Contro la nostalgia dei manicomi. La salute mentale in carcere dopo gli Opg di Giulia Melani* L’Unità, 10 ottobre 2025 Come vengono curate le persone? Quali le risorse? Quali i diritti garantiti? La Società della ragione ha realizzato un’indagine per scoprire cosa è cambiato con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. “Compagni patetici che appena mormorate, andate a fiaccola spenta e restituite i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza”. Nella giornata internazionale della Salute mentale, 10 ottobre, tornano in mente questi versi di René Char con cui Michel Foucault chiude la Prefazione a Storia della Follia nell’età classica, un inno alla libertà e al diritto a sviluppare la propria “legittima stranezza”, che sembra risuonare in armonia con quel compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della personalità, sancito dal secondo comma della nostra carta costituzionale. Oggi viviamo in un momento in cui si sentono spirare forti venti di restaurazione, una spinta politica al ritorno indietro, sia rispetto alla chiusura dei manicomi civili, realizzata con la legge Basaglia quasi cinquant’anni fa, che a quella più recente degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), avviata nel 2012 e conclusa nel 2017, con l’uscita dell’ultima persona internata (sic!), dall’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto. Franco Corleone la chiama “nostalgia manicomiale”: l’idea che la risposta alla sofferenza psichica sia la reclusione, la contenzione, il ritorno a istituzioni chiuse, anche se più piccole e diffuse. E, in effetti, sono numerosi i segnali in questo senso, basti pensare alla delibera sulle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) del CSM (documento del 12 novembre 2024, approvato all’unanimità il 22 gennaio 2025) che propone l’implementazione dei posti in REMS, la creazione di un doppio circuito di REMS, per pazienti stabilizzati e per pazienti con alta pericolosità, e tira fuori dal cilindro una nozione che speravamo di non dover mai più leggere o sentire, come quella di persone “inemendabili”. Oppure, il ddl Zaffini (S. 1179), in corso di esame in commissione al Senato, un testo che riporta al centro la pericolosità della persona con sofferenza mentale, che prevede la creazione di nuove strutture residenziali, “manicomietti” come sono stati giustamente definiti, che estende la durata massima del TSO e prevede la codificazione della contenzione. O ancora il Piano d’azione sulla salute mentale, che non prevede investimenti nei servizi, amplifica la componente biomedica - nonostante alcuni richiami di principio non declinati in impegni concreti - e pone grande attenzione alla dimensione securitaria, dando nuova linfa vitale allo stigma sul folle. “In direzione ostinata e contraria” ai venti neo-manicomiali, ha scelto di viaggiare La società della ragione con la ricerca, da poco conclusa, “Salute mentale in carcere dopo gli OPG”, curata da Katia Poneti e Riccardo Girolimetto e realizzata grazie all’Otto per Mille della Chiesa Valdese. L’associazione ha deciso di “abitare i confini”, per utilizzare la stessa espressione balducciana che dà il titolo alla X edizione festival dell’arte irregolare e dell’Outsider Art, attualmente in corso a San Salvi a Firenze. Il confine che l’associazione ha scelto di abitare è quello del carcere, con l’obiettivo di analizzare i cambiamenti nella gestione della salute mentale in quell’istituzione dopo la riforma, che ha condotto alla chiusura degli OPG, luogo che rappresentava una sorta di valvola di sfogo per il carcere, interrogandosi su come vengono curate le persone, quali siano le risorse e quali i diritti garantiti. La ricerca si è svolta nelle realtà carcerarie di Prato, Udine e Rebibbia femminile. Dai risultati emergono numerose criticità strutturali e culturali: una difficoltà di gestione del coordinamento tra amministrazione penitenziaria, servizi sanitari e attori esterni; definizioni variabili e disomogenee di “presa in carico” e “presa in cura”; numeri della presa in carico psichiatrico di molto inferiori a quello che secondo alcune letture emergenziali sarebbe l’altissimo numero di “psichiatrici” in carcere; sovraffollamento, carenza di organico; tendenza a ridurre l’intervento psichiatrico a micro-interventi. Il carcere appare irrimediabilmente un luogo patogeno