tutti gli incontri dovo sono maturate le decisioni che hanno portato alla liberazione del torturatore, diventando un “vero punto di snodo del segmento procedurale di competenza di quel ministero, essendo stata in costante contatto col ministro Nordio e - per esplicita ammissione di quest’ultimo - puntuale esecutrice delle sue direttive politiche”. Da tutto ciò, secondo i capigruppo, emergerebbe “con chiarezza” una connessione tra le accuse rivolte a Bartolozzi e quelle indirizzate a Nordio, tanto più che le dichiarazioni contestate sarebbero state rese proprio in relazione ai medesimi fatti, allo scopo - nella logica del Tribunale - di evitare al ministro la contestazione di reati funzionali. “Ne deriva che sussiste una connessione teleologica” tra i reati, affermano i firmatari, e ciò “avrebbe dovuto imporre la trasmissione degli atti alla Camera, affinché questa deliberasse sull’autorizzazione a procedere anche con riferimento alla posizione della dottoressa Bartolozzi”. La scelta della procura di procedere per via ordinaria avrebbe determinato, come affermato a Montecitorio dal relatore Pietro Pittalis, “un pregiudizio concreto alle prerogative costituzionali della Camera”. Da qui nasce l’esigenza - ribadiscono i capigruppo - di “ristabilire un corretto equilibrio tra le prerogative della Camera e quelle dell’autorità giudiziaria”, affinché Montecitorio non sia privata della possibilità di esprimere una propria autonoma valutazione su ipotesi di reato connesse a quelle ministeriali, così come previsto dalla giurisprudenza costituzionale. Lo strumento è quello già annunciato nelle scorse settimane: un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale, “a tutela delle prerogative della Camera dei deputati lese dall’operato omissivo della magistratura procedente”. Firenze. L’ultimo saluto a Elena, morta suicida nell’inferno delle carceri di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 ottobre 2025 Una vita tra furti e crack. Il saluto di chi ha cercato di aiutarla. Aveva 14 anni quando fuggì dalla sua famiglia in Romania. Ha vissuto nelle strade d’Europa, dall’Ungheria fino all’Italia. Poi una vita di stenti a Firenze, costretta a prostituirsi, schiava del crack sui marciapiedi nei dintorni della stazione. Finita due volte in carcere, prima al minorile di Pontremoli e poi a Sollicciano, dove lo scorso 7 settembre si è tolta la vita impicciandosi nella sua cella: il suicidio carcerario numero 60 nel 2025. A Sollicciano era arrivata dopo l’aggressione a Ezio, l’anziano di via Maso Finiguerra finito in coma. Il suo corpo adesso riposa qui, dentro una bara bianca al cimitero di Trespiano, dove ieri mattina si è celebrato un funerale con sole otto persone. Si chiamava Elena Gurgu, aveva 26 anni. Pochi giorni fa, l’ambasciata avrebbe contattato la sua famiglia in Romania, ma nessuno ha voluto saperne. Eppure c’era qualcuno che le voleva bene. Sono le persone che adesso si stringono attorno al suo feretro, che pregano insieme a don Stefano Casamassima, cappellano di Sollicciano. Un breve rito funebre, quello di ieri mattina a Trespiano, in cui Casamassima si è rivolto a Elena dicendo: “Qui attorno a te ci sono alcune persone che hanno saputo vedere il tuo desiderio di vita e di felicità, adesso siamo qui per affidarti al Padre, che conosce da sempre la tua dignità”. A 17 anni viene arrestata per estorsione, finisce in comunità ad Arezzo, poi al carcere minorile di Pontremoli. Qui incontra la sua prima avvocata, Chiara Bandini. Anche lei si commuove a Trespiano, gli occhi coperti dagli occhiali da sole, rose bianche e arancioni deposte sulla terra nuda. “Elena è stata sfruttata nella prostituzione - racconta - adescava gli uomini e li portava sotto i ponti dell’Arno. A volte andava alle Cascine. Era una ragazzina alla ricerca disperata di affetto. Aveva un figlio, che appena nato le è stato tolto e dato in adozione. Lei avrebbe voluto sapere dov’era, anche per questo soffriva. Al carcere di Pontremoli era diventata brava a fare i testaroli. Nel 2018 m’invitò a uno spettacolo teatrale in carcere, andai a vederla ed era felicissima”. Il giorno prima di suicidarsi sembrava serena, ricordano le volontarie dell’associazione Pantagruel: “Forse aveva già deciso di togliersi la vita - dice Lucia, arrivata a Trespiano con una pianta di erica - alla sua compagna di cella aveva detto “come sei bella” e poi le aveva fatto la treccia ai capelli”. Sul muro della cella è stata trovata la scritta “Elena vi saluta”. A Trespiano ci sono anche l’avvocato Luca Maggiora. e Michele Brancale della Comunità di Sant’Egidio: “Era venuta alla messa in carcere”. Don Stefano, avvolto nel suo abito talare bianco, si fa il segno della croce davanti al feretro: “Questa ragazza parlava poco di sé, probabilmente la sua mente e il suo cuore si erano chiusi dopo tanta sofferenza. Per tutta la vita si è sentita rifiutata. Alla notizia del suo suicidio, le detenute e gli agenti di Sollicciano hanno pianto per lei”. Monza. Detenuto ritrovato morto in cella, indaga la Procura di Andrea Papaccio monza-news.it, 16 ottobre 2025 Un uomo di 63 anni deceduto nella casa circondariale di via Sanquirico. Indaga la Procura, disposta l’autopsia. I carabinieri del Nucleo investigativo sono entrati nella struttura di via Sanquirico nella mattinata di lunedì 14 ottobre, dopo che un detenuto è morto. L’uomo, un italiano di 63 anni, è stato trovato senza vita all’interno della sua cella. Sulla vicenda indagano la Procura di Monza e i militari, mentre è stata disposta l’autopsia per chiarire le cause del decesso. Secondo le prime informazioni, l’ipotesi del suicidio appare da scartare. Anche una morte violenta sarebbe al momento esclusa, ma gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Negli ultimi mesi, episodi simili hanno interessato altri istituti penitenziari lombardi. Qualche giorno fa, nel carcere di San Vittore a Milano, due detenuti erano morti a poche ore di distanza, ufficialmente per arresto cardiaco, ma in circostanze definite “misteriose” dagli stessi operatori penitenziari. Purtroppo, i decessi in carcere non sono una novità. Alla casa circondariale di Monza, l’ultimo caso risale alla scorsa estate, quando un giovane si era tolto la vita in cella. Da allora il tema delle condizioni di vita nelle carceri lombarde - sovraffollamento, carenza di personale e disagio psicologico - è tornato più volte al centro del dibattito. La Procura di Monza ha aperto un fascicolo conoscitivo per accertare con precisione le cause della morte. I carabinieri hanno effettuato rilievi all’interno della cella e ascoltato il personale di sorveglianza e alcuni compagni di detenzione. Solo l’autopsia, attesa nei prossimi giorni, potrà stabilire se il 63enne sia morto per cause naturali, assunzione di sostanze o altre circostanze accidentali. L’episodio riaccende l’attenzione sulle condizioni delle strutture penitenziarie lombarde, già sotto pressione per sovraffollamento e mancanza di assistenza sanitaria adeguata. Le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria e i garanti dei detenuti chiedono da tempo più risorse e personale, per prevenire nuovi episodi drammatici. Venezia. Sospeso il direttore del carcere. I dissidi con Roma, la città lo difende di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 16 ottobre 2025 Il caso Enrico Farina arriva in Parlamento. Non è ancora chiaro cosa ci sia dietro l’improvvisa revoca del direttore del carcere maschile di Venezia, Santa Maria Maggiore, noto in città per aver trasformato in due anni la struttura, firmando numerosi protocolli con le istituzioni per favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti. Dopo aver ricevuto un provvedimento di “sospensione temporanea per motivi organizzativi” ieri si è saputo che Farina, salernitano classe 1977, assumerà la guida dell’istituto penitenziario di Belluno, in attesa dell’arrivo della titolare Fabiana Sasso. Uno spostamento singolare dato che il suo incarico a Venezia sarebbe scaduto a dicembre 2026. Da ieri hanno preso il suo posto come reggenti il direttore del carcere bellunese Mattia Arba coadiuvato dalla vicedirettrice di Verona Rossana Gargano. Farina, intanto, è in ferie fino al 21 ottobre. Questi cambiamenti inaspettati e repentini stanno causando grande preoccupazione tra personale, operatori, volontari e gran parte dei detenuti. La causa di questo fulmine a ciel sereno è sconosciuta, ma sembra che ci sia stato uno screzio tra Farina e l’apparato dell’amministrazione penitenziaria. Le divergenze sarebbero sfociate in una telefonata di fuoco, non è chiaro se con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro o con Rossella Santoro, direttrice del Provveditorato regionale penitenziario. Al centro dello scontro sembra ci sia un problema che riguarda i nove alloggi non ancora ultimati della ex Casa Lavoro della Giudecca, destinati agli agenti ed elogiati anche dal ministro alla Giustizia Carlo Nordio, proprio lo scorso agosto. Ed è a lui che il senatore del Pd Andrea Martella ha rivolto un’interrogazione, depositata ieri anche alla Camera dall’onorevole Debora Serracchiani, responsabile giustizia dei dem, e dalla deputata Rachele Scarpa e dalla veneziana Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera. “È unanimemente riconosciuto come Farina abbia saputo creare importanti sinergie con il territorio - spiega Martella elencando le numerose iniziative di Farina -. È stato proprio il ministro della Giustizia Nordio a elogiare il modello realizzato a Venezia sulla valorizzazione del lavoro dei detenuti. Al ministro chiedo perciò quali siano le ragioni di questa decisione e se non intenda ripensarci al più presto”. In questi giorni chi lavora nell’ambito del carcere continua domandarsi che cosa possa essere successo da scatenare una misura così impattante. “La formula della sospensione temporanea per motivi organizzativi conferma già di per sé la disorganizzazione complessiva - dice Gennarino De Fazio segretario generale e nazionale della Uilpa Polizia penitenziaria -. Se per organizzare si deve sollevare un direttore e depotenziare le altre carceri di Rovigo e Verona, siamo all’emblema di uno stato comatoso dell’amministrazione penitenziaria che non fa che peggiorare la situazione attuale con diciassettemila detenuti in più e ventimila unità in meno”. Il vuoto che potrebbe lasciare Farina sta già creando preoccupazione. “Siamo rimasti basiti da quanto successo e speriamo che arrivino dei chiarimenti perché stavamo costruendo un progetto comune - dice Franca Vanto, segretaria regionale Cgil Funzione pubblica -. Santa Maria Maggiore non deve tornare