Le soluzioni al sovraffollamento non si vedono e in carcere si continua a morire di Lucio Motta filodiritto.com, 14 ottobre 2025 Ministro Nordio, lei aveva promesso una task force che avrebbe individuato le soluzioni al sovraffollamento, con l’ultimo decreto ha dichiarato di aver aperto le soluzioni per affidamento e detenzione domiciliare per tutti quei detenuti che nei termini (15 mila secondo le stime dei suoi uffici) e poi l’enfatico annuncio della task force che avrebbe analizzato i “malato” individuandone patologia e cura entro la fine di settembre. Ministro, sabato 27 settembre nella disperazione della cella a Pavia si è tolto la vita un giovane di soli 21 anni. È il 64esimo dall’inizio dell’anno secondo il Dossier su suicidi e decessi in carcere pubblicato da Ristretti Orizzonti: “È il più alto numero di sempre. Siamo di fronte a un’emergenza”. E lunedì 29 settembre al carcere Sant’Anna di Modena, un altro giovane detenuto di 24 anni si è tolto la vita, portando il numero dei suicidi a 65 dall’inizio dell’anno. Un dato che si inserisce in una crisi più ampia del sistema penitenziario, fatta di sovraffollamento, degrado delle condizioni di vita, carenza di servizi psicologici e pressione crescente sul personale sanitario. Contiamo suicidi in carcere ormai come su un pallottoliere, ogni settimana, ad ogni suo annuncio di provvedimento risolutivo. Il 15 luglio il Ministro Nordio annunciava la costituzione di una task force per studiare le soluzioni opportune contro il sovraffollamento annunciando per 10.000 detenuti possibili misure alternative Il 25 luglio il Ministro presentava Due schemi di disegno di legge presentati, il primo dei quali riguarda il recupero dei detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti, “che sono persone da curare più che criminali da punire” ha sottolineato il Ministro “per i quali è prevista, a certe condizioni, una detenzione differenziata extramoenia, cioè fuori dal carcere”. Ci sarà quindi, ha spiegato il Guardasigilli “una detenzione differenziata rispetto al carcere, fatta in strutture certificate e credibili, essenzialmente di comunità”. E se solo un terzo del numero complessivo di questi detenuti (31% dei 61.861 complessivi) partecipasse al trattamento di detenzione differenziata, ha proseguito Nordio, “sarebbe numericamente già una riduzione molto sensibile del sovraffollamento carcerario”. L’11 settembre 2025 il Ministro dichiarava: “La soluzione del sovraffollamento delle carceri per noi è una priorità ma il problema non può essere risolto con la bacchetta magica, essendosi sedimentato nei decenni: sono necessari provvedimenti strutturali”. La strategia del ministero punta non solo alla costruzione di nuove strutture, ma anche a una “progressiva diminuzione dei detenuti in attesa di primo giudizio, di quelli stranieri e di quelli tossicodipendenti che sono più malati da curare che criminali da punire”. La necessità di “adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena”, ha sottolineato il ministro, si accompagna a misure legislative e operative mirate a ridurre l’affollamento, con l’obiettivo di diminuire la popolazione carceraria fino a 15-20 mila unità in meno. E puntualmente arriva il 30 settembre u.s. la terza riunione della cabina di regia per l’edilizia penitenziaria. Ministri, sottosegretari, commissario straordinario riuniti per assestare i numeri che sulla carta dovrebbero impressionare: 10.676 nuovi posti detentivi entro dicembre 2027, cantieri che partono, padiglioni che si inaugurano, una macchina organizzativa che teoricamente funziona come un orologio svizzero. Per ora, ci accontenteremo di 506 posti in più a fine dicembre. Peccato che la realtà delle carceri italiane assomigli più a un orologio rotto, dove le lancette girano all’impazzata senza segnare mai l’ora giusta. E mentre Nordio, Salvini, Mantovano e gli altri membri della cabina di regia si congratulano per i progressi del programma triennale, nei penitenziari si continua a morire, a soffocare, a impazzire, nelle celle le condizioni anche igieniche sono disumane e del tutto assente ogni adeguata assistenza sanitaria di cura e prevenzione. Il calendario ufficiale prevede 506 posti da rendere disponibili tra settembre e dicembre 2025 (di cui 445 a cura del ministero delle Infrastrutture), 5.739 nel 2026, 4.074 nel 2027. Come è sono nella mente di chi parla ignorando una condizione ormai estrema per detenuti e operatori in primis polizia penitenziaria ed educatori. Eppure il problema non è solo contare i posti. È farli diventare reali, sostenibili e dignitosi. Qui si concentra il nodo vero: tempistiche, procedure d’appalto, costi reali, gestione del personale e, soprattutto, l’assenza di misure che riducano la popolazione detenuta - le cosiddette misure “deflattive” - che restano marginali nel progetto governativo. A mancare è una vera strategia sul versante dei percorsi alternativi alla detenzione. La strategia annunciata punta in parte su moduli prefabbricati - nei fatti container adattati a celle - e su un’accelerazione delle ristrutturazioni. Ma le soluzioni “rapide” hanno già mostrato il loro rovescio. Bandi annullati, aumenti dei prezzi e ricorsi rischiano di rimandare di mesi, se non anni, consegne e risparmi promessi. Per un lotto di prefabbricati previsto per 384 posti la spesa è salita dagli iniziali 32 milioni a oltre 45 milioni: circa 118 mila euro a posto letto. È solo un esempio del fatto che la formula “più posti a costi contenuti” non regge se la procedura è affrettata. La Corte dei conti ha già richiamato l’attenzione: permangono ritardi strutturali nell’attuazione del cosiddetto “Piano Carceri” e criticità nell’organizzazione degli appalti e delle risorse. La cronaca dei dieci anni passati mostra che progetti simili finiscono spesso per incagliarsi su contenziosi, limiti tecnici e carenze di progetto. Se la macchina amministrativa non tiene, i posti restano numeri nei comunicati. Il sovraffollamento reale, è di circa 16mila detenuti oltre la capienza. Nel migliore degli scenari, ammesso che tutti i cantieri vengano completati nei tempi previsti, ammesso che non ci siano ritardi, intoppi burocratici, problemi con le imprese appaltatrici, arriveremmo al 2027 con un sistema che a malapena riesce a pareggiare i conti. Ma c’è un problema: la popolazione carceraria non sta ferma ad aspettare che i cantieri finiscano. Cresce, si muove, risponde a logiche che hanno poco a che fare con i programmi triennali e molto con le scelte di politica criminale. Ed è qui il nodo centrale a cui questo Ministro non è in grado, non vuole affrontare. La vera riforma (in attesa dell’adeguamento delle strutture in una prospettiva di ammodernamento anche concettuale dello spazio detentivo) sta nella diversa declinazione della pena o meglio delle pene. Mentre si discute di padiglioni e moduli prefabbricati, il governo continua imperterrito sulla strada del carcerocentrismo. Nuovi reati, pene inasprite, una concezione della giustizia penale che vede nel carcere l’unica risposta possibile a ogni problema sociale. Il piano di Nordio è nato vecchio proprio perché ignora questo paradosso fondamentale. Non si può affrontare il sovraffollamento carcerario continuando a riempire le celle più velocemente di quanto si riesca a costruirle e a svuotarle (con teoriche e solo annunciate misure alternative che non si applicano) Né in carcere né in ospedale. Il caso del detenuto obeso e malato che nessuno vuole di Sandro Marotta La Stampa, 14 ottobre 2025 Né in carcere né in ospedale, non a Cuneo e nemmeno a Genova: ancora non trova un luogo adatto dove scontare la pena il detenuto obeso che per più di un mese è stato ospitato al Santa Croce e da due settimane è nel già sovraffollato carcere di Marassi. “Nel corso di più di una conversazione telefonica il mio assistito, non poco amareggiato e manifestando segnali di sofferenza, continua a lamentare una sorta di inspiegabile indifferenza per le proprie drammatiche condizioni di salute”: così attacca la lettera che l’avvocato del detenuto, Luca Puce, ha inviato alla direzione del carcere di Genova. “Alla luce di un quadro clinico in evidente peggioramento - si legge nel documento - la invito, senza indugio alcuno, ad impartire le dovute istruzioni a chi di competenza, al fine di garantire un adeguato trattamento terapeutico, ad oggi assolutamente omesso da parte della direzione sanitaria”. Il 50enne è diabetico, pesa tra i 230 e i 260 kg e il suo caso sta evidenziando un vuoto nella tutela sanitaria dei detenuti clinicamente obesi e con disabilità. Per esempio, non ha un piano alimentare ad hoc, con famiglia e avvocati parla solo in videochiamata, perché la carrozzina su cui si sposta non entra nella sala colloqui del carcere di Genova. Le condizioni sono critiche “a partire dal letto, assimilabile più ad una branda, non idoneo a sorreggerne la massa corporea - continua il legale -. Il mio assistito lamenta anche una ininterrotta degenza, lungo e disteso […] senza che nessuno si prodighi, anche e solo per qualche ora, di metterlo seduto. Il tutto in attesa di essere ritrasferito a Cuneo o Torino, una volta predisposta un’appropriata accoglienza di cui nulla si sa nello specifico”. Conclude Puce: “Confido in un intervento che scongiuri il verificarsi di improvvisi (forse ancora evitabili) peggioramenti della situazione”. Riforma della giustizia verso l’ultimo sì di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2025 È iniziato l’esame in seconda lettura del disegno di legge in commissione al Senato. Dal 23 ottobre possibile l’approvazione dell’Aula. Dopo il via libera del Parlamento si profila il referendum. È iniziato la scorsa settimana, in commissione Affari costituzionali al Senato, l’esame in seconda lettura del disegno di legge di riforma della giustizia che mira a modificare la Costituzione per introdurre nel nostro ordinamento non solo la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, ma anche la riforma dell’organo di autogoverno della magistratura, con lo sdoppiamento del Csm e l’istituzione della nuova Alta Corte disciplinare. Un progetto fortemente voluto dal Governo e dalle forze di maggioranza, ma contrastato dall’opposizione e dalla magistratura. Il percorso parlamentare è stato accompagnato dalle polemiche, anche perché il testo del disegno di legge governativo, presentato a giugno dell’anno scorso dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è apparso blindato: tanto che non è stato approvato alcun emendamento. E ora che si avvicina l’ultimo via libera parlamentare, è partita la macchina organizzativa dei comitati in vista del referendum che si terrà, nelle intenzioni, la prossima primavera. L’iter della riforma - Si tratta infatti di una riforma costituzionale, che, per essere adottata, deve rispettare l’iter individuato dall’articolo 138 della Costituzione. È necessaria, intanto, una doppia deliberazione da parte sia della Camera sia del Senato, ad almeno tre mesi di distanza, e nella seconda votazione la proposta deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti. Una volta pubblicata dovrà essere sottoposta a referendum popolare (se entro tre mesi lo richiedono un quinto dei membri di una Camera o 500mila elettori o cinque Consigli regionali). È un referendum confermativo, che non richiede che sia raggiunto il quorum per essere valido: perché la riforma passi sarà sufficiente che sia approvata dalla maggioranza dei voti validi, qualunque sia il numero dei votanti. Il referendum non si terrebbe, secondo la procedura di revisione costituzionale, se nella seconda votazione la legge fosse approvata a maggioranza di due terzi dei membri di ogni Camera. Ma non è il caso della riforma della giustizia, perché in seconda lettura alla Camera non è stata raggiunta la maggioranza qualificata. Ora è iniziato appunto il secondo esame da parte del Senato. L’intenzione della maggioranza è di procedere spediti, come spiega Alberto Balboni (FdI), presidente della commissione Affari costituzionali e relatore del disegno di legge: “Penso che termineremo i lavori in commissione entro questa settimana o al massimo all’inizio della prossima. La deliberazione finale non può comunque avvenire prima del 23 ottobre”. Occorre infatti attendere tre mesi dal primo via libera del Senato, arrivato il 22 luglio. Finora il percorso della riforma costituzionale è stato molto rapido. Ma il futuro è tutto da scrivere. La partita del referendum, a oggi, non ha un esito scontato. E comunque la riforma, anche una volta approvata, non cambierebbe da subito l’assetto della magistratura, perché si dovrebbe aprire la fase dell’attuazione. Lo stesso disegno di legge prevede infatti che entro un anno dall’entrata in vigore della riforma siano allineate “le leggi sul Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare”. Nel frattempo, occorrerebbe continuare ad applicare le disposizioni attuali. Riforma della giustizia, per i procedimenti disciplinari al via l’Alta Corte di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2025 L’anno scorso sono state proposte 80 azioni. Su 90 decisioni della sezione disciplinare del Csm, 24 sono condanne. La riforma costituzionale sceglie di separare l’autogoverno della magistratura dalla funzione disciplinare: se il primo resta in capo ai due Consigli superiori della magistratura - giudicante e requirente - per la seconda la proposta è di attribuirla alla nuova Alta Corte disciplinare. La disciplina del nuovo organo è contenuta nel testo (riscritto) dell’articolo 105 della Costituzione. In base a questo, l’Alta Corte sarà composta da 15 giudici, in carica per quattro anni. Sei saranno laici: tre dovranno essere nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno 20 anni di esercizio; e tre saranno estratti a sorte da un elenco di persone con gli stessi requisiti, compilato dal Parlamento in seduta comune entro sei mesi dal suo insediamento. Gli altri nove componenti saranno magistrati, sei giudicanti e tre requirenti. La riforma prevede che siano estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie che però abbiano alle spalle almeno 20 anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità. Il presidente dell’Alta Corte dovrà essere eletto tra i componenti laici. Sarà garantito il doppio grado di giudizio: le sentenze di primo grado emesse dall’Alta Corte potranno essere impugnate, anche per motivi di merito, di fronte alla stessa Alta Corte, che giudicherà con una composizione diversa. Anche qui, la riforma si affida alla legge ordinaria per l’attuazione: in particolare, per determinare illeciti disciplinari e sanzioni e regolare il procedimento disciplinare e il funzionamento dell’Alta Corte. Si tratta di un sistema che segna una cesura rispetto a quello attuale. Oggi, infatti, l’azione disciplinare può essere promossa dal procuratore generale della Cassazione o dal ministro della Giustizia e a decidere è la sezione disciplinare del Csm. In base agli ultimi dati diffusi con la relazione del Procuratore generale della Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, nel 2024 sono state proposte 80 azioni disciplinari, di cui 27 dal ministro e 53 dal procuratore generale. Le decisioni della sezione disciplinare del Csm sono state 90: 24 procedimenti si sono chiusi con la condanna del magistrato, 28 con l’assoluzione e i restanti con provvedimenti di non luogo a procedere o non doversi procedere. Test ai magistrati, il Csm esclude la profilazione: saranno le toghe a dettare l’identikit ideale di Simona Musco Il Dubbio, 14 ottobre 2025 Designata la squadra che elaborerà i test psicoattitudinali da sottoporre ai candidati a partire dal 2026. La Sesta Commissione del Csm ha designato la squadra che elaborerà i test psicoattitudinali da sottoporre agli aspiranti magistrati dal 2026 in poi. I membri della Commissione, infatti, saranno affiancati da quattro esperti: Santo Di Nuovo (Psicologia generale), Monica Molino (Psicologia del Lavoro), Giuseppe Sartori (Psicologia forense) e Andrea Spoto (Psicometria), selezionati dopo un’ampia fase di audizioni. La Commissione ha adottato un indirizzo preciso, in linea con la ratio della norma: l’obiettivo è valutare le capacità cognitive specifiche necessarie per la funzione giudiziaria. Sono così esclusi i test di personalità, un’opzione scartata perché i risultati sarebbero “scarsamente predittivi” e “soggetti a falsificazioni”, rischio che i test psicoattitudinali non presentano. Questi strumenti si differenziano dai test d’intelligenza generici e dalle valutazioni cliniche (psicodiagnostiche): sono specificamente progettati per misurare il potenziale del candidato, ricercando abilità come la capacità di ragionamento, la soluzione di problemi e l’adattamento. Ma soprattutto cancellano il rischio di profilazione, proprio ciò che aveva scatenato la polemica da parte delle toghe, che ora, invece, contribuiranno a stabilire i criteri. L’orientamento adottato dal Csm prevede infatti l’individuazione preventiva delle condizioni che configurano “l’idoneità cognitiva” per l’accesso alla magistratura. Proprio per tale motivo devono essere elaborati “con un esperto di “dominio” cioè “con la collaborazione di chi conosce (magistrato o gruppi di magistrati) le peculiari abilità che caratterizzano la categoria professionale di riferimento, individuando così i temi da approfondire in sede di prova”, così come, nelle aziende, è il committente a definire il profilo del candidato ideale. Saranno dunque i magistrati ad indicare “l’identikit” cognitivo del magistrato ideale. Stando alle audizioni, capacità come, ad esempio, la competenza verbale, il ragionamento logico, induttivo, deduttivo, abduttivo, la capacità di risolvere problemi, l’esame di realtà, la flessibilità, l’apertura mentale “sono state ritenute indispensabili per l’aspirante magistrato che intenda esercitare la funzione giudiziaria con correttezza ed efficacia”. Altro aspetto da approfondire nella valutazione dell’aspirante toga è “la possibile incidenza di bias cognitivi (preconcetti o illusioni cognitive) nel suo processo decisionale”. Una volta individuate le caratteristiche ideali si passerà alla parte psicometrica, con la costruzione dei test. Alcuni degli esperti hanno suggerito l’utilizzo della Item response theory, “un approccio psicometrico usato per i test di selezione in ambito universitario, che garantisce una serie di proprietà di misurazione e che ha il vantaggio di variare di anno in anno (quanto a domande da porre), rendendo così vane preparazioni dirette ad aggirare la valutazione, come invece accade per il test Minnesota multiphasic personality inventory (Mmpi)”. Dal punto di vista contenutistico, tra le ipotesi c’è quella di una prova in basket, test che consiste in una simulazione pratica di situazioni tipiche che un magistrato affronterebbe nel corso della sua attività professionale. Il suo scopo principale è valutare le competenze trasversali del candidato, come la capacità decisionale, l’organizzazione e la gestione delle priorità. La valutazione avviene tramite risposte chiuse scelte dal concorrente in base alla sua esperienza, che poi vengono analizzate con una griglia scientifica per misurare il grado di aderenza tra il profilo attitudinale dimostrato dal candidato e le caratteristiche ideali richieste per la funzione giudiziaria. L’esito, comunque, non prevederà un voto, ma un giudizio dicotomico - idoneo o non idoneo - e la valutazione completa del candidato non potrà prescindere dal successivo colloquio. Sono diversi gli ambiti in cui tali test sono impiegati, come selezione del personale, valutazione delle risorse umane, orientamento professionale, progettazione di percorsi formativi personalizzati. E stando agli esperti sarebbero “particolarmente utili per valutare non tanto le conoscenze acquisite, quanto il potenziale di sviluppo e l’adattabilità di un individuo a compiti e situazioni”. Il secondo indirizzo analizzato durante le audizioni - e, dunque, scartato - prevedeva invece una valutazione spiccatamente finalizzata all’accertamento di psicopatologie nonché di disturbi di personalità, con l’utilizzo di test come il Minnesota e altri simili. È stato anche raccomandato l’uso di test per individuare tratti di personalità più specifici, come il Pathological narcissism inventory, per ricercare tratti narcisistici. Tale opzione, però, non appariva coerente con la scelta del legislatore, che aveva in mente uno strumento per valutare attitudini specifiche e non una diagnosi psicopatologica. Di tutto questo, dunque, si discuterà nel plenum del 15 ottobre, quando si affronterà anche un’altra pratica relativa ai test, quella della Nona Commissione, che ha effettuato un’analisi comparativa sulle prassi di diversi ordinamenti europei nella selezione e nella carriera dei magistrati. Il risultato è chiaro: l’introduzione dei test è ritenuta compatibile con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. In generale, infatti, i test in Europa sono visti come strumenti per verificare l’idoneità e tutelare il benessere psichico, non come modelli di profilazione. Potrebbero non mancare, comunque, proposte da parte del Csm, come quella di spostare il colloquio psico-attitudinale al termine del tirocinio di 18 mesi, attivandolo solo su segnalazione dei magistrati affidatari, per valutarne l’idoneità dopo un effettivo periodo di “stress test” operativo. “La giustizia mediatica esalta gli inquirenti e umilia i giudicanti” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 14 ottobre 2025 Intervista al professor Vittorio Manes, che presenta il suo ultimo saggio: “L’imparzialità del giudice nel “vortice” della giustizia mediatica”. “Il caso Garlasco è certamente una delle più vivide espressioni dei cortocircuiti che possono instaurarsi tra indagini e comunicazione, tra inchieste e cronaca giudiziaria, tra processi nelle aule e processi mediatici, e da questo punto di vista può risultare indubbiamente emblematico, quasi un caso di scuola”, afferma Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, a margine della pubblicazione, nei prossimi giorni, del suo ultimo saggio L’imparzialità del giudice nel “vortice” della giustizia mediatica (Editoriale Scientifica, Napoli, 2025. Pp. 1-95). Professor Manes, la vicenda Garlasco e la sua spettacolarizzazione ha certamente determinato una “sbornia” agli occhi opinione pubblica sugli effetti nefasti del processo mediatico. Crede che ci troviamo di fronte ad uno spartiacque? E che quindi anche il cittadino medio si sia ormai reso conto che l’attuale sistema della comunicazione giudiziaria non funziona? Il caso Garlasco ha generato una reazione ed una maggior consapevolezza in una parte dell’opinione pubblica: ma non sono sicuro che la reazione significhi maggior consapevolezza sui guasti della “giustizia mediatica”, o invece minore fiducia nella giustizia istituzionale, sulla sua credibilità ed affidabilità. Il confine è molto sottile, e questo è il rischio maggiore: che il processo celebrato sui media, con i suoi eccessi narrativi, i suoi toni sensazionalistici, le sue rivelazioni scandalistiche, con la celebrazione di una “giustizia senza processo”, indebolisca la giustizia istituzionale corrodendo irreparabilmente la fiducia dei cittadini nel sistema istituzionale di accertamento di fatti e responsabilità. E’ un tema, quello della fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario, che spesso viene sottovalutato... Si, ed è un rischio molto pericoloso in una democrazia, che ha le sue basi edificative nella fiducia dei cittadini nel sistema di giustizia. I magistrati, i pm in particolare, per anni hanno tratto grande visibilità per le loro indagini da questo meccanismo. Quali sono le conseguenze? A me pare che, nel contesto della giustizia mediatica, sia molto diversa la posizione della magistratura inquirente rispetto alla magistratura giudicante. La magistratura inquirente è protagonista dalla narrazione mediatica, e il più delle volte né è coautrice, visto che i media accendono i loro fari nella fase delle indagini, e spesso li spengono via via che il processo reale fa il suo corso. La magistratura giudicante è, invece, miniaturizzata dal processo mediatico, appunto perché questo non è particolarmente interessato alla fase della decisione, men che meno all’esito dei tre gradi di giudizio. Il processo mediatico si sostituisce alla giustizia e finisce così col sottrarre la giustizia dalle mani dei giudici, alimentando quella pericolosa competizione tra giustizia virtuale e giustizia reale di cui accennavo prima. La “giustizia mediatica”, in altre parole, arriva prima? Si, con le sue valutazioni veloci e frugali, con le sue sentenze sommarie, quasi sempre di condanna anticipata e inappellabile; la giustizia reale, il processo vero, è lento e macchinoso, e la sua conclusione sopraggiunge quando ormai nell’immaginario collettivo si è formato un convincimento, spesso distorto e curvato in senso colpevolista, che non sarà disgregato neppure di fronte ad una assoluzione “con formula piena”, come si diceva un tempo. Peggio: la verità mediatica - una pseudo-verità di pronto consumo, semplificante e semplicistica, divulgata con toni sensazionalistici e voracemente digerita dall’opinione pubblica - spesso sopravvive e soppianta la verità processuale accertata nel processo. Secondo lei, quanto sta accadendo in queste settimane proprio riguardo la vicenda Garlasco, con i magistrati finiti nel mirino per le modalità di conduzione delle indagini sulla morte di Chiara Poggi, potrà condizionare l’esito del prossimo referendum sulla separazione delle carriere fra pm e giudici o non sposterà un voto? Non so se la crescente consapevolezza sulle distorsioni del processo mediatico possa condizionare le valutazioni dell’opinione pubblica sulla separazione delle carriere, i problemi sono molto diversi anche se non mancano intersezioni, perché sullo sfondo vi sono pur sempre i valori della terzietà e dell’imparzialità del giudice, e la necessità di garantirli e proteggerli da possibili fattori di condizionamento. Crede che il processo mediatico influisca in qualche maniera sul giudicante? L’imparzialità, in particolare, mi pare messa a dura prova dalla narrazione mediatica della vicenda processuale, perché il giudice - dopo che nel circuito mediatico si è già celebrato un “processo parallelo” e nell’opinione pubblica si è generata una certa aspettativa e si è radicato un determinato “orizzonte di attesa”, di regola colpevolista - non è più libero di decidere, ma deve dire da che parte sta: se sta dalla parte della pubblica opinione che si aspetta la condanna, o se sta dalla parte di imputati che la vox populi considera già colpevoli. E in questa “morsa mediatica”, ci vuole molto coraggio per assolvere, o anche solo per riconoscere una circostanza attenuante o, peggio ancora, per dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato. Ritiene dunque reale il rischio di “condizionamenti” esterni per il giudice? Il rischio di condizionamento, effettivamente percepito o anche solo subliminale, credo sia innegabile, ed anche se non è facile reperire evidenze empiriche mi pare francamente ingenua la posizione che ritiene il giudice togato immunizzato dal proprio corredo professionale, corredo che lo riparerebbe - come ritiene anche un orientamento della Cassazione - da possibili contaminazioni distorsive. Una posizione tanto