Affettività in carcere, un percorso a ostacoli: se un diritto diventa una concessione di Federica Pennelli Il Domani, 11 ottobre 2025 Dal 2024 la Corte costituzionale ha sancito il diritto all’affettività per le persone detenute. Ma sono poche le realtà penitenziarie che lo garantiscono. Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): “Hanno ragione i detenuti quando dicono: “Se c’è qualcosa che diminuisce un nostro diritto, lo applicano subito”. La storia di Attilio, ex detenuto. La svolta giuridica aperta dalla Corte costituzionale nel 2024 e le successive linee guida del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) hanno sancito il diritto all’affettività delle persone detenute: colloqui intimi senza controllo visivo diretto, da svolgere in locali appositamente individuati e con regole definite. Ma, tra norme e pratica esigibilità dei diritti, la distanza rimane ampia. Il risultato è un’attuazione ancora troppo minoritaria e frammentaria: in alcune carceri - tra cui Terni e Parma - si sono già tenuti colloqui autorizzati e sono stati individuati locali e, pochi giorni fa, è partita anche una sperimentazione al carcere Due Palazzi di Padova. Tutto il resto delle strutture detentive, come Domani aveva raccontato, si stanno ancora organizzando. Ornella Favero, direttrice della rivista sul carcere Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale di volontariato giustizia, ricorda che a Padova “solo grazie al reclamo presentato da un detenuto sostenuto dalla nostra redazione e all’intervento di una giudice di sorveglianza che ha imposto al carcere di adeguarsi entro 60 giorni, si è finalmente arrivati a predisporre gli spazi”. Una strada lunga - Ma, oltre alla città di Padova, c’è il resto degli istituti di pena: quando si parla di diritti delle persone in carcere, in Italia si va avanti a spinta, a suon di reclami e rivendicazioni pubbliche da parte di chi si occupa di diritti di persone detenute. Favero crede che, sul tema, ci sarà un’accelerazione: “Non c’è scelta, di fronte alla violazione di un diritto non possono tirarsi indietro. Un po’ alla volta si adegueranno, anche se i tempi in questo paese sono sempre lunghi; ma non voglio essere pessimista”. I detenuti, ricorda Favero, “hanno ragione quando dicono: “Quando c’è qualcosa che diminuisce un nostro diritto, lo applicano molto più velocemente”“. Proprio sul tema delle applicazioni dei diritti delle persone detenute Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio Antigone sulle condizioni di detenzione degli adulti osserva che il processo per arrivare a questo diritto è stato “lungo, faticoso e doloroso. Di questo tema si parla da decenni, in Europa siamo uno dei pochi paesi che non ha spazi e regole per garantirlo” e, di proposte di legge in merito, ne sono state ignorate molte. Inoltre la velocità di adeguamento del carcere “alle iniziative legate ai diritti delle persone detenute, con aperture e garanzie di diritti, è sempre estremamente lenta”. Infine c’è il tema della polizia penitenziaria che, come ricorda Scandurra, “storicamente ha vissuto con grande resistenza questa possibilità”. Le persone che hanno subito e subiscono una detenzione, invece, rivendicano con forza i loro diritti. Attilio (nome di fantasia), è uno dei fondatori della rivista Ristretti Orizzonti di Padova. Ha passato trent’anni in carcere e ci è entrato quando aveva 18 anni: “Avevo delle fidanzatine ma i rapporti sono durati poco a causa della lunghezza della pena”. In carcere, allora, non c’era la possibilità di avere questo tipo di spazi, anche se Attilio con Ristretti Orizzonti aveva già cominciato a portare avanti questa battaglia: “All’inizio nemmeno pensavamo di portare le nostre compagne all’interno del carcere, ma le donne erano più mature di noi e volevano entrare”. Sentiva, come i suoi compagni, la mancanza di un posto in cui avere “un po’ di intimità, non solo per fare sesso ma per cuocerci una pasta, per stare insieme”. Quando Attilio ha iniziato la battaglia per il diritto all’affettività cercava un posto per stare con la sua famiglia, “senza la guardia che ti alitava sul collo mentre c’erano i colloqui: se davo un bacio di troppo alla mia compagna venivo stoppato, battevano sul vetro con le chiavi. Questo rovinava i pochi momenti di affetto”. Per Attilio il diritto all’affettività aveva molte sfaccettature, non solo quella strettamente sessuale, anche se questi ultimi “sono bisogni naturali, avere la possibilità di fare l’amore per restare una persona sana è importantissimo”. Anche nelle carceri femminili il diritto all’affettività e alla sessualità è molto sentito, come ricorda Giulia Ribaudo dell’Associazione culturale Closer di Venezia, che promuovere attività culturali in ambito carcerario: “L’introduzione delle stanze per gli incontri intimi negli istituti femminili costituirebbe un riconoscimento indispensabile della dimensione affettiva come parte integrante dei percorsi di reinserimento e di crescita personale”. Anche le donne detenute, infatti, hanno bisogno “di desiderare, di sentirsi desiderate, di costruire relazioni che non si esauriscano nei ruoli di cura o maternità”. C’è poi il tema legato alla rieducazione, come obiettivo dichiarato della pena: “Ammettere che possa passare anche attraverso la possibilità di riscoprire un’intimità propria significa restituire complessità all’identità femminile e umanità ai corpi. È un passo che contribuirebbe a rompere lo stereotipo della “madre pentita” e, soprattutto, a scardinare l’idea che la pena debba necessariamente implicare la negazione del desiderio”. La posta in gioco è importantissima: non si tratta solo di regolamentare incontri, ma di tradurre un diritto costituzionale in prassi uniforme, senza che la sua effettività sia lasciata alla discrezionalità delle direzioni carcerarie o all’aleatorietà delle ordinanze giudiziarie; perché la pena non significhi più sospensione degli affetti. Il collasso (materiale) di Regina Coeli e i due morti di San Vittore di Alessandro trocino Corriere della Sera, 11 ottobre 2025 Se ce ne fosse bisogno, arrivano due notizie - nascoste, neglette, ignorate dai più - che ci raccontano il carcere e che riguardano la capitale d’Italia, Roma, e l’ex capitale morale, Milano. La prima è il crollo di una parte di tetto di Regina Coeli. Un pezzo di soffitto di un metro per un metro è precipitato per 20 metri, proprio là dove ogni giorno passano centinaia di detenuti e agenti. Nessun ferito, nessun morto, ma chiaramente non era quello lo scopo del disegno celeste: era un segnale simbolico, un avvertimento, una metonimia divina che annunciava la frana del sistema, il collasso di un modello ideologico, morale ed edilizio. Il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, ha risposto prontamente da par suo, assertivo, in maniera maschia si sarebbe detto nel Novecento: “L’istituto è in sicurezza sotto tutti i profili”. Tutti. Anche perché, se così è in sicurezza, se non lo fosse probabilmente sprofonderebbe negli inferi. Non è escluso che succeda visto che, come ricordava oggi Adriano Sofri sul Foglio, ogni 100 detenuti di capienza regolare ce ne sono 180, e quegli 80 potrebbero sprofondare in qualche abisso piranesiano o, più prosaicamente, potrebbero morire di inedia, di rabbia o di soffocamento. Si può morire anche in altro modo in carcere, c’è tutto un ventaglio di opzioni: oltre che per impiccagione, per inalazione di bombolette da gas, per le botte ricevute, per i fantomatici “motivi da accertare”, che mai saranno accertati. Ieri - ed è la seconda notizia di cui si parlava - si è aggiunta una categoria, non nuova, ma che stupisce sempre: si muore per droga. I giovani scapestrati si drogano, dicono i genitori perbene, perché vivono per strada, perché non hanno nulla da fare, perché frequentano cattive compagnie. In questo caso, due requisiti su tre combaciano: i detenuti non hanno nulla da fare (negli spazi comuni dove potrebbero fare qualcosa ora arriveranno i prefabbricati); e frequentano compagnie davvero poco raccomandabili, salvo che non possono fare altrimenti, visto che i coinquilini e i vicini di condominio glieli assegnano d’ufficio. L’unica condizione che non corrisponde è che non vivono per strada, ma giorno e notte in “camere di pernottamento” (sì, le celle) grandi tre metri per tre, se va bene. Dunque nel vetusto carcere di San Vittore (ascolta la puntata dedicata di Radio Carcere) è successo che tra ieri sera e questa mattina si sono trovati due cadaveri: un detenuto, pare, morto per abuso di oppiacei; l’altro, pare, per emorragia gastrica. Altri tre detenuti sono messi parecchio male e sono ricoverati. Una coincidenza, certo. Perché nelle carceri non circolano stupefacenti, vero? La domanda è retorica, naturalmente. Perché, come diceva un ex detenuto in una chat in queste ore, “il carcere è la piazza di spaccio più grande d’Italia” (e uno dei posti più criminogeni del Paese). E come dice sempre quel benemerito che è l’ex direttore di San Vittore, Luigi Pagano, ora garante milanese: “Il sistema carcerario in Italia oggi è illegale”. E l’illegalità alligna dove c’è il buio, l’oscurità, la mancanza di trasparenza. Su quest’ultimo punto, il nostro sistema è un’eccellenza assoluta: nulla si sa, nulla trapela, nulla si può vedere. Solo qualche dato sparso, fornito periodicamente dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Dichiarazioni stentoree di sottosegretari e “piani carcere” del ministro Carlo Nordio, che ne fa uno ogni sei mesi e poi sparisce fino al successivo. Piani che, naturalmente, rimangono sempre e solo sulla carta. Intanto, mentre il sistema crolla, mentre i detenuti muoiono, “si indaga”. “Il primo che feci uscire era fermo alle lire e non conosceva gli smartphone” di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera, 11 ottobre 2025 Intervista con Flavia Filippi, giornalista del Tg La7 e fondatrice di Seconda Chance, che dà un lavoro ai carcerati: “A 10 anni mi vestivo come i carcerati, ora gli do un lavoro. I detenuti vengono assunti persino dai tribunali. Mi sentivo privilegiata, dovevo fare qualcosa. Nella vita nulla m’interessa di più”. Anziché chiudere le celle a doppia mandata e buttare via le chiavi, come la piazza pretenderebbe dallo Stato, Flavia Filippi spalanca ai detenuti le porte delle aziende. Dal 2022 è questa la sua ragione di vita. Aveva 10 anni quando cominciò a pensarci. Per la recita di carnevale in quinta elementare, tra fatine e damine, si presentò alle amichette travestita da carcerata, con gamella, cucchiaio e il numero 17-17 cucito sull’uniforme a righe. “Il simbolo della iella, doppio, perché già allora vedevo i reclusi come gli esseri più sfortunati al mondo”, spiega. Oggi gli trova un posto di lavoro. Con le sue sole forze, ha fondato Seconda Chance, associazione no profit del terzo settore. Ne ha sistemati oltre mezzo migliaio, aiutata da una ventina di sodali. L’aspetto incredibile è che le posizioni lavorative, già 700, arrivano finanche dagli uffici giudiziari e superano il numero dei candidati. A rispondere sono colossi come McDonald’s, Nespresso, Terna, Kfc, Burger King, Autogrill, Conad, Autostrade per l’Italia, Illycaffè, Cremonini, San Pellegrino, Arcaplanet. “Ben 70 posti solo da Primark. Invece Ikea ha arredato una parte del carcere di Frosinone”. Da che nacque questa propensione? “Dal disagio. Fin da piccola ho avvertito la mia condizione di privilegio”. Sognava di diventare una detenuta? “Sentivo di dover fare qualcosa. Chiesi a mia madre Esther quel costume e lei, invece di dissuadermi, mi portò da un materassaio a comprare la stoffa. Nel prendermi le misure, la sarta si stupì: “Ma che cos’ha questa bambina?”“. Qualcosa d’importante lo ha fatto. “Il prologo fu nel 2015. Diedi vita ai Liberi netturbini pontini per ripulire le spiagge di Sabaudia. Sono un’altruista felice. Ho avuto pochissime delusioni”. Ma nel destino c’erano i penitenziari. “Avevo 20 anni. A due settimane dal nostro incontro, il mio fidanzatino fu arrestato per fatti legati agli anni di piombo. Andavo a trovarlo in carcere ad Arezzo. Mi pareva un’ingiustizia. Oggi sono più equanime nel soppesare le ragioni dei detenuti e quelle delle vittime. Anche perché come giornalista mi occupo di cronaca giudiziaria”. Quando è nata Seconda Chance? “Ci pensai nel 2021. Girai a vuoto per un anno. Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma, mi disse: “Sei matta, da sola non ce la fai. Apri un’associazione”. A luglio 2022 la costituii. Ora ho dei compagni di viaggio meravigliosi: cinque a Roma e in Piemonte, tre in Lombardia, due in Veneto e in Liguria, uno in Abruzzo, Campania, Sardegna e Calabria. Nel Sud, Sicilia a parte, è più dura”. Chi sono? “Avvocati, giornalisti, pensionati, ex detenuti. Un recluso di Catania, in detenzione domiciliare, lavora da casa. C’è anche un ergastolano di Santa Maria Capua Vetere, sociologo, stipendiato da Seconda Chance grazie a un bando dell’Università di Catania. Quando ha ricevuto la prima busta paga, ha pianto”. Che cosa fanno i volontari? “Questa non è una missione che puoi svolgere solo per volontariato. Non è che dici al detenuto: “Beh, dai, mio zio ha un’officina, forse può assumerti”, mi spiego? Riceviamo lettere da reclusi di tutta Italia. Le smistiamo, rispondiamo, profiliamo i candidati. Poi andiamo a bussare alle porte di grandi gruppi, ditte, negozi e chiediamo se sono interessati ai vari tipi di dipendenti selezionati”. E se sono interessati, che accade? “Organizziamo incontri nelle prigioni fra i detenuti proposti dalla direzione e le aziende disposte ad assumere”. I datori di lavoro che ci guadagnano? “Gli sgravi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia”. In soldoni? “Un credito d’imposta fino a 520 euro mensili, che si abbassa a 300 se il lavoratore è in regime di semilibertà. Collaborare con Seconda Chance è fondamentale anche per il bilancio sociale dell’impresa. Contribuiamo a ridurre i casi di recidiva. Tra coloro che lasciano la prigione senza un lavoro, 81 su 100 ci ritorneranno. Fra quelli che ce l’hanno, appena l’1 per cento”. Chi fu il primo recluso che fece uscire dalla prigione? “Marcello, un palermitano che stava a Rebibbia da oltre 20 anni. Barcollava per l’emozione quando lo accompagnai dalle due titolari di Le Serre by ViVi, catena di ristoranti molto nota a Roma. Credeva che ci fossero ancora le lire, ignorava l’avvento degli smartphone”. Quella fu la prima porta a cui bussò? “No. All’inizio andai a proporre la mia idea ad Andrea Piccioli, direttore generale dell’Istituto superiore di sanità. Ci credette subito. Assunse tre manutentori”. Come lo convinse? “Non ve ne fu bisogno. Se uno può aiutare e non aiuta, non voglio trovarlo sulla mia strada. Ma come? Da inizio gennaio siamo già a 66 suicidi in carcere, cui si aggiungono 1.123 tentati suicidi, e tu non aiuti? Io non vado dal parrucchiere, non frequento la palestra, non vedo un’amica da tre anni, e tu non aiuti? Passo il tempo libero a chattare con i direttori degli istituti di pena e i capi del personale delle aziende, e tu non aiuti? In tre settimane per Seconda Chance sono stata due giorni a Catania, due a Vasto, due a Milano, uno a Frosinone, e tu non aiuti?”. Come fa a conciliare un impegno tanto gravoso con il suo lavoro a La7? “Il direttore Enrico Mentana mi vuole bene. Tre anni fa è stato lui ad assistermi nell’acquisto del dominio secondachance.net e ci ha destinato il 5 per mille della denuncia dei redditi. Mi sono molto vicine Gaia Tortora, la figlia di Enzo, e Silvia Borromeo, già capo della redazione di Milano, oggi in pensione, che guida Seconda Chance in Lombardia”. Quante aziende ha contattato finora? “Migliaia. Ho scritto in piena notte su Linkedin agli amministratori delegati di Bosch, Illycaffè e Arcaplanet”. Le rispondono tutte? “All’inizio una su 100, poi due su 50, adesso due su 10. La multiutility A2A ha appena offerto alla provveditrice alle carceri della Lombardia di tenere corsi di formazione nei penitenziari della regione, della Val d’Aosta e del Tigullio finalizzati al reclutamento di netturbini”. Ho visto che è riuscita a entrare anche in Vaticano. “La Fabbrica di San Pietro ci ha assunto manutentori, elettricisti e banchisti per il bar del Cupolone, cinque in tutto, che presto diventeranno sei. E ha commissionato ai detenuti sarti di Viterbo 350 borsoni con il logo della basilica, fatti riciclando le vele delle barche”. Ha convinto Pietrangelo Buttafuoco. “È stato carinissimo. Ce ne ha presi quattro alla Biennale: due per la ristorazione, uno in biglietteria, uno alla Mostra del cinema al Lido di Venezia”. Invia i reclusi a lavorare persino per i magistrati che li hanno condannati. “Abbiamo un protocollo d’intesa con il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ernesto D’Amico, presidente del Tribunale di Verona, ad aprile ci ha chiesto quattro archivisti. Mi sto dando da fare per accontentare anche il suo collega di Padova”. Ma chi garantisce che i soggetti usciti di prigione righino dritto? “Nessuno. Abbiamo avuto qualche raro infortunio con detenuti che all’esterno hanno ripreso a bere o a drogarsi, come accade peraltro nei posti di lavoro fra molti dipendenti in libertà”. Non ci sarà qualcuno che ruba? “Sarò sincera: solo un caso, su quasi 600. Un recluso ha sottratto soldi dalla cassa. È stato scoperto grazie alle telecamere. Ho dovuto riguardare il video più volte, non volevo crederci. Ma quanti furti si consumano nelle aziende?”. Gli stipendi non saranno esaltanti. “Per 20 ore settimanali, 700 euro. Però se un padre ha tre figli, devo trovargli un lavoro da otto ore quotidiane. Abbiamo appena sistemato un manovale a 1.500 euro mensili, secondo il contratto vigente”. La paga come gli viene corrisposta? “Giunge alla direzione del carcere, che gliela accredita sul conto personale”. Nessun lavativo che scantona? “Ci facciamo in quattro perché non accada. Sugli appuntamenti di lavoro non transigo, arrivo a minacciare per scherzo i miei protetti. Gli dico: occhio, io ti offro anche la terza e la quarta chance, se occorre, ma non espormi a brutte figure, altrimenti ti riempio di botte”. Come vi finanziate? “La sede legale ce l’ho in casa. Per oltre due anni ho anticipato le spese di tasca mia. Agli amici di Seconda Chance spediti nei penitenziari in giro per l’Italia devi pagare la vita, non la benzina. Ci aiutano Banca Intesa Sanpaolo e Fondazione Roma. Sono arrivati contributi da Confcommercio, McDonald’s, Entain. Di gente buona ce n’è ancora tanta, sa?”. Quante carceri ha visitato? “Almeno una trentina. È questo che sento di dover fare nella vita. La prima volta che andai in quello di Viterbo, durante il viaggio piangevo per la gioia”. Avrà vissuto anche momenti difficili. “Avevo trovato il posto a un recluso di 36 anni. Ho atteso per 24 mesi che uscisse. Mi ha chiamato, era in taxi con la mamma, andava al lavoro per la prima volta. È morto di overdose il mese dopo”. Il più bel complimento che ha avuto? “Da Andrea Paolantoni, titolare del gruppo Palombini, caffè, ristoranti, catering. Dopo i colloqui con quattro detenuti, ha scritto su WhatsApp: “Mi ha regalato la più bella mattinata della mia vita”“. Se dovesse finire in prigione, che lavoro esterno accetterebbe di svolgere? “Uno qualsiasi, pur di non passare i giorni a dare capocciate nel muro”. Lei è credente? “Non sono atea. Cerco la scintilla”. Perché fa tutto questo? “Niente m’interessa di più”. Dietro le sbarre si legge di più: i detenuti italiani battono la media nazionale di Paolo Fruncillo La Discussione, 11 ottobre 2025 Non solo isolamento e silenzio: le celle delle carceri italiane sembrano sempre più luoghi di lettura, riflessione e informazione. È quanto emerge da una ricerca condotta dalla testata di marketing Spot and Web, che ha intervistato oltre 250 ex detenuti che hanno scontato pene tra i due e i dieci anni, restituendo un quadro sorprendente e in controtendenza rispetto ai dati nazionali sul consumo culturale. Secondo lo studio, i detenuti italiani leggono in media dieci libri all’anno, un numero triplo rispetto alla media nazionale, stimata attorno ai tre volumi annui per cittadino. La saggistica si conferma il genere più letto (33% degli intervistati), con una netta prevalenza di volumi dedicati alla politica (67%) e al diritto penale (49%) - una scelta che rispecchia l’interesse per i temi della giustizia e della società, spesso legati alle esperienze personali vissute dietro le sbarre. Segue la narrativa (27%), dove a dominare sono i romanzi fantasy (61%), forse per la loro capacità di offrire mondi di evasione e immaginazione. I testi universitari rappresentano il 24% delle letture, segno di un impegno formativo in crescita, mentre non mancano interessi più leggeri come i libri di cucina (22%) e di viaggi (18%). Cinque ore al giorno davanti alla TV - La ricerca di Spot and Web mostra anche come la televisione rappresenti per molti detenuti una finestra fondamentale sul mondo esterno: in media cinque ore al giorno passate davanti allo schermo, con una preferenza marcata per i programmi di informazione e approfondimento. Tra i più seguiti spiccano ‘DiMartedì’ di Giovanni Floris (15%), ‘Dritto e rovescio’ di Paolo Del Debbio (13%), ‘Fuori dal coro’ di Mario Giordano (11%) e ‘Lo stato delle cose’ di Massimo Giletti (10%). Seguono ‘Quarto grado’ (9%), ‘Chi l’ha visto?’ (7%), ‘Porta a porta’ (5%), ‘Otto e mezzo’ (4%), ‘Un giorno in pretura’ (2%) e ‘Quarta Repubblica’ (1%). Durante il daytime, i programmi più apprezzati sono ‘Storie italiane’ di Eleonora Daniele (18%), ‘Mattino Cinque News’ (16,5%), ‘Unomattina’ (14,5%), seguiti da ‘Agorà’ (12%) e ‘Ore 14’ di Milo Infante (10%). Passione per lo sport - Non manca, naturalmente, la componente sportiva. Tra gli uomini intervistati spiccano i programmi calcistici come ‘La nuova DS’ su Rai 2 (18%), ‘Pressing’ su Canale 5 (17%), ‘Sport Mediaset’ su Italia 1 (14,5%), ‘Il processo al 90°’ (11%) e ‘Dribbling’ (9%). Il j’accuse delle toghe: “La politica tace, tocca a noi difendere i diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 ottobre 2025 La corrente progressista “Area” a congresso: dalle carceri ai migranti fino alla separazione delle carriere, sfida ai partiti e al mondo forense. “Altro che straripamento del potere giudiziario”, qui è “la politica che annaspa nel dare risposte di sistema alle sfide del presente” e così “i magistrati sono costretti a prendere una decisione sulla base delle fonti del diritto interno ed internazionale” : è il j’accuse di Giovanni Zaccaro, leader della corrente progressista dell’Anm, AreaDg, che in apertura del V congresso dal titolo “La forza e il diritto” rivendica il ruolo delle toghe di “garanzia dei diritti di tutti” anche “dei pochi e dei pochissimi, contro gli interessi nazionali, contro le decisioni delle maggioranze”. Lo fa dal palco del Teatro della Tosse di Genova, città “medaglia d’oro della resistenza”, “porto di partenza degli avi per emigrare”, “i cui magistrati sono stati vittima di una campagna mediatica per avere indagato e processato “potenti” locali”, ricorda Zaccaro. La scelta del capoluogo ligure dunque rispecchia la volontà di rafforzare l’identità militante del gruppo associativo delle toghe rosse che non a caso dedicano la prima tavola rotonda ai diritti sotto attacco e negati con gli interverventi di Rita Bernardini (Nessuno Tocchi Caino) sulle carceri, di Filomena Gallo (Associazione Coscioni) sul fine vita, di Don Mattia Ferrari (cappellano di Mediterranea Saving Humans) sui migranti e tra gli intercettati dal software Paragon. “Nessuna istanza di sicurezza può trasformare la pena in mera segregazione”, ha aggiunto la presidente di Area, Egle Pilla. A questo tema è stato dedicato in parte anche l’intervento del vice presidente del Csm, Fabio Pinelli, per cui “bisogna chiedersi” se “per i detenuti delle nostre carceri esista ancora un diritto”. Ha poi criticato l’equivalenza più reati uguale maggiore sicurezza. “Quando il diritto si piega alla forza - ha detto il numero due di Palazzo Bachelet - nasce il diritto penale della paura, della reazione, dell’emergenza. Quantomeno dall’inizio del terzo millennio, con qualche parentesi occasionale (comunque singolare e non di sistema), si è assistito ad un progressivo scivolamento verso un uso eccessivo e distorto del diritto penale”. Una vera e propria “bulimia panpenalistica”, ha stigmatizzato Pinelli, tale “da rendere sconosciuto e non conoscibile, neppure per gli addetti ai lavori, il numero di reati oggi in vigore nel nostro ordinamento. Punire, una passione contemporanea, direbbe Didier Fassin”. Secondo Pinelli, negli ultimi decenni “si è legiferato sull’onda dell’emozione collettiva, si sono moltiplicate le fattispecie incriminatrici, anticipate le soglie di punibilità. È l’illusione repressiva: l’idea che l’aumento del numero di reati e di pene, “il tintinnio delle manette”, porti ad un maggiore ordine sociale. È il diritto penale della paura, non il diritto penale del cittadino, non il diritto liberale”. In programma, ma assente, il leader della Cgil Maurizio Landini, impegnato all’ultimo momento in un incontro a Palazzo Chigi. Molto applaudito, ca va sans dire, dai colleghi magistrati Enrico Zucca, procuratore generale di Genova, che ha puntato il dito contro i difensori: “L’avvocatura non riesce proprio a spiegare come ci saranno più garanzie per i cittadini” se viene approvata la riforma di Nordio, ha detto, per poi sottolineare che “chi davvero fa le leggi e usa le porte girevoli sono i tanti avvocati in Parlamento”. Avrà forse avuto un vuoto di memoria rispetto a tutti i magistrati che lavorano negli uffici legislativi dei ministeri. Ha preso poi la parola anche un pimpante presidente dell’Anm, Cesare Parodi, che ha voluto sollevare un “problema logico” ossia se “i due Csm funzioneranno grazie al sorteggio perché allora privarlo della funzione disciplinare?”