Nordio: con me mai toghe sottomesse. Ma i magistrati di Area: lotta per il No di Conchita Sannino La Repubblica, 13 ottobre 2025 Al congresso delle toghe la platea rumoreggia alle parole del Guardasigilli. L’opposizione al governo “Basta usare la clava”. Campagna sul referendum. Prima lo scontro a distanza, il più diretto sul tema giustizia, tra il ministro Nordio e la segretaria del Pd Schlein: il Guardasigilli che si riscopre conciliante e chiede alle toghe “non gettatevi nello scontro politico, non facciamone uno scontro frontale”, e la segretaria che replica secca “proprio da voi l’appello? Proprio voi che usate la clava per delegittimare i magistrati e scardinarne l’autonomia”. Poi ecco il resto. Gli altri leader Conte e Magi che mettono in luce “gli aspetti liberticidi e antidemocratici di questa riforma”, delle “altre norme scritte solo per colpire gli avversari”, “l’insofferenza verso le magistrature, anche quelle europee”. Ma quello che resta, di questo quinto congresso di Area, le toghe progressiste riunite a Genova nell’autunno più caldo della magistratura italiana, è il fossato ormai scavato con il governo. E la determinazione a gettarsi nella lotta, altro che passo indietro. Non dovremmo partecipare al dibattito, parlare con la gente? Al contrario, è il senso del lungo weekend di interventi e confronti, pur nei toni tesi ma composti. Messaggio che Area condivide con i vertici di Anm, Parodi e Maruotti, e che è sintetizzato in una delle analisi più applaudite al teatro della Tosse, firmata Giuseppe Santalucia: “C’è un ritorno preoccupante della ragion di Stato. Il tentativo di ridimensionare il diritto. Dicono: non fatene una contrapposizione politica? Ma cosa c’è di più politico di un testo blindato che cambia la Costituzione? Dicono: perderete a fare dissenso pubblico. Cosa c’è di meglio che riconquistare una legittimazione forte con la nostra comunità?”. Avanti tutta, quindi: obiettivo referendum. Eppure l’esortazione del ministro della Giustizia, collegato da Lipari, partiva col piede giusto: “Mi preoccupa la chiamata alle armi, ma lo dico a tutti”, sottinteso ‘anche ai miei’, anzi “Meloni mi ha garantito che non ci sarà connotazione politica”. Vuole rassicurare: “finché ci sarò io, con questa riforma non esisterà un pm sottoposto al potere politico”, e la sala la prende male. Rumoreggiano, voci: “finché c’è lui?”, “il sistema democratico deve reggere per il futuro!”, “chi cambia la Costituzione pensa al biennio e chi se ne frega”. Sarà Schlein, dal palco, a picchiare sulla riforma che prevede la separazione delle carriere tra pm e giudici, con i due Csm e il sorteggio per i suoi membri. “I veri obiettivi sono altri: delegittimazione a suon di insulti ai giudici, minare l’indipendenza e l’autonomia di tutte le toghe, incidere sulle garanzie dei cittadini”. Conte, subito prima, aveva messo nel mirino anche la proposta di legge sul conflitto di interessi “per escludere dai lavori in commissione antimafia due politici e giudici ‘nemici’ come Cafiero de Raho e Scarpinato, segnali inquietanti e norme liberticide”. Sul palco anche l’adesione di Mi, con il procuratore di Crotone, Domenico Guarascio: “Vengo da un percorso diverso, ma questa riforma fa del male ai cittadini, e all’equilibrio tra i poteri, l’unità è doverosa”. Forti anche i toni dell’ex togato del Csm, Giuseppe Cascini: “Questa riforma è una scatola vuota, con uno slogan grande: spezzare le reni ai magistrati”. Si alternano i due laici del Csm, Giuffré (area FdI) che ribadisce il suo sì alla separazione, e Carbone (da Iv), che è duro contro il governo, voterà no e si lancia: “Vinceremo questo referendum” (con gesti indicibili in sala). In prima fila ecco anche Raffaele Piccirillo, ex capo di gabinetto della ministra Cartabia, toga contro la quale aveva inveito Nordio. “Qui è in discussione una conquista del secondo Novecento: il concetto che contro una legge ingiusta si può e si deve alzare la testa”. Magistratura e libera informazione sotto attacco: difesa comune attraverso la Costituzione di Alberto Ambrogi* giustiziainsieme.it, 13 ottobre 2025 Parto da due parole che ci accomunano e ci sono care. Indipendenza e autonomia. Le chiediamo anche noi come sindacato delle giornaliste e dei giornalisti della Rai per la nostra azienda. Le chiediamo da anni, con l’alternarsi di governi di ogni colore. Chiediamo che la politica stia fuori dalla Rai e non decida nomine e promozioni come avviene oggi. Ora siamo meno soli perché l’8 agosto scorso è entrato in vigore l’European Media Freedom Act che impone ai servizi pubblici degli stati membri, indipendenza dai Governi di turno e certezza di risorse. Lo abbiamo ricordato in un comunicato sindacale letto in tutti i tg Rai quel giorno, l’8 agosto. Sapete cosa hanno fatto i dirigenti della Rai nominati dal Governo? Si sono sentiti in dovere di rispondere al posto di Palazzo Chigi. E nella replica che hanno ascoltato tutti i telespettatori hanno avuto il coraggio di dire che Usigrai lede l’immagine e la reputazione della Rai e la dignità professionale dei colleghi. Nella mentalità di queste persone ricordare che è entrato in vigore un regolamento europeo che non è applicato in Italia significa ledere immagine e reputazione. Del resto è chiaro. Chi critica vuole male al Paese. Bisogna colpire sistematicamente e neutralizzare ogni voce critica. Lo abbiamo visto anche per la cosiddetta Riforma Nordio. Sono state minacciate pubblicamente dal Ministro della Giustizia sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati che sono intervenuti nel dibattito pubblico. Guardate qui non è questione idee politiche, ma di onestà intellettuale. Anche l’ultimo cronista come me capisce benissimo che questa legge non risolve nemmeno uno dei problemi atavici della Giustizia. Chiunque abbia seguito almeno una inaugurazione dell’anno giudiziario sa bene che i passaggi di funzione da requirente a giudicante si contano sulle dita di una mano, chiunque segua la cronaca giudiziaria sa che ogni giorno, più volte al giorno, un Giudice ribalta le tesi di un Pm. Qui c’è solo la volontà di questo Governo di colpire la Magistratura, indebolirla e ridurla al silenzio. Addirittura, cancellare il diritto di eleggere i propri rappresentanti. Viene il dubbio che faccia tutto parte di un disegno più ampio. Penso al Decreto Sicurezza, penso diritto di critica e al diritto di cronaca oggi sempre più indeboliti. Un intero partito, il partito della Presidente del Consiglio, che querela un programma di inchiesta come Report. La seconda carica dello stato che sulla Rai in prima serata definisce i giornalisti di Report “calunniatori serali” e li querela (ennesima richiesta archiviata). Le querele bavaglio restano una piaga per i giornalisti: fai un servizio, un articolo che non mi piace? Ti querelo e ti chiedo un risarcimento milionario. Il Parlamento Europeo nel febbraio 2024 ha approvato la direttiva anti SLAPP per la protezione della libertà di espressione e della partecipazione pubblica di giornalisti, attivisti e whistleblower ma ancora quella direttiva non è stata trasposta nel nostro ordinamento. E così chi vuole intimorire e imbavagliare i giornalisti è libero di farlo. Ma anche altri Governi, penso al cosiddetto “Governo dei migliori” ci hanno regalato riforme meno nefaste per la Magistratura, ma che colpiscono il diritto dei cittadini ad essere informati, che discende dall’articolo 21 della Costituzione. Su tutte la riforma Cartabia con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza che dal nostro punto di vista ha creato danni incalcolabili. Peraltro, un recepimento che è andato in una direzione opposta rispetto a quella pensata dal legislatore, perché quella direttiva europea richiama più volte la necessità di salvaguardare la libertà di stampa e dei media in nome dell’interesse pubblico. Abbiamo decine di casi di notizie censurate (il più eclatante un femminicidio a Padova nell’agosto del 2023, questa settimana una violenza sessuale ai danni di una studentessa universitaria a Pavia), ogni giorno riceviamo dalle Forze di Polizia comunicati relativi a fatti avvenuti giorni o addirittura mesi prima. A volte perché i comunicati erano in attesa di approvazione da parte del Procuratore capo. Le persone vengono arrestate, per fatti rilevanti e di interesse pubblico, e a volte non si viene a sapere. Ma questa è tutela della presunzione di innocenza o censura di Stato? Riceviamo comunicati stampa surreali dove nemmeno vengono citati, non dico i nomi delle persone indagate, non dico quelli delle persone destinatarie di misure cautelari, ma nemmeno le località dove avvengono i reati o dove vengono eseguite le ordinanze. “La riforma Cartabia ha introdotto il concetto di velina di regime”. Non lo dico io. Lo ha detto in un convegno organizzato da Usigrai sul tema, nel febbraio del 2022, l’allora Procuratore facente funzione di Milano Riccardo Targetti. Di certo non un pericoloso sovversivo. Che sia un Procuratore capo a dover decidere cosa dia notizia o meno non è consono a un paese civile. E trovo pericoloso che questo potere sia concentrato nelle mani di una sola figura istituzionale. Poi il combinato disposto con l’emendamento Costa e il divieto di pubblicare estratti delle ordinanze di custodia cautelare è veramente la ricetta perfetta per annichilire la libertà di informazione. L’impressione è che si vogliano colpire tutti i poteri di controllo. Accade con il sistema giudiziario con l’obiettivo di portare i pubblici ministeri sotto il controllo del Governo. Accade con l’informazione, con il servizio pubblico radiotelevisivo di cui il Governo vuole continuare a controllare nomine e quindi notizie. Ma non lo permetteremo. Quest’anno anche l’Usigrai, sindacato di base della Federazione nazionale della stampa, ha celebrato il proprio congresso. Abbiamo scelto tre parole: solidarietà, libertà, diritti. Con un sottotitolo “di sana e robusta Costituzione”, ovviamente con la C maiuscola. Dobbiamo continuare ogni giorno a lottare per difendere la nostra Costituzione antifascista, antirazzista, solidale e pacifista. *Usigrai Da penalista vedo quanta distanza c’è tra i diritti costituzionalmente garantiti e la realtà di Davide Grassi* Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2025 La promessa di riforme della giustizia penale è un cavallo di battaglia dei partiti e dei movimenti politici ed è un argomento che sta particolarmente a cuore ad ogni governo in carica. Quello che non tutti sanno è quanto queste riforme, spesso ritenute una svolta epocale, incidano realmente sull’effettivo funzionamento della giustizia. Prendiamo ad esempio la riforma Cartabia: valorizzazione dei riti alternativi, riduzione dei tempi del processo, misure sostitutive alla detenzione per favorire il reinserimento sociale. Tutti argomenti che avrebbero la funzione di snellire la burocrazia nei tribunali e nelle procure. Ma in realtà, per chi trascorre la maggior parte del tempo nei corridoi delle aule di tribunale non è così. Rimangono i rinvii lunghi, gli appelli fissati a distanza di anni, gli uffici giudiziari sotto organico, gli imputati in attesa di giudizio per anni, le famiglie in attesa di giustizia per molto tempo. In campagna elettorale si cavalca il giustizialismo e il garantismo a seconda della convenienza e delle richieste dell’elettorato. Da una parte sostegno alla “tolleranza zero” per i reati contro la persona e il patrimonio; dall’altra, valorizzazione della presunzione di non colpevolezza e attenuazione delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione soprattutto se, e quando, un fatto che ha rilevanza penale coinvolge una personalità politica. Nella veste di avvocato penalista percepisco ogni giorno quanto cresca la distanza tra i diritti costituzionalmente garantiti e quello che accade nella prassi. La giustizia non sempre è uguale per tutti. La presunzione di innocenza diviene un principio astratto quando il nome dell’indagato viene sbattuto sui giornali o quando una misura cautelare diventa lo strumento per anticipare l’espiazione della pena. È una condanna a vita, comunque vada a finire. *Avvocato, podcaster, scrittore “Occorre una magistratura autonoma non autoreferenziale che tuteli la dignità dell’uomo” di Marcella Giustra reggiotoday.it, 13 ottobre 2025 Tra i timori per l’indipendenza della magistratura e le richieste di maggiore efficienza, il confronto resta acceso. Una vicenda complessa che divide il paese con il fronte dei “no” che teme ricadute negative sull’indipendenza della magistratura e sull’equilibrio tra i poteri dello Stato e il fronte del “si” che sostiene la necessità di un cambiamento. A intervenire nel dibattito pubblico è questa volta è Luigi Tuccio, avvocato di lungo corso. Avvocato Tuccio, Lei si è espresso favorevolmente sulla riforma della giustizia. Quali sono, a suo parere, i punti di forza principali di questa riforma? E perché è così temuta? “Il tema della riforma della giustizia è stata per lunghi anni al centro del dibattito politico e rappresenta un necessario passaggio istituzionale finalizzato a rafforzare il senso dello Stato, in capo ai cittadini, nonché il rispetto verso la magistratura, sempre sollecitata a garantire una giustizia snella, efficace, trasparente e credibile. Non ritengo possa essere temuta dai cittadini; semmai solo da quella parte della magistratura che ritiene che la riforma possa limitare i poteri delle correnti. Invero è una grande occasione perché garantirà agli stessi magistrati maggiore libertà di azione e di pensiero dai condizionamenti interni”. Uno dei punti più discussi è la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. Perché secondo lei rappresenta un passo avanti? “L’esigenza alla quale è chiamata la riforma e in particolare il profilo della separazione delle carriere, è quello di potere garantire il principio di terzietà e di imparzialità in capo al giudice, al fine di garantire il giusto processo previsto dall’art.111 della Costituzione. Imprescindibile per tale scopo è quello di mettere sullo stesso piano accusa e difesa. Appare inoltre evidente come un magistrato, “uomo” prima di tutto, incline culturalmente a sostenere l’accusa e la piena colpevolezza del suo imputato, possa avere la capacità intellettuale di diventare super partes in una fase successiva della sua carriera. È esercizio possibile, ma raro ai tempi moderni. Il cittadino ha diritto di sentirsi pienamente garantito nel giudizio da un magistrato libero, che non rischi di essere sollecitato foss’altro per il rapporto corporativo colleganza e non solo culturale”. Sulla vicenda, come sa, si è aperto un acceso dibattito che vede contrari i magistrati che temono che la riforma possa indebolire l’indipendenza della magistratura. Cosa risponde a questa critica? “La critica è comprensibile in quanto il rischio che la separazione delle carriere possa indebolire l’indipendenza del pubblico mistero ed evitare che possa essere sollecitato da altri poteri dello Stato, quale quello esecutivo; tuttavia occorre evidenziare, soprattutto negli ultimi anni, come il potere giudiziario abbia soventemente influito sul potere esecutivo, condizionando l’agibilità politica amministrativa, attraverso quelli che sono stati provvedimenti giudiziali in capo a soggetti eletti, limitandone le attività istituzionali, salvo essere successivamente assolti per non avere commesso il fatto”. Un altro nodo è la responsabilità civile dei magistrati. Alcuni sostengono che sia una forma di pressione inaccettabile. Lei come la vede? “Credo sia una necessità di civiltà giuridica, quella di garantire il cittadino dagli errori della Magistratura, naturalmente limitatamente ai casi di colpa grave e dolo, esattamente come accade per tutte le altre professioni”. Parliamo dei tempi della giustizia. La riforma promette processi più rapidi. Secondo lei sarà davvero così? “Credo molto nella giustizia deflattiva e negli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie come la mediazione civile nonché la risoluzione di una nutrita componente di fattispecie penali attraverso il sistema risarcitorio. Tutto ciò può contribuire una maggiore snellezza dei procedimenti e a una deburocratizzazione del sistema giudiziario”. Dal punto di vista dell’avvocatura, questa riforma offre vantaggi concreti per i cittadini e per chi lavora nella giustizia? “Tutto ciò che snellisce le attività degli operatori del diritto, agevola la giustizia e offre vantaggi dei cittadini”. Se potesse proporre un miglioramento o un’aggiunta alla riforma, cosa suggerirebbe? “Tre cose: il mondo dell’avvocatura sta subendo una gravissima crisi eduna notevole cancellazione dagli albi. Esistono avvocati con esperienza ultra ventennale, con poco lavoro che potrebbero maggiormente coadiuvare la magistratura; questi potrebbero essere coinvolti, come già avvenuto nelle sezioni stralcio e con Got per l’ulteriore riduzione del carico dei ruoli. È innegabile che i magistrati, in molti casi, detengano le sorti della vita dei cittadini e dei propri familiari, attraverso lo strumento della custodia cautelare e dei sequestri patrimoniali, che spesso vengono esercitati con estrema disinvoltura da fare dubitare ai cittadini di avere dinanzi a sé un magistrato sereno. Credo che sottoporre magistrati periodicamente a test psicoattitudinali e narcotest, come avviene per i piloti d’aereo o altre professioni pericolose, garantisca maggiormente il cittadino e lo stesso magistrato nell’esercizio della sua delicatissima funzione. La spettacolarizzazione della giustizia troppe volte ha mortificato e cambiato la vita di molti cittadini, poi ritenuti innocenti, stante anche il poco controllo sulla fuga di notizia e sulla tenuta della garanzia del diritto all’oblio attraverso la cancellazione dei dati dai sistemi informatici e allora credo che l’anonimato dell’ufficio di procura il divieto dei magistrati di partecipare a trasmissioni televisive, limitando la descrizione dell’operazione giudiziaria alla sola conferenza stampa, possa continuare a garantire alla magistratura la dignità di cui si è sempre connotata. La custodia cautelare e i sequestri patrimoniali dovrebbero, inoltre essere applicati soltanto a casi eclatanti e sotto rigidissima interpretazione normativa e studio dei singoli casi... Occorre lavorare certamente per una magistratura autonoma, ma non autoreferenziale, libera, forte ma responsabile e che abbia quale primario interesse la tutela della dignità dell’Uomo, delle sue libertà e garanzie costituzionali”. Messa alla prova e domiciliari sono compatibili ildiritto.it, 13 ottobre 2025 I due istituti, chiarisce la Cassazione, possono coesistere ed anzi ammesse tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni. La messa alla prova non è impedita dalla mera circostanza che la persona sia ai domiciliari, in quanto le due misure in linea di massima sono compatibili. Questo in sintesi quanto affermato dalla prima sezione penale della Cassazione con sentenza n. 41185/2024. Nella vicenda giunta all’attenzione della S.C., un detenuto era autorizzato dal magistrato di sorveglianza di Catania ad assentarsi dal domicilio, due giorni a settimana, per svolgere, in relazione ad un processo penale pendente a suo carico, il programma di messa alla prova. In costanza di esperimento sopraggiungeva il provvedimento adottato d’ufficio, con il quale il magistrato di sorveglianza dava atto della diversità ontologica esistente tra la detenzione domiciliare e la sospensione del procedimento con messa alla prova, riteneva l’impossibilità di applicazione congiunta dei due regimi (dovendo il secondo essere postergato alla conclusione del primo) e revocava le autorizzazioni già concesse. L’uomo, perciò, ricorreva innanzi al Palazzaccio con il ministero del suo difensore di fiducia. Nell’unico motivo deduceva l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, e processuale penale, sostenendo non esservi alcuna rigida preclusione alla concessione della messa alla prova in pendenza di una misura alternativa alla detenzione e rimarcando l’assenza di circostanze sopravvenute, ostative al mantenimento delle autorizzazioni già concesse. La Cassazione concorda. “L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, esteso dalla legge 28 aprile 2014, n. 67, agli imputati maggiorenni - spiegano infatti i giudici di legittimità - si caratterizza quale modalità alternativa di definizione del procedimento penale, attivabile nella fase delle indagini preliminari o nei prodromi dell’udienza preliminare o del giudizio, mediante la quale è possibile pervenire, in presenza di determinati presupposti normativi, ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato all’esito di un periodo di prova, destinato a saggiare l’avvenuto reinserimento sociale del condannato”. Si tratta, aggiungono, “di un meccanismo che, su base consensuale e in funzione della riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, innesta nel procedimento una vera e propria fase incidentale ni cui si svolge l’esperimento trattamentale, il cui esito positivo determina l’effetto estintivo”. L’istituto riveste una portata rieducativa e afflittiva al tempo stesso, in quanto l’esperimento è accompagnato, tra l’altro, dall’obbligo di prestare lavoro di pubblica utilità, nonché dall’imposizione di prescrizioni, concordate all’atto dell’ammissione al beneficio e modulate sullo schema dell’affidamento in prova al servizio sociale, incidenti in maniera significativa, nel corso del procedimento penale, sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto (cfr. Cass. Sez. U, n. 14840 del 27/10/2022). L’art. 298 cod. proc. pen. regola il concorso di titoli esecutivi e misure cautelari processuali. Tale disposizione, nel suo comma 1, risolve l’interferenza tra ordine di carcerazione e cautela processuale, accordando rilievo poziore al primo, salvo che gli effetti della misura cautelare disposta siano compatibili con l’espiazione della pena. “In base al suo comma 2, è da ritenere viceversa possibile, in linea di principio - proseguono i giudici - la contestuale esecuzione della misura alternativa alla detenzione e di una misura cautelare, dovendosi poi solo verificare, in concreto, avuto riguardo alle limitazioni connaturali alle due misure anzidette, l’effettiva compatibilità fra l’una e l’altra, nel rispetto, dalla legge ritenuto preminente, della misura cautelare”. Pertanto, “la natura di misura endoprocessuale, sostanzialmente limitatrice della libertà personale, che, come osservato, deve essere riconosciuta alla messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen., rende analogicamente applicabile l’art. 298, comma 2, cod. proc. pen.” La coesistenza di una misura alternativa alla detenzione, anche restrittivamente conformata, quale la detenzione domiciliare, con il regime della messa alla prova, anteriormente o successivamente disposta, “non solo, dunque, non è da escludere in linea di principio, ma deve essere ammessa tutte le volte in cui risulti possibile armonizzare le relative prescrizioni”. In materia di detenzione domiciliare, spiegano infine dal Palazzaccio, “il condannato può essere autorizzato a lasciare il domicilio non solo per il soddisfacimento delle proprie indispensabili esigenze di vita, o per svolgere l’attività lavorativa necessaria per il sostentamento, a norma dell’art. 284, comma 3, cod. proc. pen., ma per ogni diversa esigenza connessa agli interventi del servizio sociale, anche relativi ad una procedura giudiziaria diversa da quella esecutiva in atto, o, più in generale, per altre finalità di giustizia penale; le prescrizioni della detenzione domiciliare possono essere, a tal fine, sempre modificate dal magistrato di sorveglianza, come consentito dall’art. 47-ter, comma 4, Ord. pen.”