comoda quanto inappagante, specie nell’attuale contesto di esplosione del fenomeno non solo sui canali mass-mediatici tradizionali, ma nell’universo scomposto e privo di regole dei social network. Se i tribunali non operano nel vuoto, come ama ripetere la Corte di Strasburgo per sottolineare che certi possibili effetti o bias di contesto sono verosimilmente ineliminabili e vanno accettati, dobbiamo però riflettere su quanto forti oggi siano diventati questi condizionamenti, conoscerli per ri-conoscerli e neutralizzarli, in modo da ridurre il rischio per il giudice di cadere preda delle distorsioni cognitive e dalle trappole valutative che possono essere generati dal vortice mediatico. La vicenda Garlasco, in conclusione, ci interroga tutti su quale giustizia vogliamo... Certo. C’è un evidente ed enorme problema culturale, che concerne la preferenza tra la giustizia sommaria e il giusto processo, tra la giustizia a furor di popolo e le garanzie processuali, l’alternativa tra la pubblica gogna e i diritti della persona, e in definitiva tra la civiltà del diritto e la barbarie: un problema, insomma, di concezione delle forme e dei modi di fare giustizia in uno stato di diritto, o in quel che ne rimane. La Cassazione dice no al permesso per il detenuto attore: “Recitare non rientra tra le necessità” di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 14 ottobre 2025 Il tribunale di Sorveglianza aveva dato parere favorevole per l’uscita dal carcere di Pavia per il Don Chisciotte, scortato dagli agenti. La Cassazione accoglie però il ricorso della procura generale. Il detenuto-attore non può lasciare il carcere per salire sul palco. Eppure i giudici avevano detto sì a un “permesso di necessità” per consentirgli di uscire dalla cella, raggiungere la sua compagnia teatrale e contribuire così a mettere in scena uno spettacolo su Don Chisciotte. Ma dopo un ricorso dei pm è arrivato l’alt della Cassazione: “La partecipazione a una rappresentazione teatrale non legittima la concessione del beneficio”, scrivono gli “ermellini”, perché non ci sono le condizioni della “eccezionalità della concessione, della particolare gravità dell’evento giustificativo e della correlazione dello stesso con la vita familiare”. La questione ruota attorno alle norme che regolano la vita dentro e fuori gli istituti di reclusione. E la trama inizia così: a febbraio il magistrato di sorveglianza di Pavia accorda al detenuto il permesso previsto dall’articolo 30 dell’ordinamento penitenziario. Il pm si oppone ma un altro magistrato, stavolta di Milano, respinge a sua volta il reclamo della procura: quello spettacolo si può fare. I giudici, in sostanza, avallano un’interpretazione più ampia delle regole. Affinché si acconsenta a “specifiche esigenze trattamentali rispondenti a finalità di umanizzazione della pena”, a maggior ragione se “in armonia con il principio costituzionale della finalità rieducativa”. E quale migliore esempio di un evento che promuove “lo scambio ed il confronto tra la realtà del carcere e la società civile”? Il caso arriva a Roma. E c’è un problema. Quel famoso articolo 30 dice che un permesso di questo genere può essere concesso “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente” del recluso. Oppure, “eccezionalmente”, per “eventi familiari di particolare gravità”. A queste parole si lega il ragionamento della Cassazione. Secondo la quale i giudici di Sorveglianza “sovrappongono la finalità di umanizzazione della pena, propria del permesso di necessità”, con altre finalità legate al trattamento dei detenuti, non disciplinate però da quella norma, in questo caso utilizzata “per un fine diverso”. Non ci sono i requisiti della “eccezionalità della concessione”, della “particolare gravità dell’evento giustificativo”, della “correlazione con la vita familiare”. Permesso annullato: per il detenuto-attore il sipario non si alza nemmeno. Sardegna. Carceri, l’Isola si ribella: detenuti inviati “come pacchi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 ottobre 2025 In arrivo da Roma dopo il crollo della volta di Regina Coeli. Irene Testa: “Infilati in istituti non adeguati. Da noi già 1.200 reclusi da altre regioni. Non siamo una discarica”. Se il crollo della volta della seconda rotonda di Regina Coeli di giovedì scorso è, come l’aveva definito il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, “una metafora delle condizioni del nostro sistema penitenziario”, le modalità con cui una parte dei reclusi sfollati sono stati spediti “come pacchi” in Sardegna la dice lunga su come “evidentemente la regione viene considerata una colonia”, secondo la Garante regionale Irene Testa. “Stando a quello che raccontano i detenuti - riferisce Testa che ieri ha visitato il carcere di Alghero - passate 48 ore dal crollo, hanno avuto mezz’ora di tempo per prepararsi all’imbarco su un aereo della Guardia di Finanza. Hanno preso le cose in fretta e furia, tant’è che qualcuno è arrivato in accappatoio e qualcun altro in pantofole, come mi ha confermato anche il Garante comunale di Alghero. In molti - prosegue la tesoriera del Partito Radicale - non hanno potuto avvisare le famiglie e sono ancora in attesa che la burocrazia amministrativa conceda loro una telefonata; hanno dovuto lasciare documenti personali, clinici o processuali, libri, soldi, tutto… Tanto che la Caritas di Alghero ha raccolto fondi per fornire almeno lo stretto necessario”. Il cedimento di una parte del tetto del più antico carcere italiano e la conseguente interdizione della rotonda da cui dipanano i corridoi, ha infatti isolato il piano terra del sesto e del settimo raggio (l’ottavo era già stato chiuso lo scorso anno a causa di un incendio). Fin da subito si erano contati 316 detenuti da trasferire, quasi tutti in attesa di giudizio. Alcuni sono stati subito allocati in altre celle dello stesso Regina Coeli, istituto che già superava il 180% (dati del Garante) di affollamento; altri inviati alla Casa del lavoro di Vasto (Chieti) e altri ancora distribuiti nelle prigioni del Lazio. Ma è in Sardegna che l’arrivo di altri circa 130 detenuti, assegnati tra le strutture di Cagliari Uta, Alghero, Bancali (Sassari) e Massama (Oristano), è stato accolto come una “decisione ingiustificata e dannosa”, tanto per citare l’associazione Socialismo Diritti Riforme (Sdr) la cui presidente Maria Grazia Caligaris snocciola le percentuali di sovraffollamento come un lungo grido di dolore: “134,2% a Uta, 126,2% a Bancali, 125% ad Alghero e 110% a Oristano”. Mentre negli ultimi tempi la capienza regolamentare complessiva in Sardegna “è scesa a 2.348 posti, a causa di 231 celle non utilizzabili per problemi strutturali”, la gestione “emergenziale e l’assenza di un piano di lungo periodo - conclude Caligaris - mostrano ancora una volta il disinteresse del ministro Nordio verso le esigenze dell’isola e il peso nullo delle interlocuzioni istituzionali. È inaccettabile che la Sardegna continui a essere trattata come una discarica penitenziaria del Paese”. “Tra l’altro questi detenuti - spiega Irene Testa - sono stati messi in istituti dove non potrebbero stare: a Oristano, che era il meno affollato, ci sono però principalmente reclusi in alta sicurezza, mentre l’istituto di Alghero era talmente impreparato da dover cercare in fretta e furia materassi e coperte che non aveva. Ieri sembrava un Cpr”. La casa di reclusione algherese, infatti, è “un carcere modello a trattamento intensificato, dove i detenuti sono selezionati e intraprendono un percorso di studio o lavoro, peraltro sotto la sorveglianza di soli 70 agenti. Così lo hanno snaturato”. E a conti fatti, “a causa dell’intensificarsi dei trasferimenti negli ultimi mesi”, precisa la radicale Testa, “in Sardegna ci sono già 1200 detenuti provenienti da altre regioni”. Per Stefano Anastasia, “il trasferimento era necessario, le modalità della sua effettuazione vanno monitorate e, nel caso, contestate. I detenuti trasferiti hanno diritto a telefonate supplementari per avvisare i familiari e devono essere accompagnati dal loro fascicolo, con la documentazione giuridica e sanitaria, e dagli effetti personali. Ovviamente, mi preoccupano molto i tempi per il recupero della volta di Regina Coeli. Il rischio è che, una volta trasferiti, chissà quando potranno tornare a Roma vicino alle loro famiglie, presenziare ai processi, parlare faccia a faccia con gli avvocati”. D’altronde già ad aprile scorso la Corte dei Conti, nell’analizzare il piano di edilizia penitenziaria del governo (in cui Regina Coeli non è inserita, neppure al capitolo ristrutturazioni), aveva avvertito: durante lo svolgimento dei lavori, il trasferimento dei detenuti da un carcere ad un altro “non può comprimere, oltre i tempi strettamente necessari, il principio dell’equa distribuzione della pressione detentiva negli Istituti penitenziari del territorio né quello di territorialità della pena”. Liguria. I Garanti dei detenuti: stop ai bambini nelle carceri liguri rainews.it, 14 ottobre 2025 “Stop alla presenza di bambini nelle carceri liguri”: è l’appello dei Garanti dei detenuti di Genova e della Liguria, Marco Cafiero e Doriano Saracino, che intervengono sul caso della bambina di 18 mesi in carcere con la madre a Genova Pontedecimo. “Ancora una volta nella nostra qualità di garanti delle persone private della libertà personale siamo perplessi di fronte agli effetti collaterali che l’applicazione della custodia in carcere determina su vittime innocenti - intervengono i garanti in una nota congiunta. È il caso della minore di un anno e mezzo condotta in carcere insieme alla madre raggiunta da un’ordinanza di custodia cautelare che questa mattina il gip del Tribunale di Genova sarà chiamato a convalidare”. “La perplessità è nei confronti di un sistema penale che non prevede situazioni di cautela quanto meno nelle more di una valutazione da parte del giudice per le indagini preliminari: - commentano - una sorta di realtà cuscinetto che vanifichi l’impatto carcerario sui minori innocenti, vittime sia dei comportamenti delittuosi dei genitori sia del sistema giudiziario. Occorre individuare luoghi sicuri e adeguati a dei bimbi, dove eseguire le misure cautelari, e da lì passare agli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) se l’udienza davanti al gip convalida l’arresto, evitando lo choc carcerario”. “A nulla vale la possibilità di reperire strutture più adeguate a seguito della convalida dell’arresto allorché si sia già verificato un trauma di tale levatura - aggiungiamo -. Ci sentiamo in dovere di invocare ancora una volta un provvedimento che consenta di creare realtà più morbide non tanto nei confronti di chi commette un reato ma di chi lo subisce due volte: i minori, che diventano incolpevolmente persone private della libertà personale”. Roma. I ragazzi di Casal del Marmo e quel sogno chiamato “Futuro” di Giogio Paolucci Avvenire, 14 ottobre 2025 Nell’istituto penale per minori laziale, giovani come Giulio o Margherita trovano una seconda chance lavorando o studiando. “Non voglio che mio figlio segua le orme di suo padre, non voglio che finisca in cella come me. Viene a trovarmi con la madre una volta alla settimana, alla fine dei colloqui sono a pezzi pensando alle sofferenze che ho provocato a loro. Noi qui dentro stiamo male, ma loro fuori stanno ancora più male senza di me. Giuro che quando esco non ci casco più, voglio una vita pulita”. Giulio ha compiuto da poco 18 anni ma ha già un bambino di due anni e mezzo. È la seconda volta che finisce a Casal del Marmo, il carcere minorile di Roma dove lo incontro e dove dopo tante cadute sta cercando di rimettersi in piedi e di costruire un futuro. Frequenta la scuola media (“se avessi continuato a studiare, forse ora non sarei qui”), un corso di falegnameria e un laboratorio di musica rap, il corpo è tappezzato di tatuaggi a tema religioso. “Perché Dio è l’unico che non ti abbandona mai, anche quando fai le cavolate che ho fatto io. Lui sì che è un vero padre, non come il mio che se n’è andato di casa quando ero piccolo”. Giulio è uno dei 57 giovani che vivono all’Istituto penale per minorenni, in un’area tanto bella quanto scomoda da raggiungere con i mezzi pubblici, come sono costretti a fare tanti familiari dei ragazzi. Gli ospiti scontano pene legate soprattutto a reati contro il patrimonio (furti e rapine), spesso collegati a quelli in materia di stupefacenti. Il 60 per cento dei maschi sono stranieri, in prevalenza nordafricani, “protagonisti di una migrazione che in questi anni ha cambiato pelle - spiega il direttore Giuseppe Chiodo. Molti arrivano in Europa con un progetto di tipo ‘predatorio’, si muovono da uno Stato all’altro viaggiando senza documenti, cercano di capitalizzare i sistemi di welfare, spesso presentano situazioni di poli-abuso (stupefacenti e psicofarmaci), sono analfabeti anche nella lingua di origine. È difficile costruire opportunità di ripartenza partendo da una situazione così difficile ma ci proviamo, puntando sull’istruzione e sulla formazione professionale. Certo, per chi come loro non ha punti di riferimento esterni, quando si esce da qui diventa tutto più complicato”. E infatti molti ritornano in carcere, in un circolo vizioso che lascia aperte domande inquietanti sia sul loro futuro, sia sul modo con cui le istituzioni affrontano un tema così incandescente. Nel reparto femminile vivono 9 ragazze, i reati prevalenti sono quelli contro la persona, a volte molto gravi. Margherita è arrivata nel 2022 quando aveva 17 anni, ha preso la maturità classica e oggi è iscritta al secondo anno del corso di laurea in design in un ateneo telematico. “Odio questo posto, ma qui ho fatto l’esperienza più preziosa della vita: ho imparato a conoscermi, a fare i conti con aspetti dolorosi del mio passato, a fare riemergere le emozioni che negli anni avevo represso e che hanno finito per travolgermi. L’aiuto della psicoterapeuta che mi segue è stato fondamentale: lei non mi dà risposte, mi accompagna a trovarle. Quando sono entrata tre anni fa ero confusa e spaesata, senza la più pallida idea di chi fossi e di cosa volessi diventare, oggi ho conquistato qualche sicurezza ma credo di non essere ancora pronta per uscire. Quando vado in permesso mi sento un pesce fuor d’acqua, mi fanno paura certe cose che per voi sono normalità: in agosto sono andata in un centro commerciale, mi sentivo osservata da tutte le persone che incrociavo, quando qualcuno rideva credevo che stesse parlando di me, insomma non mi sentivo a posto. Eppure ho fatto tanta strada da quando sono entrata, molte ragazze mi considerano un punto di riferimento, roba da non credere…”. Come si immagina Margherita quando sarà fuori da qui? “Sogno un lavoro plasmato dall’arte e una casa in cui vivere circondata dalla bellezza, per ora cerco di decorare al meglio la stanza dove abito. Vedi, all’inizio temevo che essere arrivata qui fosse come essere entrata in una grande parentesi, invece la vita non si è fermata, si è rimessa in movimento. Questo è un posto difficile, ma dove la speranza può rinascere”. Di certe ferite profonde che Margherita porta nel cuore sono rimaste le cicatrici, quelle non si cancellano e ricordano il passato, ma la vera sfida è fare pace con sé stessi, oggi. “Ancora non ci sono riuscita, ma spero che un giorno sarò capace di tornare ad amarmi”. Don Nicolò Ceccolini da 14 anni accompagna queste giovani vite che fanno i conti con la fragilità. “Incontrare ragazzi che a 16 anni sono già disillusi dalla vita e dicono di non sperare più è un pugno nello stomaco, diventa una provocazione. Ho imparato a entrare in punta di piedi nelle loro storie, ho capito che Dio mi sta chiedendo di amarlo in questi corpi crocifissi che sono le loro vite, e che nessun cuore, per quanto indurito, rimane chiuso di fronte alla gratuità, a un amore disinteressato che desidera il bene dell’altro”. Don Nicolò ha cominciato a frequentare Casal del Marmo come seminarista della Fraternità sacerdotale dei Missionari di San Carlo, e decisivo è stato l’incontro con padre Gaetano Greco, cappellano per 36 anni e suo predecessore, che ha affiancato per 8 anni. “Quando arrivai mi disse “se sei venuto a cercare un posto dove riposare hai sbagliato tutto, ma se sei venuto a cercarne uno dove imparare cosa sia la paternità non ce n’è di migliori”. Rimasi colpito dalla sua grande umanità capace di non scandalizzarsi di fronte a nulla e di abbracciare le ferite dei ragazzi. Il rapporto con loro si gioca nel saperli accogliere e nell’accompagnarli a trovare sotto la coltre di fango una perla preziosa: la speranza”. Ed è proprio da questa parola - non a caso la parola chiave del Giubileo - che nel 2023 è nato un progetto rivolto ai giovani ristretti a Casal del Marmo oppure sottoposti alle pene alternative o giunti a fine pena. Un luogo dove insegnare un lavoro e offrire la possibilità di praticarlo, uno degli antidoti più potenti alla recidiva e al ritorno nel gorgo della criminalità. Appena fuori dalle mura del carcere c’è l’ingresso del Pastificio Futuro, gestito dalla cooperativa sociale Gustolibero per rispondere all’esortazione che Papa Francesco aveva rivolto ai giovani durante la sua visita all’Istituto penitenziario. Era il 28 marzo 2013, 15 giorni dopo la sua elezione Francesco celebrò la messa del Giovedì Santo dando un segno forte della sua attenzione alle periferie esistenziali, e pronunciò per la prima volta cinque parole ripetute tante volte durante gli incontri con i giovani e che sono divenute il motto del pastificio: “Non lasciatevi rubare la speranza”. Oggi la pasta con il marchio Futuro è presente in molti punti vendita del Lazio verrà offerta ai detenuti del Lazio il 14 dicembre in occasione del Giubileo dei carcerati. Questo luogo è diventato anche occasione di eventi significativi: nel mese di agosto, in occasione del Giubileo dei giovani, centinaia di ragazzi sono arrivati qui per incontrare gli ospiti di Casal del Marmo. Don Nicolò racconta un dialogo: “Il carcere ti ha cambiato?”. “Il carcere di per sé non mi ha cambiato, ma sono state le persone incontrate qui che mi hanno aiutato a credere che potevo cambiare davvero”. Davanti all’ingresso del pastificio campeggia un lungo murale, che verrà inaugurato il 10 novembre alla presenza del cardinale Baldassarre Reina, vicario del Papa per la diocesi di Roma. Racconta il percorso di un chicco di grano che nel tempo diventa spiga, farina e pasta e si conclude con l’abbraccio tra padre Gaetano e Papa Francesco. Un piccolo grande segno che la vita, anche dopo tante cadute, può sempre ripartire. Bergamo. “Nel carcere gli stessi problemi di 40 anni fa. Ma il disagio psichico sta esplodendo” di Silvia Seminati Corriere della Sera, 14 ottobre 2025 La Garante dei diritti dei detenuti Lanfranchi e la sua relazione a Palazzo Frizzoni. L’Aula riconosce il penitenziario di via Gleno come quartiere della città. Dal sovraffollamento del carcere alla carenza degli operatori di polizia penitenziaria e dei funzionari giuridico-pedagogici. Nell’Aula del Consiglio comunale di Bergamo, si parla della Casa circondariale di via Gleno. È Valentina Lanfranchi, garante dei diritti dei detenuti, a relazionare sulla situazione davanti alla giunta e ai consiglieri comunali. “Prendo come riferimento il primo semestre del 2025, nel quale - spiega la garante - il numero dei detenuti è oscillato tra i 586 e i 600, di cui 34-39 donne, sui 315-340 previsti”. Lanfranchi racconta che circa la metà dei detenuti presenti è formata da stranieri (soprattutto del Nord Africa, dell’Albania e della Romania), ci sono anche 50 giovani che hanno tra i 18 e i 25 anni e parecchi carcerati hanno problematiche di dipendenza e disagio psichico. Critica anche la situazione dell’organico della Polizia penitenziaria: “Ci sono 194 agenti rispetto ai 243 previsti - spiega Lanfranchi - e 4 funzionari giuridico pedagogici sui 6-7 previsti”. La garante racconta che si interessa del carcere dal 1979, da quand’era parlamentare. “Da allora - dice - i problemi sono rimasti gli stessi, è incredibile. E chi chiede nuove carceri non ha capito il problema: all’interno deve restare chi ha commesso reati, non chi si è reso responsabile di minuzie, che dovrebbe invece stare altrove, per essere recuperato”. Lanfranchi elenca le attività che vengono fatte in carcere, “grazie al lavoro di tante associazioni, di volontari, di avvocati, delle istituzioni, dei sindacati, della Caritas, dei cappellani e delle suore”, dal laboratorio di scrittura a quello di ceramica, dalle attività sportive agli orti. In Aula interviene poi Fausto Gritti, presidente dell’Associazione Carcere e Territorio, e dice che “per svuotare le carceri, un’opportunità è l’applicazione delle pene alternative, serve però la disponibilità della casa e del lavoro”. L’associazione che guida gestisce 12 appartamenti. “Casa e lavoro - aggiunge - sono un’occasione di riscatto e reinserimento sociale”. E affronta anche il tema delle dipendenze e del disagio psichico “che, in carcere - spiega - diventano esplosivi, anche perché aumentano le aggressioni. Entrare oggi nella casa circondariale di Bergamo fa venire i brividi”. Dopo gli interventi, l’assessora alle Politiche sociali, Marcella Messina, ricorda che l’impegno non è soltanto il recupero della persona, ma anche provare a ricucire il suo rapporto con la comunità. “Ci sono tante azioni che vengono già fatte - dice - e ora ci sarà anche l’istituzione del nuovo Centro per la giustizia riparativa che attiveremo entro fine anno a Borgo Palazzo in collaborazione con l’associazione InConTra Ets. Per realizzare il centro, il ministero ci dà 224 mila euro”. Il tema delle condizioni della struttura di via Gleno suscita il dibattito politico. Il leghista Alberto Ribolla dice che “il problema del sovraffollamento non si risolve lasciando fuori coloro che compiono reati, che devono stare in carcere. Si è detto che la metà è formata da stranieri: la loro pena dovrebbe essere scontata nei rispettivi Paesi di provenienza”. Il consigliere Andrea Pezzotta, della lista civica di centrodestra che porta il suo nome, ringrazia “pubblicamente Valentina Lanfranchi per quello che fa quotidianamente, io - dice - sono testimone dell’importanza del suo ruolo”. E l’Aula approva all’unanimità due ordini del giorno. Il primo lo presenta Laura Brevi, della lista Futura, e chiede, tra le varie cose, di sostenere e valorizzare i progetti già attivi di formazione, istruzione e reinserimento socio-lavorativo per le persone detenute, favorendo la costruzione di percorsi integrati tra l’ambito penitenziario e quello comunitario. Con questo documento, sindaco e giunta si prendono anche l’impegno a sollecitare il governo e il ministero della Giustizia affinché vengano colmate le carenze di organico (tanto degli educatori quanto della Polizia penitenziaria) all’interno della casa circondariale di Bergamo e vengano incrementate le risorse destinate all’amministrazione penitenziaria. Anche la sindaca Elena Carnevali pone l’attenzione sulla carenza del personale del carcere e sull’opportunità di utilizzare misure alternative. “A volte - dice - è un luogo inadeguato per chi vive condizioni psicologiche fragili e fa uso di psicofarmaci. Ci sono situazioni delicate, anche se l’Ats ha rafforzato il presidio sanitario”. Unanimità anche per il secondo ordine del giorno, voluto dal Pd per chiedere che l’istituto penitenziario di via Gleno “Don Resmini” diventi un quartiere della città. “Ringraziamo Valentina Lanfranchi e Fausto Gritti per l’impegno quotidiano a favore di un pieno recupero e reinserimento di chi è ospite in via Gleno - dice Francesca Riccardi, capogruppo de Pd. All’unanimità è stata accolta la nostra proposta che consentirà ai consiglieri di poter visitare il carcere per incontrare lavoratori, volontari e detenuti che lo vivono e vigilare sulle condizioni carcerarie. Gli istituti penitenziari non sono entità separate dalla società, ma parte integrante del tessuto urbano e sociale delle città in cui sorgono”. Genova. Madre con bimba in carcere, il Tribunale: “Trasferita alle Vallette di Torino” Il Secolo XIX, 14 ottobre 2025 Le precisazioni del Tribunale di Genova sulle richieste dei Garanti de detenuti in merito alla situazione della donna detenuta a Pontedecimo con la figlia di 18 mesi: “Alla donna sono contestati 153 episodi di spaccio. Il reato si è protratto dal 1 ottobre 2023 fino al 10 maggio 2024. Ora comunque è stata trasferita a Torino in un carcere attrezzato”. “Nel caso della misura appena eseguita ricorrevano per l’indagata le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza che consentono l’applicazione della custodia in carcere”. Queste le precisazioni del Tribunale di Genova dopo l’appello dei garanti dei detenuti di Genova e della Liguria che ieri sono intervenuti sul caso della bambina di 18 mesi in carcere con la madre a Genova Pontedecimo. “Alla donna sono contestati 153 episodi di spaccio sui 159 complessivi - rispondono i magistrati - Il reato si è protratto dal 1 ottobre 2023 (quando era già sicuramente incinta) fino al 10 maggio 2024. Vi è stata un’interruzione dell’attività criminale fra l’8 gennaio 2024 e il 26 febbraio 2024 (la bimba è nata nel gennaio 2024). Alcuni episodi di spaccio documentati dalle telecamere sono avvenuti anche con la bambina in braccio”. La madre con la figlia è stata trasferita: “La detenuta comunque è stata a Pontedecimo il tempo necessario per l’interrogatorio di garanzia ed è stata spostata alle Vallette di Torino, carcere attrezzato per la permanenza delle detenute con prole, ieri pomeriggio”. Bologna. La Camera penale porta una cella in piazza per sensibilizzare sul carcere di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 14 ottobre 2025 Una cella carceraria nel cuore di Bologna, in piazza Maggiore, perché chiunque possa immedesimarsi nella vita di un detenuto. A grandezza reale, fedelmente arredata e ricostruita, visitabile da chiunque vorrà varcarne la soglia e sentirsi “ristretto” anche se solo per pochi minuti, confrontandosi con uno spazio che diventa confine entro cui si consuma la quotidianità di migliaia di persone. L’iniziativa, per il prossimo weekend del 18 e 19 ottobre, è della Camera penale bolognese Franco Bricola, insieme all’Osservatorio Diritti umani, carcere ed altri luoghi di privazione della libertà, in collaborazione con l’associazione Extrema Ratio e con il patrocinio del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna e del Comune. “La vita dietro le sbarre: una cella al centro della città” è il titolo dell’iniziativa il cui intento è, scrive la Camera penale in una nota, “sensibilizzare la cittadinanza sul tema delle condizioni carcerarie, restituendo una percezione tangibile di ciò che significa “vivere dietro le sbarre”: pochi metri quadrati dove il tempo si dilata, la privacy scompare e la dignità rischia di spegnersi”. Nel corso delle due giornate, la cella diverrà anche luogo di riflessione e incontro. Sono previsti interventi di Alessandro Bergonzoni e del cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei. Bergonzoni interverrà alla conferenza stampa in apertura dell’evento, il 18 ottobre alle 11. La cella è stata realizzata grazie alla collaborazione del Lions Club Borgo Panigale Emilia Ponente. “Entrare in quella cella significherà - riflettono ancora i penalisti -, anche solo per un istante, sentire il peso dello spazio negato, della