com’era quando è arrivato Farina, con il cortile del carcere trasformato in una discarica che faceva già presagire come potevano essere le sessioni interne”. In questi due anni Farina ha avviato collaborazioni con diversi enti e istituzioni come La Biennale, azienda Serenissima, Ava Associazione albergatori Venezia, Gallerie dell’Accademia, Procuratoria di San Marco, senza dimenticare l’elenco di imprese che il direttore sospeso ha coinvolto per inserire i detenuti nel mondo del lavoro. È per il suo carattere molto attivo che si mormora possa essere diventato una figura ingombrante. “Poteva piacere o non piacere, ma aveva dimostrato di saper avviare una linea di apertura all’esterno del carcere - spiega la garante dei detenuti Rita Bressani. Siamo in pensiero perché questo equilibrio se si rompe ricade soprattutto sui carcerati”. Miano. A San Vittore situazione insostenibile, perché direttrice nominata non è ancora insediata? di Franco Mirabelli senatoripd.it, 16 ottobre 2025 Le vicende che interessano il carcere di San Vittore sono frequentemente oggetto di attenzione di numerosi organi di stampa che, pressoché quotidianamente, riportano fatti che riguardano l’istituto penitenziario. La situazione che emerge appare sempre più drammatica e quanto mai fuori controllo perdurando, ormai da molti anni, una quanto mai complicata condizione di sovraffollamento, dal momento in cui si registra un numero di detenuti che rappresenta il doppio di quello sostenibile dalla sua capienza normale. Recentemente un incendio ha interessato l’aula destinata allo studio dei detenuti che, fortunatamente senza riportare feriti o danni gravi, ha rovinato i luoghi destinati alla formazione dei detenuti e alcune suppellettili. A questi episodi, si aggiunge la tragica notizia pervenuta negli scorsi giorni che ha fatto registrare due vittime tra i detenuti, nonché del ricovero di altri tre carcerati, presumibilmente legate all’assunzione di sostanze stupefacenti o a causa di un’intossicazione, in fase di accertamento. Fatto ancora più grave, ancora oggi perdura l’assenza di una direzione stabile dal momento in cui deve ancora insediarsi la direttrice nominata mesi fa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Per questo motivo ho presentato, insieme ai colleghi Bazoli, Rossomando e Verini, una interrogazione al Ministro della Giustizia con la quale chiedo di sapere: ‘quale sia l’opinione del Ministro in indirizzo in merito ai fatti esposti in premessa, relativi ad uno stato di perdurante criticità equali iniziative intenda adottare per porre rimedio in maniera efficace e risolutiva alle problematiche sempre più radicate nell’istituto penitenziario di San Vittore; quali siano le ragioni per le quali la direttrice nominata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non abbia ancora preso servizio, malgrado l’assegnazione e la necessità di una direzione stabile in grado di ovviare alla drammatica situazione del sistema penitenziario nazionale”. Così il vice presidente dei senatori del Pd Franco Mirabelli, primo firmatario di una interrogazione al Ministro della Giustizia Nordio. Palermo. Al carcere minorile Malaspina in due anni raddoppiato il numero dei detenuti di Paola Pottino La Repubblica, 16 ottobre 2025 Erano 17 nel 2023, sono 33 oggi. Nella Sicilia occidentale è raddoppiato in due anni il numero dei giovanissimi detenuti, e non sono in prevalenza extracomunitari. Al Malaspina erano 17 nel 2023, sono 33 oggi. Aumentato di circa l’ottanta per cento (da 108 a 189) anche il numero degli ospiti di strutture. Mentre risultano addirittura triplicati i minori arrestati in flagranza di reato: sono passati da 24 a 61. Sono i dati che confermano un’emergenza. Quella della violenza giovanile, al centro delle attenzioni in questi giorni dopo l’omicidio di Paolo Taormina, nel cuore della città. Le scazzottate di un tempo si sono trasformate in omicidi e i più giovani sono sia vittime che carnefici. Furti, rapine, spaccio di droga, atti vandalici, risse, violenze sessuali e omicidi sono, infatti, i reati commessi dai più giovani. I dati aggiornati al 15 settembre 2025 sono riferiti da Daniele Catalano, coordinatore nazionale della Federazione sindacati penitenziari. Ed è Catalano, a sottolineare nel libro “Tasselli di rabbia” (PM edizioni) che il dato dei ragazzi stranieri segnalati dall’autorità giudiziaria, è invece in decrescita: nel 2018 gli stranieri segnalati rappresentavano il 35% sceso poi al 20% nel 2021. La crescita di uso di droghe e alcol allarma gli operatori: “Ci viene riferito dai nostri iscritti - continua Catalano - di un aumento preoccupante del consumo di sostanze stupefacenti tra i ragazzi, causa principale dell’allarme dentro e fuori dalle carceri”. Secondo la relazione sull’amministrazione della giustizia redatta nel 2024 dalla Corte d’appello (che comprende le province di Palermo, Trapani e Agrigento), si riscontra “un sostanziale abbassamento dell’età media nell’approccio e nel consumo di sostanze psicotrope con una intensificazione della frequenza del consumo agevolato anche dalla facilità di accesso alle sostanze”. Il fenomeno è diventato dunque particolarmente complesso, così come conferma il professore Diego Quattrone, docente di Psichiatria e Neuroscienze dell’università di Palermo e primario del reparto di Psichiatria del Policlinico: “Soprattutto a Palermo assistiamo a una diffusione preoccupante di nuove droghe come il crack o la cannabis ad alta potenza, cioè la cannabis con un elevato quantitativo di Thc”. “Molti di coloro che transitano nell’area penale tra i 16 e i 17 anni risultano fare da diversi anni un uso variegato di sostanze”, conferma la Corte d’appello. Secondo gli operatori però la sola deterrenza non è l’unica risposta congrua alla criminalità minorile. Ne è convinto anche l’avvocato Giorgio Bisagna, presidente regionale e Osservatore carceri di Antigone Sicilia: “Il dato carcerario non è sintomatico tanto dell’aumento della delinquenza minorile - osserva Bisagna - quanto dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio e cautelare nell’ambito del processo minorile a seguito del decreto Caivano”. Parlare con i ragazzi nelle scuole e fare prevenzione per gli esperti è la via maestra, motivo per cui la direzione del Centro della Giustizia minorile e l’Ufficio scolastico regionale hanno pensato di stipulare un protocollo d’intesa finalizzato a prevedere all’interno delle scuole dell’area metropolitana di Palermo dei laboratori di educazione alle emozioni e di gestione della rabbia. Bologna. “Brigata del Pratello”, una seconda opportunità per i ragazzi del minorile di Gianni Varani omnismagazine.com, 16 ottobre 2025 Qualcuno, dopo essere stato a cena dentro il carcere minorile del Pratello, a Bologna, grazie ad un’avventura molto particolare, ha subito pensato ad una celebre frase di Italo Calvino. “Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”. Il carcere è un muro. Separa. A volte seppellisce. Per tanti è appunto un inferno. Molti pensano che serva solo ad isolare i cattivi dai buoni. Ma dentro il carcere c’è vita, ci sono esseri umani che sperano, a fatica, in una seconda possibilità. Nel girone infernale di un carcere sovraffollato, c’è qualcosa che inferno non è. Accade. A Bologna come in altre carceri. Dev’essere questo il sentimento che ha mosso un progetto sperimentale straordinario, guidato dal Fomal, la Fondazione Opera Madonna del Lavoro. Creare una vera opportunità formativa per il futuro di quei ragazzi incappati nei rigori intransigenti della legge. Ridestare una speranza, che poi è quella incisa, con altre parole, nella stessa Costituzione italiana. E cosa di più appropriato, a Bologna, di una vera osteria, o meglio - visto l’esito sperimentato in quelle cene - di un ristorante di ottimo livello? È così è nata la Brigata del Pratello. Un’osteria formativa. Dentro il carcere e non fuori, caso forse unico, rispetto ad altre opere realizzate con carcerati oltre le mura contenitive. I primi passi della presenza del Fomal nel carcere minorile risalgono al 2008. Grazie alla collaborazione convinta della direzione del carcere e poi delle istituzioni, Regione ed Unione Europea, assieme al contributo determinante della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, nel 2016 ha preso forma questa Brigata-osteria. Per sedersi a quei tavoli, dentro il carcere, occorre prenotarsi con molto anticipo. Del resto, le procedure necessarie per entrare in carcere lo impongono. Le autorità competenti devono verificare chi accede oltre quei muri. Ma l’attesa dipende anche dal fatto che da un po’ di tempo molti vogliono esserci e i posti sono comprensibilmente limitati. La Brigata funziona, attira, sta diventano nota. E il livello dei cibi è notevole. La Compagnia delle Opere di Bologna ha promosso uno di questi “eventi” in ottobre, in collaborazione col Fomal, lanciandolo necessariamente mesi prima. Ed è stato un vero incontro, oltre che una degustazione di livello. Tra una portata e l’altra, si è potuto capire il cuore del progetto, sentire le ragioni di chi lo porta avanti, incluso il punto di vista di chi ha la responsabilità dirigenziale del Pratello, e vedere in azione i ragazzi dell’IPM (istituto penale minorile). C’è anche stata una “performance” poetica, guidata, che farà poi parte di un evento, da gennaio, nel teatro dell’Arena del Sole a Bologna. Non tutto è facile, sia ben chiaro, non tutto è in discesa. La sfida è reale e complessa. Le tensioni non mancano. Basti pensare - è stato spiegato durante il citato momento serale con la CDO - che è necessario contare, alla fine, tutte le posate utilizzate, perché i numeri tornino. Se qualcosa manca, deve saltar fuori. E i bicchieri sono di plastica. Il girone carcerario non è una meta turistica. Però lo scopo della Brigata è che la città - se vuole restare umana, vivibile - non dimentichi e non cancelli quei volti. E se c’è un problema serio, quando i reclusi escono, paradossalmente non è tanto il trovare lavoro, ma trovare casa. È il problema dei problemi, hanno spiegato. Le cene al Pratello sono un appello, non una vetrina. Per realizzare la Brigata, sono coinvolti dai sei agli otto giovani, a turno tra i ragazzi dell’IPM, con dei veri chef professionisti. E c’è una nutrita e motivata pattuglia di operatori professionali che rende possibile questo progetto. Il dettaglio di questo percorso è bene approfondito nel sito Brigata del Pratello | Osteria formativa dove ci si può prenotare per tempo a queste importanti cene in carcere, che non sono solo cene. Il progetto è diventato anche un’opera editoriale: “Osteria formativa