. Il criterio, dunque, che deve orientare la discrezionalità di quest’ultimo organo giudiziario, e che funge da limite esclusivo alla concessione di tali autorizzazioni, “è che quest’ultima non alimenti realmente il pericolo che il condannato commetta, suo tramite, altri reati, essendo la detenzione domiciliare costruita sul presupposto che la misura risulti idonea a scongiurare la recidiva delittuosa”. La decisione - Pertanto, il provvedimento impugnato non è conforme agli esposti principi di diritto, poichè muove dal presupposto errato dell’ontologica inconciliabilità tra le misure giudiziarie di causa, e deve essere annullato senza rinvio. Spese di mantenimento in carcere: illegittimo l’addebito per le lampade da studio di Carmine Paul Alexander Tedesco lexced.com, 13 ottobre 2025 La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza di un Magistrato di Sorveglianza che aveva limitato il rimborso delle spese detenuto per l’elettricità di lampade da studio. La decisione originaria escludeva totalmente tali addebiti, ma l’ordine di ottemperanza aveva concesso un rimborso solo parziale e senza motivazione. La Corte ha stabilito che una motivazione apparente equivale a una violazione di legge, rinviando per una nuova valutazione. Il percorso di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti passa anche attraverso lo studio. Ma chi paga i costi accessori, come l’elettricità per una lampada? Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 46308/2024) ha fatto luce sulla questione delle spese detenuto, stabilendo un principio fondamentale: l’amministrazione penitenziaria non può addebitare al detenuto studente i costi per l’energia elettrica delle lampade necessarie per studiare. Questo caso evidenzia non solo la tutela dei diritti dei detenuti, ma anche l’importanza della motivazione nei provvedimenti giudiziari. Un detenuto, impegnato in un percorso di studi, aveva ottenuto dal Magistrato di Sorveglianza un’ordinanza che escludeva l’addebito dei costi per l’energia elettrica consumata da due lampade (una da lettura e una da scrivania) fornitegli per motivi di studio. L’ordinanza originaria del 19 marzo 2024 accoglieva pienamente la sua richiesta, stabilendo che tali costi non dovevano essere recuperati nei suoi confronti. Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria si era conformata solo in parte a questa decisione. Pur interrompendo gli addebiti dal mese di maggio 2024, aveva già trattenuto delle somme per il periodo compreso tra il 15 gennaio e tutto aprile 2024. Di fronte a questa esecuzione parziale, il detenuto ha avviato un giudizio di ottemperanza. Il Magistrato di Sorveglianza, con una nuova ordinanza del 25 giugno 2024, ha però ordinato la restituzione delle somme relative al solo mese di aprile 2024, senza fornire alcuna spiegazione per l’esclusione dei mesi precedenti. È contro questa decisione, palesemente illogica e immotivata, che il detenuto ha proposto ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza e rinviando il caso per un nuovo giudizio. Il punto centrale della decisione è la violazione di legge derivante da una “motivazione apparente”. La Cassazione ha osservato che il provvedimento originario del 19 marzo 2024 aveva accolto integralmente la richiesta del detenuto, senza porre limiti temporali. Pertanto, l’ordinanza successiva, emessa in sede di ottemperanza, avrebbe dovuto garantire la piena esecuzione di quella decisione, ordinando la restituzione di tutte le somme indebitamente trattenute dal 15 gennaio 2024. Limitare il rimborso al solo mese di aprile, senza spiegare il perché, ha reso la motivazione del giudice meramente apparente, cioè esistente solo in apparenza ma priva di una reale base logico-giuridica. Questo vizio, secondo la Corte, equivale a una totale assenza di motivazione e costituisce una violazione di legge. Il ragionamento della Cassazione si fonda su due pilastri fondamentali. Il primo riguarda il merito della questione: il principio di risocializzazione del condannato. La normativa penitenziaria, come sottolineato già nella prima ordinanza, incentiva il lavoro e lo studio come strumenti di trattamento. Addebitare al detenuto i costi per l’energia elettrica di una lampada da studio si pone in netto contrasto con questa finalità, creando un ostacolo economico a un diritto fondamentale per il suo percorso rieducativo. Il secondo pilastro, più tecnico ma altrettanto cruciale, è il dovere di motivazione del giudice. L’articolo 125 del codice di procedura penale impone che ogni provvedimento giurisdizionale sia motivato. Una motivazione è “apparente” quando, pur essendo presente testualmente, non fornisce una spiegazione concreta e comprensibile del percorso logico seguito dal giudice per arrivare a quella determinata conclusione. Nel caso specifico, il Magistrato non ha spiegato perché il diritto del detenuto al rimborso dovesse iniziare solo da aprile e non da gennaio. Questa omissione ha reso la sua decisione arbitraria e, di conseguenza, illegittima. La sentenza rafforza un principio di civiltà giuridica: il percorso di recupero dei detenuti non può essere ostacolato da oneri economici irragionevoli. Le spese detenuto devono essere attentamente vagliate per non compromettere i diritti fondamentali. La decisione della Cassazione stabilisce che l’Amministrazione Penitenziaria deve dare piena e completa esecuzione ai provvedimenti del giudice che tutelano tali diritti. Inoltre, il caso ribadisce l’importanza cruciale della motivazione come garanzia di giustizia. Un giudice non può limitarsi a decidere, ma deve spiegare il perché della sua scelta in modo chiaro e logico. In assenza di una motivazione solida, la decisione è vulnerabile e può essere annullata, assicurando che ogni atto giudiziario sia il risultato di un ragionamento trasparente e conforme alla legge. “Scappò alla vista della polizia”: negato il risarcimento per gli 8 mesi di carcere ingiusto di Lorenzo Muccioli Il Resto del Carlino, 13 ottobre 2025 La Corte di Cassazione ha respinto l’istanza per ingiusta detenzione presentata da un 31enne rimasto in carcere per 235 giorni con l’accusa di rapina ed estorsione. L’uomo era poi stato assolto dal tribunale. Aveva chiesto un risarcimento per ingiusta detenzione, ma la Cassazione respinge tutto. Protagonista della vicenda è un 31enne originario di Napoli ma residente nel Riminese, che tra il 2020 e il 2021 aveva trascorso 235 giorni (quasi otto mesi) in carcere con l’accusa di rapina aggravata e tentata estorsione. Assolto in seguito dal tribunale, aveva presentato domanda di risarcimento per il periodo trascorso in cella, sostenendo di essere stato privato della libertà ingiustamente. Ma la Suprema Corte non è dello stesso avviso. I fatti risalgono al 31 luglio 2020, quando la polizia interviene nei pressi della filiale ‘CheBanca!’ di via Roma a Rimini. A chiamare gli agenti è un uomo che sostiene di essere stato avvicinato e minacciato dal 31enne, il quale avrebbe tentato di obbligarlo a prelevare del denaro. Alla vista delle divise, il sospettato scappa di corsa, ma viene raggiunto poco dopo. Condotto in questura e interrogato, nega ogni minaccia o violenza ma ammette di aver chiesto soldi alla persona offesa. Nel frattempo l’uomo che lo ha denunciato riferisce un secondo episodio analogo avvenuto pochi giorni prima, il 23 luglio, parlando di richieste insistenti di denaro e tentativi di farsi consegnare i codici del bancomat. Da qui la custodia cautelare, durata quasi otto mesi. Nel giudizio di merito, però, la posizione del 31enne viene rivista: il tribunale ritiene non pienamente attendibili alcune dichiarazioni della persona offesa e lo assolve. Fine della storia? No. Perché la legge prevede che l’assoluzione non comporti automaticamente un indennizzo per ingiusta detenzione. E qui sta il punto centrale della sentenza. La Cassazione conferma infatti la decisione della Corte d’appello di Bologna, secondo cui fu lo stesso 31enne a ingenerare le condizioni del suo arresto, con comportamenti “obiettivamente equivoci e idonei a far intervenire le forze dell’ordine”: in particolare, la fuga alla vista degli agenti e il fatto di non aver fornito spiegazioni chiare sulle sue richieste di denaro. In altre parole: anche se assolto, il suo comportamento ha legittimato l’intervento restrittivo. Di conseguenza, niente indennizzo. Per la Cassazione “non è configurabile nel caso in cui l’interessato abbia tenuto, consapevolmente e volontariamente, una condotta tale da creare una situazione di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria, oppure una condotta informata a negligenza o imprudenza, sì da costituire prevedibile ragione dell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o di mancata revoca di quello già emesso”. Per i giudici cassazionisti “la motivazione della Corte bolognese, né apparente né illogica, risulta conforme all’orientamento giurisprudenziale”. La Cassazione ha inoltre respinto anche le eccezioni difensive sulla gestione delle spese e delle precedenti misure sospese, dichiarandole irrilevanti o assorbite. Il ricorso viene dunque definitivamente respinto, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Sardegna. Nell’Isola 120 detenuti trasferiti da Regina Coeli. Sdr: “Carceri già sovraffollate” rainews.it, 13 ottobre 2025 L’associazione Socialismo diritti e riforme ricorda: “Carico insostenibile anche per le strutture, la cui capienza è già scesa di quasi 2.400 posti letto. Nessuna protesta dalla politica”. Anche i sindacati sono in allarme. “L’arrivo in Sardegna di 120 detenuti dopo il crollo di una parte del tetto di una sezione di Regina Coeli chiama in causa la politica. L’unica cui compete elevare una protesta formale. Eppure non abbiamo sentito alzarsi una voce per contrastare questo assurdo progetto e restituire dignità ai diritti a chi è stato trasferito e a chi vive e lavora nell’isola. Il silenzio rischia di essere interpretato come un assenso all’ennesimo atto di protervia del ministero se non addirittura come una complicità”. Dura dichiarazione di Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha aggiunto: “120 detenuti nelle carceri sarde sono un carico insopportabile per il personale e per le strutture. L’intero sistema è fuori norma costituzionale”. Il presupposto - sottolineano dall’associazione - sta nei numeri forniti da fonti sindacali: “Il segretario dell’Uspp - continua Caligaris - precisa che 60 sono stati allocati tra Bancali e Alghero, 31 a Massama e 26 a Cagliari-Uta. Com’è noto si tratta di istituti abbondantemente oltre i limiti regolamentari. Cagliari-Uta raggiunge il 134,2% di sovraffollamento; Sassari-Bancali 126,2%; Alghero 125% e Oristano 110%.