libertà sospesa, del silenzio che riempie ogni respiro”. Portare il carcere fuori dal suo perimetro fisico, “aprendo un dialogo con la città e invitando ciascuno a interrogarsi su cosa significhi davvero privare un essere umano della libertà”: è il messaggio che la Camera penale vuole diffondere con queste e altre iniziative volte a far conoscere la realtà della vita nelle carceri italiane, dove il tasso di sovraffollamento medio è oggi al 135%. La Dozza supera anche la media nazionale con un tasso del 177% (798 detenuti presenti al 9 ottobre, su 457 posti regolamentari). Solo pochi giorni fa il Ministero della Giustizia ha avviato la chiusura della sezione Giovani adulti, che però non libererà spazio per gli attuali detenuti ma aprirà le porte della Dozza a nuovi ingressi o trasferimenti. Venezia. Enrico Farina sollevato dalla direzione del carcere di Santa Maria Maggiore di Lorenzo Mayer antennatre.it, 14 ottobre 2025 Improvviso, e inatteso, cambio al vertice della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore. Enrico Farina è stato destinato ad altro incarico, nell’arco di poche ore, per decisione del provveditore regionale. Nella casa penitenziaria veneziana è già operativo un reggente. Disorientamento tra i detenuti, personale e gli agenti. || Enrico Farina, direttore della casa circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia, è stato temporaneamente sollevato dall’incarico, per essere destinato ad altro ruolo. Una decisione piombata nell’istituto di pena veneziano come un fulmine a ciel sereno, nessuno se lo aspettava, né tantomeno vi erano state avvisaglie in tal senso. Perciò oggi, nonostante sia già stato nominato un reggente, tra i detenuti, ma anche tra gli agenti, personale e volontari regnava grande disorientamento. Un provvedimento di questa natura è di esclusiva competenza del Provveditore regionale. La comunicazione parla di provvedimento temporaneo, ma la decisione ha tutta l’impressione di essere una scelta molto più drastica, se non vi saranno ripensamenti o cambiamenti sempre possibili, finché la vicenda non assumerà contorni più chiari. L’interessato, ufficialmente in ferie, non ha rilasciato alcun commento sulla notizia, maturata dalla sera alla mattina, che ha cominciato a trapelare dal pomeriggio di venerdì sera. Enrico Farina, nativo di Salerno, classe 1977, in circa due anni si è fatto conoscere e apprezzare, distinguendosi per importanti collaborazioni avviate con il territorio per la rieducazione e il reinserimento dei detenuti nella comunità veneziana. Solo giovedì scorso Farina aveva partecipato all’inaugurazione della biblioteca della Camera Penale degli avvocati veneziani che darà occupazione a un detenuto veneziano. Pochi giorni fa in Vaticano aveva partecipato alla presentazione Porte di Speranza promosso dalla Santa sede, con il Cardinale José Tolentino e il professor Davide Rampello che coinvolgerà anche il carcere veneziano. Nulla faceva presagire che Farina, psicologo e scrittore, fosse in partenza dalla Laguna. Brescia. “Non sono il mio reato”. Un convegno sui limiti culturali del sistema penitenziario Il Dubbio, 14 ottobre 2025 Tra gli ospiti Gherardo Colombo: “Il carcere è inteso nel senso che chi ha fatto male deve sperimentare il male”. “Il carcere in Italia è inteso nel senso che chi ha fatto del male deve sperimentare il male”. È questa la considerazione formulata da Gherardo Colombo, intervenuto sabato al convegno organizzato lo scorso sabato a Brescia dalla Società San Vincenzo de Paoli, affiancato da Don Rigoldi, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria, Carlo Alberto Romano, prorettore per l’Impegno Sociale per il Territorio presso l’Università di Brescia, Luisa Ravagnani, docente di Criminologia penitenziaria e Giustizia riparativa presso l’Università di Brescia e Mauro Ricca, Garante dei Diritti dell’Infanzia e Adolescenza per il comune di Brescia. La conferenza è seguita alla premiazione del concorso letterario dedicato ai detenuti “Mi specchio e non mi riconosco: non sono e non sarò il mio reato”, tenutasi venerdì presso la casa circondariale Nerio Fischione di Brescia, dove l’indice di sovraffollamento è stabile al 201%. E proprio dal sovraffollamento è partito Colombo: “comincerei evitando di pensare che i problemi dipendano dal solo sovraffollamento, anche se questo non ci fosse la situazione sarebbe comunque estremamente critica”. Il sovraffollamento aggrava i problemi che già affliggono il sistema penitenziario, come la ristrettezza degli spazi, la mancanza di luoghi adibiti all’attività fisica, le difficoltà burocratiche da superare per ricevere i servizi sanitari di base, la mancanza di reali prospettive; problemi che rendono difficili le condizioni del carcere, se non insostenibili in molti casi, come dimostrato dal costante aumento dei suicidi che avvengono in carcere, il cui lo stesso conteggio è dibattuto. “Siamo di fronte a un fallimento”, ha dichiarato Romano, “il sistema penitenziario così come delineato dal legislatore del 1975, riformato poi nell’86, è fallito, ed è fallito per la cornice culturale nella quale ci poniamo noi che trattiamo di carcere. Non ci siamo mossi ancora dall’idea della sanzione che costituisce l’ostacolo principale all’individuazione di percorsi di reinserimento”. “Leggo in questi giorni di celebrazioni dell’ordinamento penitenziario, mi chiedo se ci sia da celebrare o più da applicare piuttosto la visione illuminata del legislatore del 1975”, ha concluso il prorettore. Rimini. “Nessuno è cattivo per sempre”, un’associazione per rimediare ai torti commessi volontaromagna.it, 14 ottobre 2025 Ci sono tante forme di ricchezza. Per Pierfrancesco Bruno, presidente di “Nessuno è cattivo per sempre”, la sua sono i suoi affetti, la sua casa, la tranquillità economica di pensionato: cose semplici ma che nascondono valori profondi che vuole condividere con gli altri e, soprattutto, con chi si rende conto non ha avuto la stessa fortuna. Ecco la sua storia di volontario. “Nel 2021 ho iniziato a organizzare eventi nella Casa circondariale di Rimini per creare momenti di leggerezza, stimolato dalla comandante, che avevo conosciuto in Avis come donatrice di sangue. È stata una grande scoperta. Dialogando con i detenuti non ho nascosto il fatto che la gente ha nei loro confronti un’opinione negativa, allora mi è stato chiesto: ‘Come facciamo a spiegare che siamo essere umani e persone?’. Queste semplici parole mi hanno fatto riflettere: i detenuti hanno sentimenti, rapporti umani, relazioni che si allentano a seguito della detenzione, soffrono per il distacco, hanno tante paure legate alle possibilità di costruirsi un futuro. Mi stavano chiedendo una mano per riscattarsi, perché non dargliela? Così mi è venuta l’idea di ‘Nessuno è cattivo per sempre’: in ognuno di noi, per quanti errori si siano commessi, c’è del buono per ricostruire un percorso di legalità. È difficile per noi volontari spiegare che il detenuto non va giudicato, lo è già stato e sconta per questo una pena. Sappiamo, però, che i detenuti inseriti in un programma di riabilitazione hanno una recidiva bassissima di commettere reati rispetto a chi non è stato seguito, è quindi un interesse anche della società civile. Come associazione stiamo ricevendo molte adesioni: chi si è attivato per raccogliere beni di prima necessità - ce ne è sempre bisogno - chi vuole partecipare a percorsi di riabilitazione perché ha competenze in questo ambito. Mi ha contattato anche un regista teatrale che si occupa di comunicazione non violenta, uno dei contenuti dei percorsi di riabilitazione dei detenuti. Tra le attività che proponiamo in carcere c’è stato un laboratorio artigianale per la realizzazione di icone sacre, che richiede molta attenzione e concentrazione, un primo passo per ricostruire la propria identità attraverso il recupero dell’autostima: le persone sono soddisfatte di quello che riescono a fare… Manipolare immagine sacre stimola anche l’introspezione: li vedo concentrati e forse in quel momento a modo loro pregano. Un giorno un detenuto mi ha confessato che il suo più grande rammarico è stato non poter chiedere scusa al padre, un dolore che si portava dentro… Aveva già iniziato questo lavoro interiore fondamentale per un recupero sociale, perché la consapevolezza di aver recato dolore a un proprio caro è il punto di partenza. In questo momento stiamo poi costruendo una serie di relazioni esterne. In particolare stiamo cercando di stipulare convenzioni con strutture pubbliche e private, in modo che i detenuti possano reinserirsi socialmente, magari iniziando con il volontariato. Spesso i ragazzi mi chiedono di farlo con persone anziane o disabili, riconoscono probabilmente di fare parte dell’ultimo anello della catena sociale, della sofferenza e del dolore, da lì vogliono risalire aiutando chi si trova in uno stato di difficoltà, un po’ come loro. È un modo utile e necessario per risalire la china. C’è la voglia di ritornare a essere umani alla pari degli altri. Con il Tribunale, invece, stiamo cercando di capire come attivare percorsi alternativi alla detenzione, come ad esempio i lavori socialmente utili. Ci stiamo muovendo poi nelle scuole, dove lavoriamo sul tema della legalità: i ragazzi non ne hanno percezione, è come se non sapessero differenziare tra reale e virtuale, ciò che è virtuale per loro si può fare anche nel reale. Ci sono invece dei comportamenti errati che innescano una catena del dolore (mobbing, maschilismo…) che coinvolge tantissime persone. Sono comportamenti lesivi per chi li subisce ma anche per tutti coloro che fanno parte della cerchia degli affetti… Faccio un esempio concreto. Un giorno mi sono trovato in un parco dove c’erano tre ragazzi che ne stavano aggredendo un quarto, isolato. Sono intervenuto separandoli. Ho chiesto ai tre il perché e uno mi ha risposto: ‘Ci ha infamato nei social’. Mi ha fatto capire che i social sono diventati un terreno di scontro non controllato da nessuno, dove si dice di tutto e di più… un dire, che si trasforma in un infamare, scatenando reazioni che possono sfociare nella violenza. Bisogna parlare con i ragazzi di questi comportamenti devianti che hanno conseguenze sicuramente negative e, in carcere, troviamo tante testimonianze di giovani che possono raccontare la loro storia. Tornando alle mie motivazioni, faccio volontariato da tanto tempo, sono stato in Iraq, ho collaborato con Gino Strada, non ho problemi economici o famigliari, ho moglie, figli e nipoti, ho la casa di proprietà e sono pensionato… questi valori, che mi fanno vivere sereno, sono una ricchezza che va condivisa con gli altri. Non posso tenere per me questa fortuna di avere affetti, di avere un reddito sicuro… restituire questa ricchezza mi fa sentire in maniera attiva un essere umano, mi dà serenità e tranquillità. Quello che dico a chi si avvicina all’associazione è: condividere il proprio tempo con progetti, idee, vicinanza e affetto è un modo per aiutare gli altri e sé stessi, tutto ti torna indietro come un boomerang. Per definire il mio volontariato uso una similitudine: il volontariato è come le sabbie mobili, più ci stai dentro più ti immergi, non si finisce mai, ma al contrario delle sabbie mobili, in questo bagno ti senti bene. Chiudo con un invito: ‘Nessuno è cattivo per sempre’ non è un’associazione rivolta solo ai detenuti o ex detenuti, ma a chiunque pensi di aver commesso un torto a qualcuno e voglia rimediare… a persone che hanno fatto soffrire figli, famigliari, amici… e sentono il bisogno di chiedere scusa e di farsi perdonare mettendosi in gioco per riparare”. Per entrare in contatto con l’associazione scrivere a: nessunoecattivopsodv@virgilio.it. Milano. Dal carcere a L’abilità: “Il nostro concerto per bambini e famiglie” di I coristi de La Nave di San Vittore Corriere della Sera, 14 ottobre 2025 L’evento del coro del La Nave di San Vittore organizzato a Milano presso la comunità dell’associazione che ospita bambini con disabilità anche molto gravi. Venerdì 3 ottobre 2025. Un giorno diverso dagli altri per chi, tra noi persone detenute nel carcere di San Vittore, ha avuto la possibilità di partecipare con il nostro coro all’evento esterno organizzato a Milano presso la comunità dell’associazione L’abilità. La comunità ospita bambini con disabilità anche molto gravi. Il coro invece è una delle attività del nostro percorso di cura della dipendenza, che frequentiamo a cadenza settimanale all’interno del reparto La Nave di San Vittore. Questa volta abbiamo potuto portare la nostra voce al di fuori delle mura del carcere e far vedere che dentro di noi non ci sono solo gli errori che abbiamo fatto. “Siamo esseri umani”, dice il ritornello di una delle canzoni che abbiamo cantato. Non era la prima volta che il nostro coro faceva un concerto fuori. E pensavamo che anche questa occasione sarebbe stata come altre: qualche ora fuori, potendo anche incontrare i nostri parenti e cantando le nostre canzoni. Con il coro della Nave era già successo. Ma questa volta è stato completamente diverso da quello che ci eravamo immaginati. Certo, l’incontro con i parenti è stato un momento molto forte, e per alcuni di noi era la prima volta che accadeva fuori dal carcere. Ma fortissimo è stato l’impatto con i bambini per i quali abbiamo cantato. E con le loro famiglie. Ci siamo esibiti all’interno della chiesa del Preziosissimo Sangue. Noi cantavamo e i bambini de L’abilità cantavano assieme a noi. Con le loro patologie, a volte gravissime, cantavano e ridevano. Alcuni ballavano. Veramente una emozione molto intensa. Un impatto con la realtà della vita che non possiamo vivere tutti i giorni. Bisognava combattere con tante emozioni contrastanti