Brigata del Pratello”, realizzato da Maglio editore. E tra quelle pagine si troverà citato un passaggio che viene ripetuto spesso dai protagonisti del Fomal, anche durante le cene in carcere, ed è l’articolo 27 della Costituzione: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. I padri costituenti non volevano soltanto dare una possibilità a chi è caduto. Volevano che in questo Paese mai si perdesse, per tutti, la speranza di una rinascita, anche nelle periferie più drammatiche. Catania. Il congresso: “La pena deve essere un percorso di riscatto” di Laura Distefano La Sicilia, 16 ottobre 2025 La direzione della casa circondariale di Piazza Lanza a Catania ha voluto celebrare il cinquantesimo anniversario della legge sull’ordinamento penitenziario con gli studenti. “Storia, legalità, futuro”. Tre parole che rappresentano lo spirito con cui sono stati condotti i lavori del congresso dedicato ai 50 anni della nuova legge dell’ordinamento penitenziario, che si è svolto ieri mattina al Palazzo di Giustizia. Una riforma che ha cambiato totalmente il volto del carcere. O meglio del modo di considerare il detenuto: una persona, prima che un recluso. La pena è (o dovrebbe essere) un percorso formativo, educativo e sociale. “Il carcere che cambia” è stato il titolo di un confronto fra operatori del mondo penitenziario e penale con gli studenti. Un incontro fortemente voluto dalla direttrice del carcere di Piazza Lanza, che ha svolto anche il ruolo di moderatrice. “Oggi celebriamo un compleanno importante - ha detto - 50 anni della legge 354 del 1975. Una legge che è una riforma epocale che vuole applicare i principi della Costituzione, in particolare l’articolo 27 in linea con quello che sancisce l’articolo 3. E cioè che tutti dobbiamo avere un’opportunità di riscatto e di parità. Una legge che nacque in un periodo storico che fu caratterizzato da riforme. In quel periodo il legislatore decise di dare nuova luce all’esecuzione penale. Oggi abbiamo deciso - ha aggiunto Di Fazio - di festeggiare con gli studenti, perchè loro sono il ponte fra il dentro e il fuori”. A fare da sentinelle nell’applicazione della legge sono molte volte gli avvocati. Il professore di diritto processuale penale dell’Università di Catania, Fabrizio Siracusano (attivo penalista) ha spiegato: “L’avvocatura, in questi cinquant’anni, ha svolto un ruolo di censura rispetto alle discrasie dal punto di vista dell’effettiva applicazione della legge del 1975”. Il modello introdotto deve “tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale - aggiunge Siracusano - che non è diretto all’individuo ma anche alla collettività perché dovrebbe garantire che il soggetto condannato non sia più un pericolo per la società appena tornato in libertà”. Fra i relatori anche Agata Ciavola, professore di diritto processuale penale della Kore di Enna, Angelo Zappulla, professore di diritto processuale penale dell’Università di Catania, Domenico Palermo, della Cooperativa Prospettive. In chiusura sono stati protagonisti i ragazzi che hanno presentato i loro lavori, artistici e teatrali. Una performance dedicata alla difficoltà e al pregiudizio che ancora oggi vivono gli ex detenuti nel mondo del lavoro. Uno dei primi ostacoli che va davvero abbattuto. Modena. Teatro in carcere, nasce un’Accademia di arti e mestieri gnewsonline.it, 16 ottobre 2025 Una vera e propria Accademia di arti e mestieri del teatro frequentata dai detenuti. Succede nella casa circondariale di Modena, grazie al progetto del Teatro dei Venti con il sostegno del Ministero. Sono 704 le ore di lezione tenute da professionisti del settore (registi, docenti universitari, tecnici, drammaturghi) che si svolgeranno fino a marzo 2026. Gli allievi potranno frequentare due tipi di programmi: artistico o tecnico. Alla fine del percorso, i detenuti riceveranno un attestato di frequenza, che apre la strada al vero e proprio diploma e a possibili tirocini presso enti teatrali del territorio. L’obiettivo, oltre a rendere il tempo della detenzione un’opportunità di reinserimento sociale e lavorativo, è fornire competenze teoriche e pratiche nei mestieri dello spettacolo dal vivo. Dalla recitazione alla drammaturgia, dalla fonica all’illuminotecnica, alla scenotecnica, ai costumi: la formazione per i detenuti sarà a 360 gradi. Un’occasione per il presente; un ottimo passaporto per il futuro. L’Accademia, oltre a formare le persone detenute in istituto, si propone come presidio culturale per favorire il dialogo tra carcere e città. Il progetto è stato presentato in conferenza stampa martedì 14 ottobre presso la casa circondariale di Modena; tra gli ospiti, rappresentanti dell’Amministrazione penitenziaria e delle autorità locali. Per il direttore dell’istituto, Orazio Sorrentini, la nuova Accademia “costituisce uno degli esempi più importanti di attività culturale che può svolgersi dentro un carcere, secondo i dettami della legge penitenziaria. Esso implementa senz’altro la rieducazione dei detenuti favorendone il futuro reinserimento nella società esterna”. La direttrice dell’Ufficio detenuti e trattamento del Prap, Francesca Romana Valenzi, pone l’accento sul valore pedagogico e catartico del teatro in carcere. “L’ordinamento penitenziario, che quest’anno celebra il 50° anniversario dalla sua emanazione”, ha ricordato la dirigente, si contraddistingue “come norma speciale del tutto particolare perché fondata, sin dal suo articolo 1, sull’attenzione e la valorizzazione dell’uomo”. Il progetto, ha proseguito Valenzi, “costituisce un passo ancora più avanti, perché unisce all’attività teatrale intesa in senso classico, l’apprendimento delle ‘arti e mestieri’ correlate alla macchina teatrale così da consentire ai diversi partecipanti di scegliere quale, tra i diversi ruoli necessari alla realizzazione di una produzione, più si avvicina al proprio sentire, sviluppando, insieme all’apprendimento, abilità sociali come la comunicazione, la collaborazione, il rispetto di tempi e di ruoli, favorendo nel contempo riflessione e consapevolezza”. L’Accademia è sostenuta dal Ministero, dal Comune di Modena tramite Cassa delle Ammende, dal coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, dalla Fondazione di Modena. Napoli. Ipm di Nisida, raccolta fondi per riaprire il teatro di Eduardo di Stefano de Stefano Corriere del Mezzogiorno, 16 ottobre 2025 “Sono ragazzi che spesso, a causa di carenze sociali, hanno dovuto deviare dalla retta via; e nei prossimi mesi intendo dedicare a loro più tempo di prima. E su questo vorrei soffermarmi. Si tratta di migliaia di giovani e del loro futuro, ed è essenziale che un’Assemblea come il Senato prenda a cuore la riparazione delle carenze dannose, posso dire catastrofiche, che da secoli coinvolgono quasi l’intero territorio dal Sud al Nord dell’Italia”. Parole appassionate che Eduardo De Filippo, nominato senatore a vita, pronunciava a Palazzo Madama il 23 marzo 1982. E oggi alle 17, dopo 43 anni, alla presenza del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, del sottosegretario Andrea Ostellari, della vice presidente della Università Luiss Guido Carli, Paola Severino, nell’istituto penale per i minorenni di Nisida si terrà una serata dedicata alla raccolta di fondi proprio per il recupero e la riapertura del teatro dell’Istituto penale minorile. Pur oberato di impegni professionali e affaticato dagli anni, il grande drammaturgo e attore appena possibile aveva rivolto, anche a livello istituzionale, lo sguardo alla sua città e alla parte più debole, più a rischio, quella della cosiddetta devianza giovanile, spesso destinata alle carceri minorili come Nisida o il Filangieri e, una volta fuori, a un futuro esposto alle tentazioni della malavita. Quell’intervento carico di speranze seguiva la richiesta dei giovani detenuti. “Caro Eduardo - gli avevano scritto infatti i ragazzi dell’Ipm nel 1981 -, vi chiediamo di venire qui a inaugurare il piccolo teatro dell’istituto. Anche solo per mezz’ora. Vi aspettiamo con ansietà”. Un evento importante, quindi, in una lunga storia di attività laboratoriale che dopo la morte di Eduardo ha visto impegnato anche il figlio Luca e lo scenografo Bruno Garofalo, per anni collaboratore degli allestimenti del maestro. Il programma della serata prevede anche la proiezione di un video storico dedicato a Eduardo, messo a disposizione dalla Rai, e un estratto del film “La salita”, di Massimiliano Gallo, recentemente presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dedicato all’Ipm di Nisida e al suo teatro. Guida al teatro in carcere: un ponte tra il dentro e il fuori di Daria Capitani vita.it, 16 ottobre 2025 A Genova, Saluzzo e Torino tre compagnie teatrali da tempo entrano negli istituti per favorire l’espressione creativa, offrire l’opportunità di una formazione professionale in campo artistico, aprire prospettive di reinserimento lavorativo una volta scontata la pena. Tutte e tre hanno indicato una rotta. Per chi oggi ha intenzione di seguirla, c’è una mappa che rende il cammino meno impervio. Un’iniziativa di Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e Fondazione Compagnia di San Paolo nel solco del progetto Per Aspera ad Astra promosso da Acri. Trasformare un istituto di pena in un luogo di cultura? È possibile e necessario. Lo dimostra un’esperienza artistica come la Compagnia della Fortezza creata da Armando Punzo a Volterra, il primo centro di teatro e carcere in Italia nato più di 40 anni fa, oggi raccontato anche in un documentario (Qui è Altrove). Lo testimoniano moltissimi detenuti in scena su palchi più o meno prestigiosi, spazi di connessione tra il dentro e il fuori in nome della cultura e della bellezza. Da oggi, per chi voglia portare il linguaggio teatrale dentro le mura di un carcere, c’è uno strumento in più: una guida di metodologie e pratiche, spunti operativi e passaggi istituzionali per avvicinarsi a un mondo complesso ma estremamente fertile per l’arte. Il progetto “Per Aspera ad Astra” avviato nel 2018 e promosso da Acri - Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmo con il sostegno di 12 Fondazioni di origine bancaria, da sette anni coniuga arte, formazione e inclusione sociale, trasformando i luoghi di reclusione in spazi di crescita e consapevolezza. Oggi coinvolge 17 istituti penitenziari, di cui tre Istituti penali minorili e si avvale della collaborazione di 15 realtà artistiche. In questo contesto si inserisce il toolkit Teatro in carcere, che è il frutto dell’esperienza maturata da tre compagnie teatrali - Teatro e Società, Voci Erranti e Teatro Necessario - attive rispettivamente negli istituti