Lo scippo del Parlamento. Il decreto sicurezza davanti alla Consulta societadellaragione.it, 15 ottobre 2025 È stato presentato ieri, nella sala stampa della Camera dei deputati, il ricorso per conflitto di attribuzione promosso da Riccardo Magi (+Europa) contro il Governo sul cosiddetto “decreto sicurezza”. Il ricorso approderà alla Corte costituzionale il 20 ottobre, che dovrà decidere sull’ammissibilità di un’azione senza precedenti: un singolo parlamentare che contesta al Governo di aver espropriato il Parlamento delle sue funzioni legislative. Al centro della questione c’è la scelta dell’Esecutivo di trasformare in decreto?legge un disegno di legge già in discussione da oltre un anno, identico nel titolo e nel contenuto. Una “fotocopia” che ha interrotto l’iter parlamentare, annullando di fatto la terza lettura alla Camera e ogni possibilità di confronto o modifica del testo. “È un salto di qualità negativo nell’abuso dell’articolo 77 della Costituzione” ha dichiarato Magi, “un atto che rappresenta una prevaricazione del Parlamento e delle sue prerogative”. Alla presentazione del ricorso sono intervenuti i costituzionalisti Roberta Calvano e Roberto Zaccaria, che hanno richiamato l’attenzione sull’aspetto inedito e grave della vicenda. Per Calvano, “la lesione delle prerogative parlamentari proviene da un potere esterno, l’Esecutivo: siamo di fronte a un salto di qualità nell’abuso della decretazione d’urgenza”. Zaccaria ha parlato di un provvedimento “limite per l’equilibrio democratico”, ricordando che si tratta di un vero e proprio “omnibus penale” di 38 articoli e 14 nuovi reati, adottato a colpi di fiducia e privo dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza. La vicenda è un banco di prova anche per la Corte costituzionale. Come ha ricordato Magi, “non chiediamo soltanto di dichiarare ammissibile il ricorso, ma di ristabilire un principio: che il Governo non possa usare la decretazione d’urgenza per aggirare il Parlamento”. Sullo sfondo, un ampio fronte di giuristi e costituzionalisti ha espresso sostegno al ricorso, con un appello firmato da oltre 250 accademici e 10.000 cittadini, a testimoniare la preoccupazione per una deriva che rischia di normalizzare l’esautoramento del Parlamento. In chiusura, l’intervento di Franco Corleone per La Società della Ragione ha riportato il tema alla sua dimensione politica e democratica: “Siamo di fronte a una prova di regime. Si è scelto un decreto d’urgenza non per accelerare, ma per dimostrare che il Governo può fare tutto. È un nodo politico che riguarda la vita stessa della Costituzione e della democrazia”. Separare non significa riformare di Rocco Romeo Il Riformista, 15 ottobre 2025 La giustizia italiana non ha bisogno di muri tra accusa e giudizio, ma di una visione capace di restituire fiducia, efficienza e indipendenza reale. Il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante ritorna ciclicamente come una promessa di riforma epocale, una sorta di panacea capace - secondo alcuni - di risolvere gran parte delle disfunzioni del nostro sistema giudiziario. Ma davvero basta dividere i percorsi di pubblico ministero e giudice per restituire efficienza, imparzialità e credibilità alla giustizia italiana? È una domanda che merita di essere affrontata con rigore e senza slogan. Oggi il rischio è quello di trasformare un tema tecnico e complesso in una bandiera ideologica, piegata alle esigenze del consenso o della contrapposizione politica. La separazione delle carriere, in teoria, nasce da un principio condivisibile: garantire che chi accusa e chi giudica restino su piani distinti, in nome di una terzietà effettiva del giudice e di un equilibrio dei poteri più trasparente. È l’impostazione tipica dei sistemi di common law, dove il pubblico ministero appartiene all’esecutivo e non alla magistratura. Ma il contesto italiano è diverso: la nostra Costituzione - agli articoli 101 e 104 - disegna un modello in cui giudici e pm appartengono allo stesso ordine, a garanzia dell’indipendenza complessiva da ogni ingerenza politica. Cambiare questo assetto non significa solo riscrivere una norma, ma toccare l’equilibrio costituzionale tra poteri dello Stato. Per questo la questione non può essere ridotta a una contrapposizione tra “giustizialisti” e “garantisti”, ma va letta nella sua portata istituzionale. Molti magistrati temono che la separazione possa condurre, di fatto, a una subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo. Se il pm dovesse dipendere gerarchicamente dal Governo - come accade in altri ordinamenti - si rischierebbe di trasformare l’azione penale, oggi obbligatoria per Costituzione, in un atto discrezionale, selettivo, potenzialmente influenzabile. D’altra parte, è innegabile che la contiguità culturale e di carriera tra pm e giudici abbia spesso generato zone grigie, percezioni di scarsa imparzialità, o di “corporazione chiusa” difficile da scalfire. La vera domanda, allora, non è se separare o meno le carriere, ma come riformare complessivamente la giustizia. Servono tempi certi, processi più snelli, un sistema disciplinare efficiente e un reclutamento trasparente. Servono investimenti sulla digitalizzazione, sull’organizzazione degli uffici, sulla formazione di magistrati e avvocati. La giustizia non si riforma per slogan, ma con una visione. La separazione delle carriere può essere un tassello, non la soluzione. Pensare che basti dividere gli uffici per restituire fiducia ai cittadini significa ignorare le radici profonde del problema: la lentezza, la carenza di organico, l’assenza di responsabilità politica nella gestione del sistema. In fondo, la giustizia italiana non ha bisogno di nuovi muri, ma di ponti: tra accusa e difesa, tra giudici e cittadini, tra diritto e società. Solo così la riforma potrà essere davvero al servizio della democrazia, e non della propaganda. *Docente, Giornalista, Scrittore e Saggista Femminicidi, Parodi: “Aumentare le pene non serve a risolvere il problema” di Simona Musco Il Dubbio, 15 ottobre 2025 Il presidente dell’Anm in audizione in Commissione giustizia alla Camera solleva dubbi sugli aumenti di pena: “Il cambiamento dev’essere culturale”. Criticità sulle aggravanti. “Temo che, nel momento in cui un uomo entra nell’ordine di idee di uccidere una donna alla quale magari è legato da una vita di affetti, sia molto difficile che l’idea di avere due o tre anni in più di pena possa essere un elemento di dissuasione. Da questo punto di vista, purtroppo, mi sentirei di escludere che l’aumento di pena, in sé, su questi reati che coinvolgono così a fondo la personalità e la vita di relazione, possa entrare in un calcolo costi-benefici”. Sono queste le parole con le quali il presidente dell’Anm Cesare Parodi ha risposto alla domanda di Laura Boldrini, durante l’audizione in Commissione giustizia alla Camera sul dl Femminicidi. Una conferma, che arriva peraltro da un magistrato che a Torino, dov’è stato aggiunto, ha guidato il pool “Fasce Deboli” competente quindi su tutti i reati da “Codice Rosso”. “Se io vado a rubare o commetto una rapina, posso fare un calcolo mi conviene oppure no - ha sottolineato -. Se io arrivo al punto di uccidere la donna che ho amato, credo che proprio questo calcolo non venga fatto”. La norma - che ha introdotto una fattispecie di reato autonoma, punita con l’ergastolo - avrebbe però anche aspetti positivi, secondo il numero uno del sindacato delle toghe, come la formazione dei magistrati e della polizia giudiziaria e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, in quanto “tengono viva l’attenzione sul problema, ma che non credo che possano direttamente risolvere il problema”. Insomma, “pensare che la risposta giudiziaria possa essere quella risolutiva credo che sia un po’ un’illusione - ha evidenziato -. Ci vuole una risposta sul piano culturale, sociale, anche economico di assistenza alle donne e di formazione dei giovani e solo un’azione sinergica di tutti questi elementi potrà darci, in tempi speriamo accettabili, un miglioramento effettivo. Dopodiché le leggi vanno bene, non è che siano inutili, tutto quello che sta attorno è sicuramente utile, ma pensare a una ricaduta immediata in termini numerici forse è improbabile”. Nel corso della sua audizione Parodi ha evidenziato gli aspetti positivi delle modifiche apportate alla normativa. Tra questi, la previsione di confisca obbligatoria, l’adeguamento della disciplina delle intercettazioni, senza i limiti dei 45 giorni, la previsione di possibilità di deroghe sotto il piano delle misure cautelari. Positivi, inoltre, gli ampliamenti delle distanze, i maggiori obblighi di comunicazione alle persone offese e l’idea del sequestro conservativo. La modifica più importante, però, secondo Parodi, è “l’obbligo di audizione in tutti i casi da parte del pubblico ministero, che avrebbe sicuramente messo in ginocchio l’organizzazione delle procure laddove invece la polizia giudiziaria formata da anni è sicuramente in grado di coadiuvare il pubblico ministero in questa attività. Come molto positivi, anche dal punto di vista culturale, sono le previsioni sulle modalità con le quali il Presidente assicura che le domande e le contestazioni vengano fatte con un assoluto rispetto delle persone offese e anche, direi, i minori obblighi di motivazione su determinate scelte che vengono fatte in sede di applicazione di pena”. Rimangono, secondo il presidente dell’Anm, due problemi da trattare. Il primo problema “va a incidere su quella che è la valenza ideologica di questa nuova normativa”. Il riferimento è, in particolare, ai commi terzo e quarto dell’articolo che disciplina le circostanze aggravanti. Sebbene il testo riveduto appaia più concreto rispetto alla versione precedente, per Parodi la rigidità nell’applicazione di queste circostanze può limitare la capacità del giudice di adattare la pena alle specifiche circostanze di ogni caso. Le nuove disposizioni potrebbero infatti costringere il giudice a un’applicazione automatica di alcune aggravanti, senza considerare appieno le peculiarità di ogni situazione. E ciò potrebbe ridurre la flessibilità necessaria per decidere in modo equo e proporzionato, in base al disvalore effettivo del crimine commesso. Inoltre, nonostante il tentativo di chiarire e specificare le circostanze aggravanti, c’è il rischio che queste modifiche possano infrangere il principio di eguaglianza, soprattutto se applicate in modo diverso nei confronti degli uomini e delle donne. Ad esempio, alcune delle motivazioni per l’aggravamento della pena, come il rifiuto della donna di instaurare o mantenere una relazione affettiva, potrebbero non essere sempre facili da applicare in modo equo, con il rischio di trattare in modo diverso comportamenti simili a seconda del genere della persona coinvolta. Altro problema, quello relativo all’organizzazione del sistema giudiziario, soprattutto la gestione dei collegi. L’aumento dei collegi richiesti per alcuni reati, come gli atti persecutori, e la difficoltà di formare questi collegi in tempi brevi, rischiano di