. Comunque quello che maggiormente si percepisce, soprattutto dietro le quinte del teatro, è una forte ostilità verso l’avvocatura, principale antagonista nella battaglia sulla separazione delle carriere. “Fanno tanti discorsi in difesa dei cittadini ma poi a difendere i poveri e gli stranieri in aula ci stanno solo i difensori d’ufficio”, dicono alcuni magistrati e ancora: “Si stanno vendendo l’anima per la riforma costituzionale”. Rispetto all’esito del referendum ci sono previsioni diverse, l’ottimismo spesso lascia il posto al pessimismo. C’è chi dice, sottovoce, che “è chiaro che vincerà il sì” e altri, invece, che sostengono “che la partita è ancora aperta, considerato soprattutto che non c’è il quorum. Non tutto è così scontato”. Sta di fatto che tanti magistrati sono molto entusiasti del fatto che all’assemblea dell’Anm del 25 ottobre sarà presente tra i relatori il procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri, “un colpaccio” per qualcuno. A mezzogiorno è intervenuto in collegamento anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi. Sulla separazione delle carriere ha detto che si asterrà in Parlamento nel quarto ed ultimo voto, ma ancora non ha deciso cosa farà al referendum: “Non puoi dire che vuoi separare le carriere dei magistrati, principio che io condivido, con l’Esecutivo che cancella il legislativo, Montesquieu si rivolta nella tomba”, ha aggiunto l’ex presidente del Consiglio che poi però, irritato dal fatto che il giornalista chiamato a moderare non l’abbia interpellato sul caso giudiziario di Bibbiano per cui era stato invitato ad intervenire, ha interrotto bruscamente il collegamento. Imbarazzo condiviso da tutta la platea. Oggi interverranno il ministro Carlo Nordio, la Segretaria del Pd Elly Schlein, il leader del M5S Giuseppe Conte, il segretario di + Europa Riccardo Magi e il presidente del Cnf, Francesco Greco. Il Mef avvisa Nordio: i tempi dei processi civili, anziché diminuire, aumenteranno di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 ottobre 2025 Per il ministero dell’Economia e delle Finanze l’unico indicatore di benessere che peggiorerà nei prossimi anni è l’efficienza della giustizia civile, con un aumento della durata media dei processi. I target concordati con l’Ue appaiono sempre più lontani. Persino il ministero dell’Economia e delle Finanze ormai appare consapevole che, non solo l’Italia non riuscirà a raggiungere gli obiettivi del Pnrr sulla giustizia civile, ma che addirittura i tempi dei processi civili, anziché diminuire, aumenteranno nei prossimi anni. È quanto emerge dalla relazione sugli indicatori di benessere allegata al Documento programmatico di finanza pubblica 2025: dei nove indicatori per i quali l’allegato fornisce previsioni per il periodo 2025-2028 (come disuguaglianza di reddito, povertà assoluta o speranza di vita alla nascita), soltanto uno peggiorerà: l’indice di efficienza della giustizia civile. In particolare la durata media dei procedimenti civili. Come già evidenziato su queste pagine negli ultimi mesi, l’Italia appare a dir poco in affanno in vista della scadenza dei target concordati con l’Unione europea sulla giustizia civile. L’obiettivo principale, cioè la riduzione del 40 per cento entro fine giugno 2026 della durata media dei procedimenti civili (il “disposition time”) appare al momento fuori portata, se si considera che al 30 giugno scorso si attestava al 20,1 per cento rispetto al 2019. Per raggiungere l’obiettivo occorrerebbe di fatto replicare in un anno i risultati ottenuti in quattro anni, insomma servirebbe un miracolo. Per queste ragioni, in agosto il governo ha adottato un decreto con una serie di misure d’urgenza per provare a cambiare la situazione. La rotta, però, sembra ormai segnata. A certificarlo è appunto il Mef nella sua relazione sugli indicatori di benessere (Bes). Nel periodo 2025-2028, la giustizia civile sarà l’unico indicatore a registrare un peggioramento, soprattutto a causa proprio dell’aumento della durata media dei procedimenti. Le proiezioni si basano sull’elaborazione dei dati statistici forniti dal ministero della Giustizia. Nel 2019 il disposition time era pari a 348 giorni. Nella relazione Bes si legge che, dopo il notevole incremento rilevato nel 2020, dovuto all’emergenza Covid-19, il dato sulla durata media dei procedimenti civili (che era schizzato a 435 giorni) si è “rapidamente contratto nel 2021 (340 giorni) per poi stabilizzarsi nel biennio 2022-2023 (325 giorni). Nel 2024, infine, si rileva un nuovo aumento riportandolo su un livello paragonabile a quello del 2021 (342 giorni), seppur rimanendo al di sotto del livello del 2019”. In altre parole, il miglioramento registrato tra il 2021 e il 2023 si è fermato. Non solo. Ciò che è più preoccupante è la proiezione nel periodo 2025-2028: “L’indicatore è proiettato su un sentiero di moderata crescita - si sottolinea nella relazione del Mef - Nel primo anno si prevede un incremento che posiziona l’indicatore sui livelli pre-Covid (345 giorni). Nel biennio successivo la crescita media è stimata in 10 giorni all’anno (+11 giorni nel 2026, +9 giorni nel 2027), per poi affievolirsi nel 2028 (+5 giorni)”. Risultato: nel 2028 si prevede un disposition time pari a 370 giorni, 28 giorni in più del dato pre-Covid. C’è da precisare, come fa il Mef, che il disposition time usato nella relazione sugli indicatori di benessere si differenzia per alcuni aspetti rispetto a quello usato in ambito Pnrr, essendo calcolato sulla base di materie in certi casi incluse o escluse dal calcolo dei procedimenti iscritti o definiti. A colpire, a ogni modo, è il radicale cambio di prospettiva, in senso pessimistico, mostrato dal Mef. Nelle relazioni Bes 2023 e 2024, la previsione sul disposition time per gli anni futuri è stata sempre rappresentata con una curva in discesa. Ora la curva è in salita. Se lo scorso anno il Mef prevedeva per il 2026 un disposition time di 277 giorni, ora per lo stesso anno viene previsto un dato di 356 giorni. Insomma, il 2024 è stato un anno orribile per la giustizia civile in Italia, che ormai appare distante anni luce dal raggiungimento degli obiettivi fissati dal Pnrr in scadenza il prossimo giugno. A stupire è la lentezza con cui il ministro Nordio e il governo sono intervenuti per provare a sistemare le cose. Basti pensare che già a febbraio su queste pagine sottolineammo come, sulla base dei dati provenienti dai vari uffici giudiziari e riportati sulla stessa relazione presentata dal ministro Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario, gli obiettivi del Pnrr sulla giustizia civile sembrassero un miraggio. La capo di gabinetto del ministero, Giusi Bartolozzi, si spinse persino a inviare una lettera al Foglio per smentire le preoccupazioni. Sei mesi dopo il governo è giunto all’approvazione di un decreto d’urgenza (che difficilmente riuscirà a risolvere la situazione) e il Mef ora certifica il disastro sulla riduzione dei tempi dei processi. Chissà se ora Bartolozzi invierà una lettera di lamentele al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. L’assist della Cassazione a Ilaria Salis: “In Ungheria ci sono carceri disumane” di Simona Musco Il Dubbio, 11 ottobre 2025 Celle sovraffollate, detenuti ammanettati ai termosifoni, cimici nei letti e cibo per meno di tre euro al giorno. È questo il sistema penitenziario che la Cassazione ha ritenuto inaccettabile, bloccando l’estradizione di un imputato verso l’Ungheria. La Suprema Corte lo ha stabilito nella sentenza 33397/2025, accogliendo il ricorso di un cittadino pakistano, condannato per aiuto all’immigrazione clandestina e falso. La sentenza, ora, potrebbe tornare utile ad Ilaria Salis, che da tempo chiede al ministro della Giustizia Carlo Nordio di poter essere processata in Italia, dopo aver subito 15 mesi di carcerazione in Ungheria in condizioni degradanti con l’accusa di aver picchiato un neonazista. Richiesta che mette in difficoltà Nordio, circondato da una maggioranza “garantista” sulla carta, ma pronta a mandare Salis in carcere ritenendola - senza processo - già colpevole. Il Guardasigilli, però, potrebbe ora appellarsi a questa decisione, che impone ai giudici italiani di valutare la situazione concreta del singolo imputato. Nel caso analizzato dalla Cassazione, l’imputato aveva già trascorso sette mesi in custodia cautelare, denunciando di essere stato sottoposto a torture. Successivamente, riuscito a fuggire in Grecia, ha raggiunto l’Italia, dove si è presentato spontaneamente in Questura a Bologna per chiedere asilo. Qui è stato arrestato in base al mandato di arresto europeo. La Corte d’appello aveva accolto la richiesta dell’Ungheria, dando via libera all’estradizione. La Cassazione ha però annullato con rinvio la decisione dei giudici di appello, che si erano basati sulle poche indicazioni fornite dalle autorità ungheresi, limitate al carcere in cui la pena sarebbe stata espiata. Una pena non chiara: mentre, secondo il condannato, si sarebbe trattato di due anni, il Mae indicava un tetto di 12 anni. Per la Cassazione, la Corte d’Appello aveva deciso nonostante le gravi carenze del sistema penitenziario ungherese, evidenziate non solo dall’imputato, ma anche da un report del 2024 della Hungarian Helsinki Committe. Nel report viene evidenziata la persistente violazione dei diritti umani nelle carceri ungheresi, nonostante una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo risalente ormai a nove anni fa. Si parte dall’uso eccessivo di contenzioni fisiche, con l’utilizzo frequente di catene per le braccia e le gambe quando gli imputati sono portati in tribunale, come testimoniato anche dal caso Salis. Questa pratica, che non è sempre giustificata o proporzionata al caso, viola gli standard giuridici europei e nazionali, oltre a ledere la presunzione di innocenza. Ma non solo: le carceri ungheresi sono sovraffollate, con un tasso di occupazione media del 106 per cento. Una situazione che crea condizioni di vita disumane per circa 40.000 detenuti ogni anno. Nonostante gli appelli europei per ridurre la detenzione e aumentare l’uso di pene alternative, il sistema di giustizia penale continua a dipendere fortemente dalle pene detentive. Le carceri soffrono di infestazioni da cimici, temperature estreme, alimentazione insufficiente (con un budget di 2,8 euro al giorno per detenuto) e mancanza di acqua calda per l’igiene. Inoltre, molte celle sono prive di luce naturale e ventilazione adeguata. Le attività di reinserimento sono scarse, e le persone con disabilità non ricevono il supporto necessario. I detenuti, inoltre, non hanno adeguato accesso a risorse per chiedere risarcimenti per le condizioni di detenzione inadeguate e spesso non possono nemmeno chiedere un risarcimento. Inoltre, il divieto di contatto fisico tra detenuti