di Torino, Saluzzo e Genova Marassi, territori di riferimento della Fondazione Compagnia di San Paolo e della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. Il trailer del documentario Qui è Altrove sull’esperienza della Compagnia della Fortezza. Lo strumento, realizzato da Labins - Laboratorio d’innovazione sociale, è una mappa per orientarsi a ogni passo: dal coinvolgimento istituzionale a quello dei professionisti esterni, dall’interazione con i detenuti allo svolgimento dei laboratori, fino ai momenti di restituzione sotto forma di spettacolo di fronte a un pubblico esterno. Tra raccomandazioni e consigli utili, permette di comprendere che cosa serve fare e perché, con quali strumenti e modalità, in ogni fase che conduce a una rappresentazione teatrale. Scenografia, illuminotecnica, costumi, trucco e parrucco, musica e suono, prove. Tre approfondimenti mirati sono dedicati alla sostenibilità (economica, strutturale e di risorse umane), alla comunicazione e promozione sul territorio (con l’invito ad attivare connessioni con la comunità) e al monitoraggio mirato alla valutazione. “Il valore di questo progetto risiede nella sua capacità di creare rete, di promuovere un approccio continuativo e professionale al teatro in carcere e di generare un impatto culturale riconosciuto anche a livello istituzionale”, spiega Valentina Dania del settore Arte Attività e Beni culturali della Fondazione Crc. “È anche il connubio di due anime diverse, culturale e sociale. Lo dimostra il fatto che io mi occupo di arte e cultura, mentre Silvia Pirro, la collega della Fondazione Compagnia di Sanpaolo che ha curato con me l’iniziativa, afferisce all’ambito sociale”. Lavorare a rete tra fondazioni “è istruttivo”, continua Dania: “significa trovare una mediazione tra soggetti diversi, cedere un pochino di paternità e controllo a favore di un impatto più ampio”. È accaduto anche in questo caso: “Dal dialogo attivato con Compagnia di Sanpaolo, è emersa la volontà condivisa di attivare un monitoraggio delle realtà che in Piemonte e Liguria producono spettacoli teatrali dentro le carceri, leggere i numeri e i dati qualitativi. Labins non si è accontentata di analizzare l’esistente ma è diventato un partner e un collaboratore attivo. Così ci siamo chiesti: perché non facciamo dialogare tra loro le compagnie che a Torino, Genova e Saluzzo hanno saputo costruire percorsi consolidati? Che cosa possono imparare le une dalle altre e che cosa possono comunicare a chi si affaccia oggi nello stesso ambito?”. Il risultato è uno strumento concreto (è stato presentato a Cuneo all’Expo Art. 27, un evento dedicato alla valorizzazione delle produzioni carcerarie), disponibile open source sul sito di Fondazione Crc. “Non vuole essere soltanto il riconoscimento di un percorso, ma una sistematizzazione delle conoscenze acquisite per metterle a disposizione”, aggiunge Dania. Grazia Tomaino è una ricercatrice e valutatrice di Labins, insieme a Katiuscia Greganti ha scritto il documento. Per realizzarlo, hanno incontrato attori e operatori, direttori e personale di sorveglianza: “Lo abbiamo confezionato noi, ma è il frutto del lavoro delle compagnie che abbiamo incontrato con regolarità in un monitoraggio durato sei anni. Un’esperienza che ci ha insegnato molto: attraverso il teatro si può contribuire a un’idea di giustizia e dignità e a forme di rinascita personali e sociali”. Le realtà artistiche che hanno ispirato il toolkit hanno obiettivi comuni: favorire l’espressione creativa, offrire l’opportunità di una formazione professionale nel campo teatrale, aprire prospettive di reinserimento lavorativo una volta scontata la pena. Eppure, ognuna presenta punti di forza specifici. Teatro e Società è attiva nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, dove da più di trent’anni realizza progetti teatrali. Da quest’anno implementerà la sua attività anche all’interno dell’Istituto penale per i minorenni Ferrante Aporti del capoluogo piemontese. “Il suo approccio si basa su laboratori partecipativi, nei quali i detenuti diventano non soltanto interpreti ma anche co-creatori delle opere”, spiega Tomaino. “Le iniziative sono moltissime, ma ciò che emerge con maggiore chiarezza è la rete che si è venuta a creare negli anni tra Comune, Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale, Teatro Regio, Università di Giurisprudenza, Dipartimento di Culture Politica e Società, Garante dei detenuti regionale e comunale e Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna”. Voci Erranti è presente nella Casa di reclusione di alta sicurezza di Saluzzo con attività di formazione e produzione teatrali. “Il laboratorio teatrale permanente, gli spettacoli aperti al pubblico esterno e le rappresentazioni in trasferta, le repliche teatrali per gli studenti e docenti del progetto Educare alla libertà sono tutte azioni che caratterizzano la compagnia”. L’associazione Teatro Necessario si distingue per il suo lavoro ventennale nella Casa circondariale di Marassi a Genova. La sua attività si svolge in due ambiti diversi: “I laboratori teatrali sia artistici che di formazione professionale nei mestieri tecnici dello spettacolo e la gestione del teatro dell’Arca Sandro Baldacci, unico teatro in Europa costruito ex-novo, anche con la manodopera dei detenuti, all’interno di una Casa circondariale. Al suo interno, si rinnova da anni una stagione teatrale rivolta sia alla popolazione detenuta che alla cittadinanza esterna”. “Noi del Rione Sanità”, in una fiction la storia di Don Antonio Loffredo di Maria Giuseppina Bonanno Oggi, 16 ottobre 2025 Don Antonio Loffredo ha fatto miracoli in un quartiere difficile della città, e ora è al centro della fiction “Noi del Rione Sanità”, interpretata da Carmine Recano. “Mi hanno aggiustato un po’: non solo appaio più bello, ma anche più dolce. Io sono di carattere impetuoso. Mi è pure capitato di dire parolacce in chiesa”. Così, e col sorriso, don Antonio Loffredo parla della fiction Noi del Rione Sanità, in onda dal 23 ottobre su Rai 1 in prima serata. A rappresentarlo, col nome di don Giuseppe, è stato chiamato Carmine Recano, attore sempre apprezzato, nei film di Ferzan Özpetek come in tv, per esempio in Mare fuori. Don Antonio, polo blu e sandali, è stato per molto tempo parroco proprio alla Sanità, rione di Napoli dove è nato Totò, dove Eduardo De Filippo ha ambientato storie di vite complicate, dove drammi e rinascite sono riusciti a incontrarsi. “Quando ci arrivai, nel 2001, mi aspettavano cinque parrocchie e 10 chiese, dove nessuno voleva andare. Io venivo da anni passati nel quartiere di Poggioreale, dove avevo avuto esperienze prima nel carcere e poi creando comunità per contrastare tossicodipendenza e Aids. Per questo avevo chiesto di avere una parrocchia piccola, in un contesto meno complicato”, dice don Antonio. Ma fu mandato alla Sanità. “Qui ho spalancato le porte delle chiese a corsi di teatro, ho portato lo sguardo degli abitanti verso l’arte, anche aprendo le Catacombe di San Gennaro, ridotte allora a deposito, facendo nascere un coro, mettendo su una palestra di pugilato, inizialmente nella sagrestia. Così quando andavo a vestirmi per la messa mi ritrovavo tra i poliziotti delle Fiamme Oro che allenavano i ragazzi. Alcuni avevano timore anche a dare i loro nomi per non far scoprire parentele con carcerati. Una situazione da guardie e ladri. Ma quando accendi la speranza arriva la rivoluzione. E adesso più di 150 ragazzi praticano la boxe e 200 fanno judo”. I ricordi di don Antonio evocano anni intensi, che lui stesso ha raccontato nel libro Noi del Rione Sanità, che ha ispirato la fiction. “Ora mi occupo del progetto di sviluppo del Mudd, il Museo diocesano diffuso, dove sono coinvolti molti giovani formati e impegnati nel ruolo di guida tra le meraviglie delle nostre chiese, che devono essere come case per la comunità e luoghi accoglienti per chi viene da fuori”, spiega don Antonio. Lo dice anche in veste di vicepresidente della Fondazione Napoli C’entro, nata nel 2024 proprio per promuovere la valorizzazione del patrimonio artistico e religioso del centro storico della città, che si ammira senza un biglietto da pagare. Don Antonio, sul “modello Sanità”, sottolinea concetti come “movimento di comunità”, “Fondazione di partecipazione”, nel senso che chiunque, anche con un euro può dare un sostegno a Napoli C’entro. Un segno di questa condivisione è raffigurato dalla facciata del Duomo vestito con le foto delle persone che vivono qui dall’artista francese JR. Intanto, don Antonio segue gli operai che stanno lavorando per dare nuova vita alla Chiesa di Santa Maria Donnaregina, incontra un responsabile della Soprintendenza di Napoli, progetta. “Qui non si dirà solo la messa: questo deve essere un luogo dove i giovani possono incontrarsi, fare musica, studiare. Ci sarà un hub dove gratuitamente tutti possono trovare spazio per mangiare insieme, giocare a fantacalcio, vedere un film, apprezzare l’arte che è dipinta su queste pareti, i marmi, gli intarsi, le opere del 600 napoletano”. Sarà così, dopo la riapertura della Chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli e, lo scorso settembre, di San Giovanni a Carbonara. I “miracoli” compiuti alla Sanità sono in tante storie, come quelle del figlio del camorrista che diventa regista, del giovane che voleva a tutti i costi vendicarsi del fratello ammazzato e oggi lavora alle Catacombe, dei ragazzi che hanno messo su uno studio di registrazione. Nella fiction, don Giuseppe ha una ex fidanzata, Manuela, interpretata da Nicole Grimaudo. Anche a lui è capitato di innamorarsi: “Sono entrato in seminario in conflitto con mio padre che voleva coinvolgermi nella sua azienda di logistica, poi però sono andato in crisi, sono scappato via e sono rientrato. E sì, anche io ho avuto una fidanzata. Anche io, come Sant’Agostino, ho pregato dicendo: “Signore, donami la castità perfetta e la continenza il più tardi possibile”“, racconta don Antonio. E aggiunge: “Io ho accettato la regola del celibato, ma credo che in futuro i preti potranno sposarsi”. Nella chiesa di Donnaregina c’è un via vai che sa di futuro. Chissà se a don Antonio manca la Sanità. “Il Signore mi chiama a fare dove sono. Seguo il pensiero dello scrittore Ermanno Rea: ho un pezzetto di terra sul quale devo scrivere parole di cielo”. La sua figura è presente anche nel romanzo Nostalgia di Ermanno Rea, portato al cinema da Mario Martone con Pierfrancesco Favino e ambientato alla Sanità. “Da napoletano ho capito che la via della folgorazione passa dai sensi: quella sensualità che entra nel linguaggio, che si fa