causare un collasso del sistema, con conseguenti ritardi nei processi. “Se noi avremo la possibilità di celebrare questi processi in un tempo non compatibile con i termini di fase delle misure cautelari - ha infatti evidenziato Parodi - rischieremo di fare questi processi non soltanto molto avanti nel tempo, ma con delle misure cautelari che saranno scadute con queste persone magari ancora pericolose che escono e si portano dietro il rancore, la rabbia per una carcerazione che intanto non è divenuta definitiva e quindi con un rischio concreto anche per le persone offese. Io non discuto il fatto che teoricamente un collegio possa giudicare meglio di un singolo giudice - ha aggiunto - ma se il collegio l’abbiamo fra due, fra tre anni, avremo questi processi così importanti, così delicati, così urgenti, molto, molto tardi”. Caso Ramy, la Gip dice No alla perizia di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 ottobre 2025 Respinta la richiesta della procura: l’incidente probatorio non può essere “uno strumento per orientare il pm nell’esercizio dell’azione penale”. La Giudice per le indagini preliminari Maria Idria Gurgo di Castelmenardo ha respinto la richiesta della procura di Milano di disporre una perizia super partes sul caso di Ramy Elgaml, il 19enne morto il 24 novembre dello scorso anno nel quartiere Corvetto, al termine di un inseguimento da parte di diverse volanti dei carabinieri. La Gip scrive che l’incidente probatorio non può essere “uno strumento per orientare il pm nell’esercizio dell’azione penale”, non serve dunque a decidere se avanzare la richiesta di rinvio a giudizio. I pm volevano la perizia cinematica per ricostruire “l’esatta dinamica dell’incidente”. Questo perché le varie consulenze delle parti non sono arrivate a una ricostruzione univoca, visto che quella dell’esperto nominato dalla procura scagiona il carabiniere e contrasta anche con l’avviso di chiusura indagini. Qui sia per Antonio Lenoci, il militare al volante della gazzella, sia per Fares Bouzidi, il ragazzo alla guida del motorino su cui viaggiava Elgaml, l’ipotesi è di omicidio colposo. Tutto si gioca intorno alla traiettoria dei mezzi e alle velocità negli ultimi istanti dell’inseguimento che ha portato alla caduta dello scooter T Max e all’impatto dei occupanti, Elgaml in particolare, con un palo del semaforo. Se il nuovo esame avesse negato le responsabilità dell’agente sarebbe stato più facile evitare di coinvolgerlo nel dibattimento. Sarà in quella fase, invece, che tutte le prove dovranno essere acquisite e confrontate. “Condividiamo la decisione della gip - afferma l’avvocato Marco Romagnoli, che insieme alla collega Debora Piazza difende Bouzidi - Siamo pronti ad affrontare il tema delle responsabilità nell’incidente in ogni sede. A nostro avviso si tratta di omicidio volontario in capo al carabiniere, quantomeno sotto il profilo del dolo eventuale”. I pm dovranno ora decidere se chiedere il rinvio a giudizio per entrambi gli indagati oppure disporre una nuova consulenza di parte. Quello sugli ultimi istanti di vita del giovane è il procedimento principale ma non l’unico della vicenda. Uno è già andato a sentenza di primo grado con rito abbreviato: Bouzidi ha ammesso le proprie responsabilità nel non essersi fermato all’alt delle forze dell’ordine e ha ricevuto una pena di due anni e otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. In un altro filone, invece, quattro carabinieri sono accusati a vario titolo di frode in processo penale, depistaggio e favoreggiamento. Le ipotesi sono relative alla cancellazione di foto e video che alcuni testimoni oculari avrebbero inizialmente registrato sui cellulari. Testimoni che, contro la procedura obbligatoria in questi casi, non sono stati identificati, con la conseguente registrazione delle generalità. Abnorme il decreto del Gup che esclude l’aggravante senza sentire il Pm di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2025 Lo ha chiarito la Cassazione, con la sentenza n. 33679 depositata oggi, affermando che la riforma Cartabia obbliga alla interlocuzione col Pm. A seguito della riforma Cartabia, il Gup non può modificare, col decreto che dispone il giudizio, la qualificazione giuridica del fatto senza sentire il Pubblico ministero. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 33679 depositata oggi, accogliendo il ricorso del Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, annullando, senza rinvio, il decreto e qualificando il provvedimento come abnorme. Nel ricorso il Pm aveva sostenuto che l’atto era abnorme in quanto il Giudice dell’udienza preliminare aveva escluso l’aggravante mafiosa (art. 416-bis.1 cod. pen.), contestata nella richiesta di rinvio a giudizio, senza attivare alcuna interlocuzione, come previsto dall’art. 423, comma 1-bis Cpp. Il Gup, invece, avrebbe dovuto invitare il Pm a prendere posizione sulla corretta qualificazione giuridica. La Cassazione ricorda che la disciplina originaria dell’udienza preliminare non contemplava il potere del giudice di attribuire al fatto contestato una diversa definizione giuridica, potere riservato al Pm. Nel silenzio della legge, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente ritenuto che il Gup “non può modificare il fatto oggetto dell’imputazione, ma può dare ad esso una diversa qualificazione giuridica”. E dunque non incorreva in abnormità, né in eccesso di potere il decreto con cui il Gup disponeva il giudizio modificando la qualificazione giuridica del fatto del Pm. Per la VI Sezione penale, tuttavia, questi “consolidati principi di diritto” non valgono più dopo l’introduzione, nella disciplina dell’udienza preliminare, dell’art. 423, comma 1-bis, cod. proc. pen. (per effetto dell’art. 23, comma 1, lett. i), n. 2) del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150). La norma prevede infatti che se l’imputazione non è corretta “…il giudice invita il pubblico ministero a operare le necessarie modificazioni”, così introducendo il contraddittorio preventivo “quale condizione - scrive la Corte - per l’esercizio da parte del giudice dell’udienza preliminare del sindacato sulla dimensione fattuale e giuridica dell’imputazione”. Esclusa la legittimità della riqualificazione da parte del Gup, si deve però accertare a cosa porta una simile violazione. Per i giudici di legittimità siamo di fronte a un caso di “abnormità strutturale”, in quanto il giudice eserciterebbe un potere che, in quelle forme, non gli è riconosciuto dalla legge processuale. In definitiva, in seguito all’introduzione dell’art. 423, comma 1-bis, cod. proc. pen., conclude la Cassazione, “deve ritenersi abnorme, sotto il profilo strutturale, il decreto che dispone il giudizio che, senza la previa sollecitazione del contraddittorio, modifichi la qualificazione giuridica del fatto operata dal pubblico ministero nella propria richiesta, escludendo una circostanza aggravante”. Monza. Giallo nel carcere di via Sanquirico: trovato morto un detenuto di Dario Crippa Il Giorno, 15 ottobre 2025 Al momento viene esclusa l’ipotesi del suicidio. Sul corpo non ci sono segni di violenza. Nei giorni scorsi a San Vittore due decessi misteriosi. Giallo alla casa circondariale di Monza. I carabinieri del Nucleo investigativo di Monza sono entrati nella struttura di via Sanquirico lunedì mattina in seguito alla notizia che un detenuto era morto. Purtroppo i decessi in carcere non sono una novità, l’ultimo caso la scorsa estate quando un giovane si era tolto la vita in cella. Questa volta però l’ipotesi del suicidio sembra da scartare. E allora perché si sono mossi Procura e carabinieri? Al momento viene esclusa anche l’ipotesi di un decesso per cause violente: il detenuto in questione, un italiano di 63 anni, è morto per altre ragioni. Qualche giorno fa, al carcere milanese di San Vittore si erano registrati due decessi misteriosi per arresto cardiaco a distanza di poche ore l’uno dall’altro, mentre altre persone si erano sentite male, tanto da far ipotizzare cause legate all’uso di sostanze stupefacenti, magari tagliate male, o all’intossicazione da farmaci. Le bocche degli inquirenti sono cucite, mentre è stata disposta l’autopsia. Venezia. Carcere, “sospeso” il direttore. “Punito perché troppo attivo” di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 15 ottobre 2025 Il caso Farina. Il ministero: ragioni organizzative. Detenuti e associazioni preoccupati. In questi due anni aveva portato il carcere in città, dimostrando ai detenuti la strada per un concreto riscatto sociale e alle aziende la possibilità di assumere con ridotti sgravi fiscali. Una formula vincente che aveva permesso a Enrico Farina, nato a Salerno nel 1977 e arrivato a Venezia come direttore di Santa Maria Maggiore nel 2023, di tessere in poco tempo numerosi protocolli con diverse istituzioni in città come la Biennale, l’Ava, l’Usl 3 e da ultimo le Gallerie dell’Accademia. E potrebbe essere stata proprio questa sua instancabile attività ad aver “disturbato” i piani alti della complessa macchina del ministero della Giustizia. Queste le voci che giravano ieri alla notizia della sua improvvisa e inaspettata assenza e delle ferie richieste fino al 21 ottobre. Di certo c’è solo la conferma da parte del ministero di un “provvedimento di sospensione temporanea per ragioni organizzative”, ma nessuno sa quanto potrebbe durare, né chi potrebbe essere ufficialmente nominato al suo posto. Ormai si dà come reggente sicuro il direttore del carcere di Rovigo Mattia Arbia, che potrebbe essere coadiuvato dalla vice direttrice di Verona Rossana Gargano o dal direttore di Belluno Alberto Quagliotto. Fatto sta che Farina è stato trasferito al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Padova. Tecnicamente non è un demansionamento, dato che in alcuni uffici ci sono figure con qualifiche molto alte, anche più della doppia laurea di Farina. Di fatto però tutti i progetti avviati da Farina rimarranno “orfani”, le attività in carcere passeranno sotto un’altra direzione e il rapporto costruito con i detenuti subirà una brusca interruzione. “Ci auguriamo di cuore che sia una questione temporanea - dice il consigliere comunale Paolo Ticozzi del Pd - La speranza è che non sia una rimozione politica. Con un sottosegretario alla giustizia che godeva al pensiero di non fare respirare i detenuti nei blindati, ci si può aspettare di tutto, soprattutto verso chi interpretava il carcere come luogo di rieducazione e reinserimento, adoperandosi molto per far lavorare all’esterno i detenuti”. Il riferimento è a una voce che girava ieri su una presunta telefonata - molto accesa - che ci sarebbe stata negli scorsi giorni tra Farina e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Da qui la tesi della punizione per il temperamento molto attivo e “social” di Farina. Intanto però il vuoto si è fatto subito sentire, tanto che ieri i detenuti si chiedevano con preoccupazione dove fosse finito il direttore. Grazie a lui era passato il messaggio in questi mesi che con l’impegno si poteva ottenere una seconda chance. “Sono abbastanza