ù Occorre ricordare che in Sardegna la capienza regolamentare è scesa a 2.348 posti perché 231 non sono disponibili (104 a Nuoro, 54 a Oristano, 50 a Is Arenas e 23 a Isili)”. “Il trasferimento massiccio dei detenuti - conclude la presidente di SDR - conferma ancora una volta quanto poco interessi al Ministro Nordio il destino dell’isola e quanto poco peso abbiano avuto non solo il grido di dolore della popolazione per l’imminente arrivo dei 41bis a Uta ma anche l’incontro formale con la Presidente della Regione. Un Ministro sordo di un Governo cieco”. Sicilia. Incontro dei cappellani in preparazione al giubileo dei detenuti chiesedisicilia.org, 13 ottobre 2025 Si è svolto il 9 ottobre 2025 presso l’Hotel Ventura di Caltanissetta l’incontro dei Cappellani delle carceri di Sicilia. Presente l’ispettore generale dei cappellani d’Italia, don Raffaele Grimaldi, i cappellani di Sicilia, le consacrate volontarie nelle carceri siciliane e un buon numero di volontari. Dopo il saluto iniziale, don Raffaele ha presentato i particolari dell’organizzazione del Giubileo dei detenuti che si svolgerà a Roma il 14 dicembre 2025. Ha rappresentato l’apprezzamento del cardinale Fisichella per l’organizzazione dell’ispettorato, che ha voluto far precedere il giubileo da alcuni giorni di preparazione, che si svolgeranno nella città di Sacrofano. In tali giorni sono previsti diversi eventi, tra i quali la proiezione di un cortometraggio sui discorsi e i gesti di papa Francesco a favore dei detenuti, verso i quali ha manifestato una particolare predilezione durante il suo pontificato. Il giorno 14 tutto il gruppo presente a Sacrofano partirà per San Pietro, dove alle ore 10 è prevista la celebrazione eucaristica in basilica, presieduta dal Santo Padre. L’ispettore ha sottolineato che è possibile partecipare al giubileo anche in modo autonomo. Il delegato regionale, don Paolo Giurato, ha presentato i nuovi cappellani di Agrigento e Barcellona, don Salvo e don Josef. Sono poi stati organizzati altri due eventi, uno nazionale, il Convegno dei cappellani, che si svolgerà ad Assisi dal 29 aprile al 2 maggio 2026, e l’altro regionale, la giornata della misericordia che si celebrerà il 10 aprile 2026. L’ispettore ha poi voluto sentire dai cappellani le difficoltà che trovano nell’esercizio del loro ministero pastorale. L’incontro si è concluso con uno scambio di esperienze legate ai particolari territori, non ripetibili in altri contesti, ma dalle quali poter cogliere suggerimenti e prospettive. Treviso. Materassi dati a fuoco, evacuato il carcere minorile La Tribuna, 13 ottobre 2025 L’istituto di pena minorile di Treviso è stato evacuato, nella serata di sabato, in seguito ad un incendio appiccato da un gruppo di giovanissimi detenuti. “La struttura va chiusa, è sovraffollata e non più idonea” dichiara il segretario regionale del sindacato Sappe, Giovanni Viola. L’incendio è divampato intorno alle 20.30 dopo una lite tra due gruppi rivali. Due materassi, uno all’interno di una cella e l’altro in un bagno, sono stato dati alle fiamme producendo una nuvola di fumo irrespirabile che ha costretto gli agenti di polizia ad evacuare momentaneamente la struttura. Sul posto anche i vigili del fuoco e il personale accorso di supporto dal vicino penitenziario. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno. L’incendio arriva dopo una settimana di liti e violenza che ha generato forte tensione all’interno della struttura di via Santa Bona che attualmente ospita 17 detenuti per 12 posti disponibili. I vigili del fuoco hanno terminato di spegnere le fiamme, già in parte domate dal personale con gli estintori. Alcuni agenti sono stati costretti a ricorrere a cure mediche. Una volta areate le celle, i giovani detenuti sono stati fatti rientrare. A scatenare la violenza sono rivalità tra gruppi di ragazzi detenuti, giovanissimi, di età inferiore ai 16 anni. Alcuni sono stati già stati trasferiti in un’altra struttura. Secondo il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria, il problema del sovraffollamento del carcere minorile è oramai esplosivo. “La struttura non è più idonea” commenta Giovanni Viola “il numero dei giovani detenuti è ingestibile così com’è. La struttura va chiusa e vanno trovate altre soluzioni”. A breve aprirà a Rovigo un altro istituto di pena minorile, nel frattempo Treviso soffre. Genova. “A un anno e mezzo nel carcere di Pontedecimo, ferita aperta sulla coscienza” di Marco Lignana La Repubblica, 13 ottobre 2025 Le parole di Fabio Pagani, segretario ligure Uilpa Polizia Penitenziaria, dopo gli arresti di una delle “bande del crack” nei vicoli di Genova: “Una barbarie”. La madre entrata in carcere con la figlia, entrambe saranno trasferite a breve. “Una bambina di un anno e mezzo è finita tra i detenuti nel carcere di Genova Pontedecimo perché sua mamma è stata arrestata. Lo sguardo di quella bambina rappresenta una stilettata al cuore, l’umiliazione della coscienza e la rabbia di essere inerme di fronte a tale inciviltà, faccio un appello ai politici perché questa barbarie dei bambini in carcere abbia immediatamente a cessare”. Le parole sono del segretario regionale della Uilpa Polizia Penitenziaria Fabio Pagani, che definisce “uno strazio” la presenza dei bambini in carcere. Nei prossimi giorni la donna insieme alla bambina saranno trasferite a Torino, nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri. Nel frattempo, la piccola è stata portata nel nido dell’istituto penitenziario femminile del ponente genovese. Proprio la bimba compare in diverse immagini acquisite dalla polizia locale nell’indagine su una delle cosiddette “bande del crack” del centro storico, che venerdì scorso ha portato in carcere 16 persone: 10 sono finite a Marassi, 6 ad Alessandria e una donna, appunto, a Genova Pontedecimo. Perché per i suoi genitori, di nazionalità senegalese, la loro figlia, nata a inizio 2024, non è mai stata un impedimento per un’attività di spaccio che gli inquirenti ritengono “imprenditoriale”. Quando la madre teneva la neonata in braccio con una mano, con l’altra intascava le banconote e poi porgeva le palline di crack ai clienti. A volte, per facilitare l’operazione, posava la piccola sul bancone di un ristorante. Ma capitava anche che la piccola fosse in braccio a chi comprava la droga, addirittura nel momento in cui si nascondeva le palline termosaldate ripiene di crack in bocca. Bergamo. Carcere e giustizia, una realtà con diversi nomi di Luisa Bove chiesadimilano.it, 13 ottobre 2025 Caritas, Cappellanie e Vescovi di Lombardia sono gli artefici del convegno dedicato alla questione penale in regione “tra memoria e futuro”, in programma a Bergamo sabato 18 ottobre. Al centro della riflessione i concetti di tenerezza, dignità, accoglienza, dialogo e speranza. Sono passati 25 anni dall’ultimo convegno “Colpa e pena, una nuova cultura della giustizia”, a cui avevano partecipato l’allora Arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Martini e Luciano Eusebi, professore ordinario di Diritto penale. Ora la Delegazione di Caritas Lombardia, le Cappellanie lombarde e la Conferenza episcopale lombarda organizzano per sabato 18 ottobre alle 9, presso il Cineteatro Boccaleone (via Santa Bartolomea Capitanio 9, Bergamo), un convegno dal titolo “I nomi della giustizia. La questione penale in Lombardia tra memoria e futuro”. L’iniziativa è frutto di un confronto serrato tra i cappellani lombardi e i direttori degli istituti, cui è seguito anche un coinvolgimento dei Vescovi lombarde. “Si è pensato che questo convegno potesse ridire quella parola così importante, sacra, che è “giustizia”, declinata in diverse espressioni - dice don Marco Recalcati, cappellano di San Vittore e delegato regionale delle carceri della Lombardia -. Il nome della giustizia è tenerezza, dignità, accoglienza, dialogo e infine speranza, tema giubilare affidato al Vescovo di Crema, monsignor Daniele Gianotti, delegato Cei per la carità e il carcere”. Il convegno è rivolto in particolare a operatori, cappellani, responsabili Caritas e volontari attivi in ambito penitenziario. Dopo i saluti istituzionali di monsignor Francesco Beschi (Vescovo di Bergamo), Maria Milano (provveditore regionale dell’amministra penitenziaria) e Teresa Mazzotta (direttrice dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna), si entrerà nel vivo del seminario. Isabella Guanzini (filosofa e teologa) affronterà il tema “Giustizia e tenerezza”; Luciano Eusebi parlerà di “dignità”, ripercorrendo alcuni passaggi importanti degli ultimi 25 anni; il tema dell’”accoglienza” sarà oggetto di confronto tra gli operatori delle Caritas lombarde ed Elena Marta, docente di Psicologia sociale e Psicologia di comunità. Invece Isabella Belliboni, vicepresidente dell’associazione Vol.Ca, rifletterà con i cappellani lombardi su “giustizia e dialogo”, quindi passerà la parola a monsignor Gianotti che aprirà alla “speranza”. La mattinata, moderata da Paolo Lambruschi, giornalista di Avvenire, manterrà viva l’idea del carcere come extrema ratio, per cui Martini affermava: “La carcerazione va vista come intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana”. La presenza dei cappellani è preziosa, rappresentano un faro nel buio della detenzione, un riferimento importante per credenti (anche di altre confessioni) e non. Le richieste sono di tre tipi, spiega don Recalcati: aiuti materiali, cui rispondono soprattutto le associazioni; ascolto del loro “mondo interiore, legato alla sofferenza per il reato commesso, alla mancanza della famiglia, alle tensioni inevitabili in carcere; annuncio del Vangelo, con “la scoperta di Dio che apre finestre inaspettate”. “Quella di oggi - conclude il cappellano - è una stagione in cui, a livello civile e anche politico, si fatica a dare risposte per sciogliere alcuni nodi: tutto sembra stantìo, faccio eco al film Aria ferma. Ma noi siamo chiamati a una presenza quotidiana e al coraggio di fare pressione, raccontare, lanciare segnali di denuncia, perché gli strumenti ci sono, senza arrivare ai giornali. Poi ci vuole tempo perché siano recepite all’interno del carcere, però qualche volta l’istituzione prende atto e pone antidoti, anticorpi necessari davanti a certe criticità”. Ascoli Piceno. Un aiuto oltre le sbarre, la San Vincenzo De Paoli forma nuovi volontari di Filippo Ferretti cronachepicene.it, 13 ottobre 2025 Il sistema carcerario è da tempo in difficoltà, da cui emergono espressioni, reazioni e comportamenti da parte dei detenuti che troppo spesso rivelano affanni nella gestione. Per questo motivo, per i casi sempre più emotivamente complessi e numericamente ingestibili, si cerca anche nel nostro territorio di introdurre persone, volti e storie in grado di dare un aiuto a chi è dietro le sbarre. Ecco dunque partire un percorso di formazione per volontari che scelgono di farsi presenza accanto a chi vive la fragilità della prigione. Promossa dalla Società di San Vincenzo De Paoli delle Marche, è un’iniziativa che sposa il sociale, la solidarietà, l’impegno anche civile con il sostegno delle istituzioni locali. L’intento è quello di poter contare su persone che abbiano disponibilità d’animo, competenze tecniche e conoscenza delle regole di vita del carcere. Ecco allora che anche Ascoli, che a Marino del Tronto conta su una delle strutture penitenziarie più complesse d’Italia, viene coinvolta in un progetto che punta a promuovere inclusione, reinserimento e dignità, offrendo strumenti concreti a chi sceglie di camminare accanto a chi vive una simile esperienza, con