e visitatori viola il diritto alla vita familiare, come stabilito dalla Cedu. I dati mostrano, infine, un aumento del numero e della durata della custodia cautelare. Un quadro in linea con le violazioni rilevate dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza pilota Varga e altri contro l’Ungheria. “La Corte territoriale, pur dando atto nella sua richiesta di informazioni delle condizioni psicologiche del ricorrente conseguite alla precedente carcerazione patita presso le carceri ungheresi - si legge nella sentenza - si è limitata a reputare sufficienti le informazioni fornite dalla Autorità penitenziaria ungherese, benché queste riguardino esclusivamente il trattamento detentivo applicato nell’istituto penitenziario di Szombathely”. Insomma, i giudici che hanno dato l’ok al Mae non avevano elementi per escludere il rischio di trattamenti disumani o degradanti. Un monito di cui Nordio ora non potrà non tenere conto. La prevenzione non può travolgere il diritto: ecco cosa dice la Cedu sulle misure patrimoni di Andreana Esposito L’Unità, 11 ottobre 2025 Con una decisione che segna una ulteriore tappa nel percorso di progressivo affinamento degli standard di legalità convenzionale, Strasburgo torna a occuparsi delle misure di prevenzione patrimoniali italiane. La sentenza Isaia e altri c. Italia (25 settembre 2025), ha accertato la violazione dell’art. 1 del Prot. n. 1 Cedu, ravvisando un’interferenza sproporzionata nel diritto di proprietà dei ricorrenti. Il caso, avviato a Palermo nel 2018, riguardava il sequestro di beni ai sensi del Codice antimafia del 2011, che consente l’ablazione dei patrimoni sproporzionati rispetto ai redditi leciti. La pericolosità del proposto, fondata su condanne per reati predatori tra gli anni Ottanta e Novanta, era però remota: gli acquisti risalivano al 2010, 2016 e 2018, e le autorità avevano ipotizzato reinvestimenti di vecchi proventi illeciti. Ed è qui che interviene la Corte EDU che non contesta la misura, ritenuta compatibile con la Convenzione, ma richiama l’Italia al rispetto delle proprie regole: la confisca deve mantenere una correlazione temporale con il periodo di effettiva pericolosità. Non basta la sproporzione tra redditi e patrimonio né ipotizzare reinvestimenti non provati: servono elementi concreti che colleghino i beni ai reati commessi. L’operazione della Corte non è demolitoria, ma di cesello. La Corte non smantella il sistema, ma chiede rigore nell’applicazione. È la stessa logica che, in altri settori, l’ha portata a sottolineare i limiti di misure preventive troppo generiche (De Tommaso 2017) o a esigere rigorosi standard di prova nei casi bulgari di confisca senza condanna (Todorov, Yordanov). L’idea di fondo è che la lotta alla criminalità organizzata e alla ricchezza ingiustificata rimane legittima, anzi necessaria, ma non può tradursi in automatismi che scardinano la certezza del diritto. La sentenza Isaia si colloca quindi nel solco di una giurisprudenza che non guarda con sfavore alle politiche di prevenzione patrimoniale, ma ne rafforza i contrappesi. Non dà indicazioni di cambiamento al legislatore. Indica, al contrario, alle autorità giudiziarie la strada di garanzie da seguire. Alcuni giudici non hanno condiviso la decisione. Il giudice Sabato ha difeso le valutazioni dei tribunali italiani, ma il tono della sua dissenting opinion, incline a vedere nella sentenza una minaccia al sistema, convince poco. Egli equivoca sulla portata della sentenza che non demolisce l’impianto preventivo ma, al contrario, ponendosi nel solco di una lenta e talvolta timida opera di cesello, lo preserva perché dimostra che può essere collocato nella legalità convenzionale. La via indicata è quella di recuperare e reindirizzare istituti che restano importanti nel contrasto alla criminalità organizzata. Ciò non significa, però, che la confisca debba mantenere la centralità che oggi occupa: essa, pur mantenuta come strumento di contrasto, può e deve essere ricondotta a un ruolo meramente residuale e di extrema ratio, accanto ad altri strumenti di prevenzione più equilibrati e coerenti con il bilanciamento tra efficacia e garanzie. Ed è questo il monito principale che i giudici europei rivolgono all’Italia: privilegiare una politica della prevenzione più sofisticata, meno centrata sull’ablazione patrimoniale, più attenta al bilanciamento tra interessi collettivi e diritti individuali. Una politica che si avvale della confisca quando serve davvero, ma che sa anche percorrere vie alternative, fondate su controlli, incentivi e percorsi di responsabilizzazione. Non è necessario “colorare di penalità” la confisca di prevenzione per ridurne il carico afflittivo: è sufficiente ricondurla a una autentica funzione preventiva, fondata su un ragionevole equilibrio tra sicurezza e libertà e assegnarle un ruolo ancillare, privilegiando invece gli altri strumenti che il sistema di prevenzione italiano ha progressivamente sviluppato. Meccanismi capaci di coniugare legalità e garanzie: dal controllo giudiziario delle imprese alla loro amministrazione temporanea, da modelli premiali di collaborazione fino a percorsi di recupero aziendale che mirano a bonificare dall’interno realtà economiche compromesse. Se la confisca di prevenzione ha rappresentato un presidio fondamentale contro le mafie e l’accumulazione criminale, oggi il vero banco di prova è la sua capacità di convivere con le garanzie della Convenzione. La Corte EDU ha alzato l’asticella, ma non ha chiuso la porta: ha ricordato che legalità e prevenzione non sono incompatibili, purché l’una non travolga l’altra Milano. Tragedia a San Vittore, due morti sospette in appena 12 ore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2025 Due vite spezzate nel giro di dodici ore avvenuti nel carcere milanese di San Vittore. Altri tre detenuti hanno avvertito un malore. E un’indagine che ora cerca di capire se dietro questa doppia tragedia ci sia un filo comune o solo un tragico caso. La sequenza degli eventi ha dell’inquietante per la sua rapidità. Giovedì sera, verso le 20, un cittadino peruviano di 36 anni muore al Policlinico di Milano dopo essere stato trasportato d’urgenza dall’infermeria del carcere. Non aveva problemi di salute noti. Si era sentito male in cella e la sua condizione era precipitata in poche ore. Ieri mattina, giovedì, alle 7, un cittadino marocchino classe 1977, ospitato in un altro reparto del carcere, viene trovato senza vita nella sua cella. Aveva disturbi di salute pregressi. Anche per lui, arresto cardiaco. Due reparti diversi - il 5 e il 3 - due uomini che non si conoscevano, due morti sospette che hanno fatto scattare immediatamente l’allarme. Il Dipartimento regionale dell’Amministrazione penitenziaria, in una nota ufficiale diffusa in giornata, ha fornito le prime indicazioni sulle possibili cause dei decessi: ‘ Dalle prime informazioni, una morte sarebbe riconducibile alla presunta assunzione di oppiacei, mentre la seconda è probabilmente per altre cause (emorragia gastrica)’. Due ipotesi distinte, dunque, che allontanerebbero lo scenario di una partita di droga letale circolata all’interno del penitenziario. Ma gli inquirenti non escludono nulla. Il procuratore di Milano Marcello Viola ha preso personalmente in mano il coordinamento delle indagini, affidandole ai pm di turno Carlo Scalas ed Enrico Pavone. Per entrambi i detenuti è stata disposta l’autopsia, esame fondamentale per chiarire con certezza le cause della morte. I decessi erano stati inizialmente segnalati come ‘morte naturale’, ma le circostanze hanno subito insospettito gli investigatori. La macchina della sicurezza si è messa in moto immediatamente. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno bloccato l’ingresso degli operatori esterni e avviato una perquisizione straordinaria dell’intero istituto, molto più approfondita di quella quotidiana. Le unità cinofile antidroga hanno setacciato ogni angolo del carcere alla ricerca di sostanze stupefacenti. Esito: negativo. Nel frattempo, altri tre detenuti hanno accusato malori. Sono stati immediatamente assistiti dal personale sanitario e, al momento, risultano fuori pericolo. La polizia penitenziaria li ascolterà nelle prossime ore per ricostruire eventuali dinamiche comuni. “Sono tragedie che colpiscono tutti, in una situazione che già non è bella. Le carceri in generale devono fare un passo verso la civiltà”. Parole significative quelle di Luigi Pagano, garante dei detenuti del comune di Milano, che conosce bene San Vittore per averlo diretto per anni. Recatosi immediatamente sul posto appena appresa la notizia, Pagano ha commentato: “Di sicuro c’è che ci sono due ragazzi morti e si sta cercando di capire se c’è un filo comune. Episodi come questi possono succedere e lo dico da ex direttore, collegarli è la prima ipotesi ma servono degli accertamenti. Parliamo di 1.100 persone”. Un numero, quello dei detenuti, che fotografa il sovraffollamento cronico di una struttura ottocentesca, pensata per tutt’altre dimensioni e condizioni di detenzione. San Vittore non è un carcere qualunque. Costruito alla fine dell’Ottocento su modello del “panopticon” settecentesco, con le sue sei braccia e le “rose” di passeggio per impedire la comunicazione tra reclusi, è diventato nel corso del Novecento uno dei simboli - spesso drammatici - del sistema penitenziario italiano. Durante la Seconda guerra mondiale fu parzialmente controllato dalle SS tedesche. Oggi ospita oltre mille detenuti in spazi inadeguati, in condizioni che lo stesso garante definisce “non belle”. La tragedia odierna riaccende i riflettori su una realtà che troppo spesso sfugge all’attenzione pubblica: quella delle nostre carceri, sovraffollate, obsolete, dove la dignità umana fatica a trovare spazio e dove ogni morte solleva interrogativi che vanno oltre le singole responsabilità. Le autopsie diranno se si è trattato di overdose, di malattie preesistenti o di altre cause. Ma resta un dato incontrovertibile: in dodici ore, due uomini sono morti dietro le sbarre. E questo, di per sé, è un fallimento collettivo. Milano. Raul, tragedia al suo compleanno. Ipotesi: intossicazione da droga di Marianna Vazzana Il Giorno, 11 ottobre 2025 Il giovane avrebbe compiuto 36 anni. Mohamed si è spento 12 ore dopo. Altri tre hanno accusato malori. Perquisite le celle, al momento non è stata trovata droga. Disposta l’autopsia. I sindacati: “È allarme”. Sarà l’autopsia ad accertare le cause della morte di due detenuti di San Vittore. Vite spezzate a distanza di 12 ore. La prima è quella di Raul Alfonso Oruna Vasquez, peruviano, che si è spento giovedì sera alla vigilia del suo 36esimo compleanno. Ha avuto una crisi respiratoria, l’allarme è stato immediato ed è stato rianimato. Il suo cuore batteva quando è stato trasportato d’urgenza al Policlinico, ma non ce l’ha fatta. La seconda è quella di Mohammed Vezian, marocchino di 48 anni, deceduto ieri mattina nel penitenziario. Altri tre hanno accusato un malore nei giorni scorsi. Sono in corso le indagini della polizia penitenziaria mentre i pm di turno Carlo Scalas ed Enrico Pavone, coordinati dal procuratore di Milano Marcello Viola, hanno già disposto l’autopsia sui corpi di entrambi i deceduti. Al vaglio degli investigatori, l’ipotesi che i malori possano essere stati causati dall’assunzione di sostanze stupefacenti. In particolare, il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria ha fatto sapere che “dalle prime informazioni, una morte sarebbe riconducibile alla presunta assunzione di oppiacei, mentre, la seconda è probabilmente avvenuta per altre cause (emorragia gastrica)”. Intanto, ieri sono stati passati al setaccio i reparti - i due erano in due settori diversi - con le unità cinofile per cercare eventuali sostanze stupefacenti che potrebbero aver intossicato i detenuti. Al momento le ispezioni “hanno dato esito negativo” e non ci sarebbe una correlazione tra i malori. Gli altri tre ospiti della struttura che si sono sentiti male (due dello stesso reparto) sono già rintrati a San Vittore, dimessi dagli ospedali e fuori pericolo. Stando a quanto risulta al Giorno, i tre hanno negato di aver fatto uso di sostanze stupefacenti. Quotidianamente ingeriscono farmaci