simbolo in un pallone lanciato dal pulpito, in parole forti dette nell’omelia”. Don Antonio ripensa a quando, ai funerali di Fortuna Bellisario, vittima di femminicidio nel 2019, disse: “Chi dà uno schiaffo a una donna è uno stronzo”. Nella fiction c’è anche la camorra. Se a don Antonio si chiede di ricordare il momento più difficile vissuto alla Sanità, lui si ferma un po’ a pensare, prima di rispondere. “Mi vengono in mente le incomprensioni col Vaticano sulla riapertura delle Catacombe. Fu una lotta che mi portò il dolore di non essere capito dalla Chiesa, mentre mi capiva il mondo laico, mi capiva l’Europa che mi chiamava a parlare in Parlamento. Ho dovuto combattere anche contro la burocrazia. Certo, alla Sanità abbiamo attraversato un periodo drammatico nel 2005, quando ci sono stati nove omicidi in tre mesi. Ma la camorra non è stato l’unico nemico”. Oggi c’è una continuità tra l’impegno di don Antonio alla Sanità, dove l’arte, la musica, lo sport hanno trovato casa nel quartiere e quello legato al Mudd. “Con tutte le mie lacerazioni, sono rimasto fedele al sì detto al Signore”, confida. Educazione alle relazioni e accesso alla salute psicologica di Pietro Rebusi Il Manifesto, 16 ottobre 2025 “Una firma che vale una vita” è l’iniziativa che sancisce l’incontro tra la campagna Coop “Dire Fare Amare” avviata all’inizio di quest’anno (a favore dell’obbligatorietà dell’educazione affettiva nella scuola) e “Diritto a Stare Bene” (la proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione del servizio nazionale pubblico di psicologia, obbligatorio e permanente). Sulla scia di questa alleanza, l’8 ottobre è stata inaugurata a Firenze la campagna Una firma che vale una vita, appunto raccogliendo firme con i presidi nei punti vendita Coop in 23 luoghi, tra grandi città e capoluoghi di provincia. Dopo Firenze, domani si potrà firmare a Roma proseguendo con Torino, Cuneo, Bologna, Reggio Emilia, Parma, Perugia, Genova, Milano e Brescia. Se nei punti vendita Coop la possibilità è quella del cartaceo, si segnala che si può firmare anche digitalmente. Da dove nasce l’idea di unire l’impegno di Coop per il sociale, da sempre in ascolto di fenomeni quali la violenza maschile contro le donne, e “Diritto a stare bene”, formazione sorta a luglio del 2025 per la salute dei luoghi nei quali viviamo insieme, a cominciare dalla scuola? Se n’è parlato pubblicamente a Roma il 10 ottobre durante un panel nell’ambito della prima edizione di manifestival, alla presenza di Maura Latini (presidente Coop), Francesco Maesano (giornalista del tg1 e parte del coordinamento di Diritto a stare bene) e Elisabetta Camussi (docente di psicologia sociale alla Bicocca di Milano e parte del comitato Diritto a stare bene), con la moderazione di Alessandra Pigliaru (il manifesto). “Diffondere una cultura contro la violenza di genere e agire in forma preventiva è fondamentale”, ha ricordato Maura Latini. “Gli episodi di cronaca ci mettono di fronte a situazioni di disagio sempre più frequenti di fronte alle quali non si può rimanere inerti”. Un connubio che è dunque responsabilità collettiva: “Bisogna obbligatoriamente iniziare dalla scuola”, ha specificato Francesco Maesano. “Per questo insieme a Coop vogliamo che si finanzi in modo adeguato l’educazione alle relazioni fatta dagli psicologi, che non è solo insegnamento ma è intervento, prevenzione, lavoro con le classi nelle quali studiano e vivono i bambini e i ragazzi”. L’anello di congiunzione tra Coop e “Diritto a stare bene” è Elisabetta Camussi che ritiene la psicologia, nell’ambito di questo progetto, sia “strumento indispensabile di prevenzione del bullismo, della violenza di genere, delle discriminazioni, oltre che una modalità di intervento necessaria per le situazioni già critiche”. Si tratta insomma di arrivare nelle scuole e nelle università, sul posto di lavoro, in ospedale, in ambito sportivo e in contesti di fragilità. “L’educazione alle relazioni riguarda infatti i rapporti con i pari”, prosegue Camussi. “Riguarda le relazioni tra partner, l’informazione sessuale. Riempie dunque uno spazio strategico, attualmente vuoto o colmato da contenuti reperiti autonomamente on line”. Psichedelia e medicina, parte la formazione di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 16 ottobre 2025 Da un podcast alla formazione clinica. È questo l’avventuroso percorso di Illuminismo Psichedelico, trasmissione prodotta dall’Associazione Luca Coscioni e condotta dal giornalista Federico di Vita, che da contenuto di nicchia è diventata negli anni un punto di riferimento nel dibattito italiano sulla psichedelia. Nasce così Illuminismo Psichedelico Academy: la prima scuola nazionale dedicata alle terapie condotte con psichedelici. Il percorso, rivolto a medici, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti, conta 300 ore di lezione distribuite in 16 mesi - da gennaio 2026 ad aprile 2027 - ed è accreditato con 50 ECM (i crediti formativi per l’aggiornamento nelle professioni sanitarie). Si terrà nei centri culturali SpazioPiù e MicHub di Pescara e si colloca tra i programmi più strutturati d’Europa insieme a quelli della Mind Foundation e della Open Foundation. A dirigerlo ci sono gli psicoterapeuti Sara Ballotti e Raffaello Caiano e il chimico Enrico Greco. Secondo di Vita i tempi erano maturi: “Sono in contatto con antipsichiatri agguerriti, psicoterapeuti e ricercatrici coraggiose, antropologi immersi in contesti ancestrali, politici che hanno fatto dell’estensione dei diritti la loro missione, giuristi votati alla modulazione della coscienza, intellettuali intenti a spostare le frontiere del percepibile e del dicibile, palliativisti in ricerca di pace per chi soffre, etnobotanici sul punto di fondare una scienza delle droghe, neuroscienziati e chimici che testimoniano come la ricerca dell’alterazione della coscienza sia antica quanto la civiltà”. In Italia non è ancora possibile somministrare psichedelici in assetto terapeutico, ma un precedente esiste già con l’esketamina, commercializzata come Spravato e approvata per le depressioni resistenti. A differenza degli antidepressivi tradizionali, la sua somministrazione richiede competenze specifiche e una particolare sensibilità clinica. “Si tratta di strumenti farmacologici con meccanismi d’azione differenti rispetto agli psicofarmaci tradizionali”, spiega la ricercatrice Georgia Wilson Jones, che al corso terrà un modulo sulla Fenomenologia dell’esperienza psichedelica. “Il loro utilizzo richiede preparazione specifica, sensibilità e consapevolezza. È per questo che la formazione dei professionisti non dovrebbe essere rimandata, così da creare lo spazio per cogliere appieno il valore terapeutico delle esperienze trasformative che gli psichedelici possono generare”. Il corpo docente include nomi di rilievo: il drogologo Giorgio Samorini, il neuroscienziato Tommaso Barba (Imperial College di Londra), Nicola De Pisapia (Università di Trento), gli psichiatri Piero Cipriano e Fabio Villa - attivo in Svizzera con terapie assistite da MDMA e psilocibina - e ancora Michele Metelli, riferimento italiano per la Respirazione Olotropica, Bruno Neri (Università di Pisa) e Giovanni Martinotti, docente di Psichiatria all’Università di Chieti e autore del primo trial clinico in Italia sull’uso della psilocibina contro la depressione resistente. Il direttore didattico Raffaello Caiano chiarisce la natura del percorso: “Non si tratta di un master universitario né di una scuola di specializzazione, ma di un percorso di formazione avanzata e di aggiornamento professionale. Il corso offre una preparazione solida, multidisciplinare e basata sull’evidenza scientifica, arricchita anche da una prospettiva umanistica ed esperienziale”. Il programma si concluderà con il convegno annuale di Illuminismo Psichedelico, che ospiterà interventi dal mondo letterario e culturale, con la partecipazione, tra gli altri, di Nicola Lagioia, Vanni Santoni ed Edoardo Camurri. Un segno di come la psichedelia, da frontiera di ricerca, stia entrando a pieno titolo nelle maglie della cultura e della formazione clinica italiane. La cannabis light vince ancora: tre tribunali smontano il decreto sicurezza di Giulio Cavalli Il Domani, 16 ottobre 2025 Da Palermo a Torino, i giudici bocciano l’approccio repressivo del governo: servono prove scientifiche, non arresti a vista. In assenza di prove sull’efficacia drogante, la canapa resta legale. Nel giro di quarantotto ore tre tribunali italiani - Palermo, Belluno e Torino - hanno dato torto al governo Meloni sulla canapa industriale. Le pronunce, tutte depositate tra il 12 e il 14 ottobre, smentiscono l’impianto del decreto sicurezza che aveva equiparato la cannabis light agli stupefacenti, imponendo una stretta che da mesi paralizza il settore agricolo e commerciale. I giudici hanno ribadito un principio elementare: senza analisi di laboratorio che certifichino la presenza di Thc oltre i limiti di legge, non esiste alcun reato. A Belluno, la procura ha disposto la scarcerazione immediata di un coltivatore arrestato il 10 ottobre, precisando che “non risultano indici univoci di spaccio” e che il solo peso del materiale non può fondare accuse di traffico. Il decreto di liberazione, emesso ex art. 121 disp. att. c.p.p., chiarisce che fino all’esito di accertamenti tecnico-analitici “non è possibile stabilire la gravità in concreto della condotta”. Analoga la posizione del tribunale di Palermo, che ha annullato il sequestro di infiorescenze in un’azienda agricola: il giudice ha escluso l’esistenza di prove sull’efficacia drogante e ha ricordato che la conformità botanica non basta per configurare un illecito. A Torino, infine, il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto l’archiviazione di un procedimento per vendita di canapa light perché “il fatto non sussiste”: i test avevano rilevato la presenza di Thc, ma senza indicarne la percentuale. Conta la verifica - In tutti e tre i casi, i magistrati si sono richiamati alla relazione n. 33/2025 dell’Ufficio del Massimario della Cassazione, secondo cui l’articolo 18 della legge 80/2025 non introduce un divieto assoluto, ma ha valore puramente ricognitivo rispetto al quadro preesistente. La legge insomma deve essere interpretata in modo conforme alla Costituzione e al diritto dell’Unione europea, imponendo la verifica “tecnico-scientifica dell’offensività in concreto”. Il dato scientifico diventa dunque il discrimine tra lecito e illecito. I narcotest di campo, usati di routine dalle forze dell’ordine, sono stati ritenuti strumenti non idonei perché rilevano genericamente la presenza