un’attenzione particolare rivolta ai minori. Un percorso che prevede incontri aperti a volontari, cittadini e operatori sociali che desiderano imparare a relazionarsi con le persone detenute o ex detenute, e a sostenere le loro famiglie. Incontri durante i quali verranno affrontati temi come la devianza minorile, il reinserimento sociale, le misure alternative alla detenzione, l’ascolto empatico e le problematiche legate alla criminalità e alla droga nelle Marche. Il corso di formazione per volontari, oltre ad Ancona e Pesaro, vedrà coinvolta Ascoli con appuntamenti fissati presso la parrocchia San Marcello, iniziando il 25 ottobre con un momento che prevede esercizi pratici e simulazione in merito al colloquio di aiuto. Lo sforzo è di rispondere alla necessità di ampliare la rete di solidarietà e di supporto dentro e fuori le mura grazie ad un colloquio previsto con il counselor Elisabetta Vatielli e l’orientatrice Paola Fares. Secondo gli organizzatori, tra le forme di povertà quella del carcere è forse la più dura, perché alla perdita di ogni riferimento si somma la privazione della libertà, che lascia un segno profondo nella vita delle persone. Un’iniziativa che mira a fare in modo che la libertà autentica per chi è dentro sia non solo quella di uscire da una cella, ma consiste anche nel ritrovare il coraggio di credere in se stessi e nella vita. L’incontro successivo avrà luogo ad Ascoli nella mattinata del prossimo 22 novembre, con esperienze di volontariato vissute dentro e fuori dal carcere. Gli incontri sono riservati a chi ha disponibilità d’animo, competenze tecniche e conoscenza delle regole della vita in prigione, sapendo accogliere senza giudicare: coloro che desiderano dare ascolto e speranza a chi l’ha smarrita, accompagnare detenuti e famiglie nel loro percorso imminente e futuro. Roma. Teatro Rebibbia: la città invisibile di Calvino arriva all’Olimpico vivereroma.org, 13 ottobre 2025 Detenuti e agenti di Rebibbia in scena con uno spettacolo multimediale ispirato a Calvino. Al Teatro Olimpico il 22 ottobre, un viaggio tra memoria e redenzione attraverso l’arte. C’è una città invisibile che prenderà vita sul palco del Teatro Olimpico di Roma il 22 ottobre 2025, alle 11:30: è quella dei detenuti ed ex detenuti di Rebibbia, in uno spettacolo multimediale ispirato all’opera di Italo Calvino. Come può l’arte trasformare le sbarre in parole e i ricordi in redenzione? “Rebibbia: la Città invisibile”, prodotto dall’Associazione Ottava Arte per la regia di Laura Andreini e Francesca Di Giuseppe, coinvolge anche il personale della polizia penitenziaria in un progetto che celebra il 40° anniversario della scomparsa dello scrittore. Sul palco, i veterani del Teatro Libero di Rebibria - Juan Dario Bonetti, Giacomo Silvano, Marcello Lupo e altri - portano in scena i luoghi della memoria infantile: dal Corviale di Roma alle case dei nonni profughi da Sarajevo. “Ogni cosa attorno portava il nome di Itaca”, raccontano, “città ragnatela dalle cui maglie è difficile fuggire”. E mentre sullo schermo appaiono i volti di chi sta ancora scontando la pena, l’ispirazione calviniana diventa un battito sul muro di prigione: “c’è qualcosa che cerca di uscire dal silenzio”. Con la partecipazione straordinaria di Alessandro Marverti e dell’ispettore Cinzia Silvano, lo spettacolo mostra come casa non sia un luogo fisico, ma uno stato mentale da riconoscere e costruire con parole nuove. Dal 2003, il Teatro del Carcere di Rebibbia è un’accademia di spettacolo che ha coinvolto oltre 2000 detenuti e 100.000 spettatori, dimostrando che un “altro carcere” è possibile. Sostenuto dal Ministero della Cultura e dalla Regione Lazio, questo progetto - pensato per favorire la partecipazione degli studenti - è libero e gratuito, con prenotazione necessaria all’indirizzo rebibbiafestival@gmail.com. Per raggiungere il Teatro Olimpico (Piazza Gentile da Fabriano 17), basta la metro A fino a Flaminio e poi il tram 2: un viaggio nella Roma che crede nel potere trasformativo dell’arte. Tutte le informazioni sono disponibili sul sito di Ottava Arte. Forse, uscendo dal teatro, quella città invisibile continuerà a vivere negli occhi di chi l’ha vista: non più prigione, ma promessa di una casa possibile. Cremona. “Coltiviamo legami con l’arte che rieduca”: il progetto di MagicaMusica con i detenuti cremaonline.it, 13 ottobre 2025 “Fragili con l’ombrello”, il musical realizzato dall’Associazione MagicaMusica, finalizzato a stimolare una riflessione collettiva sulla forza della fragilità, ha varcato la soglia della Casa circondariale di Cremona ed è andato in scena nei giorni scorsi, alla presenza di una cinquantina di persone detenute, presso il teatro del carcere. Sul palco, a passi di danza e a suon di note, si sono alternati i detenuti che hanno preso parte al progetto, proposto dall’associazione diretta da Piero Lombardi, volto a far sperimentare loro la moltitudine e la bellezza delle arti praticate dalla realtà associativa soresinese: dalla musica, alla danza, al disegno fino alla pittura e alla scrittura creativa. Le attività sono state coordinate da Elena Gremizzi. Con lei anche Fabrizia Pagotto, per la realizzazione delle scenografie, Piero Lombardi, Gianfranco Dalla Noce e Alessandro Confortini per le attività musicali. “Da circa un mese - spiega Piero Lombardi - abbiamo intrapreso un percorso di scrittura creativa con alcuni detenuti. Durante gli incontri, attraverso le parole, hanno raccontato storie e lasciato spazio alle emozioni, al punto tale che alcune narrazioni dense di valore sono state condivise, attraverso alcuni video, con il pubblico durante lo spettacolo dello scorso 4 ottobre al teatro san Domenico di Crema”. E poi spazio alla danza, alla pittura e alla musica. “Siamo convinti che la possibilità di sperimentare diversi linguaggi, abbia consentito a ciascuna delle persone coinvolte di esprimersi al meglio, nella modalità espressiva più vicina al loro sentire”.Quella condotta non è stata una semplice progettualità a fini educativi: “abbiamo voluto intrattenere con i detenuti un legame autentico” continua Lombardi. “Superando ritrosia, stigma e pregiudizio, la condivisione di esperienze ci ha permesso di offrire loro una connessione con la realtà esterna. Dal canto nostro, abbiamo avuto modo di percepire in modo diverso la realtà carceraria del nostro territorio: non solo un luogo di reclusione, ma anche un luogo di rieducazione, dove ciascuno, a partire dalla propria storia, dalla propria individualità, dai propri errori, può costruire opportunità di ripartenza”. Gli incontri sono stati anche l’occasione di “un vero e proprio scambio epistolare con i nostri musicisti con disabilità. Ecco, quindi, che il confronto di esperienze diverse ha valicato rigidi confini per farci riscoprire l’umanità che ci rende simili”. Il percorso “ha consentito di sperimentare varie forme di arte come veicolo di prossimità - spiega Gremizzi -. Dopo un breve momento di conoscenza, abbiamo dato modo a ciascuno di cantare, ballare, scrivere e dipingere e poi, assecondando le inclinazioni dei protagonisti, abbiamo individuato scrittori, musicisti e ballerini ed in pochi istanti condivisi abbiamo allestito le scenografie e preparato lo spettacolo”. Lo show alterna sketch di cabaret a canzoni di Vanoni, Jannacci, Gaber e Cochi e Renato, a testimonianze video di persone detenute ed ospiti della comunità Il Cuore di Crema. La direttrice reggente della casa circondariale di Cremona, Giulia Antonicelli, ha commentato: “desidero esprimere profonda gratitudine a tutte le autorità e gli operatori che hanno reso e rendono possibile la realizzazione del progetto di Magicamusica, autorizzato dal Superiore Ufficio Dipartimentale. Ogni attività trattamentale rappresenta una preziosa opportunità per la popolazione detenuta, perché veicolo per favorire il rispetto delle regole, l’assunzione di impegni e responsabilità, nonché attività di condivisione e cooperazione”. In questo senso è fondamentale la collaborazione con l’esterno “per sostenere ed arricchire la quotidiana opera di rieducazione, favorendo la diffusione della cultura della legalità e dell’inclusione. Il progetto di MagicaMusica racchiude in sé tutti i paradigmi di una lodevole attività trattamentale: “l’impegno costante dei detenuti, l’intraprendenza nel lavoro di gruppo, la riflessione sulle proprie condotte e la possibilità di guardare oltre, confrontandosi con temi universali di fragilità ed invisibilità sociale”. Attraverso l’arte i detenuti hanno avuto l’occasione di creare “un dialogo con la società esterna, maturando una riflessione condivisa sui temi della fragilità, della disabilità e dell’emarginazione sociale con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di una comunità maggiormente consapevole e solidale. Ci auguriamo che il progetto possa uscire dalle mura dell’istituto portando all’esterno il frutto di un percorso complesso che testimonia il valore della rieducazione attraverso l’arte”. Bari. Un murale di 300 metri tra giustizia e ambiente come simbolo di comunità Corriere del Mezzogiorno, 13 ottobre 2025 L’opera “Murà” è stata realizzata su 300 metri del muro perimetrale del futuro parco della Giustizia di Bari. Il progetto dell’Agenzia del Demanio. Trecento metri dedicati ai temi della giustizia, della cultura e dell’ambiente. Un’opera composta da 375 pannelli in alluminio pressato e dipinti con vernici sostenibili. Il murale condiviso “Murà” è stato realizzato da scuole, associazioni e istituti penitenziari lungo il muro perimetrale del futuro parco della Giustizia di Bari. Il progetto, promosso dall’Agenzia del Demanio, in collaborazione con il ministero di Giustizia e il Comune barese, è “una delle opere di street art più significative e partecipate d’Italia, frutto di un percorso che unisce arte, ambiente e comunità”. Il murale è frutto di un percorso creativo partecipato e intergenerazionale che ha coinvolto in vari laboratori artistici oltre 150 persone di ogni età (dagli 8 ai 91 anni) che hanno realizzato i 375 pannelli in alluminio pressato dibond dipinti con vernici offerte da Keim Italia, pigmenti naturali, ecocompatibili, capaci di trattenere lo smog e resistenti agli agenti atmosferici. I laboratori d’arte, organizzati e documentati dagli artisti Chiara Capobianco e Lorenzo Torda, si sono svolti da febbraio a giugno 2025. Ogni gruppo di lavoro ha deciso in autonomia il tema e il titolo dell’opera ispirandosi ai valori della giustizia, della legalità e dell’ambiente, e decorato i pannelli la cui installazione è terminata il 4 ottobre. Così un muro, che presuppone un intervento di divisione e separazione, diventa simbolo di appartenenza. “L’Agenzia del Demanio ha fortemente voluto la realizzazione di questo progetto di street art - ha spiegato Alessandra dal Verme, direttrice dell’Agenzia del Demanio - per comunicare alla cittadinanza, con una narrazione originale, il senso dell’opera che si sta realizzando, un Parco proiettato ai valori della Giustizia, che ospiterà la logistica della giustizia a Bari, ma sarà anche un luogo aperto alla cittadinanza, una connessione tra le zone più interne della città, e la Bari che si affaccia al mare, attraverso un corridoio verde”. Marcia della Pace, un fiume di gente come nel 2001. Parolin: giustizia per tutti i popoli di Gianluigi Basilietti Il Sole 24 Ore, 13 ottobre 2025 È una marcia Perugi-Assisi “che non si vedeva dal 2001 quando ci fu pochi giorni dopo l’invasione dell’Afghanistan seguita