per patologie, ma sarebbe da escludere una eventuale “assunzione smodata” di medicine. Tutti i coinvolti sono tossicodipendenti. Se la causa dei due decessi fosse legata agli stupefacenti, bisognerà capire come sia entrata all’interno del carcere la droga “tagliata male” che potrebbe averli uccisi. “Sono tragedie che colpiscono tutti, in una situazione che già non è bella. Le carceri in generale devono fare un passo verso la civiltà” ha detto Luigi Pagano, storico direttore di San Vittore ora diventato garante dei detenuti del Comune di Milano. “Di sicuro c’è che ci sono due ragazzi morti e si sta cercando di capire se c’è un filo comune”. Allarme dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria: “Purtroppo le persone che muoiono durante la detenzione sono una costante drammaticità, nonostante il prezioso lavoro della polizia penitenziaria - dice il segretario generale Donato Capece -. L’overdose, causata da droghe, psicofarmaci, alcol o dal gas delle bombolette usato a scopo stupefacente, ha ucciso quasi due detenuti l’anno nell’arco di quasi 25 anni”. Milano. “È raro che una morte in carcere sia per droga, ma che circoli è un dato di fatto” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 11 ottobre 2025 “È il segreto di Pulcinella”. Così Pietro Farneti, responsabile dello Smi, il Servizio per le dipendenze che collabora stabilmente con la casa circondariale, definisce quello che tutti sanno ma nessuno scrive: la droga gira anche dentro. “È rarissimo che una morte in carcere sia ricondotta alle sostanze, ma che le sostanze circolino è un dato di fatto. Così come è un fatto che i ragazzi riescano ad accumulare farmaci per poi assumerli insieme o rivenderli all’interno”. Ogni settimana, nello storico penitenziario di piazza Filangieri, vengono eseguiti una cinquantina di esami del capello su 1.100 detenuti. “Basterebbe farli a tappeto, non solo su chi si autodenuncia tossicodipendente e quindi viene seguito dal Servizio per le dipendenze (Serd) interno, per avere nero su bianco che dentro questo problema esiste davvero - spiega Farneti -. Ma forse è più comodo tollerare. E comunque senza consenso non si può fare nulla: né test, né controlli”. Così i numeri restano parziali e la realtà scivola via come acqua tra le dita. Le due persone morte, precisa Farneti, non erano affidate al Serd né inserite nella “Nave”, la sezione terapeutica della casa circondariale. Uno, il peruviano, era al quinto raggio ed è spirato in ospedale per un’emorragia gastrica ancora da chiarire; l’altro, il marocchino, al terzo, è morto in cella per presunta assunzione di oppiacei e aveva un passato da tossicodipendente. “Il carcere è rimasto blindato per ore, solo psichiatri e alcuni medici hanno potuto entrare, il personale sotto shock”. San Vittore è una città nella città: celle affollate, una fitta rete di operatori, educatori, volontari, avvocati, addetti alle pulizie e alla manutenzione, medici, parenti. Ogni giorno centinaia di ingressi e uscite. “Un’osmosi vivace, come deve essere - dice Farneti - ma assicurare controlli e perquisizioni efficaci diventa complicatissimo, se non impossibile”. In quella soglia di piazza Filangieri, tra dentro e fuori, passa anche ciò che non dovrebbe passare. “Davvero niente può essere cambiato? - si chiede Farneti -. In Lombardia c’è una legge di riforma del sistema delle dipendenze dal 2020, ci sono piani per sviluppare progettualità, ma in cinque anni quella legge non è mai stata applicata”. Fuori dal carcere, le droghe cambiano faccia ogni settimana. “Per capire davvero che cosa si muove - spiega - i Serd dovrebbero tornare per strada, nelle piazze di spaccio, insieme ai tossicologi. La popolazione che seguiamo oggi è ormai cronicizzata, non basta come campione. È un’industria, e i prodotti cambiano di continuo”. Dietro le sbarre si muore in silenzio. E la morte, quando arriva tra le celle, non è mai solo una tragedia: è la prova che qualcosa, nel sistema, continua a non voler essere visto. Padova. Casa circondariale, scatta l’allarme: “Situazione invivibile. Rischio proteste” di Silvia Bergamin Il Mattino di Padova, 11 ottobre 2025 In quattro anni i detenuti nel circondariale sono più che raddoppiati. Bincoletto: “Celle umide, otto persone per stanza. È necessario un intervento urgente per evitare proteste o situazioni gravi”. “Il carcere Due Palazzi è vicino a un punto di rottura”. L’allarme, chiaro e diretto, arriva da Antonio Bincoletto, garante dei detenuti del Comune di Padova. Un richiamo che fa rumore in una città dove la tradizione penitenziaria è sempre stata un modello di equilibrio e progettualità, ma che oggi si trova ad affrontare una pressione senza precedenti. Il fenomeno, spiega Bincoletto, non riguarda solo Padova ma l’intero Paese. “Oggi nelle carceri italiane ci sono oltre 63 mila persone ristrette, e dall’inizio del 2025 66 si sono tolte la vita. È un dato che non può essere considerato una fatalità: segnala un sistema in difficoltà profonda”. Nella casa di reclusione di Due Palazzi, la situazione è ormai critica: 630 detenuti su una capienza regolamentare di 480 posti, con l’imminente apertura di una nuova sezione che porterà altri 50 ingressi. “È un trend che deve allarmare”, osserva il garante, “perché più persone entrano, meno spazio resta per l’attività trattamentale, la formazione, il lavoro, il contatto con l’esterno. In queste condizioni la tensione cresce e la speranza di cambiare diminuisce”. Ancora più drammatica, però, è la realtà del circondariale, la struttura più vecchia del complesso padovano. In quattro anni i detenuti sono passati da 130 a 267, più del doppio. “L’aumento”, spiega Bincoletto, “è legato anche al trasferimento a Padova di persone provenienti dal carcere di Venezia, dove le condizioni igieniche sono divenute insostenibili a causa di un’infestazione di cimici”. Le celle del circondariale ospitano anche otto persone per volta, con letti a castello e muri umidi: “Sono spazi pensati per due, oggi ne contengono quattro volte tanto”, racconta. “Servirebbero ristrutturazioni serie e interventi strutturali, ma al momento ci si limita a tamponare le emergenze”. Con le sezioni ordinarie ormai sature, i nuovi arrivi vengono sistemati nelle aree Icat, destinate ai detenuti con problemi di tossicodipendenza. “Questa commistione”, sottolinea, “crea convivenze difficili e tensioni costanti, perché le esigenze sono molto diverse”. A risentirne è anche il personale di polizia penitenziaria. “Gli agenti e gli operatori sociali stanno sostenendo un carico di lavoro enorme”, afferma Bincoletto. “Finora sono riusciti a evitare proteste o episodi gravi, ma non si può reggere ancora a lungo in queste condizioni”. Nei giorni scorsi anche la direzione del carcere e i rappresentanti della polizia penitenziaria hanno lanciato appelli a Roma. “È necessario”, insiste, “che l’amministrazione penitenziaria intervenga subito, alleggerendo la pressione sul circondariale e restituendo condizioni minime di vivibilità”. Padova, conclude il garante, è sempre stata un laboratorio di esperienze positive, dai progetti di reinserimento al lavoro esterno: “Non possiamo permettere che questo patrimonio vada perduto”. Ivrea (To). Un piano del carcere è stato completamente ristrutturato dai detenuti di Sara Sonnessa torinocronaca.it, 11 ottobre 2025 Un piano del carcere di Ivrea è stato completamente ristrutturato: pareti bianche, stanze adibite a laboratori, scrivanie e mobili nuovi. E a sistemarlo e a decorarlo sono stati proprio i detenuti. Il lavoro è stato realizzato nell’ambito del corso di stucco e decoro organizzato da Casa di Carità Arte e Mestieri, un percorso professionalizzante che coinvolge dieci detenuti. L’obiettivo è insegnare competenze artigianali e fornire strumenti concreti per il reinserimento sociale. All’interno di questo piano, prende forma anche una bellissima biblioteca. Libri di ogni genere: dal codice penale ai romanzi di narrativa, passando per saggi di varia natura. Tutti i volumi sono stati donati, etichettati e organizzati con cura. Oggi, due detenuti sono i responsabili della biblioteca e raccontano con orgoglio come i compagni abbiano già iniziato a usufruire del servizio: leggono, studiano e si confrontano su testi di varia natura, approfittando di un’occasione di crescita culturale. Le belle notizie dal carcere non finiscono qui. Il penitenziario di Ivrea è stato protagonista dell’ultima data del festival Pixel, dedicato alla musica d’autore. La kermesse è stata curata da Fabrizio Zanotti, art director e cantautore, che ha scelto il carcere per due motivi: “Il primo, io qui ho fatto dei laboratori e con i ragazzi abbiamo prodotto cose bellissime. Il secondo? Il festival girava i quartieri. Il carcere è un quartiere”. A fare gli onori di casa, il direttore del carcere Alessia Aguglia, che ha ringraziato tutti coloro che, ogni giorno, contribuiscono a rendere un luogo difficile un po’ meno difficile. Tolmezzo (Ud). L’Arcivescovo con i detenuti: “La verità libera il cuore, anche in carcere” di Bruno Temil* lavitacattolica.it, 11 ottobre 2025 “Dio ci ha creati liberi. Ogni giorno possiamo scegliere tra verità e menzogna, tra bene e male. E chi sceglie la verità sperimenta la libertà del cuore, anche dentro le mura di un carcere”. Sono parole dell’arcivescovo di Udine, mons. Riccardo Lamba, che giovedì 9 ottobre ha incontrato un nutrito gruppo di persone detenute nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo in occasione del terzo appuntamento con le catechesi “giubilari” proposte dal pastore della Chiesa friulana nell’anno della Speranza. All’incontro - svoltosi in un clima di profonda attenzione e partecipazione - era presente anche il cappellano padre Claudio Santangelo, che da circa tre anni accompagna con discrezione e dedizione la vita spirituale della comunità carceraria (l’appuntamento sarà ripetuto giovedì 16 nel carcere di Udine e anche qui l’Arcivescovo sarà accompagnato dal cappellano, padre Lorenzo Durandetto). Toccanti le risposte dei detenuti al dialogo aperto da mons. Lamba. “Ci aiuta la fede”, “Ci sostiene l’amore del Signore”. “Sì - ha confermato loro il vescovo -: la fede ti radica nella giustizia, come un albero che non cade al primo vento. E l’amore per Dio o per una persona ti tiene saldo nella verità. Anche Pietro, che amava Gesù, lo ha rinnegato: ma proprio per questo ha pianto, perché chi ama soffre quando tradisce la verità”. Carcere di Tolmezzo Dire la verità: fondamento della libertà - “Sono felice di essere qui - aveva esordito l’Arcivescovo -, per condividere con voi un momento di verità e di ascolto reciproco”. E, invitando i detenuti a riflettere sul significato della parola testimonianza, l’Arcivescovo ha poi accolto le loro risposte - da chi ha evocato Cristo “testimone del Padre” a chi ha richiamato il linguaggio dei tribunali - per condurre la riflessione verso un punto chiave: “Il testimone è colui che racconta i fatti come sono realmente accaduti, senza piegarsi a convenienze o pressioni. Dire la verità è la prima forma di libertà”. “La vera testimonianza è sempre ancorata al bene - ha commentato mons. Lamba -. Mentire consapevolmente significa tradire se stessi e la propria coscienza”. “Tutti, nella vita, abbiamo detto piccole bugie - ha continuato -. Ma la coscienza ci parla: il male, anche piccolo, lascia un segno. Se non lo correggiamo, diventa un’abitudine che ci allontana dalla verità”. Giustizia riparativa e perdono - Stimolato da una domanda su come comportarsi di fronte all’ingiustizia, mons. Lamba ha introdotto poi il tema della giustizia riparativa: “È un percorso avviato ormai da vent’anni. Alcune vittime del terrorismo, come la figlia di Aldo Moro, hanno scelto di incontrare chi aveva ucciso i loro cari. È un cammino lungo, fatto di ascolto e mediazione, per riconoscere il dolore reciproco. Anche nelle famiglie ferite si può vivere una forma di giustizia riparativa: significa imparare a mettersi nei panni dell’altro”. Alla domanda se questa possa essere compito dello Stato, ha chiarito: “Lo Stato amministra la giustizia istituzionale; ma la riparazione del cuore è sempre personale. Solo chi riconosce il male può iniziare a guarire”. E sul perdono: “Il Vangelo chiede di