sorpreso e non riesco a comprendere cosa possa essere successo per un provvedimento di questo tipo - ha detto Renato Alberini, presidente della Camera penale veneziana, che con lui nei giorni scorsi aveva inaugurato la biblioteca in tribunale, assumendo un detenuto - La collaborazione con questo direttore è stata importante e proficua”. Tante le collaborazioni, dallo stretto rapporto con il Vaticano alle istituzioni veneziane, tutte raccontate su Facebook. Ora la paura tra gli operatori è che il carcere maschile di Venezia ripiombi in quello stato di abbandono che trovò Farina quando arrivò, segnato da un suicidio e da un crescente sovraffollamento. Firenze. All’Ipm Meucci quasi il doppio dei detenuti previsti: “Materassi per terra” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 ottobre 2025 Quasi il doppio dei detenuti previsti dal regolamento. Al carcere minorile Meucci di Firenze, fino a pochi giorni fa, c’erano 29 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 17. Un sovraffollamento che ha toccato il suo culmine dopo tanto tempo, e in seguito al quale diversi ragazzini reclusi sono stati costretti a dormire per terra su materassi improvvisati. Adesso l’emergenza è leggermente rientrata perché proprio negli ultimi giorni, alcuni detenuti sono usciti, ma resta il sovraffollamento, con 22 ragazzi, cinque in più della capienza regolamentare. E c’è il rischio che, già a partire dalle prossime settimane, la struttura possa nuovamente riempirsi. A fornire i numeri è l’associazione Antigone, che proprio ieri mattina ha visitato l’istituto penitenziario in via degli Orti Oricellari. “Anche a Firenze, come in molti altri penitenziari minorili, c’è un sovraffollamento strutturale - dice al termine della visita Susanna Marietti di Antigone - probabilmente qui va meglio rispetto ad altre realtà, ma il problema esiste ed è la conseguenza del decreto Caivano varato dal Governo, in base al quale sono aumentati i reati, con continui ragazzi arrestati”. Tra questi, ci sono soprattutto i minori non accompagnati, che nell’istituto di Firenze sono oltre la metà, quasi tutti di provenienza tunisina. “Si tratta di ragazzini che arrivano in Italia dopo un lungo viaggio. Nelle città italiane finiscono per strada, talvolta a spacciare e talvolta facendo uso di sostanze, e per questo finiscono in carcere”. Una questione, quella dei minori non accompagnati, che negli ultimi anni è diventata particolarmente esplosiva, a causa di arrivi sempre più alti. Attualmente, nella provincia di Firenze sono circa 360 gli under 18 arrivati dal Sud del Mondo senza i loro genitori, mentre sfiorano quota mille quelli presenti in tutta la Toscana. “L’accoglienza per i minori stranieri - continua Marietti - è decisamente insufficiente e ciò ha un effetto sull’ingresso in carcere di questi ragazzi, che si trovano per anni a vivere per strada. I recenti tagli dei rimborsi ai Comuni da parte del Ministero dell’Interno avranno inevitabili e significative ripercussioni in questo senso. Il carcere non può essere considerato l’ultima frontiera del welfare”. Detto questo, la situazione nel carcere fiorentino non è così drammatica come da altre parti, hanno tenuto a sottolineare gli operatori dell’associazione Antigone. “Nell’insieme l’istituto Meucci non ci ha fatto una cattiva impressione - aggiunge Marietti - non ci hanno fatto entrare nel reparto detentivo, siamo rimasti soltanto nelle aree comuni, dove abbiamo potuto constatare le attività formative in cui erano impegnati i ragazzi, dalla scuola ai laboratori professionali, tra cui quelli di gelateria e per barbieri. Abbiamo visto ragazzini molto presenti e svegli, non assuefatti a causa dell’assunzione di psicofarmaci e questo è positivo”. A rendere più critica la situazione del minorile fiorentino, aggiungono dall’associazione Antigone, anche “i lavori eterni di ristrutturazione in corso da anni”, che rendono più angusti e meno fruibili gli spazi. Rovigo. “Impossibile notificare le raccomandate alle persone in carcere” Il Gazzettino, 15 ottobre 2025 Il problema del carcere rodigino è con Poste Italiane per quanto riguarda le pratiche civili. “È impossibile notificare ai detenuti le raccomandate perché le Poste non si rendono disponibili a collaborare con il carcere in una modalità tale per cui tutti i detenuti possano ricevere i loro documenti - è l’accusa mossa da Elisabetta Zamparutti, tesoriere di “Nessuno tocchi Caino”. C’è una resistenza da parte delle Poste Italiane per quanto riguarda le pratiche civili. Il postino dà l’irreperibilità da parte del detenuto”. La questione ha suscitato fin da subito l’interesse dei presenti, così sia Sergio D’Elia che Marco Petternella hanno chiarito: “Il postino pretenderebbe che il detenuto fosse all’entrata per ricevere la posta, il che è impossibile. In altre carceri si organizza un giorno alla settimana nel quale il postino entra nella struttura e consegna la posta ai detenuti. Il postino avrebbe certi obblighi in quanto pubblico ufficiale: verbalizzare l’assenza di un carcerato è un reato”. Questo procedimento può avere ripercussioni inimmaginabili sui carcerati, specie una volta in libertà. In una seconda fase si è posta l’attenzione sui problemi della struttura rodigina, anche se inferiori rispetto a quelli di altre carceri in giro per l’Italia. La struttura è molto più recente rispetto ad altre, il che porta a non verificarsi certe dinamiche dovute all’usura dello stabilimento. “La qualità degli ambienti è notevole - sottolinea Petternella - ma Rovigo negli anni sta diventando una struttura per detenuti ad alta sicurezza, cosa che in origine non era. Infatti, mancano sia il regime di semilibertà che le case di affettività, spazi dove i carcerati possono avere un colloquio intimo con i propri cari”. All’esterno, sul grande spazio verde all’interno delle mura, è prevista la costruzione di un padiglione capace di accogliere altri 80 detenuti: “Mi piange il cuore a sentire questa notizia confermata oggi dalla direzione del carcere - afferma D’Elia. Il padiglione verrà costruito all’interno dell’enorme area verde presente tra le mura del carcere, quando era già stato presentato un progetto per la costruzione di una serra. È in progetto, anche se non è ancora stato deliberato, un secondo padiglione speculare”. Lanciano. “Oltre i confini del carcere”: lavoro, istruzione e sport come strumenti di inclusione chietitoday.it, 15 ottobre 2025 Appuntamento per giovedì 16 ottobre a Palazzo degli Studi: il convegno è organizzato dal Rotary club Lanciano Costa dei trabocchi insieme a università di Teramo, casa circondariale di Lanciano, Ipa Abruzzo ed ente di formazione Human Factory. Il carcere come possibilità di riscatto e rinascita. È questo il tema del convegno “Oltre i confini del carcere. Lavoro, istruzione e sport quali strumenti di inclusione dei detenuti”, che si terrà giovedi 16 ottobre, dalle ore 9, nell’aula magna del Palazzo degli Studi di Lanciano. L’iniziativa è organizzata dal Rotary club Lanciano Costa dei trabocchi in collaborazione con l’università di Teramo (corso di laurea in Diritto dell’ambiente e dell’energia), la casa circondariale di Lanciano, l’Ipa Abruzzo, che da anni cura il progetto “Al di là del muro”, e l’ente di formazione Human Factory e volto a evidenziare il valore del lavoro, dello sport e dell’istruzione nel percorso riabilitativo delle persone detenute. Il convegno prenderà l’avvio con i saluti istituzionali portati dal consigliere delegato della Regione Abruzzo Nicola Campitelli, dal sindaco di Lanciano Filippo Paolini, dalla direttrice della casa circondariale Daniela Moi, dal presidente del Cdl in Diritto dell’ambiente e dell’energia Enzo Di Salvatore e dalla presidente del club Barbara Rosati. Gli interventi in programma, moderati dalla presidente Rosati, sono volti a indagare e evidenziare la rilevanza del lavoro, dello sport e dell’istruzione nel percorso riabilitativo delle persone detenute, riconoscendone il valore non solo come strumento di reinserimento sociale, ma anche come veicolo di crescita personale e di sviluppo dell’autonomia. Aprirà i lavori la professoressa ordinaria di Diritto costituzionale e pubblico dell’università di Teramo Angela Musumeci, seguita dal professore associato di Diritto processuale penale della stessa università Marco Pittiruti, a cui si uniranno gli interventi della responsabile dell’area trattamentale della casa circondariale di Lanciano, Krizia Stella, del direttore di Human Factory Fausto Zulli e della responsabile Cpi di Lanciano Dipartimento lavoro e attività lavorative, Violetta Martino, con la conclusione dei lavori affidata alla garante delle persone soggette a misure restrittive della libertà personale della Regione Abruzzo, Monia Scalera. Un evento a più voci nato dalla condivisione di una visione comune: indicare nuove vie di inclusione sociale e di reinserimento dei detenuti ma anche di umanizzazione della pena. La prospettiva univoca è quella di dare un’opportunità di riscatto sociale e di miglioramento della propria condizione di detenuto, attraverso la preparazione ad un possibile reinserimento lavorativo, ma anche attraverso l’esperienza dello sport e dell’istruzione. Tre aspetti che si intersecano e tracciano una via di salvezza e formazione anzitutto emotiva e prospetticamente anche sociale. “Con questo evento, che si colloca all’interno del macro progetto annuale ‘Un lavoro per tutti e tutte’ - sottolinea la presidente RC Lanciano Costa dei trabocchi Barbara Rosati - abbiamo voluto riflettere sulla possibilità di trovare una strada di rinascita e riscatto anche all’interno del carcere attraverso l’istruzione, lo sport e il lavoro”. Modena. Il teatro entra in carcere: “Vogliamo riempire di contenuti il tempo di chi vive rinchiuso” di Stefano Marchetti Il Resto del Carlino, 15 ottobre 2025 Inaugurata ieri mattina la nuova Accademia delle Arti e dei Mestieri al Sant’Anna. Fino a marzo 33 detenuti frequenteranno un iter professionalizzante con più di 700 ore di lezioni. Entrare in carcere, fra metal detector, porte pesanti e rumorose, sbarre alle finestre, è un’esperienza straniante, potente, emotivamente faticosa anche se ci passi soltanto due ore. Il carcere è un luogo difficile, di dolore, anche di rabbia o di angoscia. Nella vita si possono commettere sbagli, eppure anche dagli errori, a volte, possono sbocciare fiori. Proprio ieri mattina alla Casa circondariale di Sant’Anna è stata inaugurata la nuova Accademia delle arti e dei mestieri del teatro in carcere, un progetto di formazione professionale curato dal Teatro dei Venti con il sostegno del Ministero della Giustizia. Fino a marzo 33 detenuti e detenute del carcere di Modena frequenteranno un percorso professionalizzante, articolato in più di 700 ore di lezioni e attività pratiche, per acquisire competenze artistiche e tecniche: il progetto - che si avverrà di docenti di altissimo valore - vuole formare anche figure professionali molto richieste nei teatri, fonici, tecnici delle luci, costumisti, scenografi. “È la prima Accademia di questo genere in