che si animavano dentro di noi. Per molti le lacrime erano difficili da trattenere. Mettersi in gioco, guardarsi e confrontarsi con le vite degli altri spesso ci aiuta a capire che non siamo i soli a soffrire in questo mondo e che noi possiamo essere uno specchio per gli altri come gli altri lo possono essere per noi. Realtà come il reparto La Nave - gestito qui a San Vittore da Asst Santi Paolo e Carlo - dovrebbero essere presenti in tutte le carceri italiane. Per aiutarti a ripartire, rialzandoti da dove sei caduto. E anche per regalarti momenti come questi, indimenticabili. Anche così ci si rialza. Per questo grazie all’associazione L’abilità. Per averci invitato e donato questa giornata che lascerà il segno. E grazie a tutti gli organi competenti che ci hanno dato la possibilità di accogliere tutto ciò che questa occasione ha rappresentato. Voghera (Pv). Con i gioielli creati dai detenuti si aiutano i bambini rifugiati di Maria Teresa Marchese La Stampa, 14 ottobre 2025 Il progetto dell’associazione umanitaria Joy for Children. Con “Ri-Scarto” nasce il laboratorio di alta bigiotteria da materiali di recupero rivolto ai detenuti. I confini italiani si uniscono per aiutare il confine turco-siriano con una connessione di regioni e di eccellenze. Anche il Tortonese, con la vicina provincia di Pavia, è impegnato in progetti di solidarietà internazionali. Ha preso il via nei giorni scorsi “Ri-Scarto” di Joy for Children in collaborazione con la Casa circondariale di Voghera: un laboratorio di alta bigiotteria curato da Laura Ferrari, artista milanese che da diversi anni ha scelto di vivere a Pozzol Groppo e crea gioielli con materiali di recupero. “Il progetto è un’iniziativa di rigenerazione sociale che vedrà impegnate circa 30 persone in tre diversi laboratori artistici, bigiotteria, sartoria e falegnameria - spiega Titti Di Vito, vicepresidente di Joy for Children e responsabile dei progetti -. Gli articoli realizzati saranno destinati alla raccolta fondi per i bambini rifugiati di cui ci occupiamo al confine turco-siriano. Laura Ferrari insegnerà ai partecipanti a creare ciondoli, bracciali e orecchini utilizzando materiali di recupero come corde di chitarra e vecchie monete, con perle e pietre dure”. Ogni gioiello sarà ceduto tramite il sito web e i canali social di Joy e la donazione servirà a sostenere direttamente la loro scuola per bambini e adolescenti rifugiati nella città di Kilis (Turchia). “Joy for Children - aggiunge Di Vito - è un’associazione umanitaria italiana impegnata dal 2017 in progetti di aiuto materiale, educativo e sanitario per i minori che vivono in contesti di emergenza. Operiamo in particolare nella città di Kilis, dove seguiamo circa 200 bambini, molti dei quali con disabilità e costretti all’esilio. Nel 2023 abbiamo aperto la nostra scuola che accoglie oltre cento studenti di diverse nazionalità e insegna la lingua inglese, impiegando le studentesse più meritevoli come maestre per i bambini più piccoli”. Nel Tortonese Joy for Children è nota per le collaborazioni con aziende locali, tra cui anche la Distilleria Scardina, e per il profondo legame con Anna Ghisolfi, madrina dell’associazione che insieme a Titti Di Vito e altri volontari è stata in missione lo scorso febbraio portando aiuti concreti. Il suo ristorante ha ospitato la cena benefica dell’8 maggio scorso raccogliendo i fondi necessari per regalare un campus estivo a tanti bambini. “Il progetto “Ri-Scarto” tra Joy e il carcere di Voghera - spiega la vicepresidente - nasce con la volontà di rimettere in circolo la bellezza e il valore conservato nelle “seconde opportunità” per crearne di nuove. È una rigenerazione che nasce dal basso e che porta con sé alti valori di solidarietà e sostenibilità sociale. Joy for Children non ha l’illusione di cambiare il mondo, ma coltiva con molta serietà l’obiettivo di portare gioia nelle vite più vulnerabili”. “Al laboratorio - spiega Ferrari - hanno aderito circa 30 detenuti: con i primi 15 abbiamo lavorato martedì scorso, con gli altri ci vedremo questa settimana. Mi hanno ascoltata con grandissima attenzione e hanno voluto subito provare a cimentarsi con le corde di chitarra e i bottoni che avevo portato con me. Ho spiegato loro come fissare le corde di chitarra e mi sono subito resa conto che alcuni hanno una manualità incredibile”. Ogni gioiello realizzato sarà utilizzato nelle campagne di raccolta fondi di Joy for Children e in occasione della cena di Natale dell’associazione che si terrà il 4 dicembre da Anna Ghisolfi: l’idea è allestire un mercatino natalizio all’esterno del locale con alcune realtà che si raccontano. Milano. “Ridere non conosce confini”: lo yoga della risata in carcere gnewsonline.it, 14 ottobre 2025 Una pratica innovativa, che mira a portare benessere alle persone, coniugando aspetti dello yoga classico, come la respirazione e la recitazione di un mantra, ed esercizi e giochi di gruppo, anche tratti dal teatro, è stata introdotta, come attività trattamentale, nella Seconda Casa di Reclusione di Bollate. È un vero e proprio movimento, quello dello yoga della risata, che punta ad alleviare il malessere fisico e mentale, costruendo una sorta di allenamento al ridere. Angelo Andrea Ciccognani, che cura la disciplina nel carcere di Milano, spiega ad Ilaria Dioguardi, per la rivista Ristretti Orizzonti, che “si parte da una risata finta, recitata”. Poiché il nostro organismo non coglie “la differenza tra una risata vera, spontanea, e una autoindotta”, continua il formatore, la risata artificiale produce un “cocktail della felicità”, che aiuta a sentirsi meglio. “Ma la risata è contagiosa, alla fine diventa vera”, precisa. L’esperienza, sostenuta dal funzionario giuridico pedagogico Simona Gallo, è cominciata a maggio di quest’anno, con quattro sessioni, una a settimana, in gruppi di circa dieci persone. “Sono stupende le restituzioni da parte dei partecipanti alla fine di ogni incontro”, continua l’insegnante. “Una persona mi ha detto: “per un’ora dimentico dove sono”. Il successo del primo ciclo ha fatto sì che le sessioni proseguissero fino ai primi di luglio e riprendessero ad ottobre, con un numero maggiore di utenti, arrivati, oggi, a diciotto. Dopo le prime sedute, “i partecipanti hanno detto che sarebbe stato bello continuare e siamo riusciti ad andare avanti”, racconta Ciccognani. Come chiarisce a Gnews Simona Gallo, il progetto è nato nell’ambito di un’iniziativa più ampia, relativa alla creazione di gruppi di consapevolezza. Inizialmente gli operatori hanno provveduto a selezionare i detenuti più adatti all’attività, lasciando che col tempo fossero gli utenti stessi a proporsi come partecipanti. La funzionaria dichiara che, se il successo dell’iniziativa dovesse perdurare, come crede, proporrà al direttore dell’istituto, Giorgio Leggieri, di trasformare le autorizzazioni temporanee, attivate finora, in un percorso strutturato di lunga durata. Evadere spiritualmente dallo spazio in cui si è ristretti è l’emozione provata anche dai detenuti della Casa Circondariale Raffaele Cinotti, il Nuovo Complesso di Rebibbia, detenuti che hanno partecipato, alcuni anni fa, alle sessioni di yoga della risata tenute da Cinzia Perrotta. Grazie alla VIC Onlus, associazione di volontariato in carcere, la formatrice, come racconta a Gnews, ha condotto il progetto Ridere è una cosa seria, che ha preso il via nel giugno 2016 ed è proseguito per più di due anni, con il sostegno del funzionario giuridico pedagogico Deborak Moccia. “Testimoniare quello che accade non è facile, dovreste vedere i volti, i sorrisi e gli sguardi dei detenuti che hanno aderito, per farvi meglio un’idea”, dichiara la giovane volontaria nel sito di Lara Lucaccioni, principale riferimento italiano di questa disciplina e uno dei maggiori rappresentanti al mondo. Il Club delle Risate, nato in quel carcere, ha significato, continua l’insegnante, dimenticare per qualche ora le cose ben visibili nella vita di tutti i giorni”, consentendo il contatto umano, facendo cadere, almeno temporaneamente, le “maschere dure e aggressive”, e favorendo “rapporti diretti, non mediati”. In un luogo in cui i conflitti sono molto frequenti, a causa dello stato di costrizione e della convivenza forzata nelle celle, le persone hanno la possibilità di imparare a rispettare il compagno e di solidarizzare con lui, apprezzando negli altri “le qualità che aspettavano di essere notate, riconosciute e valorizzate”, dice ancora la giovane formatrice. Come racconta a Gnews Vanessa Postacchini, addetta stampa, insieme a Barbara Valla, dell’Istituto italiano dello yoga della risata, si è trattato di un progetto che ha favorito un’immagine del carcere come “istituzione per la sicurezza e la rieducazione, e non per la sofferenza”. Anche Ciccognani, raccontando a Ristretti Orizzonti la sua esperienza di volontario nell’istituto penitenziario di Milano, sottolinea come i detenuti valutino positivamente lo spirito di gruppo che viene a crearsi: ““È bello perché stiamo insieme in un altro modo, ci conosciamo di più. Si crea una confidenza, un legame più forte”, mi dicono molti”. Nell’apprendimento ognuno ha la propria andatura, il proprio ritmo, una sua personalità. Ciccognani sottolinea come nel gruppo ci siano persone che si abbandonano più facilmente e altre che sono più contenute. “C’è chi ride di più e chi di meno, ma il ridere è una pratica: più rido e più imparo a ridere”, dice il formatore. E ridere produce benessere, è salutare. “Non ridiamo perché siamo felici, siamo felici perché ridiamo”, sosteneva lo psicologo William James, citato come fondamento della filosofia dello yoga della risata e ricordato dalla stessa formatrice di Rebibbia. Alla base di questo metodo vi è un approccio olistico, incentrato sulla connessione tra mente e corpo, punto di partenza per la crescita personale e la condivisione costruttiva. Dietro a queste iniziative nelle carceri vi è la solidità dell’Istituto italiano dello yoga della risata - guidato da Lara Lucaccioni, Matteo Ficara, e da un comitato di esperti - come anche l’entusiasmo dei suoi membri. La valenza socializzante e inclusiva della pratica negli istituti penitenziari sarà testimoniata dal volontario di Bollate, con la narrazione della sua esperienza nel carcere, durante il quinto Congresso di yoga della risata, che si terrà a Peschiera del Garda dal 24 al 26 ottobre p.v. Il proposito dell’associazione, come racconta ancora a Gnews Vanessa Postacchini, “è diffondere lo yoga della risata in ogni contesto in cui possa essere d’aiuto come supporto terapeutico complementare”. Non stupisce, allora, che l’educatrice penitenziaria Simona Gallo aspiri a far sì che Ciccognani divenga una presenza costante nell’ istituto di Bollate, in accordo all’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, che prevede, appunto, la “partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa”. Il creatore dello yoga della risata nel mondo, Madan Kataria, che, con un esiguo numero di seguaci, nel 1995 iniziò, a Mumbai, la sperimentazione della nuova disciplina, afferma che “ridere non conosce confini, non fa distinzioni di razza, credo religioso o colore, ed è un linguaggio universale che può unificare il mondo”. Voghera (Pv). Dal carcere al miele, mercatino solidale per il reinserimento dei detenuti oltrepolombardo.com, 14 ottobre 2025 Un progetto nato in silenzio, con cura e determinazione, oggi diventa visibile a tutti. Sabato 18 ottobre in piazza Duomo a Voghera si terrà il primo Mercatino Solidale che porterà in piazza i frutti concreti dell’iniziativa “Apicoltura sociale”, avviata due anni fa grazie alla collaborazione tra Rotary Club, Carcere di Voghera e Orti Sociali. Al centro di tutto, non solo il miele, ma il cammino di reinserimento sociale di alcuni detenuti che, grazie a un percorso nuovo e profondo, hanno ritrovato una prospettiva diversa attraverso il contatto con la natura e le api. Il progetto, avviato nel 2024, ha permesso ad alcuni detenuti del carcere di Voghera di avvicinarsi all’apicoltura, seguendo una formazione pratica e terapeutica sotto la guida dell’apicoltore Marco Cavanna. Un’attività che ha offerto ben più di un mestiere, diventando occasione di riscatto e di riscoperta personale. Dopo due anni, i primi risultati sono tangibili e dolci: i vasetti di miele prodotti all’interno della struttura penitenziaria saranno messi in vendita sabato in un’iniziativa benefica aperta alla cittadinanza. L’iniziativa, fortemente voluta da Moreno Baggini in rappresentanza di Orti Sociali Voghera, ha coinvolto anche i club Rotary del Gruppo Longobardo e il Distretto 2050, che hanno finanziato il progetto. Durante tutta la giornata, dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18 circa, sarà presente una postazione informativa dove alcuni membri del Rotary illustreranno le tappe e gli obiettivi del progetto “Dal carcere all’apicoltura”. I vasetti di miele, simbolo di questo percorso, saranno disponibili per l’acquisto, e il ricavato servirà a sostenere il proseguimento dell’iniziativa. “La presenza in piazza del Duomo non è solo un momento di vendita - ha spiegato Baggini - ma l’occasione per raccontare un progetto che è partito da dentro le mura di un carcere e che ha saputo costruire relazioni, fiducia, lavoro. Il ricavato andrà a sostenere il proseguo di questo evento”. A ideare l’intero percorso è stata Anna Bruni, che ha sottolineato il valore umano e sociale del progetto: “È nato per dare l’opportunità ai detenuti di diventare apicoltori ed è stato patrocinato per una durata triennale. Terminerà nel 2026, ma ogni iniziativa come questa ci avvicina all’obiettivo finale: reintegrare esseri umani alla vita e al mondo del