perdonare non sette, ma settanta volte sette. È un cammino che dura tutta la vita, e che solo la grazia di Dio rende possibile”. Riprendendo il filo della speranza, l’Arcivescovo ha poi aggiunto: “Meglio soffrire per aver detto la verità che per aver mentito”. E con un’immagine cara al mondo contadino, ha concluso: “Il contadino si sacrifica nella semina, anche se non sa come andrà il raccolto. Ma il suo lavoro non è vano, perché è stato fatto per amore. Così è anche per voi: ciò che seminate oggi nella verità porterà frutto nel tempo”. La verità libera il cuore - Nel suo saluto finale, l’Arcivescovo ha incoraggiato i detenuti a custodire la libertà interiore: “Nessuno è esente da difficoltà, ma chi vive nella verità è libero anche tra queste mura. Non lasciatevi scoraggiare: attaccatevi alla verità come una madre che stringe le sponde del letto durante il parto. Chi vi dice la verità lo fa perché vi vuole bene. Con la grazia di Dio, potete essere anche voi testimoni autentici del bene e della libertà interiore”. La catechesi di mons. Lamba è stata introdotta e conclusa da due canti di preghiera eseguiti dai detenuti, che hanno voluto così esprimere il loro ringraziamento al pastore della Chiesa udinese per la costante attenzione verso la condizione dei carcerati di Tolmezzo e di Udine. In occasione della visita, l’Arcivescovo ha anche portato il suo saluto alla direzione del carcere e agli operatori interni, segno di vicinanza concreta alla complessa realtà della detenzione. *Volontario nel Carcere di Tolmezzo Nelle Marche al via il Terzo Festival regionale di teatro in carcere consiglio.marche.it, 11 ottobre 2025 Terza edizione del progetto del Garante regionale dei diritti, realizzato in collaborazione con il Comune di Ancona ed attuato dall’associazione culturale “Aenigma”. Terminata la prima fase dell’iniziativa, in attesa dell’evento pubblico conclusivo del 17 ottobre al Ridotto del Teatro delle Muse di Ancona. Va in scena il “Terzo festival regionale di teatro in carcere nelle Marche” realizzato dal Garante regionale dei diritti della persona delle Marche, Giancarlo Giulianelli, in collaborazione con il Comune di Ancona ed attuato concretamente dall’Associazione culturale cittadina universitaria “Aenigma APS”, capofila del coordinamento regionale Teatro in Carcere Marche. Il Festival, giunto alla terza edizione dopo le esperienze del 2022 a Pesaro e del 2024 a Macerata, promuove di fatto, attraverso il linguaggio delle arti sceniche, riflessioni sul valore dei percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. L’avvio si è tenuto tra il 17 e il 23 maggio, quando i detenuti-attori si sono esibiti a favore di numerosi studenti frequentanti l’Università e la Scuola secondaria di primo e secondo grado in sei diversi spettacoli negli Istituti penitenziari di Fossombrone, Pesaro, Ancona Montacuto e Ancona Barcaglione. La conclusione avverrà con la restituzione alla comunità regionale del lavoro svolto nei laboratori teatrali attivi nell’anno presso gli Istituti penitenziari marchigiani; il 17 ottobre (ore 10), presso la Sala Ridotto del Teatro delle Muse di Ancona, i cittadini saranno chiamati a partecipare alla Tavola rotonda su “Teatro, carcere e Comunità”, quale occasione di riflessione condivisa sull’essere uomo dentro e fuori il carcere, e, alle ore 21 alla messa in scena della rappresentazione teatrale “Voci e vite dalla cantina di Kafka”. “Il progetto - sottolinea il Garante Giulianelli - contribuisce a perseguire l’obiettivo che mi sono dato: impegnarmi per abbattere il muro di separazione tra comunità civile e comunità carcerarie. In questo caso ciò avviene attraverso la condivisione di un’esperienza teatrale che ha il potere di mettere in contatto il dentro ed il fuori delle “mura” (detenuti con studenti, associazioni, volontari, cittadini tutti) e di diffondere una cultura del rispetto e del contrasto di ogni tipo di discriminazione”. “In sinergia con la collega Manuela Caucci, assessore ai Servizi Sociali - rileva l’assessore alla Cultura del Comune di Ancona Marta Paraventi - abbiamo accolto con entusiasmo la proposta del Garante regionale dei diritti della persona delle Marche di ospitare ad Ancona la terza edizione del Festival regionale di teatro in carcere. Riteniamo che la pratica teatrale, strutturata attraverso percorsi laboratoriali e creativi rivolti alle persone detenute, rappresenti non soltanto un’esperienza espressiva e formativa, ma anche un potente strumento pedagogico e trasformativo”. Salute mentale: strategie per sciogliere i nodi della Psichiatria sui territori adnkronos.com Giornata mondiale per la Salute mentale: ci sono 87 comunità, piazze, scuole, carceri e luoghi di cura collegati dalle 12 di oggi e per tutto il pomeriggio con Piazza Santa Maria Della Pietà a Roma, dove si è riunito in occasione della Giornata Mondiale sulla Salute mentale il Collegio nazionale dei dipartimenti di Salute mentale (Dsm), presieduto da Fabrizio Starace, psichiatra direttore del dipartimento di Torino 5 e presidente uscente del Collegio e Giuseppe Ducci, direttore del Dipartimento della Asl Roma 1 e presidente eletto del Collegio nazionale. Il congresso è organizzato da Motore Sanità. “L’obiettivo è accendere i fari sulle necessità e urgenze delle cure psichiatriche in Italia e nei territori partendo da un’analisi approfondita dei dati per proporre le direttrici di una riforma della Salute mentale da attuare nel Paese partendo dal basso e dall’esperienza quotidiana vissuta nei luoghi della cura, del disagio e della sofferenza, nei dipartimenti che innervano il tessuto assistenziale” spiega Ducci.Fari puntati sulle priorità per i servizi di salute mentale nel nostro Paese per proporre un programma strategico per il miglioramento e lo sviluppo dei Dipartimenti di Salute Mentale in Italia. Il primo nodo è il sottofinanziamento che in base allo standard fissato oltre 20 anni fa (nel 2001) dovrebbe essere il 5% della torta come obiettivo minimo raccomandato per i Paesi a basso e medio reddito e che invece in Italia è attestato a una media che non supera il 3% a fronte del 10% dello standard internazionale (Francia, Germania, Canada, Regno Unito)”. I mancati investimenti in Salute mentale si traducono in maggiori costi diretti e indiretti - aggiunge Starace - (3,3% del Pil stima Ocse di cui lo 0,2% per cure psichiatriche). Il sottofinanziamento della salute mentale genera infatti costi maggiori per l’intero sistema per ricoveri, farmaci, perdita di produttività e impatto familiare”. La proposta del Collegio nazionale dei Dipartimenti di Salute mentale per una svolta e il cambiamento si traduce in 3 strategie: rifinanziare e ampliare le previsioni e l’intesa siglata nel 2022, con progetti di rafforzamento dei dipartimenti attraverso fondi vincolati e rendicontazione di risultati superando l’attuale frammentazione (tipo quella del bonus psicologo). Poi raggiungere il faro del 5% del fondo sanitario nazionale che significa mobilitare circa 2,3 miliardi annui integrando risorse PNRR e adeguando gli standard di personale. Infine riallocare le risorse regionali incentivando i territori sotto media nazionale a redistribuire fondi interni, mobilitando centinaia di milioni e riducendo disuguaglianze territoriali. “Quando si parla di risorse - aggiunge Ducci - non si fa riferimento solo a quelle economiche: l’obiettivo prioritario è infatti l’adeguamento degli organici agli standard Agenas, approvati in Conferenza Stato Regioni tre anni fa e migliorare i processi di reclutamento, responsabilizzando anche la componente universitaria per favorire l’ingresso del personale in formazione nei Dipartimenti. C’è poi la questione del modello organizzativo: vale a dire dipartimento integrato con le dipendenze patologiche e i servizi per età evolutiva, la transizione adolescente adulto, la multidisciplinarietà come valore organizzativo, culturale e strategico”. Un nuovo modello organizzativo che distingue la Psichiatria come disciplina medica e la Salute Mentale come sistema interdisciplinare, valorizzando le diverse professionalità”. Il Dipartimento di Salute Mentale è infatti un’organizzazione multiprofessionale che integra discipline complementari e professionalità diverse. I principi guida? Sono la recovery, l’empowerment degli utenti e professionisti, l’inclusione sociale e lotta allo stigma laddove i nodi da sciogliere attuali sono l’attuale modello di psichiatria generalista dominante, la prevalenza dell’approccio medico-farmacologico, la carenza di trattamenti psicosociali efficaci e la necessità di modelli scientificamente validati.”Noi proponiamo - continua Ducci - PDTA integrati per adulti, dipendenze e infanzia e adolescenza, modelli stepped care meno invasivi, budget di Salute per integrazione sociale, ampliamento delle porte d’ingresso ai servizi tenendo ben presenti i nuovi bisogni emergenti relativi ai disturbi alimentari, neurosviluppo (spettro autistico, ADHD e disabilità intellettive), disturbi di personalità (comorbilità con abuso di sostanze) la regolazione emotiva (adolescenti in transizione verso l’età adulta). A fronte di ciò occorre migliorare l’accesso e la qualità delle cure puntando sull’accesso ampliato (visite psicologiche, triage infermieristici, primo contatto con assistenti sociali e reti di prossimità), il superamento del modello medico-centrico, (rafforzamento degli interventi psicosociali, psicoterapia e riabilitazione con psicologi ed educatori), e sicurezza degli ambienti (dignità utenti, sicurezza operatori e superamento stigma interno) tenendo sempre ben presenti i fari della Prevenzione selettiva (nelle scuole su ritiro sociale, fobia scolastica, consumo di sostanze), della integrazione territoriale (sinergie con medicina primaria nelle Case della Comunità), dell’intervento precoce (programmi dedicati alla psicopatologia dell’adolescenza e giovani adulti), e delle reti di comunità (coinvolgimento di associazionismo, enti locali, settori produttivi)”. Cruciale poi il rapporto tra psichiatria e giustizia, un solo dato: il 10-15% della popolazione detenuta ha un disturbo mentale grave (6.000-9.000 persone), ma esistono solo 320 posti in 33 sezioni specializzate per circa 60 mila detenuti in Italia. Il superamento dell’ospedale Psichiatrico giudiziario ha avuto conseguenze drammatiche sui servizi di Salute mentale a causa dell’enorme dilatazione delle misure di sicurezza non detentive. Oggi le strutture residenziali ed ospedaliere sono occupate in misura significativa da persone soggette a misura di sicurezza di tipo psichiatrico, anche in presenza di situazioni che con la psichiatria hanno solo un contatto marginale. Ciò ha riproposto drammaticamente nei servizi di salute mentale quelle funzioni custodialistiche che si pensava di aver superato definitivamente con la legge 180. Rivendichiamo il mandato di cura e non di controllo da parte dei DSM. Oggi la non imputabilità è spesso estesa a disturbi di personalità che gonfia il ricorso alle REMS causando liste d’attesa e detenuti che non dovrebbero essere in quelle strutture. Così soggetti non imputabili sono seguiti dai Dipartimenti di Salute mentale con funzioni custodiali mentre imputabili nel circuito penitenziario con accesso limitato. La nostra proposta di riforma passa per la revisione del Codice penale per definire/modificare la non imputabilità riconoscendo funzioni cognitive, emotive e relazionali complesse, il rafforzamento del sistema della salute mentale in ambito penale, la definizione di nuovi percorsi dentro e fuori le strutture penitenziarie, una migliore sicurezza delle Rems e la riduzione degli internati (abbattere liste d’attesa e migliorare opportunità di cura con misure non detentive per non imputabili). Infine, la formazione e la ricerca: i Dsm devono essere soggetti attivi e protagonisti della formazione dei medici e degli specialisti, nonché delle altre professioni sanitarie. L’esigenza è anche di valorizzare il ruolo della psicologia clinica e dello psicologo distrettuale come espressione territoriale di base dei DSM (all’interno delle Case della comunità), il governo della rete degli accreditati (che in alcune realtà assorbe oltre il 40% della spesa), in integrazione e non competizione