Italia: siamo onorati di avviarla anche per creare un modello”, sottolinea Stefano Tè, direttore artistico del Teatro dei Venti: la compagnia modenese - che celebra i suoi vent’anni - è da tempo impegnata in percorsi di teatro in carcere, sia a Modena che a Castelfranco Emilia, ha realizzato vari spettacoli con i detenuti come interpreti e ha preso parte anche a progetti internazionali come Ahos (All hands on stage). È la nostra Costituzione, all’articolo 27, a indicare come lo scopo della pena debba essere il reinserimento sociale del reo: “Questa Accademia riempie di contenuto il tempo che il detenuto deve passare in questo luogo, perché sia un tempo buono”, osserva Silvio Di Gregorio, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche. “E da quest’anno il Ministero ha stanziato fondi specifici per le attività teatrali in carcere, considerate di primaria importanza”, sottolinea Francesca Romana Valenzi, direttrice dell’ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato. “Quest’Accademia costituisce uno degli esempi più importanti di attività culturale che può svolgersi dentro un carcere - aggiunge Orazio Sorrentini, direttore della Casa circondariale -. Implementa senz’altro la rieducazione dei detenuti favorendone il futuro reinserimento nella società esterna”. Oggi in carcere a Modena sono presenti 580 detenuti, a fronte di una capienza di 372 posti. Fra le materie del percorso didattico ci saranno teatro e anche storia del teatro con un docente d’eccezione come Oliviero Ponte Di Pino che non nasconde la sua emozione: “Tutte le volte che entro in un carcere imparo qualcosa - ammette -. E noto sempre più come la cultura, in luoghi come questo, abbia una vera capacità di trasformare le persone”. I partecipanti apprenderanno nozioni di scrittura scenica e drammaturgia con Vittorio Continelli, di fonica e illuminotecnica con Marcello Marchi, di creazione di costumi di Nuvia Valestri, di allestimento scenico con Fabrizio Orlandi. E il Teatro dei Venti curerà anche un percorso parallelo di formazione del personale penitenziario. Alcuni detenuti potranno seguire tirocinii esterni ed esperienze formative presso enti teatrali del territorio. Al termine del percorso, gli allievi riceveranno un attestato di frequenza: l’obiettivo futuro è di renderlo un vero e proprio diploma di qualifica professionale. “Questo progetto rafforza sempre più l’urgenza di creare una connessione fra il carcere e la città, perché non siano mondi separati”, dice Alessandra Camporota, assessora comunale alla sicurezza urbana. Di certo - annota Eleonora De Marco, ex magistrato e oggi vicepresidente della Fondazione di Modena che sostiene le attività di teatro in carcere - “l’umanità applicata all’espiazione della pena ha effetti sociali importanti”. Volterra (Pi). Detenuti e attori con “Cenerentola”: “Cambiare la realtà? È ancora possibile” di Lorenza Cerbini Corriere della Sera, 15 ottobre 2025 La Compagnia della Fortezza di Armando Punzo indaga l’utopia del quotidiano, dove l’individuo diventa una folla in cammino. Tre anni di lavoro. Settantadue gli attori coinvolti. Ventiquattromila gli euro raccolti attraverso il crowdfunding e usati per finanziare le scenografie e i costumi del maestoso apparato visivo. Sono questi i numeri di “Cenerentola”, l’ultima proposta del regista Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza. Il sipario si alza all’interno del cortile del carcere di Volterra dove il regista partenopeo, premio Leone d’Oro alla carriera, ha iniziato la sua avventura trentasette anni fa. La sua Cenerentola è una metafora come la protagonista della favola di Charles Perrault. “Cenerentola è l’utopia”, dice Punzo, “è colui/colei che ha scelto di non rimanere relegato/a in un angolo e con audacia riesce a coronare il suo obiettivo”. Cenerentola è l’esempio, il motore propulsore per scelte di vita proprie. “Mi rivolgo all’uomo - dice Punzo -. Vorrei si interrogasse. Le persone pensano non sia più possibile influire sulla realtà per cambiarla. Quale mondo stanno immaginando? Può esistere qualcosa di diverso dallo status quo?”. Lo spettacolo si sviluppa attraverso una pluralità di sequenze. L’individuo in lotta con se stesso diventa una folla in cammino. Dominano le tinte in bianco e nero, delle gonne di tulle, delle tube, dei cilindri, dei giganteschi pannelli che definiscono la spazialità di ogni quadro. Unica nota di colore i capelli rossi di Viola Ferro che contamina il pubblico con risate ora grottesche, malinconiche, stupite (le musiche originali e il disegno sonoro sono di Andreino Salvadori). ? movimento. Ogni attore è una Cenerentola: scienziato, poeta, pittore. Una moltitudine di riferimenti fino al quadro finale in cui svettano un cavallo e un toro, tra de Chirico e Picasso. ? l’apoteosi del metodo Punzo basato sulla parola che diventa trama. “Ogni giorno, con i miei attori, leggiamo, parliamo e ci confrontiamo. Anche Cenerentola è nata così”, cioè tra gli appunti poetici e le formule algebriche appese alle pareti dei laboratori dove hanno preso forma le scene (di Alessandro Marzetti e Armando Punzo) e i magnifici costumi (di Emanuela Dall’Aglio). Un lavoro quotidiano coadiuvato dagli stagisti/e dell’Accademia di Brera. A Volterra il mondo fuori entra dentro il carcere. “Ci vogliono mille pensieri necessari per portare a termine un quadro” recitano gli attori. “I gesti sono universi e attirano le comete”. “Le utopie hanno il loro orario” e “lo spazio dell’utopia è un’assenza, un solido nulla”. Il successo non si limita all’applauso finale. Continua a collaborare con la Compagnia della Fortezza Paul Cocian. Scontata la pena, l’ex-detenuto ha deciso di restare a Volterra e ogni giorno, terminato il lavoro, torna in carcere per mettere a punto “Fame”, un monologo tratto dal romanzo di Hamsun Knut in cui un giovane scrittore rifiuta i compromessi per la sua insaziabile fame di vita. “Fame” è ancora in fase di studio e sarà completato entro il prossimo gennaio quando il 16 e 17 andrà in scena al Teatro Era di Pontedera”, dice Punzo. Intanto, Cenerentola è in cartellone, il 9 e 10 aprile al teatro La Pergola a Firenze. Hanno collaborato alla prima di Volterra, Pascale Piscina (movimenti), Andrea Berselli (disegno luci), Laura Cleri (aiuto regia), Alice Toccacieli e Viola Ferro (assistenti alla regia), Cinzia de Felice (direzione organizzativa generale). Potenza. “Libertà Aumentata”, il teatro entra in carcere regione.basilicata.it, 15 ottobre 2025 Nelle Case Circondariali di Basilicata e Puglia il progetto della Compagnia Teatrale Petra che trasforma il carcere da luogo di esclusione a spazio di cultura condivisa, di libertà espressiva e di dialogo tra chi vive “dentro” e chi entra da “fuori”. Portare il teatro, la danza e i linguaggi del contemporaneo nelle Case Circondariali, dove reale e virtuale si fondono alla ricerca di nuovi concetti di umanità: questa è la missione di In_Out. Libertà Aumentata, il progetto della Compagnia Teatrale Petra, che trasforma il carcere da luogo di esclusione a spazio di cultura condivisa, di libertà espressiva e di dialogo tra chi vive “dentro” e chi entra da “fuori”. Grazie al sostegno del Ministero della Cultura - Dipartimento per le Attività Culturali, Direzione Generale Spettacolo, Servizio I, il progetto si svilupperà nel triennio 2025-2027, coinvolgendo le Case Circondariali di Potenza e Matera e alcuni Istituti pugliesi con un calendario di attività artistiche, laboratori, performance e momenti di confronto aperti anche al pubblico esterno. Nel prossimo triennio, in continuità con il lavoro avviato dal 2013, il progetto non si propone solamente di consolidare le attività nelle Case Circondariali rafforzando l’offerta culturale all’interno dei percorsi trattamentali e aprendo ai detenuti nuove occasioni di incontro con i linguaggi artistici del contemporaneo; ma anche di raccontare il carcere in modo autentico e plurale, attraverso strategie di comunicazione capaci di restituire complessità e qualità al dibattito, pur nel rispetto delle limitazioni imposte dal contesto. Parallelamente, si punta a migliorare il benessere dei detenuti offrendo loro maggiori spazi creativi, a coinvolgere in maniera più attiva direzioni e personale penitenziario, e a stimolare negli studenti una consapevolezza critica sul sistema carcerario, che non nasconda errori e fallimenti ma li trasformi in strumenti di educazione civica e alla giustizia. Centrale è anche il riconoscimento del valore artistico del teatro in carcere, che non si esaurisce nella dimensione sociale ma si afferma come terreno di ricerca, così come il sostegno e la valorizzazione del lavoro degli operatori culturali impegnati in questo ambito. Per garantire un approccio strutturato e coerente al progetto, le strategie di intervento si articolano in quattro macroaree principali di azione, ciascuna mirata a specifici obiettivi e destinatari: il progetto Linguaggi del Contemporaneo in Carcere porta nei penitenziari di Potenza e Matera laboratori di teatro-danza condotti da professionisti, offrendo ai detenuti occasioni di crescita espressiva, creativa e collaborativa. Il percorso culmina in una performance aperta a detenuti, familiari, studenti e pubblico esterno. Cuore del programma è il workshop Artisti in Transito, che mette in dialogo detenuti, allievi esterni e studenti con artisti di rilievo nazionale, selezionati in collaborazione con il Corso DAMS di Torino. L’edizione 2025 vedrà protagonista Davide Valrosso (25-28 novembre). Il progetto si arricchisce di laboratori sulla transizione digitale, con focus su realtà virtuale e nuove tecnologie, in sei tappe nel 2025 (Potenza, Matera, Lecce, Bari, Trani, Brindisi), per poi estendersi negli anni successivi. Parallelamente sarà creata una library multimediale VR con contenuti scientifici e artistici accessibili offline ai detenuti. Infine, la programmazione culturale nelle Case Circondariali di Potenza e Matera porterà eventi e incursioni artistiche, consolidando un percorso di inclusione, formazione e innovazione creativa dentro il carcere. La comunicazione e diffusione del progetto prevede la creazione di una redazione locale che, attraverso incontri mensili, realizzerà un podcast mensile per raccontare il progetto. Parallelamente verrà sviluppata una strategia di comunicazione e promozione delle attività e del volume “Altrimenti il carcere resta carcere. Teatro Oltre i Limiti” di Ornella Rosato e Alessandro Toppi. Il percorso include inoltre la diffusione dell’output digitale diretto da Matteo Maffesanti e la partecipazione alla rassegna nazionale Destini Incrociati, promossa dal CNTiC. Nell’ambito della formazione il progetto prevede laboratori nelle scuole superiori delle province di Potenza e Matera (2 istituti nel 2025, 4 nel 2026, 6 nel 2027), coinvolgendo studenti in attività sul tema del teatro in carcere e offrendo esperienze dirette negli istituti penitenziari. Parallelamente, è attivato un laboratorio annuale per operatori teatrali in carcere, selezionati tramite call pubblica, che unisce formazione teorica, pratica