lavoro”. Fondamentale si è rivelato l’appoggio della direzione del carcere, con il direttore Davide Pisapia che ha creduto fin dall’inizio nel valore educativo e rieducativo del progetto. Il carcere di Voghera si conferma così come un punto di riferimento attivo nella promozione di percorsi di reintegrazione reale, in grado di offrire nuove opportunità anche dove sembrano meno possibili. Sabato in piazza, insieme ai vasetti di miele, sarà in vendita anche una nuova idea di giustizia: quella che passa per il rispetto, la fiducia e la possibilità di ricominciare. I dati Istat sul non profit: continua a crescere e crea posti di lavoro di Giulio Sensi Corriere della Sera, 14 ottobre 2025 La fotografia su enti e istituzioni di non profit è stata illustrata durante le Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile. Così il bene comune crea valore non solo nel Pil. Il non profit in Italia continua a crescere. Sia nel numero di enti e istituzioni, sia in quello dei dipendenti che arriva a sfiorare il milione di unità. Significa crescere in due direzioni: generare bene comune per la collettività e al contempo generare posti di lavoro. Lo dicono i numeri assoluti (368.367 realtà non profit attive, 949.200 dipendenti) e anche le percentuali (rispettivamente +2,3 e +3,2). Un incremento che sembra condizionato anche dal miglioramento del grado di copertura delle fonti amministrative utilizzate. La precisione del conto è dovuta al fatto che i dati sono quelli definitivi aggiornati al 31 dicembre 2023, fotografati dall’Istat e presentati la scorsa settimana durante la XXV edizione delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile, il tradizionale appuntamento di Aiccon - Centro Studi dell’Università di Bologna che quest’anno ha accolto 250 persone da tutta Italia e oltre 600 iscritti online. L’evento è stato inaugurato con la sessione di apertura coordinata da Paolo Venturi in cui sono intervenuti Stefano Zamagni dell’Università di Bologna, la Co-founder Copenaghen Institute of Interaction Design Simona Maschi e Mauro Magatti dell’Università Cattolica di Milano. A illustrare i dati e le trasformazioni in corso rispetto al non profit in Italia è stato Massimo Lori, responsabile del Registro statistico delle istituzioni non profit Istat. I numeri descrivono una riduzione delle differenze a livello territoriale, con una crescita maggiore al Sud (+4,1%) e nelle Isole (+2,3%) anche a livello occupazionale: proprio nelle Isole l’aumento della forza lavoro è del 5,9%. A livello nazionale la maggioranza dei dipendenti è concentrata nelle cooperative (53,6% del totale), ma l’incremento maggiore in termini di occupati si ha nelle fondazioni (+4,5%). Quanto ai settori interessati la crescita più importante tocca gli ambiti dello sport, dalla cultura, delle attività ricreative: quest’ultime in particolare registrano un incremento a doppia cifra (+13,7%). Per quanto riguarda i dipendenti invece il settore in testa è quello legato alla coesione sociale, a istruzione e ricerca, alle relazioni sindacali. Secondo l’indagine la maggiore crescita delle non profit si registra nel settore della promozione sociale (+30%) e in misura minore nelle organizzazioni di volontariato (+4%). Quello che i numeri ci raccontano di Dacia Maraini Corriere della Sera, 14 ottobre 2025 Linda Laura Sabbadini nel suo libro spiega che “per essere adeguatamente informati, senza cadere vittima di manipolazioni, dobbiamo imparare a leggere i numeri. Non esistono solo le fake news, ma anche i fake numbers”. Quanti erano alle manifestazioni per la Palestina? La questura ne conta qualche migliaio, gli organizzatori parlano di milioni. Che importanza ha? dice qualcuno, c’era tanta gente e questo basta. Ma non è così perché i numeri fanno la storia, come racconta molto bene Linda Laura Sabbadini nel suo bel libro “Il Paese che conta - Come i numeri raccontano la nostra storia”. Non è un caso che il numero degli intervenuti viene interpretato secondo quanto si vuole valorizzare o minimizzare l’importanza di questo inaspettato risveglio emotivo del Paese. Così come il numero dei pochi terroristi dal volto coperto che volutamente hanno infangato la pace dei più, viene continuamente aumentato. “Per essere adeguatamente informati, senza cadere vittima di manipolazioni, dobbiamo imparare a leggere i numeri. Non esistono solo le fake news, ma anche i fake numbers. Si possono contestare, ma di solito quello che succede è che le fake news da un punto di vista comunicativo sono più forti delle smentite”, scrive Sabbadini e io credo che abbia ragione. I numeri sono certamente una scienza esatta ma vengono troppo spesso manipolati. Come rimediare? Linda Laura, che ha dedicato la vita allo studio e alla pratica della statistica, ci dice che i numeri vanno verificati attraverso lo studio approfondito delle varie fonti di raccolta di testimonianze, come nel caso di un intervento di piazza difficile da conteggiare. Più semplice quando i numeri sono legati a fatti concreti come delitti, incidenti, attentati ripresi in video, e registrati dalla polizia, anche se perfino quelli possono essere visti e interpretati come si vuole. Per questo le statistiche sono preziose se eseguite con serietà. Importante affidarsi a chi lo fa di mestiere e con onestà riconosciuta. Fino a pochi giorni fa si parlava di un sonno etico dei giovani che non andavano più a votare, oggi si scopre che quegli stessi giovani, dati come apatici e indifferenti, sono pieni di energia politica, ma di una politica che chiede un sistema di valori del tutto rinnovato. Il mondo cambia: siamo di fronte a nuovi equilibri geopolitici, nuove esigenze di una famiglia in tempo di consumismo, nuove scelte di inizio e fine vita come diritto civile, nuovi drastici cambiamenti climatici, nuovi problemi di immigrazione, nuove ingiustizie che si ripetono senza risposte. È su questi temi che si risveglia l’impegno dei giovani e andrebbero ascoltati. Le parole (sbagliate) di Roccella e l’antisemitismo di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 14 ottobre 2025 La polemica scatenata da alcune frasi della ministra della Famiglia e l’immensa opera di recupero della memoria della Shoah che rappresenta un’alta forma di giustizia per tante vittime innocenti. Ci auguriamo fortemente che la polemica, scatenata da alcune frasi pronunciate ieri dalla ministra della Famiglia, Eugenia Roccella, si ricomponga velocemente. Siamo sicuri che la ministra avrà modo di circostanziare il suo pensiero e di scusarsi con la senatrice Liliana Segre per aver definito delle gite (evidentemente inutili o semplicemente di svago) tutti i viaggi di studio organizzati da tante scuole italiane nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, nei luoghi della Shoah. Ritenere che l’immensa opera di recupero della memoria, svolta in questi anni da tante istituzioni, sia equivalsa a una subdola campagna della sinistra per identificare l’origine dell’antisemitismo solo nel Fascismo, offende l’intelligenza comune. La memoria onesta e critica di ciò che è accaduto in momenti tragici e bui anche della nostra storia, rappresenta un’alta forma di giustizia per tante vittime innocenti, non solo ebrei, della furia nazionalista del Novecento. Un monito prezioso da trasmettere alle nuove generazioni, ancora più indispensabile oggi che ci troviamo a combattere nuove forme di antisemitismo. Se ci si divide, se si avanzano dubbi sulla bontà di tante iniziative, se si istillano infondati sospetti di strumentalità politica, non si fa altro che offrire terreno fertile persino al negazionismo. Non avremo mai una memoria condivisa di quel periodo ma almeno uno straccio di memoria comune, che non offuschi o persino cancelli pagine dolorose, è necessario al nostro vivere civile. Chi scrive è presidente onorario del Memoriale della Shoah di Milano, aperto nei sotterranei della stazione Centrale di Milano. Un luogo - da cui vennero deportati ebrei, altre minoranze, rom, sinti, prigionieri politici del regime fascista e repubblichino - rimasto intatto e sconosciuto fino alla fine del secolo scorso. Se oggi esiste, ed è meta di tanti pellegrinaggi della memoria, lo si deve all’impegno trasversale di tante persone e associazioni. Senza colore politico, di tutti gli orientamenti. Un’istituzione italiana. Tra coloro che nel 1944 spinsero sui vagoni della morte Liliana Segre e i propri familiari, insieme a tanti che non tornarono, non vi erano solo soldati nazisti, ma anche tanti nostri connazionali. Nel Dopoguerra ci siamo cullati troppo a lungo sull’adagio confortevole degli “italiani brava gente”. Ma non eravamo tutti brava gente. “Remigrazione” e “riconquista”, attenzione alle parole d’odio di Diego Motta Avvenire, 14 ottobre 2025 Il linguaggio ostile verso migranti e Ong nella politica e nella società spinge nella direzione dell’intolleranza. Non bastava la “remigrazione”, ora si punta direttamente alla “riconquista”. Sono toni sempre più belligeranti quelli che si ascoltano negli ambienti dell’estrema destra da qualche mese a questa parte, quasi non bastasse il discutibile giro di vite operato dal governo in questa legislatura in materia di flussi migratori. Parole e slogan che hanno tenuto banco anche all’ultima adunata della Lega a Pontida, lo scorso settembre, a conferma che il sentimento di intolleranza degli italiani verso gli stranieri è tutt’altro che sopito e fa breccia anche in settori importanti della maggioranza di governo. I vicesegretari del Carroccio, Roberto Vannacci e Silvia Sardone, beniamini e campioni di certi talk show televisivi, hanno infatti più volte usato la parola “remigrazione”, che fa rima con deportazione. In realtà, sono solo gli ultimi arrivati di una protesta che ha avuto CasaPound come cervello e motore della mobilitazione. Siamo di fronte all’ultima involuzione pericolosa della strategia “legge e ordine” sui migranti. Il nascente “Comitato remigrazione e riconquista” ha come obiettivo l’espulsione “immediata e totale” degli stranieri irregolari, la “nascita dell’istituto della remigrazione volontaria” e “l’introduzione del patto di remigrazione volontaria”. Nel mirino non ci sono solo le Ong (questa non è una novità) ma anche gli imprenditori “che lucrano sullo sfruttamento dell’immigrazione”, oltre a misure come il decreto flussi da abolire e il ritorno degli italo-discendenti. Una volta esaurita la fase uno, la “pulizia” dei quartieri cittadini, si aprirebbe la fase due: il rilancio della presenza italica. Il sangue viene prima della terra, il confine delimita le nuove fortezze. Ci vuole poco, in una simile deriva valoriale, perché un brivido corra lungo la schiena. Innanzitutto, si rischia di fare di tutta l’erba un fascio: chi si vorrebbe espellere seduta stante perché tiene “in ostaggio” le periferie delle nostre città viene messo insieme a chi invece arriva nel nostro Paese per fare lavori stagionali, il giovane sbarcato dopo un’odissea in mare fa coppia con l’invisibile che sogna di avere la cittadinanza. Emerge così il volto di un’Italia vicina all’America più recente, quella delle retate nelle metropoli contro i migranti e quella che non si fa problemi a mettere sul primo aereo disponibile gli stranieri senza documenti. Gli Usa non sono l’unico caso, peraltro. Senza andare lontani, la stessa Gran Bretagna ha presentato con il governo Sunak il “piano Ruanda”, indicando il Paese africano come méta finale per i richiedenti asilo da rimpatriare. È vero, remigrazione e riconquista non sono ancora entrate per fortuna nel novero dei luoghi comuni che tanti successi hanno avuto, innanzitutto a livello linguistico, nella retorica anti-immigrazionista di questi anni, basti pensare a fortunati slogan come “Prima gli italiani” o “Padroni a casa nostra”. Perché allora ci devono preoccupare? Perché ci sono segnali di un malessere sociale ormai cronico, che si accompagna a continue (e sottovalutate) mobilitazioni dal basso di attivisti post-fascisti e militanti delle forze politiche, a sit-in con tanto di striscioni e slogan nelle grandi città, alle prime adesioni di consiglieri comunali sparsi da Nord a Sud, alla grancassa di tanti emittenti private che speculano sull’odio di quartiere. È un film già visto, che punta a concretizzarsi con una proposta di legge popolare, che riuscirebbe a sdoganare in un colpo solo il razzismo latente e le teorie sul suprematismo bianco. Qui si approda inevitabilmente sul terreno della politica. La novità in questo caso è che per la prima volta l’interlocutore scelto dalla galassia di estrema destra è un governo “amico”, che più volte ha ribadito la necessità di stringere ulteriormente le maglie sui flussi migratori. I numeri di questo inizio d’ottobre dicono che la strategia di contenimento degli arrivi continua a non funzionare, visto che in un anno sono arrivati oltre mille profughi in più (53mila contro 52mila). È la dimostrazione che le intese tanto strombazzate con Libia e Tunisia per frenare le partenze restano inefficaci, mentre gli annunci sui Cpr (uno per regione, si diceva) sono rimasti sulla carta. Che dire poi dei discussi e costosi centri aperti in Albania, di cui si è persa traccia? Eppure spingere nella direzione dell’intolleranza e della chiusura, in tempi delicati come questi, può essere un passepartout per raggiungere fasce di cittadini arrabbiati e non è escluso che anche nella maggioranza vi possa essere la tentazione di appoggiare soluzioni estreme, anche solo per coprirsi a destra. Ma qui si parla, appunto, di deportazione, di espulsione di massa, di caccia allo straniero. Ce n’è abbastanza per chiedere a chi ha ruoli istituzionali e di governo uno scatto, una reazione immediata contro la propaganda, che sarebbero