con pubblico, puntare sull’integrazione sociosanitaria, adottare il paradigma del budget di Salute (in termini di partecipazione, coprogettazione, coordinamento e inclusione). Alcune delle Piazze collegate - La Piazza della Prefettura a Catanzaro, la Piazza Ghiaia a Parma, De Ferrari a Genova, il Palazzo Arese Borromeo in Brianza, la Sala Consiliare del Comune di Tolmezzo, Casa Berva presso il Comune di Cassano D’Adda in provincia di Milano, Piazza San Carlo a Torino, La Chiesa della S.S. Trinità, in Via del Pistone a Monferrato (Asti), Piazza San Graziano a Novara. E poi Teatro Fondazione Cariciv in Piazza Verdi a Civitavecchia, Piazza Sempione, la sede del Liceo Dante Alighieri e lo Spazio oratorio Santa Maria della Salute di Primavalle, i Caselli Romani, Minturno e decine di altre strade e Piazze a Roma, consiglio comunale di Cagliari, Piazza Politeama a Palermo, Villa Belvedere ad Acireale, Piazza della Repubblica a Foligno, Chiostro di San Pietro a Perugia. Migranti. Un bivio disumano per l’Italia di Widad Tamimi Il Manifesto, 11 ottobre 2025 Lettera. Gentile ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, questa non è solo una lettera. È un grido. Perché ciò che sta accadendo nelle ultime settimane a giovani genitori palestinesi ammessi in Italia con borse di studio non è un malinteso burocratico: è un ricatto disumano. A queste persone, già fuggite dalla guerra, viene chiesto di scegliere tra la possibilità di studiare e il diritto di tenere accanto i propri figli. Una voce al telefono, dal Consolato generale d’Italia a Gerusalemme, li mette di fronte a un bivio che nessun essere umano dovrebbe conoscere: “È pronta la prossima evacuazione. Lei sarà su questa lista. Ma suo figlio non può venire con lei”. “Come sarebbe?” chiede la giovane madre, incredula. “Mi dica cosa ha deciso: parte senza suo figlio o rinuncia?”. Tre volte la stessa domanda, fredda, urgente: “Senza suo figlio o rinuncia?”. E poi il silenzio. Aisha trema, risponde: “Senza mio figlio non posso”. E dall’altra parte - click - si chiude la comunicazione. Questo, Ministro, non è un atto amministrativo. È un atto di disumanità. Un sistema che pretende di spingere un genitore a lasciare il proprio bambino dietro un confine - promettendo un “ricongiungimento successivo” che la legge italiana, la Costituzione e le convenzioni internazionali non prevedono per chi entra con visto per studio. È un ricatto travestito da opportunità. Lei stesso, lo scorso anno, mostrò al Paese un volto di umanità che ci rese orgogliosi. Quando le chiesi di evacuare otto bambini amputati a Gaza, lei rispose davanti alle telecamere: “Ci sono minori? Se ci sono minori, li porteremo fuori”. E lo fece. Due settimane dopo, quei bambini erano in Italia. Fu un gesto che ricordò a tutti che l’Italia non è un Paese indifferente. Che, al di là delle bandiere e dei governi, sa scegliere la compassione come forma più alta di giustizia. Oggi, Ministro, la prego: non permetta che quello stesso Paese chieda a un padre o a una madre di lasciare un figlio sotto le bombe per venire a studiare. Non permetta che il nome dell’Italia venga associato a un simile ricatto morale. La legge italiana parla chiaro. Il Testo Unico sull’Immigrazione (artt. 29 e 30), la Direttiva UE 2016/801, la CEDU (art. 8) e la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (artt. 9 e 10) riconoscono che i familiari degli studenti con visto per studio devono poter entrare “al seguito”. Non “dopo”, non “forse”. Insieme. Perché il diritto allo studio non può passare attraverso la negazione del diritto alla genitorialità. E c’è di più: i nuclei familiari non sono solo un valore privato da tutelare, ma un bene sociale per lo stesso Paese che accoglie. Famiglie integre significano equilibrio, forza, radicamento. Significano bambini che crescono in sicurezza, genitori che possono studiare, lavorare, contribuire. Separarli non solo vìola i diritti umani: è un errore politico e sociale, che genera solitudine, fragilità e costi umani enormi - da una parte e dall’altra del confine. Ministro, non sono parole astratte. Dietro ogni telefonata c’è una vita in sospeso. Oggi parto per il Cairo per portare via cinque bambini. Il loro ricongiungimento con la madre - il padre è stato ucciso - è stato finalmente autorizzato. Ma solo dopo che la loro sorellina di nove anni è morta di rabbia, per il morso di un cane. I fratellini l’hanno vista morire dietro un vetro, soli, senza i genitori. L’hanno sepolta da soli. E la madre, in Europa con un’altra figlia paraplegica per un missile, oggi non riesce più a reggersi in piedi dal dolore. Ha perso dodici familiari in un anno. E ancora deve giustificarsi per aver voluto i suoi bambini con sé. Mi domando: che vantaggio ha un Paese che salva i corpi ma abbandona i legami? Che senso ha aprire le università ma chiudere le porte ai figli di chi vi entra? Le chiediamo, con la stessa fiducia che ci mosse quando evacuammo i piccoli feriti, di intervenire subito: consenta che gli studenti palestinesi con borse di studio possano partire insieme ai loro figli. Siamo pronti, come allora, a fornirle una lista completa e tutta la documentazione necessaria per dimostrare i requisiti di alloggio e reddito. A brevissimo ci sarà una nuova evacuazione. Speriamo di vedere in quella lista i valori in cui crediamo: il diritto delle donne a studiare, il diritto delle famiglie a restare unite, il diritto alla vita. Con rispetto, con dolore e con speranza. Medio Oriente. Perché la vera pace è ancora lontana di Nathalie Tocci La Stampa, 11 ottobre 2025 Israele e Hamas hanno accettato il piano del presidente statunitense Donald Trump, e le parti si preparano al rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, dopo il cessate il fuoco nella martoriata Striscia di Gaza iniziato ieri mattina. Significa che la guerra genocidaria di Israele sta volgendo al termine e che israeliani e palestinesi si avviano alla soluzione dei due Stati? Sarebbe bello crederci, ma per ora è improbabile. Cominciamo con le buone notizie. Israele ha finalmente accettato la prima fase del piano, quella che prevede, appunto, il rilascio dei 48 ostaggi israeliani a Gaza - di cui circa 20 dovrebbero essere ancora in vita - e di 2.000 prigionieri palestinesi incarcerati in Israele. Non sappiamo ancora chi siano questi prigionieri e se tra questi ci sia Marwan Barghouti, il popolare leader che, pur appartenendo non ad Hamas bensì alla rivale Fatah, non è considerato dai palestinesi un venduto agli interessi di Israele, a differenza della maggior parte dei rappresentanti dell’Autorità palestinese. Se Barghouti dovesse essere rilasciato, tornerebbe in libertà dopo più di vent’anni colui che in molti considerano l’unico capace di raccogliere il consenso popolare e traghettare i palestinesi verso l’autodeterminazione. Questo dovrebbe accadere nel contesto di un cessate il fuoco e della riapertura di Israele all’arrivo degli aiuti umanitari a Gaza. Dopo 67mila morti palestinesi e una carestia diffusa, oltre alle 1200 vittime israeliane dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, non possiamo che tirare un sospiro di sollievo. Ultima (ma non ultima) buona novella è l’apparente cambio di registro di Trump, che per ora pare aver accantonato macabri piani di espulsione di massa dei palestinesi e strategie immobiliari per creare riviere del Mediterraneo, sposando invece la necessità di un cessate il fuoco e l’avvio di un processo che si concluda con una statualità palestinese. A fargli cambiare idea è stato non tanto l’orrore a Gaza - nei confronti del quale non ha mai mostrato grande empatia -, bensì un Israele sempre più fuori controllo, che si è azzardato addirittura a bombardare, senza l’assenso di Washington, il Qatar, partner strategico degli Stati Uniti che ospita la più grande base militare americana nella regione. A solleticare l’ego di Trump, sollecitandone l’iniziativa, c’è infine la sua ossessione per il Nobel per la pace, riconoscimento che rimane fuori dalla sua portata. Ricordiamo però che quello che ora chiamiamo il piano Trump non è calato in questi giorni dal cielo, o dalla Casa Bianca. È lo stesso piano, con modifiche qua e là, che circola da oltre un anno, e che Israele aveva prima rifiutato, poi provvisoriamente accettato a gennaio 2025 nelle ultime settimane dell’amministrazione Biden, e quindi violato con l’assenso dello stesso Trump. Tra allora e oggi si sono registrati altri 20 mila morti palestinesi e si è stretto l’assedio di Gaza. Il fatto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia ora accettato il piano è quindi una buona notizia, che ci suggerisce che Trump abbia, per ora, cambiato idea e incoraggiato Israele a fermarsi. Per ora. Il problema sta tutto qui, ed è qui che finiscono le buone notizie. Il governo israeliano non ha accettato di implementare tutti e venti i punti del piano Trump, ma solo i primi quattro. È probabilmente per questo che, sebbene i due ministri più estremisti abbiano votato contro anche questa prima fase del piano, non hanno staccato la spina al governo Netanyahu. Evidentemente credono, o forse sanno, che la guerra, la rioccupazione e la futura ricolonizzazione israeliana di Gaza non sono obiettivi accantonati. C’è chi pensa e spera che una volta rilasciati gli ostaggi, Israele non abbia più motivi o scuse per ricominciare la guerra. Eppure lo ha già fatto a marzo scorso, dopo che un primo gruppo di ostaggi era stato rilasciato. Se il governo israeliano non è intenzionato a procedere con l’attuazione dell’intero piano, di pretesti per mandare tutto all’aria ne troverà. A partire dal disarmo di Hamas. Ad oggi Hamas pare abbia accettato un processo di disarmo progressivo delle sue capacità più offensive, cedendo invece le armi più leggere e difensive a quella che un giorno dovrebbe essere una forza palestinese, con la supervisione di una missione di stabilizzazione internazionale costituita predominantemente da Paesi arabi, e possibilmente con qualche centinaio di soldati statunitensi. Ma Israele non ha affatto accettato, e se diamo per scontato che il processo sarebbe quantomeno complesso, di pretesti per far saltare l’accordo ce ne saranno da vendere. Gli ostaggi, che in fin dei conti sono la sola cosa che interessa alla società israeliana, sarebbero tornati a casa, e così anche la pressione interna su Netanyahu verrebbe meno in gran parte. C’è poi la questione dell’autodeterminazione palestinese. Hamas ha acconsentito da tempo di non governare Gaza, e sposa l’idea di un’autorità transitoria di tecnici palestinesi, apripista a un ruolo dell’Autorità palestinese “riformata” . Israele non ha ufficialmente accettato, e il piano non specifica affatto cosa significhi questa “riforma” : potrebbe dire tutto e il suo contrario. Così come non c’è accordo sul ritiro completo israeliano dalla Striscia di Gaza, condizione imprescindibile per i palestinesi e rigettata da Israele. E anche qui il piano dice poco: non specifica le tempistiche o l’entità del ritiro, ancora tutte da negoziare. Insomma, ad oggi le probabilità che si proceda dal quarto al ventesimo punto del piano Trump sono minime. A meno che Trump non faccia ciò che fino ad ora non ha voluto, non solo nei confronti di Israele, ma anche della Russia nella guerra in Ucraina: esercitare una reale pressione anche a costo di subirne un prezzo. Se volesse, non sarebbe difficile. Nel caso della Russia, una maggiore pressione su Mosca riceverebbe il plauso di repubblicani e democratici al Congresso, che chiedono esattamente questo. Nel caso di Israele, Netanyahu, maestro nella mobilitazione della lobby pro-Israele negli Stati Uniti, si darebbe un gran da fare per far desistere Trump. Ma i repubblicani seguirebbero il loro re, e difficilmente i democratici si opporrebbero se Trump mettesse Netanyahu alle strette: è una realtà strutturale in America che un presidente repubblicano abbia più margine di manovra su Israele rispetto a un democratico. Ma il margine c’è se sceglie di usarlo, e fino a ora non è avvenuto. Accadrà? La speranza è l’ultima a morire, ma motivi di ottimismo ce ne sono pochi. Medio Oriente. Due attiviste israeliane in cella: per noi è diverso di Massimiliano Sfregola Il Manifesto, 11 ottobre 