e lavoro sul campo con esperti del settore. Per il monitoraggio e la valutazione del progetto è previsto il supporto dell’Ordine degli Assistenti Sociali della Basilicata e lo sviluppo di un sistema di feedback con gli operatori carcerari. Saranno elaborati strumenti di valutazione personale e un documento condiviso per rendere visibili risultati e impatto del progetto negli istituti penitenziari. “IN_OUT. Libertà Aumentata è un progetto culturale e sociale che da oltre quattordici anni promuove il teatro e i linguaggi del contemporaneo nelle carceri di Potenza e Matera, estendendosi a istituti di Puglia, Basilicata e a livello nazionale - afferma Antonella Iallorenzi, direttrice artistica della Compagnia Petra. Frutto di una collaborazione stabile con le istituzioni penitenziarie, le scuole, gli artisti e gli operatori culturali, il progetto crea spazi di libertà e incontro tra detenuti, studenti e cittadini. Grazie al sostegno del Ministero e a una rete culturale in crescita, IN_OUT rende visibili pratiche nate in carcere ma rivolte all’intera società”. Sono molteplici le modalità attraverso le quali il teatro diviene strumento d’inclusione: laboratori sulle tecniche teatrali per permettere ai detenuti di aprire una finestra sull’esterno; laboratori intensivi integrati guidati da artisti di fama nazionale e internazionale per attori-detenuti e allievi delle scuole secondarie di II grado; programmazione di rassegne all’interno dello spazio Teatro della Casa Circondariale di Potenza; formazione di operatori sociali per fornire ai soggetti coinvolti le competenze utili da impiegare nelle diverse attività dei progetti realizzati; incontri e percorsi per un pubblico esterno, studenti delle scuole secondarie di II grado, volti a sensibilizzare ed educare sul tema del carcere e del teatro sociale; monitoraggio per valutare il reale impatto che l’attività teatrale può avere, in positivo o in negativo, sulla vita dei detenuti. La piazza non sia solo un’illusione, aiutiamo i giovani a cambiare il paese di Fabrizio Barca Il Domani, 15 ottobre 2025 Sorprendersi per la forte partecipazione di giovani di ogni sorta, età e parte alle manifestazioni di vicinanza e di solidarietà col popolo palestinese è prova di una diffusa incomprensione. Quella di pensare che le nuove generazioni siano in grande misura indifferenti alle gravi iniquità del nostro tempo, ripiegate sulla propria vita e il proprio disagio e soprattutto avverse all’idea stessa che la “politica” sia la chiave del cambiamento. A provarlo, starebbe il loro assenteismo al voto superiore alla media, il giudizio particolarmente duro sui partiti, la caduta della loro partecipazione ad attività volontarie (particolarmente grave nella fascia 18-19 anni, dal 16,6 per cento al 6,5 per cento del totale fra 2015 e 2023, misura l’Istat), o anche il loro esodo imponente dall’Italia. Effettivamente, davanti a questi fatti perché non dovremmo sorprenderci di un improvviso sussulto giovanile? Perché questi fatti sono in realtà letti male. Essi segnalano l’estrema difficoltà per le nuove generazioni di tradurre in un moto collettivo di protesta e di cambiamento quella che è una loro profonda e diffusa consapevolezza delle ingiustizie del nostro tempo e una piena consapevolezza che la politica è il modo per cambiare le cose. Di fronte agli orrori, questa volta, ragazze e ragazzi hanno vinto l’inerzia. Come lo hanno fatto altre volte attorno ad altri obiettivi che avessero un capo e una coda. Questa è la tesi che noi Forum Disuguaglianze e Diversità sosteniamo in un piccolo, denso saggio, “Giovani”, pubblicato assieme a Caritas Italiana in un libro, Le parole del Giubileo, appena uscito per EDB. Lo facciamo rileggendo una grande massa di dati disponibili, portando nuovi dati, utilizzando quanto abbiamo appreso da una vasta rete di relazioni. Partiamo da alcuni tratti condivisi della condizione giovanile: la difficoltà a conseguire l’indipendenza e a compiere le scelte che segnano l’età adulta (con il progressivo scivolamento della soglia stessa della “gioventù”); la povertà di buoni lavori e gli ostacoli a intraprendere; la diffusione del disagio individuale e della fatica mentale. Per poi andare oltre: l’insuccesso nel fare pesare i propri valori, saperi e aspirazioni, nell’esprimere un adeguato potere negoziale, nel disporre di spazi da utilizzare in modo autonomo; l’infantilizzazione; l’assenza eclatante di un acceso confronto intergenerazionale; forti disuguaglianze al loro interno, legate alla condizione sociale, di genere, etnica e territoriale, che si manifesta in radicali differenze nei rischi che si possono assumere e nel rapporto con il potere. Dietro questa perturbazione stanno profonde consapevolezze. A cominciare dalla sensibilità forte dei giovani al cambiamento climatico e all’ambiente: quella dei/delle giovani italiani/e fra 16 e 30 anni, ci dice Eurobarometro, è anche assai più alta della media europea. Una consapevolezza che si estende all’ingiustizia sociale, anche nella fascia di età più delicata, la tarda adolescenza (17-18 anni). Nel contesto di lezioni e incontri nelle scuole italiane promossi da un programma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, abbiamo ritrovato e misurato una forte sensibilità alla connessione fra disuguaglianze e “colore della pelle”, “genere” e “classe sociale”, che conferma innumerevoli indagini, se ben lette. E c’è di più. La consapevolezza giovanile riguarda anche il fatto che per cambiare la società è necessario un impegno collettivo. In un’indagine campionaria del Centro Luigi Bobbio sulla fascia 18-34 anni il 44 per cento risponde che “per cambiare la società bisogna impegnarsi personalmente” o in politica o in associazioni della società civile. La questione vera è che una larga maggioranza di giovani non è pronta a tradurre quelle consapevolezze in un proprio impegno collettivo continuativo. Lo ritiene inefficace o impossibile. Quando agli stessi giovani si chiede se sono “politicamente impegnati” in partiti o associazioni la risposta positiva cade dal 44 a meno del 7 per cento. E la sfiducia nei partiti e nelle associazioni della società ne è il segno tangibile. Negli incontri con loro emerge la motivazione di questa sfiducia: la paura di ritrovarsi in luoghi dove, ancora una volta, non si sarà ascoltati o che hanno la “loro” agenda, i “loro” interessi, la “loro” targa; la paura di essere delusi. E allora, memori che nella storia è proprio dalle nuove generazioni e dalla loro leadership che è quasi sempre venuta la scossa per un’emancipazione generale, il confronto ci ha spinto ad andare avanti. A mettere a terra gli ostacoli che impediscono a quelle sensibilità di aiutare il paese intero a uscire dal guaio in cui siamo. Sono gli ostacoli su cui stiamo ragionando con tante realtà del paese: le condizioni e le prospettive economiche che, rispetto agli anni 60, non consentono “lussi” nell’uso del proprio tempo; il senso comune prevalente che ha spinto al “si salvi chi può”, spento la speranza collettiva, diffuso l’idea che pubblico sia corruzione e sfascio, convinto che gli oligarchi espressi da un capitalismo impazzito siano imbattibili; le molteplici e crescenti forme di intimidazione di ogni impegno acceso e conflittuale; l’esilità di spazi liberamente organizzabili; l’impermeabilità, la chiusura gerarchica, la logica di cooptazione di associazioni e partiti. Che si sommano al crollo del peso numerico dei giovani: la fascia 15-25 anni era il 16 per cento della popolazione negli anni ‘60, è sotto l’11 per cento oggi. Sono ostacoli che pesano anche su quelle avanguardie del mondo giovanile che, nonostante tutto ciò, sono profondamente impegnate in forme diverse: azioni e sperimentazioni territoriali, articolazioni giovanili di associazioni, movimenti, nuove realtà. A frenarne l’efficacia è in molti casi anche la difficoltà di trovare modi organizzativi che, senza replicare le forme gerarchiche del ‘900, evitino di cadere in un “orizzontalismo” paralizzante o foriero di leadership non trasparenti. Ma allora, non sorprendiamoci se ragazzi e ragazze delle scuole tornano nelle piazze. Affrontiamo piuttosto con loro e con l’intero universo giovanile la sfida di rimuovere quegli ostacoli, affinché la piazza non sia un fuoco di paglia. Di farlo attorno a obiettivi concreti, radicali ed emozionanti. E ricercando assieme forme nuove di organizzazione che ci attrezzino a contrastare avversari potenti che non hanno alcuna intenzione di mollare il potere che gli cresce nelle mani. È anche questo l’impegno del ForumDD in questa travagliata fase. *Economista e politico “No alla scuola del passato”. Quaranta piazze contro la “cura” Valditara di Chiara Sgreccia Il Domani, 15 ottobre 2025 A lanciare la protesta il Tavolo nazionale per la scuola democratica, un insieme di persone di tutto il Paese unite del rifiuto delle Nuove indicazioni nazionali 2025 e dalla voglia di costruire la partecipazione in classe. “Vogliamo una scuola che educhi alla libertà e alla cooperazione, una scuola contraria a ogni forma di nazionalismo e chiusura identitaria, una scuola che guardi al futuro”. A sostenerlo è il Tavolo nazionale per la scuola democratica. Un insieme di persone sparse in tutta l’Italia, docenti, studenti, genitori, educatori, sindacati e organizzazione del terzo settore che hanno deciso di unirsi per mostrare che è possibile costruire un sistema d’istruzione diverso da quello, autoritario e repressivo, che Giuseppe Valditara, il ministro dell’Istruzione e del merito, prova a imporre. Il Tavolo, come spiega Carlo Ridolfi, che fa parte anche della Federazione italiana dei Cemea, è nato dal rifiuto netto nei confronti delle Nuove indicazioni 2025 per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione, rese note dal Mim lo scorso 11 marzo, con l’intenzione di riformare le linee guida precedenti, del 2012, su cui la scuola ancora oggi struttura le sue capacità di insegnamento. “L’obiettivo del tavolo, però - e di conseguenza, del movimento di persone che ha preso forma dalla sua fondazione - non è solo quello di dire no alle Indicazioni 2025 e al ritorno al passato che un documento dal forte impianto ideologico prospetta. C’è anche la voglia di dire sì, a una scuola democratica, inclusiva, a contatto con i territori”. Per questo la mobilitazione nazionale convocata per sabato 18 ottobre in tutto il Paese sarà anche una festa: “Una festa per una scuola democratica”, chiarisce Ridolfi durante la conferenza stampa indetta proprio per rendere noti i dettagli della protesta. Da Bergamo a Cagliari, passando per Milano, Napoli e Palermo - solo per dire alcune delle 40 città che hanno aderito - il mondo della scuola scenderà in piazza per contrastare le Indicazioni 2025 in primis e in generale la visione di scuola di Valditara di cui queste fanno parte. A Roma, dalle 10, ci sarà un sit-in davanti al ministero dell’Istruzione e lì sarà istituita una cabina di regia che terrà il filo di tutte le manifestazioni nel Paese con l’intento di evidenziare l’unità dei territori e del