di cannabinoidi, dando quasi sempre esito positivo anche per prodotti legali. Senza una quantificazione del Thc attivo - misurato dopo la decarbossilazione e in contraddittorio con il produttore - non è possibile privare un cittadino della libertà personale né bloccare un’attività economica. I giudici indicano una strada uniforme: campionamento rappresentativo, doppio campione per controanalisi, catena di custodia, analisi presso laboratori accreditati e misura del Thc “attivo” su campione a peso costante. È la sequenza minima per evitare sequestri “a vista” e procedimenti destinati a cadere all’esito delle verifiche, con costi a carico dei contribuenti e danni alle aziende agricole. Il presidente di Canapa Sativa Italia, Mattia Cusani, parla di una svolta attesa: “Le corti stanno riconoscendo che la legge 80 è solo ricognitiva della normativa già esistente e delle Sezioni Unite del 2019. Quello che era legale resta legale, quello che era illegale resta illegale”. Cusani segnala dissequestri imminenti, cause civili di accertamento in più distretti e il contenzioso ancora aperto sulle “officinali”, cioè sull’inclusione della canapa tra le piante medicinali autorizzate alla coltivazione e trasformazione. Una questione che il Consiglio di Stato dovrà chiarire nelle prossime settimane, dopo che la categoria ha vinto in primo grado. Il settore, come ricorda la giurisprudenza più recente e gli atti di causa, non è un’anomalia: parliamo di una filiera agricola e para-industriale che negli ultimi anni ha mobilitato investimenti, occupazione e indotto, con l’Italia tra i principali esportatori europei. La chiusura del canale infiorescenze drenerebbe centinaia di milioni e migliaia di posti di lavoro, senza alcun beneficio misurabile in termini di sicurezza pubblica: i precedenti di Trento e di altre corti mostrano che sotto lo 0,3 per cento di Thc “non sussistono rischi tali da giustificare un divieto assoluto”. Anche per questo la stessa Cassazione ha richiamato il principio di proporzionalità e l’offensività in concreto come bussola per le Procure. Le decisioni di Palermo, Belluno e Torino arrivano a un anno dal decreto voluto dai ministri Piantedosi e Lollobrigida, che aveva equiparato le infiorescenze di canapa agli stupefacenti. Già a settembre, il tribunale di Trento ha affermato che un contenuto di Thc inferiore allo 0,3 per cento “non comporta rischi tali da giustificare un divieto assoluto di commercializzazione”. Ora le nuove ordinanze consolidano una giurisprudenza che sposta il baricentro dall’ideologia alla verifica scientifica, mentre a Bruxelles avanza l’armonizzazione: l’uso dell’intera pianta in ambito agricolo e una soglia Ue più coerente con il mercato interno sono all’ordine del giorno. Per Cusani, “le istituzioni italiane stanno solo prendendo tempo”. Intanto, però, i tribunali chiedono metodi, non slogan: niente automatismi punitivi, sì a controlli seri e comparabili in tutta Italia. In assenza di prove sull’efficacia drogante, la canapa resta legale. E il decreto sicurezza, ancora una volta, vacilla sotto il peso dei fatti e delle sentenze. Migranti. Memorandum Italia-Libia, Meloni conferma l’intesa siglata da Gentiloni di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 16 ottobre 2025 La maggioranza vota compatta per il rinnovo del sostegno alla discussa Guardia costiera libica, inaugurato nel 2017 dall’allora premier del Pd. Il centrosinistra: così si nasconde un fallimento. Si susseguono le legislature, cambiano di segno governi e maggioranze, ma la rotta dell’Italia rispetto al memorandum fra Italia e Libia resta la stessa. Con un voto nettamente polarizzato (153 sì del centrodestra, contro 112 no delle opposizioni e 9 astensioni), è passata alla Camera la mozione presentata da Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi moderati che impegna il Governo a “proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti di immigrati e di prevenzione delle partenze dalla Libia, fondata sul Memorandum del 2017, procedendo al rinnovo dello stesso”. Si conferma dunque l’obiettivo ufficiale di cooperare nella lotta alla tratta di migranti e di fermare le partenze dal Paese africano, da perseguire attraverso una collaborazione nel controllo delle frontiere marittime e il sostegno italiano alla controversa Guardia costiera libica. Cambiano insomma di colore gli addendi (allora il premier era il dem Paolo Gentiloni e al Viminale sedeva Marco Minniti; ora la presidente del Consiglio è Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno è Matteo Piantedosi), ma il risultato no, visto che lo stesso esecutivo Meloni (che entro il 2 novembre avrebbe potuto decidere di chiedere uno stop al Memorandum) ha valutato di proseguire nel solco tracciato dal documento. Respinte le due mozioni del centrosinistra - Nel voto di ieri, il muro compatto alzato dal centrodestra, oltre a sostenere la propria mozione, ha bocciato (con 151 no, a fronte di 74 sì e 44 astenuti) quella presentata da Pd, Avs, +Europa e Italia Viva (a prima firma della segretaria dem Elly Schlein) che chiedeva all’esecutivo di “non procedere a nuovi rinnovi automatici del Memorandum, sospendendo immediatamente ogni forma di cooperazione tecnica, materiale e operativa che comporti il ritorno forzato di persone verso il territorio libico, in violazione del principio di non refoulement quale norma di diritto cogente”. Sorte analoga per la mozione del Movimento 5 Stelle, respinta con 157 voti contrari, a fronte di 37 sì e 81 astenuti. Due documenti diversi, benché accomunati dall’intento di voltar pagina rispetto a un’intesa ora non più condivisa. Un mutamento di visione sul quale il centrodestra fa ironia, col forzista Paolo Emilio Russo che definisce il “ribaltone” del centrosinistra “sorprendente”, in quanto “esempio della politica che si piega alle convenienze del momento, che approva un provvedimento quando è al governo e lo rinnega quando passa all’opposizione”. Il Pd cita il caso Almasri e incalza: così si nasconde un fallimento - Di parere opposto, va da sé, le opposizioni, che hanno sottolineato in aula gli aspetti da chiarire nell’approccio del governo rispetto a vicende come quella del generale libico Almasri: “Non ci ha ancora spiegato come mai hanno deciso di liberare un torturatore libico - ha argomentato la Schlein - e con un volo di Stato riportarlo in Libia, dove poteva continuare a calpestare i diritti fondamentali delle persone con gli omicidi e gli stupri, di cui è accusato dalla Corte penale internazionale”. E per il deputato Matteo Orfini “dispiace che nella mozione di maggioranza non sia spesa una sola parola per affermare che si tratta di una tragedia umanitaria che produce migliaia di morti nel Mediterraneo, il piano del 2017 ormai è fallito”. Secondo i parlamentari pentastellati, invece, la priorità sarebbe stata la revisione del Memorandum (con l’obiettivo di assicurare trasparenza sull’uso dei fondi nazionali ed europei e un miglior monitoraggio delle condizioni nei centri libici) da realizzare attraverso una interruzione del rinnovo automatico. “Oggi di immigrazione non si parla più, perché TeleMeloni vuole nascondere il fallimento”, ha incalzato in Aula il deputato 5S, Alfonso Colucci, segnalando come si contino “quasi 300mila migranti sbarcati in Italia dall’insediamento del governo Meloni, 54.380 al 14 ottobre 2025, in crescita rispetto al 2024. Un fallimento totale”. Migranti. Don Mattia Ferrari: “Quei corpi distrutti dalle torture con la nostra complicità” di Angela Stella L’Unità, 16 ottobre 2025 Il cappellano di Mediterranea dopo il voto in Aula sui patti con la Libia: “Io stesso ho dovuto dare la benedizione in videochiamata a ragazzi cattolici catturati in mare, portati nei lager e lì ridotti in fin di vita”. Don Mattia Ferrari, cappellano della Mediterranea Saving Humans, cosa ne pensa del fatto che ieri la Camera abbia approvato la mozione della maggioranza che procede al rinnovo del Memorandum Italia Libia? È un grande dolore apprendere questa notizia per me, per noi, per il nostro Paese. Lo dico non a partire da determinate posizioni politiche ma in nome della fraternità. Come noto, io stesso ho dovuto dare la benedizione in videochiamata a ragazzi cattolici catturati in mare, portati nei lager e lì ridotti in fin di vita. Durante quelle videochiamate, ho visto corpi scarnificati, distrutti dalle torture che avevano subìto. Queste persone denunciano una violenza incredibile e sofferenze oltre ogni limite, oltre ogni immaginazione. Ogni persona porta in sé una storia, un volto, una speranza, che viene tradita da questo sistema di violenza indicibile che avviene di fatto con la nostra complicità o a volte anche semplicemente con la complicità della nostra indifferenza. Il deputato di +Europa, Riccardo Magi, nel suo intervento in Aula ha denunciato il fatto che il memorandum altro non è che una “forma di cooperazione con dei poteri mafiosi”. Lei che ne pensa? Grazie ad una inchiesta di Nello Scavo abbiamo scoperto che Abd al-Rahaman al-Milad, detto Bija, uno dei capi della mafia libica e trafficante di esseri umani, era seduto al tavolo per questi accordi con la Libia nel 2017. Poi c’è Mohammed al-Khoja, un altro boss della mafia libica, che è diventato direttore del DCIM, un dipartimento che gestisce dodici lager a Tripoli nel sistema che beneficia dei finanziamenti europei. E come non ricordare Almasri, capo della polizia giudiziaria, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e abusi nelle carceri. Io non sono un giornalista, né un magistrato ma quelli che sto elencando sono dati di fatto. La mafia libica ricopre purtroppo un ruolo apicale nella politica migratoria e detentiva di quel Paese con cui noi abbiamo accordi. Proprio l’Onu ha pubblicato un report in cui spiega come la guardia costiera libica cattura le persone in mare e le riporta a terra consegnandole alla mafia libica, che poi le mette nei lager per cercare di ricattare le famiglie o le utilizza per i lavori forzati. In Parlamento poi sono state bocciate due mozioni: quella a prima firma Schlein che voleva stracciare memorandum, quella del M5S che voleva rivederlo. Qual è la sua posizione in merito? Non entro nel merito delle mozioni, ma quello che è fondamentale subito è interrompere i finanziamenti ai respingimenti e scrivere una pagina nuova nel Mediterraneo. La cooperazione internazionale è fondamentale, ma va fatta nel rispetto dei diritti umani e coinvolgendo le società civili. Secondo lei perché l’Italia persiste a mantenere questo tipo di rapporti? C’è un problema a monte ossia la mancanza di coinvolgimento delle associazioni