2025 Nessuna corsia preferenziale e nessun trattamento di favore: i tre cittadini israeliani arrestati insieme agli altri attivisti della Freedom Flotilla martedì scorso stanno sperimentando sulla loro pelle come, quando si parla di Gaza, non esista alcun privilegio di passaporto. “Sono ancora in detenzione perché rifiutano di firmare un documento in cui riconoscono l’ingresso illegale in una zona militare”, spiega Hadeel Abu Salih, avvocata palestinese-israeliana dell’associazione Adalah, che li rappresenta in tribunale. “Ma loro non sono entrati in alcuna zona militare: l’Idf ha sequestrato tutti in acque internazionali e li ha trasportati illegalmente in Israele insieme agli altri”. Se avessero firmato, hanno fatto sapere le autorità portuali, la situazione si sarebbe chiusa con una semplice denuncia e la scarcerazione immediata. Zohar Regev, ebrea israeliana, e Huwaida Arraf, palestinese-israeliana e avvocata della seconda Flotilla, non si piegano. Dopo l’udienza di ieri davanti alla corte di Ashkelon che ha esteso la detenzione, le due hanno iniziato uno sciopero della fame. Nel loro caso “non è stata la polizia ma l’esercito a trattarle con particolare durezza”, aggiunge Abu Salih. “Se per gli stranieri era un problema da risolvere in fretta, con loro l’esercito ha voluto fare una questione di principio”. Arraf, palestinese-israeliana, non parla ebraico, precisa l’avvocata, mentre Regev, che possiede anche un passaporto tedesco, è madrelingua. A differenza degli altri detenuti, le due attiviste e Omer Sharir, i tre israeliani della seconda Flotilla, non sono stati incriminati per ingresso illegale. Tuttavia, secondo l’avvocata che li assiste, il procedimento ha assunto una chiara connotazione politica: “La corte sta contraddicendo precedenti consolidati sulle Flotille, che consideravamo ormai assodati. Questa detenzione prolungata rappresenta una grave regressione”, afferma Abu Salih. Sharir, spiega l’avvocata, ha deciso di chiudere la questione firmando il documento, ma anche la sua detenzione è stata segnata da abusi: “È stato trasferito a Tel Aviv e incarcerato in una prigione locale, dove racconta di aver subito minacce di morte per il suo attivismo in difesa dei diritti dei palestinesi”, conclude. Il prossimo appuntamento in tribunale è domenica ma al momento rimane incerto l’esito della prossima udienza: “A questo punto è difficile prevedere cosa stabilirà il tribunale dopo aver imposto addirittura un divieto di ingresso a Gaza per 45 giorni”, riprende l’avvocata. Non è chiaro se allo scadere dei 45 giorni, sulla base del pronunciamento, diventi lecito o meno per un cittadino israeliano entrare nella Striscia. L’unica cosa certa per ora è che il sostegno nel paese ai tre israeliani è inesistente, sottolinea l’avvocata, mentre dall’estero fioccano comunicati e appelli per chiederne la scarcerazione. Medio Oriente. La nuova trincea c’è già e si chiama Cisgiordania di Enrica Muraglie Il Manifesto, 11 ottobre 2025 Il rapporto “Sovranità in tutto tranne che nel nome: l’accelerazione dell’annessione della Cisgiordania da parte di Israele”, pubblicato da “International crisis group” mentre entrava in vigore l’accordo per il cessate il fuoco. Mentre si festeggia la nuova tregua nella Striscia di Gaza, i palestinesi per sfinimento, Trump e il governo israeliano per presunti meriti e “risultati” ottenuti sulla pelle dei palestinesi, Israele intensifica gli sforzi per cancellare ciò che rimane della distinzione tra la vita degli israeliani nello stato ebraico e la vita dei coloni negli insediamenti in Cisgiordania. Quegli insediamenti che hanno causato sfratti, demolizioni, confische di terre, spostamenti forzati di migliaia di persone, morti e che sono considerati illegali dalla Corte internazionale di giustizia. A mettere nero su bianco la recrudescenza delle politiche di occupazione israeliane è l’ong International crisis group (Icg) nel suo nuovo rapporto “Sovranità in tutto tranne che nel nome: l’accelerazione dell’annessione della Cisgiordania da parte di Israele”, dato alle stampe mentre entrava in vigore l’accordo per il cessate il fuoco. Dei due ministri del governo di Tel Aviv che appartengono al movimento dei coloni (l’altro è Ben-Gvir), Smotrich è quello che ha accelerato l’espansione degli insediamenti attraverso una serie di studiate manovre burocratiche. E ha ridisegnato il “funzionamento dell’occupazione israeliana della Cisgiordania trasferendo poteri chiave dalle autorità militari a quelle civili”, dice il rapporto di Icg. Il leader di Sionismo religioso ha assunto ampi poteri in materia di sicurezza nella Cisgiordania, i cui aspetti riguardano tanto i palestinesi quanto i coloni israeliani ma ai quali si applicano due sistemi legali differenti. Gli oltre 700 mila coloni che vivono in Cisgiordania, dati Oxfam, sono soggetti al diritto civile israeliano. I palestinesi (circa 2,9 milioni di persone) sono sottoposti a legge marziale. “Dal fiume Giordano al mare c’è spazio per un solo diritto all’autodeterminazione nazionale, quello ebraico”, ha dichiarato Smotrich, rendendo chiaro l’obiettivo della Knesset di impedire la nascita di uno stato palestinese. Ma che Israele dichiari o meno la sovranità formale, come chiedono i leader degli insediamenti, nella sostanza gran parte del territorio della Cisgiordania è già stato annesso. Il movimento dei coloni d’altronde è una delle bussole che orienta la politica di Tel Aviv sulla Cisgiordania, rendendo impossibile ai palestinesi non soltanto pensare a un proprio stato lì, ma anche la conduzione di una vita normale nella propria terra. L’obiettivo della “grande Israele”. Quando Smotrich è entrato nella coalizione di governo nel 2022, tra gli accordi firmati con il partito Likud di Netanyahu vi era l’impegno da parte del primo ministro israeliano di lavorare per “una politica secondo cui la sovranità viene applicata alla Giudea e alla Samaria”. Sovranità che “nel lessico israeliano significa annessione”, sottolinea Icg. Il 23 febbraio 2023 è stata ufficializzata la creazione dell’Amministrazione per gli insediamenti, un ente che ha assunto il controllo di tutte le questioni civili nell’area C della Cisgiordania. Da Tel Aviv, Smotrich e i suoi gestiscono direttamente la pianificazione territoriale, la registrazione delle proprietà, la costruzione e la legalizzazione degli avamposti coloniali. Il controllo si estende su acqua, elettricità, telecomunicazioni, trasporti, siti archeologici, riserve naturali e attività agricole dei palestinesi. C’è più di qualcosa, anche in questo caso, che gli attori internazionali potrebbero fare, cogliendo l’opportunità offerta dalla diplomazia del cessate il fuoco: embargo sulle armi, interruzione dei rapporti commerciali con Israele, sanzioni. I precedenti non lasciano ben sperare, dal momento che è stata concessa a Israele “carta bianca nella sua annessione strisciante della Cisgiordania occupata”, dice Icg. L’ondata recente del riconoscimento dello stato di Palestina da parte di numerosi altri stati dovrebbe correre di pari passo a “un impegno politico volto a fermare l’annessione israeliana della Cisgiordania”. Repubblica Democratica del Congo. Condannato a morte il presidente che salvò i condannati a morte di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 11 ottobre 2025 Il 30 settembre è giunta una notizia paradossale: l’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila è stato condannato a morte in contumacia da un tribunale militare che lo ha riconosciuto colpevole di crimini di guerra, tradimento e crimini contro l’umanità. Spiegare il paradosso comporta un racconto intenso, lungo, denso come il sangue e faticoso come il caldo africano. Un racconto che procede lento secondo un ritmo tanto legato a questo continente quanto alle saghe familiari. Joseph Kabila, è figlio di Laurent Kabila. Laurent era alleato del leader anticolonialista Patrice Lumumba che molti ricordano come il Primo Presidente della Repubblica Democratica del Congo. Lo fu per pochi mesi perché il suo stesso capo di stato maggiore Mobutu Sese Seko ordì un colpo di Stato per rimuoverlo, che si concluse con l’esecuzione di Lumumba per mano di un plotone in Katanga. Laurent Kabila vagò allora nelle giungle organizzando forze ribelli a capo delle quali, nel 1997, depose Mobutu che nel frattempo aveva governato in un modo che, per essere definito, necessitò l’invenzione di una parola nuova: cleptocrazia. Laurent non uccise Mobutu, né lo fece uccidere. Lo espulse dal Paese. Divenuto Presidente, Laurent Kabila morì assassinato, il 16 gennaio 2001, da una sua guardia del corpo, poi immediatamente freddata. In una decina di giorni, fu designato proprio il figlio di Laurent, Joseph Kabila, quale Presidente della RDC. Era il 26 gennaio 2001. Joseph non aveva neanche trent’anni. Ventinove anni per l’esattezza, vissuti tra i fucili. Forse anche per questo, ripeteva “basta con le armi”. Cercò e ci riuscì a mettere fine alla guerra civile. Diede al Paese una nuova Costituzione. Sventò colpi di Stato. Affrontò con successo varie competizioni elettorali ma acconsentì l’alternanza democratica, per la prima volta in questo Paese, quando a vincere nel 2018 fu Felix Tshisekedi. Joseph incontrò Nessuno tocchi Caino. Lo fece all’indomani della “giustizia” resa agli assassini del padre nel 2003 da parte di un tribunale militare che condannò a morte una trentina di uomini. Joseph ci ricevette - Aldo Ajello, Emma Bonino, Sergio D’Elia ed io - nel palazzo presidenziale a Kinshasa, il 28 giugno 2003. Gli chiedemmo l’atto più difficile per un uomo: la clemenza per chi era stato ritenuto responsabile della morte del padre. Ci promise che non li avrebbe giustiziati e che avrebbe mantenuto una moratoria della pena di morte rimettendo al Parlamento la più generale decisione sull’abolizione. Ci permise poi di incontrare i condannati a morte nel carcere di Makala. Jospeh Kabila ha governato dal 2001 al 2019 e durante tutto questo tempo ha mantenuto la moratoria delle esecuzioni costruendo un equilibrio capace di contemperare la giustizia penale. E quell’atto di clemenza che gli chiedemmo, è come se l’avesse lasciato in consegna al suo successore, Felix Tshisekedi, primogenito di Étienne Tshisekedi, tre volte Primo Ministro con Mobutu, di cui poi divenne oppositore fondando il partito UPDS, d’ispirazione nonviolenta, socialista e democratica. Sembrava esserci una convergenza sulla contrarietà alla pena di morte. Tant’è che il 30 giugno 2020, in un atto di grande e ampia amnistia, Felix commuta le condanne a morte in ergastoli e poi decreta, il 31 dicembre 2020, per i detenuti che a quella data avessero trascorso in carcere 20 anni, la liberazione. Nel frattempo, il Parlamento, che in 18 anni non ha saputo abolire la pena di morte, non ha esitato, su ordine del governo, a revocare l’immunità parlamentare al senatore a vita Joseph Kabila. Così, lo scorso 30 settembre, al termine di un’udienza durata solo cinque ore, il presidente dell’alta corte militare, tenente generale Joseph Mutombo Katalayi, ha potuto pronunciare questa sentenza: “in applicazione dell’articolo 7 del Codice penale militare, si impone una sola pena, la più severa, ovvero la pena di morte senza attenuanti” nei confronti di Joseph Kabila per crimini di guerra, stupro, tortura, tradimento, organizzazione di un movimento insurrezionale e cospirazione. Il caso nasce dal suo presunto ruolo nel sostenere l’avanzata dei ribelli dell’M23, sostenuti dal Ruanda, nell’instabile regione orientale del Kivu in Congo. Kabila non ha partecipato al processo, né ha voluto difendersi con un avvocato. Non si sa dove sia. Mentre sappiamo che quel ferro vecchi o della storia che è la pena di morte è ancora lì, pronto a essere usato per i più disparati fini, anche l’intimidazione politica, con il rischio, vista tutta la ruggine che si porta dietro, di infettare però chi lo tocca. Concludo con un appello. Al Presidente Felix Tshisekedi, all’Unione Africana, all’Unione Europea, ai Capi di Stato e di Governo che lo hanno conosciuto e stimato quando era Presidente, chiedo di salvare Joseph dalla pena di morte, la pena che lui ha risparmiato anche agli assassini di suo padre e che ora si vuole sia inflitta a lui.