pensiero. Così si capisce dagli interventi dei rappresentati delle associazioni che fanno parte del Tavolo per la scuola democratica, che hanno partecipato al lancio pubblico della mobilitazione avvenuto nella Sede romana di Libera, la rete di associazioni in lotta contro le mafie, presieduta da Don Luigi Ciotti. Che, come ha spiegato Agnese Zingaretti, è orgogliosa di essere parte del Tavolo in quanto “anche il diritto allo studio è una questione di antimafia. Sappiamo, per fare un esempio, con quale frequenza nei territori periferici la mafia sfrutti le debolezze dei giovani per attrarli verso un guadagno facile, la scuola è necessaria per impedirlo”. Ad aver preso parte alla costruzione del tavolo, oltre al Movimento per la cooperazione educativa che, come ha spiegato Gabriele Vitello, è preoccupato dalle Nuove Indicazioni nazionali perché “prospettano una scuola non più capace di promuovere lo spirito critico e di mettere al centro gli studenti, ma rigida, volta a valorizzare i talenti invece di livellare le disuguaglianze”, anche il Coordinamento genitori democratici, la Rete degli studenti medi, l’Unione degli Studenti, ActionAid, i sindacati come Cobas Scuola e Flc Cgil, per citare solo alcune delle organizzazioni intervenute durante la conferenza stampa. Con l’obiettivo, ha chiarito per tutti Grazia Maria Pistorino della segreteria nazionale di Cgil scuola, non solo di difendere il ruolo dei docenti e la loro professionalità dalle riforme di Valditara, “ma anche i valori costituzionali che sono alla base della scuola secondo quanto costituisce la nostra Repubblica. Valori che strutturano anche una visione generale della società”. Per Pistorino le Indicazioni nazionali 2025 mostrano un chiaro cambio di approccio: mentre le precedenti si basano su una visione della società complessa, articolata. Le nuove puntano sul corposo impianto normativo per strutturare un approccio autoritario e verticistico, “volto anche a richiamare un autorevolezza falsa del docente, cioè non costruita sulla professionalità ma che diventa portavoce o delle istanze del ministero o delle richieste delle famiglie: per creare un insegnante omologato, esecutore”, conclude la rappresentante sindacale, convinta, come gli altri partecipanti al Tavolo nazionale per la scuola democratica, che quella del 18 sia una tappa importante di un percorso più ampio volto a costruire un sistema d’istruzione fondato sulla “partecipazione”. “Parliamo di sentimenti”, l’incontro di Gino Cecchettin trasmesso online per tutte le scuole d’Italia di Federico Cella Corriere della Sera, 15 ottobre 2025 Terza tappa del progetto CampBus, a Milano: dopo Catania e Roma, nuovo appuntamento di educazione all’affettività. Mercoledì 15 ottobre, dalle ore 11, sarà possibile seguirlo sul sito del Corriere: un invito rivolto a studenti e studentesse, ai loro docenti e anche alle loro famiglie. A Catania, liceo classico (il Cutelli) c’era molta partecipazione, diversi ragazzi e ragazze si sono presentati con il libro Cara Giulia in mano, alcuni si sono commossi, molti hanno fatto domande a Gino Cecchettin. Una studentessa, la voce un po’ rotta dall’emozione, chiude: “Grazie per l’esempio che ci porta, la forza di darsi obiettivi per andare avanti, oltre il dolore e la rassegnazione. Ci spieghi come ha fatto, io ne ho bisogno, noi ne abbiamo bisogno”. A Roma, istituto tecnico Galilei, utenza (come si dice) molto maschile. Fino a pochi minuti prima erano in assemblea autogestita sulla situazione in Palestina. Ascoltano in silenzio, in pochi scivolano nella distrazione: parlare di emozioni e sentimenti è una novità, a scuola poi… In molti alzano la mano: sono quelli che hanno deciso che di questo incontro speciale ne parleranno anche a casa. Poi all’improvviso interviene Maria, lo fa per sollecitare i colleghi maschi: “Non dovete avere paura a mostrare i vostri sentimenti, non è una vergogna piangere se stai soffrendo, non è un segno di debolezza, anzi: lo è di coraggio”. Applausi, tanti. Gli incontri organizzati da CampBus con Gino Cecchettin e la Fondazione dedicata alla figlia Giulia, sono una “materia” nuova per tutti. Studenti e docenti. Un momento di riflessione, sulla cultura patriarcale, la gestione degli affetti, il senso delle relazioni basate sul rispetto. È un momento di formazione, della persona e dell’adulto di domani: quello che è il ruolo della scuola. Il prossimo di questi incontri sarà al liceo Carducci di Milano, la terza tappa del viaggio di CampBus di quest’anno nelle secondarie superiori italiane. Grazie alla disponibilità della scuola, l’intervento di Gino Cecchettin e il successivo dibattito con gli studenti e le studentesse - coadiuvato dalle riflessioni e i preziosi spunti della psicologa e psicoterapeuta Lara Pelagotti - saranno trasmessi sul sito del Corriere a questo link. Il giorno è il 15 di ottobre, l’orario - dalle ore 11.00 alle 13.00 - è stato scelto proprio per permettere a quante più classi di ogni scuola d’Italia di collegarsi tramite Lim (la lavagna interattiva che ha sostituito quelle di ardesia in quasi ogni scuola italiana), per seguire l’incontro dai banchi. Per prenderne anche solo un pezzo, pur a distanza, e trasformarlo in un contenuto tanto nuovo quanto fondamentale, tra le materie curriculari. Quelle obbligatorie a scuola. Quando, in Italia - tra i pochi Paesi in Europa, insieme a Romania, Bulgaria e Ungheria - un’educazione all’affettività non è prevista dalle linee guida del ministero. Eppure di bisogno ce n’è, lo chiedono i ragazzi e le ragazze, lo chiedono anche le famiglie. Il 70% di quelle italiane, secondo una ricerca recente di Coop con Nomisma. Caritas-Migrantes: cresce l’Italia straniera in fuga dalle guerre di Paola D’Amico Corriere della Sera, 15 ottobre 2025 Dal 1990 ad oggi è più che raddoppiato il numero dei migranti in tutto il mondo (304 milioni) in fuga da conflitti e carestie. In Italia gli stranieri sono oltre 5,4 milioni (9,2% del totale), nel 2024 oltre 217 mila hanno ottenuto la cittadinanza. In aumento il disagio tra le giovani generazioni. In cinque lustri, dal 1990 all’inizio di quest’anno, il numero dei migranti internazionali è più che raddoppiato: da 153 a 304 milioni di persone, donne, uomini, adolescenti, bambine e bambini, hanno dovuto lasciare le terre dove sono nati in cerca di speranza. Se si vuole leggere il dato in termini di percentuale si è passati dal 2,9 per cento della popolazione mondiale in movimento al 3,7. E negli ultimi anni, in un mondo traumatizzato dalle guerre, il numero di profughi e sfollati è arrivato alla cifra record di 123,2 milioni. “Viviamo in un periodo di intensa volatilità nelle relazioni internazionali - spiega l’alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi - con la guerra moderna che crea un panorama fragile e straziante, segnato da una acuta sofferenza”. Guerra di guerre a cui ogni giorno si aggiungono nuovi fronti: Afghanistan, Siria, Yemen, Gaza, Ucraina, Venezuela, Haiti, Myanmar, Sud Est asiatico, Corno d’Africa. L’Italia, spiega l’arcivescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei, “è attraversata da una trasformazione silenziosa ma radicale, che passa attraverso i volti, le storie, i sogni di ragazze e ragazzi di origine straniera. Giovani che frequentano le stesse scuole dei loro coetanei italiani, parlano i dialetti locali, tifano per le squadre del cuore, ma spesso continuano a sentirsi e a essere percepiti come “ospiti permanenti”, non pienamente parte della comunità”. In questo senso “le comunità cristiane in Italia hanno oggi la possibilità di essere laboratori privilegiati di convivenza”. Di grande attualità il tema dell’edizione 2025 del Rapporto Immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes: “Giovani, testimoni di speranza”. Ci sono i giovani arrivati adolescenti che devono imparare una lingua nuova e cercare un senso di appartenenza “che li aiuti a non sentirsi in un limbo”. E quelli nati in Italia “italiani di fatto ma non sempre di diritto”. E cresce la componente straniera nel nostro Paese: oltre 5,4 milioni di persone (9,2% del totale), numeri che compensano il saldo naturale negativo. Con una crescita di nuovi arrivi dal Perù e dal Bangladesh (tra le prime nazionalità per nuovi rilasci di permessi di soggiorno legati soprattutto a motivi familiari /53%) e di lavoro (40%). Stabili (7,2%) quelli legati alla protezione internazionale e all’asilo. Interessante il capitolo demografico: le nascite complessive si attestano a 370 mila, e oltre il 21% dei nuovi nati ha almeno un genitore straniero. C’è un altro dato utile a leggere le trasformazioni in corso: nel 2024 oltre 217 mila persone hanno ottenuto la cittadinanza. C’è poi il capitolo lavoro che vede in Italia 24 milioni di occupati e di questi 2,5 milioni (10,5%) sono stranieri. Però, come sottolinea il rapporto Migrantes, il tasso di occupazione è salito al 61,3% (più 1 punto rispetto al 2023) ma non per tutti, solo per i cittadini comunitari. Nonostante ciò, e nonostante la forte presenza di fenomeni come il caporalato, il rapporto sottolinea come cresce la dipendenza dalla manodopera immigrata, ormai indispensabile per industria, servizi, welfare. L’agricoltura è uno specchio di questa evoluzione: dal 2010 il numero di lavoratori stranieri è raddoppiato, superando oggi le 426 mila unità (un lavoratore su tre). Molto resta da fare per trasformare tutto questo in una opportunità di integrazione stabile e inclusiva per la società e l’economia del Paese. Il rapporto tocca il tema della povertà che tra gli italiani si attesta al 7,4% e tra gli stranieri è di cinque volte più impattante (35,1%). È povero un cittadino straniero su tre (1.727 mila). Quanto all’istruzione, cresce anche il numero degli studenti con cittadinanza non italiana: 910.984 (11,5%). La maggioranza, pur non avendo la cittadinanza, è nata o cresciuta in Italia. Ed è la scuola il primo luogo dove intervenire per l’inclusione di domani. L’impatto degli stranieri alla voce Salute è fermo al 6,6%. I ricoveri riguardano in un caso su quattro problematiche legate a gravidanza e parto. Anche se stanno aumentando le malattie croniche. Il rapporto esamina anche gli aspetti legati alla criminalità. I detenuti stranieri sono il 31,8% del totale. Una percentuale stabile, che contraddice la narrazione comune. Ma a questo si va a sommare il crescente disagio registrato tra i più giovani. I servizi sociali nel solo 2024 hanno preso in carico 5.100 minori stranieri (23% del totale) coinvolti nel circuito penale. Se una diseguaglianza c’è, ed è evidente, è nel mondo dello sport soprattutto in relazione al genere: risulta che solo il 35,2% delle ragazze straniere pratica sport contro il 62,3% delle coetanee italiane. Infine, quanto alla appartenenza religiosa, si stima che i cristiani siano ancora la maggioranza (51%), seppure in calo: 1,5 milioni di ortodossi più 900 mila cattolici, 143 mila evangelici, 92 mila copti e 135 mila fedeli di alt5r religioni cristiane. Più numerosi gli stranieri di religione musulmana (1,7 milioni, il 31% di tutti gli stranieri) e