ancora più significativi e incoraggianti in tempi bui come questi. Medio Oriente. L’alba fragile della pace di Giorgio Ferrari Avvenire, 14 ottobre 2025 A Gaza la politica è ormai un’arte da intrattenimento, e la spettacolarità per uno come Donald Trump è tutto. Ma un’intesa tardivamente imposta sopra una simile catasta di morti - quelli del 7 ottobre come quelli della Striscia - non è cosa su cui troppo festeggiare. Il presidente Usa Trump durante la firma ufficiale della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza a Sharm el-Sheik La tregua. La pace. La liberazione degli ultimi ostaggi. Il rilascio di millenovecento detenuti palestinesi. Le colonne di camion con gli aiuti alla popolazione stremata. La lunga teoria di Capi di Stato e di governo che si allinea a Sharm el-Sheik per una photo opportunity. I ragazzi di Gaza che ritrovano per un istante il sorriso. Trump alla Knesset, Netanyahu che lo proclama “migliore amico di ogni tempo di Israele” senza aver speso mezza parola sulla mattanza palestinese. Hamas che fuoriesce in armi dal dedalo di cunicoli e già riprende a modo suo il controllo della Striscia. Nel Big Bang della Pax Trumpiana c’è posto per tutto e il contrario di tutto. Per l’esultanza dei vincitori, il pianto delle vittime, l’orgoglio di un presidente che sulla chiusura della partita di Gaza ha puntato molto di più che sulla guerra fra Russia e Ucraina e un premier come quello israeliano che sulla partita mortale con Hamas ha sacrificato larga parte dell’appoggio del mondo intero. Ma i demiurghi della pace già spostano lo sguardo più in là, verso un orizzonte immaginato e immaginario, talmente denso di incognite da apparire indistinto e nebuloso. Colmarlo di propositi e di sogni è più facile. Gli Accordi di Abramo, Gaza pacificata, la prospettiva di una rinascita economica e civile della Striscia, se non la Mar-a-Gaza invocata da Trump che ha messo l’acquolina in bocca a tutte le monarchie del Golfo. In mezzo c’è un mare di incognite. A cominciare dall’assetto civile di Gaza. Davvero è opportuno affidarlo a Tony Blair con l’allure di un Mandato tanto simile a quello con cui Francia e Regno Unito si spartirono il Medio Oriente alla caduta dell’impero ottomano? E chi sarà in grado di disarmare Hamas? Chi farà il gendarme di una Striscia ancora largamente intatta nei suoi sotterranei? Che sarà dell’Anp di Abu Mazen, invitata dall’Egitto al tavolo di Sharm ma con l’incelabile aspetto di un commensale ammesso per decenza alla tavola delle potenze coloniali che decidono per lui? E con quale distorta immaginazione si può pensare che con settantamila morti dopo due anni di rappresaglia israeliana i palestinesi della Striscia riprendano a vivere in pace, senza odio, senza propositi di vendetta? E che ne sarà ora della tanto invocata formula Due popoli-Due Stati che gli accordi di Oslo del 1993 avevano prefigurato ricalcando quella dell’Onu del 1947 con la storica stretta di mano fra il presidente dell’Olp Yasser Arafat e il premier israeliano Yitzhak Rabin, anche se si trattava più di una promessa scritta sulla sabbia che di un vero e proprio accordo politico fra Israele e la controparte palestinese? Netanyahu e la destra religiosa che lo tiene al laccio non la vogliono, gli emiri del Golfo e la Lega Araba la caldeggiano a parole, ma il solo riconoscimento dello Stato palestinese sancito a stragrande maggioranza dall’assemblea generale dell’Onu non basta. “Dopo tanti anni di guerre incessanti e pericoli senza fine, oggi il cielo è sereno, le armi tacciono, le sirene non suonano più e il sole sorge su una Terra Santa finalmente in pace. È l’alba storica di un nuovo Medio Oriente”, ha vaticinato Donald Trump di fronte al Parlamento israeliano. Aggiungendo: “Devi essere un po’ più gentile ora che non sei più in guerra, Bibi”. Ma “Bibi”, che in patria deve affrontare tre distinti processi per frode, corruzione e abuso d’ufficio e all’estero è tuttora passibile di arresto su mandato della Corte Penale Internazionale, non ha troppa voglia di sorridere. Alla cerimonia di ieri a Sharm el-Sheik non c’era. Ufficialmente, per prendere parte a una festa religiosa; di fatto per un interdetto piovutogli sul capo da Recep Tayyp Erdogan, che prima di atterrare sulla località del Mar Rosso sede del vertice aveva annunciato che sarebbe tornato in Turchia se il premier israeliano vi avesse preso parte. Le pressioni degli ultraortodossi a Tel Aviv hanno fatto il resto. Un bel paradosso, quello di Sharm: i due irriducibili nemici - i jihadisti radicali di Hamas che hanno cinicamente speculato sul sangue dei loro fratelli palestinesi e i loro avversari israeliani - non c’erano. Al loro posto, un parterre di figure e mezze figure - quelle europee in primis, senza contare Blair e il genero di Trump Jared Kushner, che hanno ruolo di faccendieri ? che alla fine delle ostilità non hanno dato grande contributo. Ma si sa, la politica è ormai un’arte da intrattenimento, e la spettacolarità per uno come Donald Trump è tutto. A volte può farti guadagnare perfino un Nobel per la Pace. Ma una pace, tardivamente imposta sopra una simile catasta di morti - quelli del 7 ottobre come quelli della Striscia - non è cosa su cui troppo festeggiare. Speriamo solo che regga. E che sia il primo passo per una pace duratura. “Non c’è pace senza giustizia. Nel piano di Trump i palestinesi non hanno voce” Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2025 “Non c’è pace senza giustizia”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commenta così, ai microfoni di Battitori Liberi (Radio Cusano Campus), il piano di pace per Gaza proposto dagli Stati Uniti e firmato ieri pomeriggio a Sharm el Sheikh alla presenza di Donald Trump e di venti leader arabi ed europei, tra cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Assente invece il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che dato forfait. “Oggi è un giorno felice - afferma Noury - perché almeno la parte iniziale di quell’accordo, che riguarda la vita delle persone, è in corso di applicazione: tornano a casa venti ostaggi israeliani, vittime di un crimine di guerra durato due anni, e tornano in libertà numerosi detenuti palestinesi, molti dei quali incarcerati in modo arbitrario. Si fermano le operazioni militari israeliane e arrivano finalmente gli aiuti umanitari. Dopo 24 mesi di sofferenze, non è poco.” Ma avverte: “Questo accordo al momento è solo un cessate il fuoco. Perché sia duraturo occorre inserire, forti e chiare, due parole: diritti umani e giustizia”. Il portavoce di Amnesty sottolinea come il piano lasci fuori proprio la popolazione che più subisce le conseguenze del conflitto: “La popolazione palestinese è tenuta fuori da questo accordo, salvo che si voglia dire, e non è vero, che Hamas la rappresenti. Se le parti restano al riparo dalla giustizia internazionale, che è diventata un problema piuttosto che un’opportunità per fermare l’impunità e per dare giustizia alle vittime, io temo che la prossima puntata possa essere in procinto di essere preparata”. Noury invita anche a non dimenticare la Cisgiordania, “rimasta in ombra” nei negoziati: “Lì continuano i raid militari, gli arresti di massa, le violenze dei coloni che si comportano come un gruppo paramilitare spalleggiato dalle forze di difesa israeliane. Ci sono sgomberi, provocazioni, terreno e acqua sottratti. Quella è Palestina tanto quanto la Striscia di Gaza, e bisogna tenere insieme tutte le cose”. A proposito della definizione di “transumanza” usata da Enrico Mentana al TgLa7 per descrivere l’esodo dei palestinesi, Noury è tranchant: “È un’espressione dispregiativa. Ricordo che all’inizio di ottobre 2023 l’allora ministro della Difesa israeliano Gallant, oggi latitante per la giustizia internazionale, definì i palestinesi ‘animali umani’. Non avrei mai voluto sentire, due anni dopo, parole che richiamano più i movimenti degli animali che delle persone.” Sul ruolo del presidente statunitense, Noury esprime un giudizio ambivalente: “Siamo nelle mani di Trump, e questo per la comunità internazionale non è un buon segno. Gli do atto che ha posto fine al massacro. Alla fine del 2023 c’era stata una tregua fra Israele e Hamas, mediata da Qatar, Egitto e Stati Uniti. Trump non era alla Casa Bianca, c’era Biden, e forse Biden non ha avuto questa forza di persuasione. Questo devo dirlo: dare a Trump quel che è di Trump. Però - aggiunge - non può esserci una sola persona che esercita un potere così autoritario: fare e disfare, convocare e sconvocare, cambiare idea ogni cinque minuti, con un approccio da immobiliarista, per cui dove vede macerie è terreno edificabile.” Noury conclude con una riflessione che riassume la posizione di Amnesty: “Io temo che non possa essere davvero un piano di pace se non riflette quella formula meravigliosa, pronunciata alla fine degli anni Novanta, che diede vita alla Corte Penale Internazionale: non c’è pace senza giustizia. Se oggi, come va di moda, togliamo il ‘non’ iniziale, quella frase perde senso e perde senso anche la pace.” Stati Uniti. In carcere da innocente per 43 anni: viene arrestato dall’Ice una volta libero di Massimo Basile La Repubblica, 14 ottobre 2025 Vedam, trasferitosi dall’India all’Usa quando aveva 9 mesi, era stato condannato all’ergastolo per un omicidio che non ha mai commesso. Liberato la settimana scorsa ha trovato ad attenderlo la polizia anti-migranti che l’ha arrestato per un vecchio ordine di espulsione che risaliva agli anni 80 legato allo spaccio di Lsd. La mattina del 3 ottobre Subramanyam “Subu” Vedam è uscito dal carcere statale di Huntingdon, in Pennsylvania, ha tirato un profondo respiro e pensato che alla fine la vita aveva ritrovato un senso: per più di quarant’anni era stato rinchiuso ingiustamente per un omicidio che non aveva mai commesso. Adesso, a 64 anni, lo attendeva la libertà e una nuova vita. O almeno così pensava, fino a quando ad attenderlo non ha trovato gli agenti dell’Ufficio immigrazione, che lo hanno arrestato per deportarlo in India, il Paese che aveva lasciato con i genitori negli anni cinquanta, quando lui aveva appena nove mesi. Su Vedam c’era un vecchio ordine di espulsione che risaliva agli anni 80 e legato allo spaccio di Lsd. Vedam è stato trasferito al centro di detenzione Ice in Pennsylvania. La famiglia, che si era preparata ad accoglierlo a casa, ha saputo qualche ora dopo che Vedam non sarebbe tornato. Da prigioniero dello Stato era diventato detenuto del governo federale. Il calvario giudiziaria di Vedam era cominciato nell’82, quando venne arrestato per l’omicidio del suo amico, Thomas Kinser, 19 anni, avvenuto nell’80 nella contea di Centre. I pubblici ministeri sostennero che Subu avesse sparato a Kinser con una pistola calibro 25 - arma mai ritrovata - basando il caso su prove considerate da molti analisti non solide. Arrestato nell’82, l’uomo di origine indiana venne condannato l’anno dopo all’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale. Per i successivi 42 anni, Vedam ha sempre sostenuto la propria innocenza. Allo stesso tempo si è comportato come un detenuto modello: si è messo a studiare, e in carcere ha fatto da insegnante a molti detenuti, dando loro la possibilità di ottenere un diploma e cambiare vita, una volta tornati liberi. C’è sempre una seconda possibilità per tutti, diceva. Nel frattempo sperava che un giorno sarebbe toccato anche a lui. Le sue numerose richieste d’appello erano state respinte, fino a quando non si è occupato del suo caso il Pennsylvania Innocence Project, una noprofit che si occupa di difendere persone condannate ingiustamente. Tre anni fa gli avvocati dell’organizzazione hanno scoperto nel fascicolo del procuratore della contea documenti mai rivelati, tra cui un rapporto dell’Fbi e appunti scritti a mano che suggerivano che il foro di proiettile nel cranio di Kinser fosse troppo piccolo per essere stato causato da un proiettile calibro 25. Quella rivelazione ha fatto crollare l’intera teoria dell’accusa. Tre mesi fa il giudice Jonathan Grine ha stabilito che il materiale nascosto costituiva una violazione costituzionale del giusto processo. “Se quelle prove fossero state disponibili all’epoca”, ha scritto nella sentenza, “ci sarebbe stata una ragionevole probabilità che il verdetto della giuria fosse diverso”. A settembre il procuratore distrettuale Bernie Cantorna ha archiviato in modo definitivo l’accusa di omicidio, dichiarando che un nuovo processo sarebbe stato “impossibile e ingiusto”. Vedam aveva già stabilito un triste record: con 42 anni passati in cella era diventato la persona innocente rimasta più a lungo in carcere nella storia della Pennsylvania, e una delle detenzioni più lunghe negli Stati Uniti. Ma la libertà si è rivelata una beffa. L’Ice, impugnando un vecchio decreto di espulsione legato a una precedente condanna per droga, che risaliva al tempo in cui Vedam era un ragazzo, ha confermato che l’uomo verrà sottoposto a procedura di espulsione. La famiglia ha spiegato che Vedam rischia di venire mandato in un Paese che non conosce, avendolo lasciato quando aveva pochi mesi, e di non avere alcun legame, perché nel frattempo tutti i suoi parenti sono morti, mentre il resto della famiglia vive in America. Il finale della storia resta incerto, perché il governo federale ha mostrato in passato di muoversi con crudeltà verso gli immigrati considerati illegali. La scelta sarà tra legge o umanità, considerando che lo Stato ha un grosso debito verso quest’uomo. I legali di Vedam hanno fatto ricorso. Il governo ha tempo fino al 24 ottobre per dare una risposta. “Non so se abbiamo aspettative - ha confessato la nipote, Zoe Miller Vedom - ma sicuramente abbiamo speranza”.