e dei movimenti dei Paesi di partenza sia le associazioni dei migranti, come Refugees In Libya. Noi non vogliamo mettere in discussione la cooperazione internazionale ma auspichiamo che un giorno il Parlamento possa all’unanimità prendere coscienza che non possono più continuare questi respingimenti. La vita trova compimento nella solidarietà e nella fraternità, non nel cinismo o nell’indifferenza. Dobbiamo evitare questi processi di disumanizzazione. Noi non perderemo mai la speranza e continueremo ad operare per aiutare i nostri fratelli e le nostre sorelle migranti, perché nelle relazioni di fraternità con loro troviamo la vera bellezza della nostra vita. Migrante gay rimpatriato: “La sua vita a rischio, l’omosessualità in Gambia è punita con la pena di morte” di Ludovica Lopetti Corriere di Torino, 16 ottobre 2025 Ha chiesto la protezione internazionale a Torino nel 2017 e poi di nuovo nel 2025, ma in entrambi i casi gli è stata negata “per manifesta infondatezza”. A nulla è valso dichiarare che nel Paese d’origine, il Gambia, rischia la morte per il proprio orientamento sessuale. Lo scorso 26 settembre E.J., 27 anni, è stato fatto salire su un aereo per Banjul, la capitale, mentre ancora pendeva il ricorso contro l’ultimo rifiuto della commissione territoriale. L’udienza davanti al Tribunale civile (competente a giudicare in 2° grado le decisioni dell’organo prefettizio) si è svolta martedì, ma senza l’interessato, perché il giudice non ha concesso la sospensione del provvedimento di espulsione. Apparentemente per i casi come quello di E.J. la sospensiva non è prevista: il decreto legislativo di riferimento (il 25 del 2008) la esclude se si è ristretti nei Cpr oppure se la domanda di protezione è stata giudicata manifestamente infondata. Non la pensano così gli avvocati Stefania Rullo e Andrea Giovetti che hanno chiesto al giudice di rinviare l’udienza per far valutare al questore un permesso “per motivi di giustizia” che consenta al giovane di tornare in Italia per partecipare al giudizio. Per i legali, nel caso di E. J. sarebbe stato violato il “divieto di refoulement (respingimento, ndr)” previsto dalla Convenzione di Ginevra, nonché le norme Ue in materia di protezione internazionale. Inoltre nella stessa udienza hanno comunicato che “l’asserito compagno” del richiedente è disponibile a essere sentito. Del caso si sta interessando anche l’arcigay Torino: “Le persone migranti razzializzate non sono tutelate in Italia, e chi appartiene alla comunità Lgbtqi+ subisce una doppia discriminazione: per la propria origine e per la propria identità. Questo caso mostra come, ancora una volta, non sia stata rispettata la dignità della persona”. Il 27enne ha raccontato i suoi trascorsi in Commissione il 2 luglio. Ha affermato di aver scoperto la sua omosessualità a 12 anni “in quanto circuito da un adulto” che gestiva un cinema nel villaggio, con cui poi avrebbe intrattenuto una relazione “meramente fisica” per sei anni all’insaputa dei familiari. Quest’ultimi lo avrebbero scoperto solo a fine 2015 e lo avrebbero picchiato. Arrivato in Italia nel 2017 dopo essere passato per Mali e Libia, il giovane ha spiegato di aver seguito un corso da meccanico e di aver lavorato come giardiniere. Tra il 2021 e il 2024 ha scontato cinque condanne per spaccio e detenzione di stupefacenti. Dopo l’ultimo arresto, a marzo 2024, avrebbe fatto dentro e fuori dal Cpr, trovando infine ospitalità a casa di un connazionale con cui avrebbe intrattenuto una “relazione meramente fisica” per un anno. Il racconto però non ha convinto i funzionari. “Il narrato - si legge nel provvedimento che nega la protezione - non è adeguatamente circostanziato rispetto al percorso di consapevolezza”. Inoltre “non appare ragionevole che, tenuto conto del contesto di riferimento, il richiedente sia rimasto ancora diverso tempo in famiglia e nel luogo di origine nonostante i parenti abbiano scoperto il suo orientamento e nonostante sostenga di essere stato aggredito dal fratello e dai parenti stessi”. I legali non contestano il merito del rigetto, ma sostengono che il loro assistito sia stato rimpatriato prima del tempo. Oltre la logica della barbarie di Mauro Magatti Corriere della Sera, 16 ottobre 2025 Dall’Ucraina al Medio Oriente e alla Libia: il volto moderno dell’orrore e il dovere delle democrazie. Per molto tempo si è creduto che, con il progresso delle istituzioni democratiche, la diffusione della cultura dei diritti umani e l’integrazione economica tra i popoli, la barbarie fosse ormai relegata al passato. E invece, la realtà del nostro tempo ci costringe a una dolorosa presa d’atto: l’orrore non è una categoria della storia, ma una presenza viva e drammatica del nostro presente. Essa assume nuove forme, ma conserva la stessa essenza: la negazione della dignità umana, l’uso della violenza come strumento politico, la riduzione della persona a mezzo sacrificabile per interessi di potere. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. A seguire gli eventi terribili del massacro di Bucha, il governo ucraino ha documentato 150.000 crimini di guerra commessi dall’esercito russo. L’elenco, raccolto in un sito ufficiale (https://war.ukraine.ua/it/russia-war-crimes/attacchi-a-civili-e-infrastrutture-civili/) continua con omicidi di bambini, stupri, attacchi a civili, sequestri, deportazioni. La reazione smisurata di Israele all’efferato attacco di Hamas del 7 ottobre ha portato alla distruzione sistematica di Gaza, in una spirale di violenza che una commissione indipendente dell’Onu ha definito come “genocidio”. In Israele il clima politico è così degenerato che il ministro israeliano Bezalel Smotrich è arrivato a dichiarare che “serve l’annientamento totale. E mi offro come boia”. In Libia sono da anni note le condizioni disumane dei campi di detenzione dei profughi e, di recente, la nave Ong Mediterranea ha annunciato di avere prove video di “trafficanti libici appartenenti agli apparati militari del governo di Tripoli che hanno gettato con la violenza in alto mare dei giovani profughi”. Nel mondo in fiamme dei nostri giorni, le atrocità non sono più commesse soltanto da bande criminali ma da eserciti e miliziani di paesi sovrani e giustificate con argomenti quali la sicurezza nazionale, la difesa della propria identità, l’avanzamento di una causa politica, la necessità di mandare un “messaggio forte” al nemico. La storia insegna che quando il sacrificio umano viene presentato come prezzo inevitabile - o addirittura giusto - per un obiettivo più grande, la coscienza collettiva viene anestetizzata. Il male non appare più come tale, ma come un dovere, una necessità storica. Quando ciò accade, la violenza diventa performativa diventando un linguaggio di potere che non teme più di infrangere le regole della convivenza civile. È questo il tratto che segna il passaggio dalla brutalità sporadica alla barbarie sistematica: la legittimazione del disumano. Quando il male viene ripetuto, esibito, giustificato, esso smette di scandalizzare e inizia a essere percepito come parte del “gioco politico”. Ciò che si mette in moto è una dinamica epidemiologica: il contagio avviene attraverso l’assuefazione e la giustificazione. E, a poco a poco, il linguaggio di violenza e sopraffazione pervade il dibattito pubblico, i commenti degli opinionisti, i social network, fino alle campagne elettorali. Se le democrazie vogliono sopravvivere, non possono restare indifferenti di fronte a questa deriva. La loro stessa esistenza dipende dal contrasto alla logica della barbarie. A partire da due principi a cui le democrazie non possono rinunciare, pena la loro liquidazione. Il primo è il divieto dell’uso arbitrario della violenza. Una democrazia non può accettare che la forza diventi la regola, né all’interno né all’esterno dei suoi confini. Questo significa lottare per riaffermare il primato del diritto internazionale, delle convenzioni sui diritti umani, della protezione dei civili nei conflitti armati. Ma significa anche vigilare perché, al proprio interno, le istituzioni democratiche non cedano alla tentazione di legittimare pratiche disumane in nome della sicurezza o dell’ordine pubblico. Il secondo principio è la dignità inalienabile della vita umana, vero pilastro delle società libere. Ogni volta che una vita viene sacrificata in nome di un disegno di potenza politica, la democrazia si indebolisce. La sua forza non sta nell’efficienza militare o economica, ma nella capacità di rispettare le ragioni di tutti, mettendo cosi la persona al centro. Questo richiede un impegno culturale profondo: educare alla pace, promuovere il rispetto reciproco, sviluppare forme di solidarietà concreta. La posta in gioco è altissima. Se la barbarie diventa normalità, le democrazie rischiano di implodere dall’interno. Una società che si abitua alla violenza e all’ingiustizia diventa incapace di sostenere i propri valori fondanti. Si apre così la strada al cinismo, al populismo violento, a forme di autoritarismo che si presentano come soluzioni necessarie per gestire l’insicurezza diffusa. La lotta contro la barbarie rimane una questione vitale per la stessa sopravvivenza della cultura democratica. Quando la pace è imperfetta di Francesca Mannocchi Elle, 16 ottobre 2025 Siamo diventati spettatori professionali del dolore altrui. Guardiamo i conflitti in diretta, li commentiamo, poi cambiamo canale. La pace, invece, chiede presenza, lentezza, memoria. È un lavoro, non un’emozione. Tutti dicono “pace”. C’è parola più bella? No, non ce n’è. Pace è una parola breve, facile. Apparentemente. Ma ogni volta che la parola pace torna sulla nostra bocca, dovremmo chiederci: pace per chi? Pace a quale prezzo? Oggi “pace” non significa più la fine della guerra, ma il suo intervallo amministrato. A Gaza, in Israele, in Ucraina, nei tanti conflitti dimenticati, la pace è una formula diplomatica che copre la continuità della violenza. Si parla di “cessate il fuoco”, di “processi di pace”, di “equilibri regionali”: espressioni che somigliano a cerotti su ferite ancora aperte. Ma una ferita non smette di esistere solo perché smette di sanguinare. Quando guardiamo Israele e Gaza lo capiamo: si parla di “cessate il fuoco”, di “corridoi umanitari”, di “processo di pace”. Ma dietro ogni formula resta la verità di un’asimmetria che nessuna diplomazia sa risolvere. C’è chi vive assediato e chi vive nella paura di un attacco, chi scava tra le macerie e chi non riesce più a seppellire i propri morti. Nessuna di queste vite può chiamarsi pace. Il nostro tempo si è abituato a questa pace zoppa. Le democrazie predicano diritti mentre