in aumento i buddisti e gli induisti. Migranti. Altre vittime della guardia costiera libica a pochi giorni dal rinnovo del Memorandum di Marika Ikonomu Il Domani, 15 ottobre 2025 “Il governo blocchi l’intesa”. Martedì in aula alla Camera si è discussa la mozione con cui Pd, Avs, +Europa e Iv chiedono al governo “a non procedere a nuovi rinnovi automatici”. Mercoledì il voto. Schlein: “Il nostro impegno a fermarlo sarà totale”. Ong: “Un accordo con cui i governi italiano ed europei hanno delegato i respingimenti alla guardia costiera libica”. Le opposizioni sono unite per dire “basta al memorandum Italia-Libia” sui flussi migratori, accordo firmato nel 2017 che si rinnoverà il prossimo 2 novembre. Unite o quasi, dopo che il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte si è sfilato da una mozione (la numero 1-00498) che è stata discussa martedì 14 ottobre in aula alla Camera e che verrà votata mercoledì. “C’è bisogno di una revisione seria”, ha detto il capogruppo M5s in commissione Esteri Francesco Silvestri, “se uno strumento non funziona, lo si cambia. Va aggiornato”. Se i Cinque stelle chiedono una modifica dell’intesa, la mozione presentata dalla segretaria del Partito democratico Elly Schlein - e firmata da altri parlamentari di Pd, Alleanza Verdi e Sinistra, Italia Viva e +Europa - impegna il governo italiano “a non procedere a nuovi rinnovi automatici”, sospendendo “ogni forma di cooperazione tecnica, materiale e operativa”. Quello che le opposizioni e le organizzazioni impegnate nel soccorso in mare hanno chiesto in conferenza stampa alla Camera è, dunque, di mettere fine all’accordo che era stato introdotto nel 2017 dal governo Gentiloni, con Marco Minniti ministro dell’Interno: “Un memorandum dei morti”, secondo il portavoce di Amnesty International Italia Riccardo Noury, che, dice Filippo Miraglia dell’Arci, “ha delegato alla guardia costiera libica i respingimenti che il nostro governo e l’Europa non avrebbero potuto fare, perché le leggi lo impediscono”. Nelle stesse ore in cui la Camera discute il rinnovo del memorandum e la minoranza ne chiede l’abolizione, una persona è morta, un’altra è in coma con una pallottola nel cranio e sta lottando tra la vita e la morte, e altre due sono state ferite da colpi sparati da una motovedetta libica il 12 ottobre in acque internazionali. La lista delle violazioni fatte da quella che è stata definita guardia costiera libica, ma che nei fatti è stato un corpo creato in un paese diviso da milizie e fazioni, è lunga. Sia nei confronti delle persone migranti che attraversano il mar Mediterraneo, come è accaduto tre giorni fa, sia nei confronti delle navi di soccorso umanitario. “Il 26 settembre 2025 un’imbarcazione della Sea Watch è stata bersagliata da colpi di arma da fuoco da una motovedetta donata dall’Italia alla Libia nel 2018”, spiega Valentina Brinis, della rete delle organizzazioni del soccorso in mare, che riunisce venti imbarcazioni della flotta civile. E ricorda: “Se nessuna delle due parti farà nulla entro il 2 novembre, il memorandum rientrerà in vigore il 2 febbraio 2026. Le testimonianze sono sufficienti a chiederne l’interruzione”. Testimonianze che sono già state raccontate in parlamento dall’associazione Refugees in Libya e dal suo presidente David Yambio, torturato dal generale Almasri in persona, lo stesso che il governo italiano ha rilasciato e accompagnato in Libia con un volo di stato, nonostante le accuse mosse dalla Corte penale internazionale di stupri e omicidi. “Come possono le persone accettare che le loro tasse vadano a un mucchio di terroristi, di criminali, in Libia sotto il nome della cosiddetta guardia costiera?”, chiede Yambio. I testimoni, continua, sanno “chi sono i legislatori, chi firma questi accordi, chi permette che i milioni di euro di tasse degli italiani e degli europei vadano in Libia e supportino crimini contro l’umanità”. “Una cooperazione con poteri mafiosi”, per il segretario di +Europa Riccardo Magi, che porta il governo a essere “messo sotto ricatto da quegli stessi poteri”. Per questo, aggiunge Fratoianni, questo memorandum va sospeso, meglio ancora sarebbe cancellarlo del tutto perché “è stato fin dall’inizio una scelta drammaticamente sbagliata”. Con questa mozione, dice Schlein, “siamo impegnati a fermarlo” e “il nostro impegno sarà totale”. Sono numerosi i rapporti delle organizzazioni internazionali “che documentano gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani nei confronti di migranti e rifugiati in Libia dal 2017, tra cui detenzioni arbitrarie, torture, schiavitù, lavoro forzato, violenze sessuali, tratta e sparizioni forzate”, si legge nella mozione, che ricorda la collusione della “guardia costiera libica con milizie e trafficanti nell’ambito dell’intercettazione e della privazione della libertà di donne e uomini migranti, della loro riduzione in schiavitù, del lavoro forzato, della detenzione”. Per questo, le opposizioni chiedono che l’esecutivo si impegni a bloccare il rinnovo automatico, rivedere integralmente gli accordi bilaterali, “promuovere, in sede europea” una “missione civile di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale”. Chiedono infine al governo trasparenza sulle “attività di cooperazione e spesa in Libia”. Una strada che, con la liberazione del generale Almasri e con la decisione di secretare gli appalti per l’affidamento a paesi terzi dei mezzi di controllo delle frontiere, il governo Meloni non sembra aver intrapreso. Migranti. Stop agli accordi con la Libia, opposizioni contro il rinnovo di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 15 ottobre 2025 “Ribadiamo ancora una volta che questo accordo deve finire: le cicatrici sulla nostra pelle sono testimoni delle violenze della cosiddetta guardia costiera libica, finanziata dal governo italiano”. “Ribadiamo ancora una volta che questo accordo deve finire: le cicatrici sulla nostra pelle sono testimoni delle violenze della cosiddetta guardia costiera libica, finanziata dal governo italiano”. A parlare nella Sala Berlinguer della Camera è Hassan Zakariya, co-fondatore dell’associazione Refugees in Libya, oggi rifugiato in Canada. Si riferisce al memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017 dall’allora governo Gentiloni. Partito Democratico, Avs, +Europa e Italia Viva - i partiti di opposizione a eccezione del Movimento 5 Stelle - voteranno oggi alla Camera una mozione che chiede lo stop agli accordi che hanno permesso al nostro governo di fornire armi e finanziamenti alla cosiddetta guardia costiera libica nei passati sette anni. Mancano poco più di due settimane al rinnovo automatico del patto: se al 2 novembre Roma o Tripoli non porranno modifiche o abrogazioni, si prolungherà per altri tre anni. Tra i firmatari della mozione c’è la segretaria del Pd Elly Schlein con i suoi parlamentari Orfini, Bakkali e Provenzano, per Italia Viva Boschi, poi Magi (+Europa) e Bonelli, Fratoianni, Ghirra, Zaratti di Avs. Chiedono lo stop dell’accordo, la chiusura dei centri di detenzione libici, l’istituzione di una missione civile di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, sul modello della passata Mare Nostrum, e un canale di ingressi umanitari dalla Libia. I pentastellati hanno scelto una vaga “terza via” sulle migrazioni, pur dichiarandosi contrari al memorandum: “Vogliamo un’Italia che difenda sicurezza e legalità senza rinunciare ai valori di umanità, giustizia e solidarietà”, ha detto la deputata 5s Ida Carmina alla Camera. Il memorandum Italia-Libia è nato con l’obiettivo vago di “contrastare l’immigrazione irregolare e il traffico di esseri umani”. In sette anni, denunciano le organizzazioni presenti alla conferenza stampa, ha mostrato il suo vero intento iniziale: un meccanismo di respingimenti illegali e violazioni sistematiche dei diritti umani da parte della cosiddetta guardia costiera libica. Proprio Sea-Watch, impegnata nel soccorso nel Mediterraneo, ha presentato un report in cui documenta oltre 60 casi di violenza commessi dalle milizie libiche a partire dal 2016. Sparatorie, dirottamenti di navi ong, abbordaggi, ostacoli ai soccorsi, abbandono di migranti in mare. Negli ultimi mesi le violenze si sono intensificate: le motovedette donate dall’Italia hanno aperto il fuoco contro navi di ricerca e soccorso come le stesse Ocean Viking e Sea-Watch. “Dal 2017 denunciamo attacchi contro chi salva vite”, spiega Valentina Brinis, portavoce delle ong che compongono la flotta civile di soccorso. “Queste non sono eccezioni: è la regola di un sistema criminale che l’Italia continua a finanziare”, ha continuato Brinis. “Un accordo che non ha nulla a che fare con la gestione dell’immigrazione, ma con l’esternalizzazione delle frontiere”, denuncia Filippo Miraglia, portavoce del Tavolo asilo e immigrazione (Tai). “Fin dall’inizio sapevamo che avrebbe prodotto morti e finanziato milizie e trafficanti”. “È un sistema di lager e compravendita di persone - continua Miraglia - denunciato da anni a livello nazionale e internazionale”. Il governo italiano finanzia le autorità libiche senza trasparenza su come i fondi sono usati. Le voci più dure, comunque, arrivano dagli attivisti di Refugees in Libya. Come David Yambio, presidente della rete formata da vittime e testimoni delle violenze che si consumano lungo la rotta mediterranea: “Sono stato torturato da Almasri, che l’Italia continua a sostenere. Se le istituzioni tacciono, saremo noi a bussare porta a porta per raccontare cosa succede in Libia”. Durante tutta la settimana una coalizione di associazioni e ong, guidate da Refugees in Libya, ha organizzato una serie di mobilitazioni che culmineranno nella manifestazione di sabato 18 ottobre, convocata nel primo pomeriggio a Piazza Vidoni, dove si darà spazio ai testimoni diretti delle violenze libiche, con una richiesta chiara: “Nessun accordo con chi commette crimini contro l’umanità”. La formula della pace di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 15 ottobre 2025 Medio Oriente, nessuno combatte per sempre: un percorso inizia con il riconoscimento reciproco. Il precedente di Belfast. Gli “ismi” talvolta ci confondono. A fronte di tanti modi d’essere del pacifismo - nobile, ambiguo, perfino menzognero - c’è in fondo un solo modo per fare la pace. Il silenzio delle armi a Gaza e lo scambio tra ostaggi e detenuti, imposti da Donald Trump, appaiono primi passi preziosi e necessari ma non ancora sufficienti. In un articolo sul New York Times che potrebbe fare da bussola ai protagonisti del processo di guarigione in divenire nella Striscia, Megan Stack suggerisce una formula per la composizione di conflitti dall’apparenza irresolubili: perseveranza; dialogo con chi più si disprezza; costante pressione internazionale, soprattutto di marca Usa; preminenza della leva politica sulla soluzione militare, senza forzare per un disarmo immediato. L’analista del quotidiano newyorkese non parla in astratto. Cita come pietra di paragone un altro famoso flagello della storia recente, i Troubles che contrapposero per circa trent’anni