all’attacco alle Torri gemelle” quella di oggi. A dirlo è Flavio Lotti, da sempre organizzatore dell’evento. “È un fiume di gente, 14 chilometri ininterrotti da Perugia ad Assisi” ha aggiunto. “Tutti quelli che amano la pace non possono che essere felici di questa partecipazione” ha sottolineato Lotti. Parolin: “Sia fatta giustizia per tutti i popoli” - “Continuiamo a ritenere che quella dei due Stati per due popoli sia la formula che può aiutare a risolvere i problemi e i rapporti tra ebrei e palestinesi ed è perfettamente in linea con quando noi abbiamo sempre chiesto”: lo ha affermato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, parlando ad Assisi dove ha per presieduto la celebrazione eucaristica in occasione della memoria liturgica di San Carlo Acutis. Parolin ha detto che “non ci sarà la vera pace senza che sia fatta giustizia per tutti i popoli”, perché “come ha sempre detto la Chiesa a fondamento della pace deve esserci la giustizia”. Albanese: “Nel piano di pace per Gaza ci sono troppi assenti” - “Nel piano di pace proposto da Trump e Netanyau ci sono troppi assenti. Anzitutto i palestinesi, cooptati da tecnocrati. Dovè sono?”: lo ha detto Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu sui territori palestinesi occupati, a Perugia dove partecipa alla Marcia della pace. “Dove è la Cisgiordania e dove è la giustizia?” ha aggiunto. “Quello che è stato fatto a Gaza - ha detto ancora Albanese - non è un l’esito terremoto ma frutto di un piano intenzionale voluto ed eseguito al fine di distruggerla. Tutto questo non c’è. Si parla di una ricostruzione sulle macerie e sulle fosse comuni ma non di ricucire lo strappo fatto all’anima di quel popolo. Sono molto preoccupata”. Albanese ha quindi commentato le recenti parole di Giorgia Meloni secondo la quale l’accordo è merito di Trump e non delle manifestazioni della Cgil o di Francesca Albanese. “Ciò di cui parla lei sì, questo accordo è merito di Trump” la risposta della relatrice Onu. “Chi conosce però la Palestina - ha aggiunto - sa che la pace senza diritti non funziona. Certo quello che abbiamo oggi dopo due anni di genocidio è merito di Trump, ma secondo me non porterà alla pace se si intende per la fine della violenza. Non succederà”. Della Marcia, Albanese ha detto che “è bella, con tanta gente e consapevole”. “Non credo di avere sentito mai in questa necessità di esserci, con il corpo e con l’anima. La pace non è assenza di guerra ma di godimento di diritti, di libertà e giustizia. Quando si commettono dei crimini si paga. È questa la pace che chiede la Marcia”. Sindaca di Perugia: “Alla marcia un mare che difende l’umanità” - “È un’immagine stupenda questo mare che difende l’umanità. Grazie Perugia, non sei stata mai così bella”: la sindaca Vittoria Ferdinandi ha salutato così i partecipanti alla Marcia Perugia-Assisi. Con lei anche i componenti della giunta, la presidente del Consiglio comunale Elena Ranfa e numerosi consiglieri. “Voglio ringraziare - ha continuato la sindaca - tutte le persone che oggi si sono svegliate all’alba per raggiungerci da ogni parte d’Italia, gli studenti che hanno preparato gli striscioni e i volantini, le scuole e le università per questo che è un grande atto di resistenza alla logica della guerra e della disumanità. Grazie dal profondo a voi giovani, coloro che avevamo condannato alle trincee della solitudine, del virtuale, dell’individualismo. Grazie per essere scesi in piazza in queste settimane a ricordarci che sotto le bombe di Gaza stava morendo anche la nostra coscienza collettiva, ferita dall’immobilismo e dalla rassegnazione”. Ferdinandi ha concluso ringraziando “tutte le sindache e i sindaci d’Italia che hanno scelto di essere qui al nostro fianco”. “Noi curiamo la vita che è indispensabile a costruire la pace e il futuro dell’umanità” ha concluso. Padre Fortunato: “I potenti ascoltino i tanti bambini in marcia” - Alla marcia per la pace Perugia-Assisi per la prima volta sono presenti anche tantissimi bambini. “La prima marcia della pace dei bambini e delle bambine ha una partecipazione straordinaria oltre ogni previsione. Se i potenti ascoltassero le parole dei piccoli avremmo un mondo migliore, se pensassero al futuro dei loro figli premerebbero i bottoni della pace e della concordia e non quelli della guerra e dell’odio”, sottolinea padre Enzo Fortunato, il giornalista frate francescano che prende parte alla marcia. L’utopia concreta è costruire giustizia di Donatella Gasperi difesapopolo.it, 13 ottobre 2025 L’architettura del dono e l’impegno civile di chi si dà per giustizia sociale, bellezza condivisa e diritti da difendere. L’utopia del bene è un’opera collettiva e il suo risultato porta giustizia sociale, un concetto legato alla democrazia, alla partecipazione, alla pace e allo sviluppo della società civile. “Tutti e tutte le persone benintenzionate sfidano l’utopia e ammettono che, come il bene e l’amore, anche la giustizia è un compito che si deve conquistare ogni giorno - ci spiegava papa Francesco - C’è un chiaro legame tra la protezione della natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo. Non vi può essere un rinnovamento del nostro rapporto con la natura senza un rinnovamento dell’umanità stessa”. Un tema denso, quella della giustizia sociale, che è alla base dell’azione del volontario anche se “da sempre ci sembra di svuotare l’oceano con un cucchiaino e adesso il cucchiaio appare anche bucato perché tutto il sistema dei diritti su cui si è basata la nostra attività è saltato” racconta con amarezza Raul Pantaleo, “l’architetto di Emergency” che, ascoltando Gino Strada, ha portato il bello negli ospedali delle zone più difficili. Pantaleo coniuga impegno civile e professionale con l’”architettura del noi” che significa architettura come azione di servizio verso il volontariato: “Il mondo del volontariato è la cosa più rivoluzionaria che ci sia in questo momento perché al di fuori della logica del profitto; non misura un’azione attraverso una quantificazione economica e questo riguarda anche il mondo dell’architettura al quale io appartengo. Ho cercato di portare nell’architettura i valori di questa esperienza che nasce dalla militanza, dal volontariato, dall’idea di dono che non vuol dire gratuito: io faccio un volontariato sostenibile, sono cresciuto nel mondo dell’economia solidale, dell’idea che ci possa essere un’economia non rapace come quella in cui viviamo e questa è la cifra del nostro lavoro, che l’architettura è un’azione di servizio, soprattutto di servizio per le persone che ne hanno più bisogno e questa è stata anche la grande scommessa di portare la bellezza anche nei luoghi più difficili grazie alla provocazione di Gino Strada: facciamo ospedali scandalosamente belli e proprio per coloro che ne hanno bisogno. Questo modo di vedere l’architettura parte dalla cultura del dono: la filosofia del nostro studio (Tam Associati, ndr) è dare servizio a chi cerca di immaginare un altro mondo e questo non nasce da una scelta professionale, ma dal fatto di appartenere al mondo del volontariato che è fatto di grandi soddisfazioni ma anche di grande fatica”. Che per fare il volontario ci voglia impegno lo sottolinea anche Elisa Brusegan, presidente dell’Associazione Elisabetta d’Ungheria nata 40 anni fa per volontà delle suore elisabettine e di un gruppo di laici e sacerdoti che, trovandosi di fronte alla evidenza di persone morte sulla strada a Padova, decisero di attivarsi: “Negli anni l’associazione ha un po’ cambiato la sua veste, ma l’obiettivo è quello di sostenere le persone che si trovano in condizioni di marginalità sociale. Gestiamo Casa Elisabetta, un appartamento per uomini senza dimora, evoluzione del dormitorio invernale. Noi lavoriamo soprattutto sulle relazioni e così si crea giustizia sociale senza rendersene conto perché c’è la consapevolezza che siamo tutti uguali, tutti possiamo cadere e certe volte è difficile rialzarsi da soli. Che agiamo per la giustizia sociale lo intuiamo quando ci confrontiamo con altre realtà e capiamo di far parte di un sistema in cui cerchiamo di innescare un cambiamento. Lo facciamo con la gratuità, col sapere che chi è davanti a noi è una persona libera e che sappiamo accoglierla nella misura in cui lei decide per sé quello che noi proponiamo. Il buon Dio ci lascia liberi nelle nostre scelte e questo pensiamo anche noi”. Per Guido Turus, presidente della Fondazione Pizzuto, “la giustizia sociale va coniugata con le altre giustizie, con il rispetto di tantissime altre questioni che stiamo vivendo. Tutte le giustizie vanno tutelate: chi attacca il sistema dei diritti attacca tutti i diritti. Ogni volta in cui noi pensiamo di tutelare i diritti civili senza occuparci del resto, in realtà non li tuteliamo perché questo capitalismo sfrenato si approfitta della natura così come si approfitta dei lavoratori e di tutti. Nel momento in cui c’è un atteggiamento “malato” nei confronti degli altri questo inevitabilmente si ripercuote su tutti; parliamo di giustizia sociale quando parliamo dei migranti climatici, dei loro diritti, e non possiamo pensare di risolvere i loro problemi senza pensare a come risolvere la crisi climatica. La giustizia sociale implica necessariamente un impegno politico, perché come diceva don Milani “non possiamo fare parti uguali tra diversi”, ma dobbiamo creare punti di partenza avvantaggiati per chi ha condizioni di vita differenti, difficili”. E questo lo dice anche la nostra Costituzione: “La politica la fanno anche le associazioni di volontariato e i cittadini - insiste Turus - Parlare di giustizia sociale non vuol dire diamo a tutti gli stessi diritti: è un lavoro attivo, impegnativo, bisogna fare in modo che anche chi è meno uguale degli altri sia messo, con l’impegno della Repubblica, nelle stesse condizioni degli altri. Se oggi pensiamo a Gaza e pensiamo alla giustizia sociale, capiamo che è anche distruzione di un terreno: non possiamo pensare che la distruzione dell’uomo, il negargli diritti fondamentali come l’accesso al cibo, la salute, sia distaccato da quelli ambientali”. La lettura - “Taking Care, progettare il bene comune”, titolava il Padiglione Italia della Biennale di Architettura nel 2016, curato dallo studio Tam Associati (che ha sede a Venezia) grazie alla tenacia del rivendicare un nome collettivo “espressione concreta di un modo diverso di concepire l’architettura intesa come servizio collettivo in equilibrio con il mondo che condividono con altri umani e non-umani”. La vicenda - e molto, molto altro - Raul Pantaleo la racconta nel volume Architetture del noi (edito da Elèuthera, luglio 2025, 136 pagine, 13,30 euro): “Nella sezione “Agire il bene comune” abbiamo portato in mostra la nostra utopia: cinque progetti inediti di cinque dispositivi mobili (container carrabili, moduli standard personalizzati) pensati per cinque associazioni impegnate nel contrasto alla marginalità. Un’idea di fare architettura a partire dai bisogni reali e grazie a un crowdfunding civico, tre dei cinque dispositivi - un ambulatorio mobile realizzato per Emergency, un presidio per l’educazione allo sport pensato per Uisp (Unione italiana sport per tutti) e una?biblioteca mobile?realizzata per Aib (Associazione italiana biblioteche) - sono diventati avamposti di cultura e legalità, giustizia e bellezza agendo nelle periferie più disagiate d’Italia come “semi” di risveglio civico a partire dall’incubatore culturale della Biennale. Questa straordinaria esperienza, realizzata all’interno