vendono armi, l’Europa si limita a deplorare, L’ONU conta, gli Stati Uniti parlano di mediazione e intanto scelgono un campo. Siamo diventati spettatori professionali del dolore altrui. Guardiamo i conflitti in diretta, li commentiamo, poi cambiamo canale. La pace, invece, chiede presenza, lentezza, memoria. È un lavoro, non un’emozione. A tutti noi piace pensare che la pace sia una condizione naturale, qualcosa che ci spetta. In realtà la pace è un’eccezione fragile, un equilibrio che non si dà mai per scontato. Non è la quiete, né la sicurezza: è la consapevolezza della nostra vulnerabilità, la nostra vulnerabilità condivisa, che non si misura nel silenzio delle armi, ma nella capacità di riconoscere l’altro come parte della stessa condizione umana. E quindi ora che guardiamo a Gaza e Israele con sollievo, non possiamo e non dobbiamo smettere di ricordare e una pace senza giustizia non è pace, ma una sospensione dell’ingiustizia. È la pace dei vincitori, o dei fortunati. È il compromesso che congela il dolore invece di guarirlo. Quando un conflitto termina senza che le sue cause siano nominate - e dunque risolte - quella guerra continua a vivere nei corpi, nei ricordi, nei discorsi. La violenza non si spegne: cambia forma, si sedimenta, cioè prepara il ritorno. Viviamo in un tempo che grida la parola pace (per fortuna) ma teme la parola responsabilità. Certo è facile dichiararsi innocenti, è facile dirsi vittime. Ma la pace non può nascere da due innocenze che si fronteggiano: richiede la capacità di vedersi nel torto. È un esercizio di lucidità più che di bontà. Per questo è così rara: perché chiede di rinunciare all’idea di avere ragione. Solo partendo dall’idea - questa sì condivisa - di responsabilità, si potrà costruire la pace, quella vera, quella che non è un punto d’arrivo ma un movimento. Che non si impone, si pratica. Che da sostantivo si fa verbo, cioè si agisce. Una pace fatta di gesti minimi: ascoltare, rinunciare, riconoscere. È una disciplina dello sguardo, una forma di attenzione che precede la politica e la supera. Forse dovremmo tornare a pronunciare la parola “pace” con esitazione. Non come un desiderio ingenuo, ma come un compito. Non come un’utopia, ma come una forma di vigilanza interiore. Medio Oriente. Gideon Levy: “Netanyahu non vuole la pace. Un’illusione eliminare Hamas” di Letizia Tortello La Stampa, 16 ottobre 2025 Il giornalista israeliano: “Il piano Trump ha molte falle, non dice chi governa Gaza. Irrealistici i due Stati, l’unica via per i palestinesi è la pressione internazionale”. “Vorrei poter dire che ci sarà uno Stato palestinese, ma non credo. Abbiamo perso quel treno. Con 700 mila coloni in Cisgiordania - persone violente, politicamente molto forti - non vedo alcun governo israeliano disposto a sgomberarli. L’unica soluzione è parlare di “democrazia dal fiume al mare”. Una persona, un voto. Di fatto, da 50 anni esiste uno Stato unico, ma metà delle persone che vivono sotto controllo israeliano non hanno cittadinanza. È inaccettabile. Cosa pensiamo che faranno i bimbi di Gaza quando saranno grandi?”. Gideon Levy, giornalista israeliano, editorialista di Haaretz è una delle voci più critiche del governo Netanyahu. Oggi, sarà uno dei protagonisti del summit Med-Dialoghi Mediterranei, organizzato da Ispi e Ministero degli Esteri. A cinque giorni dall’accordo di pace di Sharm el-Sheik, la tregua sembra estremamente fragile. A Gaza si muore, ancora. Si sparano palestinesi con palestinesi, l’Idf ha ucciso diversi gazawi, perché avrebbero violato i confini. Crede che l’accordo reggerà? “Non sono preoccupato. All’inizio di ogni tregua ci sono sempre violazioni. Ma è nell’interesse di tutti fermare la guerra. E penso che sia finita, o stia finendo. E questa è una notizia straordinaria, perché il genocidio si ferma. Se non si fosse fermata ora, sarebbero morte centinaia di altre persone, gli ostaggi non sarebbero stati liberati, lo stesso per i prigionieri palestinesi. Quindi, al momento, non ho dubbi che il cessate il fuoco sarà mantenuto. La domanda riguarda il lungo periodo. Lì sono scettico”. Quali sono i rischi concreti? “Siamo in un momento particolare e non dobbiamo sprecarlo. Ma il piano ha molte falle, molte ambiguità. Non c’è un calendario. Non ci sono risposte precise alla domanda principale: chi governerà Gaza? Gaza è un luogo molto complesso. Ora è invivibile. Un consiglio di 15 tecnocrati con Tony Blair non potrà salvarla. Serve molto di più. La domanda è: quanto saranno seri Trump e gli altri Paesi nell’attuare il piano?”. Non crede nelle intenzioni di Trump? “Una cosa andare a Sharm per una conferenza e una foto opportunity; un’altra è iniziare a lavorare, perché ci saranno enormi difficoltà. E il fatto che Netanyahu non si sia presentato in Egitto non è un buon inizio”. Israele vuole la pace? “In Israele esiste solo Netanyahu, nel bene e nel male. E temo che il suo governo non sia disposto a cambiare mentalità. Voglio dire, dovrebbe cambiarla completamente. Non credo che possa accadere”. Cosa succederà nelle prossime settimane? “Spero nulla di catastrofico. Spero una sola cosa: che si cominci a ricostruire Gaza. Questa è ora, più di ogni altra cosa, la priorità, politica e umanitaria. Insieme alla rimozione delle macerie. Io penso, prima di tutto, alle persone di Gaza, le principali vittime di questa guerra, che hanno bisogno di aiuto urgente: sostegno medico, ricostruzione degli ospedali. Se ciò accadrà, forse potrà nascere una nuova atmosfera. Ma dirle che siamo sulla strada per la pace, no”. Hamas, secondo lei, vuole la pace? “Non ci sono partner per la pace. Israele oggi non è un partner per la pace. E non sono nemmeno sicuro che Hamas lo sia. Hamas è ancora lì. Dobbiamo renderci conto che Hamas sta ancora governando Gaza. Spero che verrà sostituita, ma non sono sicuro che accadrà. Dunque, con spirito di realismo, spero che Hamas collabori prima di tutto alla ricostruzione, finché non ci sarà un’altra autorità. I Paesi arabi invieranno truppe? Non lo so. Ho visto oggi che la Turchia sta mandando 81 operatori umanitari: positivo, ma sono gocce nel mare. Abbiamo bisogno di un organismo che sia responsabile di Gaza e partecipi al prossimo governo della Striscia”. Insisto, ci perdoni. Crede davvero che Hamas possa partecipare al governo di Gaza? “L’alternativa, ben peggiore, è che potremmo trovarci di fronte all’anarchia. Gaza può trasformarsi molto rapidamente in una Somalia, se il mondo non terrà gli occhi puntati. Questo sarebbe il peggio. Quanto alle sue capacità di trasformarsi in un soggetto di mediazione politica, non lo so davvero. Né so le sue intenzioni. Tutti vogliono altri, nessuno sa dire chi. Per ora, Hamas è l’unico potere a Gaza”. Ha visto i video delle esecuzioni sommarie? Una “polizia” jihadista e brutale... “Sono terribili. E sono un segnale molto preoccupante. Io desidererei che l’Autorità Palestinese intervenisse, ma non la vedo pronta. L’Anp è la migliore alternativa ad Hamas, insieme a Hamas, non contro Hamas. Non illudiamoci: Hamas resterà lì politicamente. Israele ha cercato per due anni di eliminarla, e non ci è riuscita. Hamas farà parte di qualsiasi cosa ci sarà. Ma dovrebbe farlo sotto l’ombrello dell’Anp”. La maggior parte dei gazawi la sosterebbe ancora? “Non credo. Hamas è forte fuori Gaza. Dentro Gaza, la gente ne ha soprattutto paura. Non sono sicuro che vincerebbe, se ci fossero elezioni libere, ma a Gaza non c’è libertà. Perché Hamas per molti ha portato a questi due anni terribili. Ovviamente insieme a Israele. In Cisgiordania, invece, e nel mondo arabo, è ancora vista come “resistenza”, mentre l’Anp collabora con Israele. Crede a un disarmo dei miliziani? “Disarmarli completamente non è realistico. Tutti questi slogan lanciati in aria - “disarmeremo Hamas” - non hanno senso. Israele è lì da due anni, con uno degli eserciti più potenti del mondo, e Hamas continua a uccidere in modo barbaro”. Ha scritto un editoriale durissimo: passeranno generazioni prima che i gazawi dimenticheranno. Si rischiano altri 7 ottobre, il ritorno del terrorismo? “Netanyahu non ha mai creduto in alcuna forma di accordo con i palestinesi. Crede che Israele debba vivere con la spada, solo grazie alla propria forza militare. Ha fatto tutto il possibile - e ci è riuscito - per distruggere la soluzione dei due Stati. Ha fatto di tutto, ed è riuscito, a distruggere l’Autorità nazionale palestinese. Ora non può essere un partner, perché non ci crede. E non sono neanche sicuro che le alternative a Netanyahu sarebbero diverse. Se continueranno a pensare che si possa ottenere tutto con la forza, significherà che non abbiamo imparato nulla dal 7 ottobre. E non ci sarà soluzione”. Quindi non c’è via d’uscita? “Serve la pressione della comunità internazionale. Soprattutto degli Usa, ma non solo. Dobbiamo togliere i palestinesi dalle mani degli israeliani. È molto chiaro. È compito della comunità internazionale occuparsene. Non possono continuare a vivere per sempre sotto il controllo israeliano. Sappiamo cosa significa: Apartheid. E ha significato genocidio”. Lei è uno dei pochissimi israeliani che usa la parola genocidio per quel che è accaduto a Gaza... “La Corte Internazionale di Giustizia non ha ancora emesso una sentenza. Quindi dobbiamo aspettare: “genocidio” è anche un termine legale. Ma alcuni mesi fa, mi sono reso conto che Israele aveva un piano: rendere Gaza invivibile, spingere la popolazione a Sud e offrirle due sole opzioni: restare in un campo o lasciare la Striscia di Gaza. Allora è diventato chiaro che si trattava di pulizia etnica”. La storia del popolo ebraico rende il termine “genocidio” irricevibile per molti. Tocca ferite incolmabili, l’orrore nazista che il mondo ha condannato dopo la II Guerra... “Capisco coloro che si irritano, per la storia del popolo ebraico. Ma c’era un’intenzione, non ci sono dubbi. Penso che il mondo rimarrà sconvolto, molto presto, quando la Striscia sarà riaperta ai giornalisti internazionali. Ci vuole pressione per riaprirla ora”. Ci sono report di soldati di guardia il 7 ottobre, che raccontano le falle nel sistema di sicurezza dell’Idf. Com’è potuto accadere? “Ci vorrà un’inchiesta, ma non c’è dubbio che sia stato un fiasco totale. Il fatto che Netanyahu sia ancora al potere due anni dopo è inconcepibile. Nesun altro Paese al mondo l’avrebbe tollerato”. Come sta Israele? “È fortemente scossa. Ci sono state proteste impressionanti. Ora, euforia. Ci si dimentica che 2 milioni di persone stanno scavando per trovare i morti e sopravvivere. Mi dispiace molto che Israele sia così cieca di fronte alla sofferenza dell’altro”.