unionisti protestanti e repubblicani cattolici in Irlanda del Nord e che, dopo una lunghissima catena di lutti, massacri e nefandezze reciproche, trovarono una conclusione nell’Accordo del Venerdì Santo del 10 aprile 1998, con la fine della lotta armata e la nascita di un sistema di potere faticoso, sì, ma condiviso, in cui quelli che si sparavano addosso infine seggono ora gli uni accanto agli altri. L’assunto secondo cui “nessuno può combattere per sempre” valse per l’Ira, per l’esercito britannico e per le fazioni collegate. Perché non potrebbe valere per Israele e per i suoi arcinemici? Perché questa bolla di sospensione dal dolore, costruita dalla “coercitiva” diplomazia d’azzardo di Trump, non dovrebbe diventare una nuova stagione anche nel più tormentato quadrante mediorientale? I paragoni, va da sé, sono scivolosi. Così, se è vero che Belfast e Gerusalemme hanno in comune un travaglio che prescinde ampiamente dalla razionalità politica e tocca sentimenti e famiglie, rancori ereditati da generazioni e convinzioni religiose inconciliabili, è altrettanto vero che il caso palestinese si trascina da oltre un secolo con peculiarità tutte sue. Già a fine Ottocento c’era chi, come Ahad Ha’am, metteva in guardia dall’illusione che la Palestina fosse una specie di terra di nessuno bisognosa solo d’essere colonizzata dai bravi agricoltori ebrei, ricorda Anna Foa. Anche se “Washington ha sempre in mano il 99% delle carte”, come diceva Sadat nel 1977 portando il suo Egitto alla pace con Israele, è probabile che la pax americana a Gaza incontrerà nel suo inverarsi giorno dopo giorno rallentamenti, contraddizioni, momenti di arresto se non di retromarcia. Trump in Medioriente ha ottenuto un indiscutibile trionfo, certificato dalle ovazioni tributategli dalla gente di Tel Aviv, dagli onori alla Knesset e dalla standing ovation dei leader a Sharm. Ma lo slancio della prima fase è destinato ad affievolirsi. La fase due può saltare su ogni metro di arretramento dell’Idf e su ogni giorno di ritardo nel disarmo di Hamas, sulla difficoltà di garantire assistenza umanitaria fuori dal controllo dei terroristi e sulla vaghezza di un sistema di sicurezza da disegnare per intero. E tutto ciò, messo assieme, è ancora poca cosa rispetto all’immane lavoro da fare sulle popolazioni. Se la Striscia, spianata quasi pietra su pietra, è da ricostruire secondo l’Onu nell’80% dei suoi edifici (inclusi ospedali e scuole), entrambe le comunità protagoniste del conflitto devono affrontare una lunghissima convalescenza interiore. Fermare il massacro è la premessa. Ma il passo decisivo perché il sangue non ricominci a scorrere è che ciascuno riesca a umanizzare l’altro: a “vederlo”. Ed è un passo lunghissimo dopo il 7 Ottobre e la carneficina a Gaza. Wlodek Goldkorn ha osservato su Limes che fino alla fine del secolo scorso le due comunità, sia pure nelle storture d’un regime d’occupazione, si conoscevano e interagivano: e conoscere l’Altro in carne e ossa è già riconoscerne l’umanità pur nello status di nemico. L’uomo nuovo rinascerà dall’incontro col volto dell’Altro, sosteneva Emmanuel Levinas: un’epifania dopo la quale è molto più complicato uccidere. Quest’incontro è stato precluso ai ventenni palestinesi sigillati a Gaza dal 2007 sotto la dittatura di Hamas e sotto l’assedio di Israele. Ed è stato escluso dalla deriva ideologica per i ragazzi ebrei della Gioventù delle Colline che terrorizzano gli agricoltori arabi in Cisgiordania. La vera fase due consisterà nell’emersione di una politica potente che laicizzi un problema troppo incrostato di opposti messianismi. Certo, molto potranno fare i Paesi arabi, tenendo sotto pressione Hamas; s’intravede con gli americani un robusto blocco di interessi economici in una versione aggiornata e più lucrosa degli Accordi di Abramo: ben venga, se serve. Moltissimo potranno fare gli israeliani, accompagnando una vera riforma dell’Autorità palestinese. Ma nulla di tutto ciò potrà avvenire senza un cambio di leadership che porti a un riconoscimento reciproco. Proprio la vicenda irlandese insegna che un interlocutore con cui valga la pena di dialogare deve essere rispettato in primis dalla propria gente: dunque è assai probabile che, nel nostro caso, debba uscire non dal retrobottega di una yeshiva ma da una galera israeliana. Il profilo di quest’uomo è già impresso nella vulgata palestinese ed è quello di Marwan Barghouti. Ma ci vuole un nuovo leader a Gerusalemme che abbia la forza politica di liberarlo a dispetto di cinque ergastoli e di uno stigma da terrorista (lo stesso che gravava, per dire, su Mandela in Sudafrica). “La pace si fa con i nemici”, diceva Ytzhak Rabin, prima d’essere ammazzato proprio a causa di essa. La formula, del resto, è sempre la stessa, in ogni tempo e luogo. Ma in Israele richiede una dose supplementare di coraggio. Hanno voluto chiamarla “pace” ma tutti sanno che in Medio Oriente è solo l’ennesima tregua di Guido Salvini Il Dubbio, 15 ottobre 2025 È stato il giorno della liberazione degli ostaggi a Gaza e con essa della tregua, non della pace. La storia degli ultimi due anni comporterebbe scrivere un libro, tanti sono i giudizi, le riflessioni e i sentimenti, anche contraddittori, che si sono accavallati in ciascuno di noi. Non basta un semplice articolo. Lascio quindi su questa storia coinvolgente qualche proposizione e riflessione sparsa in forma di promemoria, su parte delle quali molti possono non essere d’accordo ma possono usarle come punti di partenza per riflettere. Avere la consapevolezza che Hamas non concepisce la pace ma solo una tregua temporanea con gli infedeli che osano stare nelle terre dell’Islam. Così detta anche il Corano. La tregua serve per riorganizzarsi in silenzio prima di riprendere la Jihad. Ai fanatici in divisa verde e occhiali neri, che sembrano dei marziani cattivi, nei confronti dei quali il mondo progressista si è mostrato purtroppo sempre più indulgente, il messianesimo religioso che li abita non lascia spazio a ripensamenti. Israele deve essere cancellato con una lotta che non si pone limiti di tempo, irrorata dal sangue dei martiri. Questo significa, senza essere poi troppo pessimisti, che il conflitto ricomincerà quando i loro capi lo decideranno. Ricordare il popolo di Gaza e le sue vittime. L’ultima una bambina di nove anni di nome Rasil colpita quando la tregua era già iniziata. Nella consapevolezza che quel popolo è insieme schiavo e scudo umano ma anche sostenitore di Hamas, sarebbe ipocrita tacerlo. Senza libertà politiche, libertà di parola, libertà di stampa e di informazione, libertà religiosa non si formano una opinione pubblica e una società civile e mancando queste non si forma nemmeno una classe dirigente, una condizione senza la quale uno Stato non può esistere. Possono esserci solo bande di predoni al comando, in un territorio, di una massa indistinta di sudditi. Ricordare i quasi mille soldati dell’esercito di Israele caduti a Gaza per ridare la libertà ai loro connazionali. L’ultimo, il sergente Michael Nachmani, colpito da un cecchino e spirato anch’egli quando la tregua era già è stata firmata. Ricordare, non è un dettaglio, che in cambio dei 20 ostaggi israeliani sono stati liberati quasi 2000 detenuti palestinesi tra cui molti condannati all’ergastolo per decine di omicidi e altri delitti efferati contro civili. Dopo il massacro del 7 ottobre è un’altra estorsione, consumata con successo. In questo scambio, simile per rapporto numerico ad altri del passato, è contenuta però una verità paradossale: la vita di un cittadino israeliano vale quella 200 palestinesi e non c’è per i terroristi di Hamas da farne gran vanto. Ricordare i morti “altri”, le quasi mezzo milione di vittime della guerra civile in Siria e i civili morti e che continuano a morire in Sudan, non meno che a Gaza, e il numero enorme di rifugiati che sta provocando ancora il conflitto tra le fazioni in quel paese. I morti in Sudan non sono mai stati sulle prime pagine dei giornali perché non hanno fatturato “politico”, non si possono attribuire ai propri avversari ideologici, quindi non servono. Ricordare che anche in Ucraina sono morti e continuano a morire migliaia di civili ma non sono una bandiera colorata nelle strade. Le pagine dei giornali sulla guerra in quel paese non le legge quasi nessuno. È una tragedia in luoghi freddi e un po’ remoti che non ha rappresentazione, che non vende biglietti. Ricordare il peccato originale di chi ha sempre odiato Israele. Qualsiasi ingiustizia sia avvenuta in quelle terre quando nel 1948 Israele è nato, chi ci viveva aveva accanto un paese che stava progredendo in modo straordinario e l’unico che in Medio Oriente conosceva la democrazia. Avrebbero dovuto cercare di imitarlo e non cercare di distruggerlo. Ma fare la guerra, impugnare il mitra e gridare slogan, è più facile di costruire la pace e di conquistare la propria prosperità. Così più settant’anni dopo siamo ancora qui. Quanto a Israele, pur costretto ad una guerra feroce, alcune ferite che ha inflitto o dovuto infliggere sono immedicabili. I racconti dei bambini prematuri morti in mano ai medici negli ospedali durante i bombardamenti, a Gaza i parti precoci sono stati tanti per la mancanza di alimentazione, fanno star male. Poi, dopo il 7 ottobre e con il governo estremista di Netanyahu, hanno dilagato i famelici coloni portatori in Cisgiordania di un messianesimo religioso uguale e contrario a quello degli islamisti. Sono i fanatici di un “Grande Israele”, una sorta di “dal fiume al mare” alla rovescia in cui Israele dovrebbe espandersi, come nella Bibbia, sino all’Eufrate. Se il futuro Parlamento israeliano non rifletterà su questo forse Israele, pur dopo tante vittorie, ha i giorni contati. Ci vorranno comunque decenni prima che Israele possa purificarsi, ritorni nel cuore di chi l’ha sempre difesa perché era in tutto il Medio Oriente il luogo migliore per un laico in cui vivere e quello in cui non solo l’economia ma la cultura e la scienza hanno fatto i più grandi progressi. L’unico antidoto al conflitto che ricomincerà è la presenza e l’impegno di una autorità internazionale condivisa dall’Onu, dagli Stati Uniti, dai Paesi arabi e soprattutto dai Paesi europei dell’Occidente, presieduta magari da una personalità internazionale neutra e autorevole. Una presenza che non deve essere percepita come colonialista ma capace, oltre agli aiuti economici, di uno sforzo educativo che traghetti quei luoghi verso una società civile e aperta. Non è un compito facile. Quanto avvenuto ha instillato, ed è comprensibile, odio nei giovani e nei giovanissimi di Gaza per i quali, divenuti uomini, la strada psicologicamente più facile sarà essere quella della vendetta. E l’odio, come si sa, è il sentimento più duraturo. L’Italia soprattutto, un paese che ha una buona credibilità, deve essere presente con le sue intelligenze e i suoi tecnici. Evitando nel partecipare a questo progetto ogni polemica e contrapposizione politica di parte. E’ compito di tutti noi, politici e cittadini, assicurare questo impegno senza divisioni.