di una grande istituzione come La Biennale, è stata il coronamento di un lungo percorso verso quella che chiamiamo l’architettura del noi. Il nostro padiglione ha dimostrano come l’architettura, intesa come bene comune, potesse agire anche in contesti in cui normalmente è assente” per realizzare “architetture del noi che fossero rappresentazione di economie non monetarie e che superassero un’ottica individualistica in favore di una visione cooperativa”. Empatia e speranza, la lezione delle nuove generazioni che credono nella giustizia di Silvia Morosi Corriere della Sera, 13 ottobre 2025 Le nuove generazioni credono nel futuro e sono più empatiche e attente al prossimo. Regole, senso di giustizia e sensibilità: punteggi alti per adolescenti e ragazze. Il quadro che emerge dall’ultima rilevazione dell’”Osservatorio Giovani” dell’Istituto Toniolo su un campione di 815 studenti e che sarà presentata il 18 ottobre in Cattolica. Una generazione che, nonostante carichi di ansia e preoccupazioni, continua a credere nel futuro. Manifestando buoni livelli di empatia, speranza e attenzione ai principi morali. È questo il quadro che emerge dall’ultima rilevazione dell’”Osservatorio Giovani” dell’Istituto Toniolo, condotta da Ipsos srl tra il 30 giugno e il 15 luglio su un campione di 815 studenti, residenti in Italia, tra i 14 e i 19 anni. L’indagine sarà presentata a Milano sabato 18 ottobre in occasione di “Parole a Scuola”, la giornata di formazione gratuita dedicata a insegnanti, educatori e genitori, organizzata dall’associazione “Parole O_Stili” in collaborazione con l’Università Cattolica e l’Istituto Toniolo. In particolare, la ricerca mette in luce come i giovani mostrino empatia affettiva (il “sentire con l’altro”, con una media di 3,34 su 5) e empatia cognitiva (il “capire l’altro”, con una media di 3,61). Le ragazze sono quelle che presentano valori più alti sia nell’empatia affettiva (3,44 contro 3,25 dei ragazzi) che in quella cognitiva (3,68 contro 3,53). La speranza - E anche l’età gioca un ruolo: i più giovani (14-16 anni) risultano più empatici dei più grandi. Tra le nuove generazioni, anche la speranza è un sentimento diffuso: sia nella dimensione del pathway, la capacità di immaginare vie alternative per raggiungere i propri obiettivi (con una media di 3,61), che in quella dell’agency, la forza motivazionale che sostiene l’impegno per realizzarli (3,52). In questo caso, a fare la differenza non è il genere, ma l’età: nella dimensione pathway, i più giovani raggiungono un valore medio di 3,66, superiore a quello dei più grandi (17-19 anni), pari a 3,54. “A fronte della paura di fallire e non essere all’altezza, della difficoltà nel gestire le emozioni e della rabbia verso il mondo adulto, che permangono, dobbiamo ridimensionare una narrazione che vede le nuove generazioni come isolate e non impegnate. La ricerca, infatti, mostra che hanno un grande senso di giustizia, una profonda sensibilità verso gli altri e un’attenzione alle regole. Ed è interessante vedere come sono proprio i più piccoli a nutrire più speranza rispetto ai “fratelli maggiori”, spiega Elena Marta, ordinaria di Psicologia Sociale e di Comunità alla Cattolica e membro dell’”Osservatorio Giovani”. La ricerca ha anche analizzato quanto i giovani attribuiscono importanza a diversi principi morali, considerando cinque dimensioni: danno (harm), che misura la sensibilità verso la sofferenza altrui e l’importanza di evitare di arrecare danni ad altri; equità (fairness), che riguarda il senso di giustizia e parità di trattamento; gruppo di appartenenza (ingroup), che esprime il valore attribuito alla lealtà; autorità (authority), che fa riferimento al rispetto di regole e figure autorevoli; purezza (purity), che indica l’importanza di mantenere integrità personale e collettiva. Le medie sono piuttosto elevate: harm (4,61), fairness (4,58), ingroup (4,24), authority (4,00) e purity (4,51), in una scala che va da 1 a 6. Rispetto al genere, le ragazze mostrano valori più alti in harm (4,72 contro 4,50), fairness (4,66 contro 4,50) e purity (4,59 contro 4,44), mentre sono i più giovani (14-16 anni) ad attribuire maggiore rilevanza a tutti i principi morali rispetto ai più grandi (17-19). Risorse relazionali - “Come adulti siamo chiamati a non sottovalutare queste risorse relazionali e a offrire esperienze di vita che sostengano. Siamo di fronte a una generazione che non deve essere semplificata con una narrativa giudicante, ma valorizzata nelle sue sfumature. Una generazione che chiede di essere riconosciuta anche se non fa gesti eclatanti. Come? Offrendole spazi, servizi e reti dove ideali e sogni possano tradursi nel concreto, essere “messi a terra”“, aggiunge la professoressa Marta, sottolineando l’importanza di immaginare progetti che responsabilizzino, con gli adulti, “e non siano destinati solo alle nuove generazioni, come fossero indiani della riserva”. Obiettivo? “Far sì che i giovani non perdano l’energia vitale e valorizzare questo contesto generativo di desideri”. Un’attenzione alle relazioni che anche Claudio Mencacci, co-presidente della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia, tra i relatori della giornata, evidenzia: “Le nuove generazioni si trovano a vivere cambiamenti molto più accelerati: da una parte la rivoluzione tecnologica, dall’altra quella climatica, che comportano un’alternanza di onde emotive e incidono su affettività, relazioni, cultura, difficoltà a costruire le tracce per il futuro. Quando parliamo di speranza, dobbiamo raccogliere i desideri dei giovani e non spegnerli, facilitare l’idea di comunità e capire come le generazioni precedenti possano essere di sostegno. Tornando a investire sulla rete, sociale e tecnologia, che negli anni si è individualizzata e impoverita”. Migranti: proviamo a guardarli nella loro essenza umana di Livia Gay laportadivetro.com, 13 ottobre 2025 Oggi, 13 ottobre, al Festival dell’Accoglienza organizzato dalla Pastorale Migranti della Curia torinese, si discuterà di “Quale sicurezza con i Decreti Sicurezza?”. L’appuntamento è nella sede della Pastorale Migranti, in via Cottolengo, 24 bis, a partire dalle 17.45. Come si legge in una nota, “i cosiddetti Decreti Sicurezza, introdotti con l’obiettivo dichiarato di tutelare l’ordine pubblico, hanno inciso in profondità sul tessuto sociale, limitando diritti fondamentali, rafforzando dispositivi di controllo e ampliando le pratiche di trattenimento e rimpatrio. Queste misure hanno acuito la precarietà giuridica delle persone migranti, generato nuove forme di marginalità ed eroso progressivamente lo spazio democratico.” All’incontro, moderato da Luca Rondi, giornalista di Altreconomia, partecipano mons. Giancarlo Perego, Presidente Fondazione Migrantes, Francesca Troise, Presidente Circoscrizione 3 Torino, Rete torinese contro tutti i CPR e Stefano Bleggi, Melting Pot Europa, aderente al Network Against Migrant Detention. Riflettendo sulla mia esperienza di accoglienza voglio collegare le mie osservazioni al quadro generale, che chiamo sociale, politico, culturale ed etico; il tema dell’accoglienza dello straniero visto nella cornice della mia esperienza e nello stesso tempo la mia esperienza alla luce di una prospettiva generale. Auspico una società in cui la dialettica tra novità e tradizione sia abitudine fondante; una società che non sia solo basata sul mantenimento della tradizione e che non custodisca il passato in maniera rigida e spaventata. Cosa vuol dire questo contatto e confronto tra novità e tradizione? Una dialettica che unisca l’attenzione all’Altro (con la A maiuscola, lo sconosciuto, il diverso) all’attenzione a sé stessi. Vuol dire essere disposti ad ampliare la conoscenza di quanto avviene fuori della propria consolidata abitudine e nello stesso tempo essere disponibili ad allargare la coscienza di sé, ovvero la consapevolezza di chi si è veramente e di quello che si vorrebbe essere. La novità quindi vista come qualcosa con cui inevitabilmente fare i conti, qualcosa da affrontare, capire, con cui interagire senza nascondere, e nascondersi, le difficoltà. Non in maniera solo oblativa, ma accorta, attenta. In campo sociale e politico questo vuol dire assumere come valore il fatto che lo straniero, e tutti quelli che sono diversi da uno schema standard, siano, prima di tutto, visti e considerati nella loro essenza umana e nella loro dignità, senza prescindere dalle caratteristiche che possono inquietarci. Abbiamo tutti lati fragili (o rigidi nello stesso tempo), lati sensibili di cui dobbiamo tenere conto. L’incontro con il diverso non va avvicinato in maniera trionfale, meglio pensare che probabilmente sarà necessario analizzare le difficoltà e mettere energie, pensieri ed emozioni per cercare soluzione a quello che potrebbe diventare conflitto, se affrontato con superficialità negatoria. Una prospettiva, un ideale possiamo dire, che vuole evitare il più possibile che il conflitto diventi emarginazione, incomprensione, colonizzazione, fastidio e infine violenza. L’idea e la pratica di “rifugio diffuso” (lo straniero accolto in famiglia), come l’esperienza nell’associazione Famiglie Accoglienti e la pratica di tutrice di minori stranieri soli…sono tutte espressioni del mio impegno nella direzione e nella prospettiva suscritta. Sono modi di fare in cui esplico la mia cittadinanza attiva, nella direzione di una città che vorrei. Anche la mia pratica di psichiatra “di territorio” (non psichiatria privata che, posso dire, da “salotto”) è stata illuminata da questi concetti. Anche la mia provenienza familiare, culturale e religiosa parla di questo. Una minoranza in paese cattolico, una minoranza che ha scelto di guardare all’Europa nel tempo della Riforma, che ha subito il clima della Controriforma, che è nata dal desiderio di essere fedele ad un messaggio inclusivo (il Vangelo). Una minoranza che ha lottato per sopravvivere, è stata perseguitata e vuole essere accolta, ma non inglobata, mangiata, masticata e digerita dalla maggioranza, perdendo le proprie caratteristiche essenziali. Così, io sono nella mia pratica ed impegno verso i minori stranieri soli, nel quadro della legge Zampa, dal nome dell’onorevole che l’ha promossa, del 2017; così, sono nella casa aperta ad accogliere chi è segnalato da persone di cui mi fido; così, sono nel partecipare ad una rete che condivide la pratica dell’impegno di comprendere e lasciarsi arricchire dal nuovo, senza per forza limitare sé stessi. Da tre mesi accolgo in casa un giovane senegalese. A questo tipo di convivenza sono arrivata poco per volta, attraverso alcune esperienze: la conoscenza dell’Africa non turistica, la comprensione delle mie profonde “pazzie” e debolezze e della “pazzia” del quartiere in cui ho lavorato. Mi sono avvicinata a questa esperienza di accoglienza progressivamente: per periodi limitati ho accettato di accogliere in casa alcune ragazze che la Pastorale Migrante mi ha proposto. Mi è stata utile anche la comprensione della tradizione della mia famiglia e della storia della minoranza a cui appartengo. È attraverso queste progressive esperienze che vedo ora la possibilità di convivere ed essere aiutata da un giovane straniero. Rappresento tra l’altro un nucleo familiare fuori dallo standard della famiglia classica; ormai d’altronde oltre il 50 per cento di nuclei famigliari, se non sbaglio, sono composti da un solo membro nelle grandi realtà cittadine. Infine auspico che sempre di più persone possano lasciarsi arricchire dal nuovo, con un atteggiamento accogliente verso gli stranieri: progressivamente anche la società cambia e diventa migliore dal mio punto di vista. In questo periodo storico in cui uno come Donald Trump (con gli americani che lo hanno votato) diventa sempre più potente, con la sua violenza verso gli stranieri, verso il fragile, l’inesatto, l’imperfetto dal suo punto di vista e quindi contro la libertà; contro quello che chiama mentalità “woke”… in questo tempo voglio con forza ribadire il contrario di tutto questo e dare un contributo in quella direzione. Solo la giustizia può dare una casa alla Palestina di Luca Foschi Avvenire, 13 ottobre 2025 Cosa nascerà nel cuore dei gazawi dopo il massacro? Sarà nuovo, invincibile odio o anelito alla riconciliazione? È una storia errante, eternamente osteggiata, segnata dalla divisione interna, quella dello Stato palestinese. Dalla fine dell’impero ottomano a oggi sono tante le griglie politico-amministrative poggiatesi sulla nazione: il mandato britannico, la tutela egiziana e giordana a Gaza e in Cisgiordania, la piena occupazione israeliana e l’Autorità palestinese emersa dagli accordi di Oslo, erede della lunga esperienza resistenziale. Il proto-Stato dell’Olp, germogliato in un’architettura clientelare del potere, ha seguito le vicissitudini di Fatah e di Yasser Arafat nel lungo esilio del sogno di liberazione. Prima a Gerusalemme Est, poi, dopo la “Naqsa” del 1967, nei campi profughi giordani. Due anni appena prima che con il sanguinoso “Settembre nero” la resistenza fosse costretta a traslocare in Libano. Nella memoria del Paese dei cedri la travagliata epopea si sarebbe cristallizzata nella “Repubblica di Fakhani”, espressione usata per descrivere con disprezzo l’aliena presenza dei guerriglieri, accolti e odiati nel tragico ginepraio della guerra civile. Da Beirut ovest a Tunisi, a osservare da lontano la spontanea ribellione della prima Intifada, e raccoglierne i frutti a Ramallah, con gli accordi di Oslo. La breve guerra civile che nel giugno del 2007 ha consegnato la Striscia di Gaza ad Hamas non ha cancellato del tutto l’agire dell’Autorità palestinese, la cui presidenza è passata, nel frattempo, al diplomatico e remissivo Abu Mazen (Mahmoud Abbas). Ramallah ha continuato a finanziare scuole e ospedali, a coordinare con Israele, Hamas e la comunità internazionale il flusso dell’energia, degli aiuti e delle ingenti donazioni. Si è ostinata a pagare gli stipendi degli ostracizzati dallo spietato spoils system del movimento islamico. Permanere nella vasta prigione di Gaza, in attesa di un cambiamento. La guerra seguita all’attacco del 7 ottobre ha non solo massacrato la popolazione, affamato, sfollato e demolito, ma ridotto ai minimi termini gli uffici e le infrastrutture che hanno sorretto per quasi venti anni l’egemonia di Hamas. Secondo l’ultima analisi statistica disponibile, quella del Centro palestinese per la ricerca politica e i sondaggi guidata dal celebre sociologo Khalil Shikaki, pubblicata il 6 maggio, in Cisgiordania solo un cittadino su cinque è soddisfatto del presidente Abu Mazen. L’81% ne auspica le dimissioni. Centri di ricerca americani ed europei, think-tank privati, istituti e Ong palestinesi registrano lo stesso fenomeno, la stessa percezione: in Cisgiordania l’Autorità palestinese è diventata un piccolo, odioso regime fondato sulla corruzione e l’inefficienza. Molti studi dimenticano tuttavia di inserire fra le cause fondamentali il pervasivo potere deformante dell’impresa coloniale sionista, l’abbandono da parte della comunità internazionale, lasciando che a spiegare l’inettitudine politica sia una sorta di inestinguibile difetto antropologico. Il pregiudizio vince sulla storia nella narrazione del conflitto israelo-palestinese. La progressiva riduzione di Gaza a deserto lunare, la tragica occasione che questa rappresenta, ha già nel 2024 sollecitato, su spinta dell’Amministrazione Biden, l’Autorità palestinese ad affrontare un processo profondo di riforme, l’ultimo di una lunga serie di tentativi. Il presidente Abu Mazen e il primo ministro Mohammad Mustafa hanno accelerato il passo, caricando il 19° governo di 60 “impegni”, distribuiti in sette categorie: amministrazione, servizi, sistema giuridico, corruzione, economia, politica, lavoro e protezione sociale. È stato promesso che entro il 2025 si terranno le elezioni per il Consiglio nazionale palestinese, sostituito per vent’anni dagli opachi e indiscussi decreti presidenziali. Fra le nebbie del piano trumpiano di ricostruzione e amministrazione di Gaza anche la possibilità che una riformata Autorità palestinese possa, in un futuro remoto, tornare al governo, per la prima volta con la dignità di Stato. Ramallah intende farsi trovare pronta, ha riformato il sistema di sussidi alle famiglie dei palestinesi “morti per la causa patriottica”, che Tel Aviv definisce “pagare per uccidere”, e promesso di spegnere la retorica presente nelle scuole, dai libri agli insegnanti, percepita come fondamento dell’odio da Israele e dai donatori occidentali. Da una parte la verticale pedagogia della pace, dall’altra la quotidiana cronaca dell’occupazione. Versioni del reale in conflitto, soprattutto a Jenin, Nablus, Tulkarem, Hebron, dove il vuoto dell’Autorità, la miseria, lasciano spazio ai discorsi più radicali. Cosa nascerà nel cuore dei gazawi dopo il massacro? Sarà nuovo, invincibile odio o anelito alla riconciliazione? Solo la giustizia potrà dare finalmente casa allo Stato errante, alla nazione dispersa. Un’imperdibile opportunità di redenzione per la comunità internazionale, e le sue immemorabili omissioni. Trump in Medio Oriente per benedire la “sua” pace, Hamas: “Piano coloniale” di Davide Lerner Il Domani, 13 ottobre 2025 Venti leader - compresi Meloni e Macron - attesi al vertice di Sharm el Sheikh per la firma del piano per la Striscia. Presiederà Al-Sisi con a fianco il tycoon. I miliziani: “Il disarmo? In questi termini è inaccettabile”. In mattinata il discorso del presidente Usa alla Knesset. La visita fulmine di Donald Trump in Israele ed Egitto nella giornata di lunedì 13 ottobre corrisponde alla transizione dalla fase uno della sua road map, spettacolare ed immediata nella sua esecuzione, a capitoli che si preannunciano più tortuosi ed accidentati del processo di pace. Il presidente americano non passerà nemmeno una notte nella suite dell’hotel King David con vista sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, tradizionale residenza dei capi di stato in visita in Israele. Dedicherà la mattinata a raccogliere il plauso per il ruolo centrale giocato nel rilascio degli ostaggi, con passerelle all’aeroporto Ben Gurion e alla Knesset. Poi, quattro ore dopo l’arrivo, verso le 13, il deus ex machina della festa sarà di nuovo in partenza alla volta dell’Egitto, dove si aprono i giochi per negoziare il futuro della Striscia di Gaza, con la cerimonia della firma dell’accordo di attuazione del piano di pace. Secondo la lettera del suo famoso piano in venti punti Gaza dovrebbe essere governata da un comitato palestinese tecnocratico che si occupi dell’amministrazione giornaliera del territorio. A supervisionarlo ci sarebbe però un “Board of Peace”, cioè un consesso di dignitari internazionali dei quali ad oggi conosciamo solo due nomi: l’ex premier inglese Tony Blair e lo stesso Trump. La scelta degli altri membri sarà probabilmente un tema di discussione sul tavolo dei venti capi di stato o di governo attesi a Sharm El-Sheikh per assistere alla (breve) cerimonia di consacrazione dell’accordo. Fra loro il padrone di casa al-Sisi affiancato appunto da Trump, poi il francese Macron, il cancelliere tedesco Merz e la stessa Meloni. Secondo il sito americano Axios alla lista degli invitati la Casa Bianca ha aggiunto Spagna, Giappone, Azerbaijan, Armenia, Ungheria, India, El Salvador, Cipro, Grecia, Bahrain, Kuwait e Canada. Non solo: ci si attende che anche il presidente dell’Autorità nazionale, Abu Mazen, si unisca alla compagnia. Nella giornata di domenica Mohammad Nazzal, membro dell’ufficio politico di Hamas, ha espresso perplessità riguardo questa formula di tutela politica in un colloquio con le agenzie russe: “Non possiamo permettere che la Striscia di Gaza torni alla vecchia idea coloniale di avere un commissario per la sua amministrazione. Il popolo palestinese ha le capacità e i mezzi per cavarsela senza inviati di alto livello”, ha detto. Non solo: Nazzal è anche tornato a mettere in discussione il disarmo dei miliziani. “La questione del possesso delle armi da parte del movimento è strettamente connessa all’occupazione, e gli appelli a disarmare, a deporre le armi, se significano in sostanza disarmare la resistenza, sono inaccettabili”. Nondimeno, una fonte diplomatica di uno dei paesi mediatori sentita da Domani spiega di capire il clima di ottimismo attuale, ma di nutrire dubbi quanto alla formula istituzionale descritta dal piano. “Dopo questa storia di due anni, con la distruzione totale, la gente tira un sospiro di sollievo con l’inizio del cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti, è già qualcosa”, afferma. “Ma poi, l’amministrazione e tutto il resto, non sarà cosa facile: è assurdo governare dall’alto, funzionerà una cosa del genere?”. Ancora più delicato è il capitolo sicurezza: secondo la lettera del piano, Trump dovrebbe fondare in tandem con “partner arabi e internazionali” una International Stabilization Force (Isf) che avrebbe il monopolio dell’uso legittimo della violenza. Nelle sue fila dovrebbero esserci contingenti dei paesi mediatori, come la Turchia. Secondo quanto riportato dal giornale turco filogovernativo Milliyet, le forze turche sul campo sarebbero composte da “elementi militari e civili”. Il quotidiano Aksam ha utilizzando il titolo “Gaza sarà affidata a Mehmetcik”, un riferimento nazionalista e islamico al soldato turco. L’Isf a sua volta addestrerebbe una nuova forza di polizia palestinese, tutta da inventare, che avrebbe il controllo del territorio nel lungo termine. Hamas spera di confluire nelle fila di questo nuovo soggetto, salvando anche parti del suo arsenale. L’ultradestra israeliana, da parte sua, spera ancora di mandare tutto all’aria accusando Hamas di non aver obbedito alle clausole di disarmo e fuoriuscita dei suoi leader dalla Striscia. Il ministro della difesa Israel Katz, un accolito di Netanyahu noto per il linguaggio incendiario espresso anche sui social media, ha dichiarato che “la grande sfida per Israele dopo la fase di rilascio degli ostaggi sarà la distruzione di tutti i tunnel terroristici di Hamas a Gaza”. Una missione sì prevista dal piano, ma affidata a terzi, e difficile da conciliare con il ritiro israeliano, previsto in fasi, e la fine delle ostilità. Trump ha garantito ai mediatori Qatar, Turchia ed Egitto che Israele non rilancerà la guerra sfruttando la prima polemica su presunte inottemperanze da parte di Hamas, ed è probabile la Casa Bianca non voglia giocarsi la credibilità per soddisfare qualche ministro di gabinetto israeliano. È il concetto espresso in un editoriale del giornalista di Haaretz Chaim Levinson, intitolato “Un messaggio al ministro di estrema destra Smotrich: Trump ha parlato - la guerra a Gaza è finita”. A detta di Levinson, “la fine della guerra significa che il metodo utilizzato finora da Israele - ricorrere alla forza militare per risolvere le questioni negoziali - ha fatto il suo corso”. Non resta che sperare che le prossime settimane gli diano ragione.