e la terapia appare impossibile in assenza di libertà e carenza di risorse. Gli operatori raccontano la propria frustrazione e il senso di inadeguatezza e il ricorso al farmaco appare come una tecnologia polivalente: strumento di controllo, negoziazione e adattamento alle condizioni detentive, ma anche sostituto di relazioni terapeutiche precarie. Le Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM), nate per dare risposta alla fragilità psichica in carcere, operano in un vuoto dove la cura rischia di confondersi con disciplina. Dietro i numeri si nascondono storie: operatori che cercano di resistere alle rigidità burocratiche per stabilire rapporti autentici; medici che oscillano fra cura e sicurezza; detenuti che chiedono ascolto, prima ancora che diagnosi. Per questo, dalla ricerca è nato anche Fratture, il podcast di La Società della Ragione disponibile su tutte le piattaforme: quattro episodi che intrecciano voci, suoni e testimonianze per restituire la complessità della salute mentale in carcere. *Presidente la Società della Ragione Così è la vita nelle carceri minorili. Con le voci di chi accompagna i giovani Corriere della Sera, 10 ottobre 2025 Come sta cambiando il sistema penale minorile in Italia? E chi sono, e come lo vivono, i ragazzi e le ragazze dei centri? Se del mondo del carcere per adulti si parla poco, di quello per minori ancora meno (con alcune eccellenti eccezioni come la fortunata serie tv Rai Mare fuori). Un vuoto che questo podcast, nato da un’idea della coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti e scritto insieme a Sara Sartori e alla giornalista e co-founder di Next New Media Tiziana Guerrisi, vuole colmare. L’associazione Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale e Next New Media lo hanno realizzato proprio per raccontare il sistema dall’interno dando spazio alle voci di chi lo vive ogni giorno ma anche di chi accompagna i giovani nel percorso, fuori e dentro dal carcere. Si tratta di un progetto impegnato, che si propone di promuovere un dibattito pubblico il più ampio possibile sul sistema. Un sistema che, denunciano gli autori del podcast, sta vivendo un forte cambiamento frutto da una serie di decisioni che ne stanno snaturando missione e vocazione. Podcast “Cattivi. Le carceri dei ragazzi viste da dentro”, su tutte le piattaforme. Da un’idea di Susanna Marietti dell’associazione Antigone e di Tiziana Guerrisi di Next New Media. Le carriere separate completano il lavoro che fece Vassalli più di trent’anni fa di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 10 ottobre 2025 “Questa riforma completa il lavoro che fece Vassalli: la divisione dei ruoli deve essere un caposaldo”. Per affrontare i problemi della magistratura in riferimento alla riforma del ruolo del pubblico ministero meglio conosciuta come “divisione delle carriere”, che si discuterà in quarta lettura al Senato nelle prossime settimane, è necessario fare una riflessione sulle norme della Costituzione e sulla ratio dell’ordinamento giudiziario. Il discorso sul futuro della magistratura e dei relativi problemi costituzionali ancora aperti, è molto importante per la democrazia, ma le soluzioni finora sono incerte. La magistratura ha un rapporto difficile con il legislativo per cui nel nostro paese l’equilibrio dei poteri è saltato da vari anni e la democrazia non può non ricevere un vulnus. La novità degli ultimi anni è che la magistratura ha assunto un ruolo diverso, rispetto al passato, e la sua indipendenza si è incrinata rispetto al prevalere dell’” autonomia” che le consente di interpretare in maniera soggettiva le regole dei codici e delle leggi. Il tema è come poter ottenere una magistratura all’altezza della situazione, che sia garanzia della società italiana. Ci sono molte questioni costituzionali aperte, sulle quali è necessaria una valutazione anche politica. Il futuro della magistratura è molto incerto perché incerta è la democrazia e in tutto il mondo il rapporto tra i poteri è molto logorato: dobbiamo prendere atto di questa situazione se vogliamo dare un giudizio fino in fondo realistico e veritiero. Vi è un contrasto tra la magistratura e la politica che si è inasprito da Tangentopoli in poi. Il contrasto c’è sempre stato nella storia dei popoli, ma oggi ci troviamo in una situazione di grande prevalenza del giudiziario e di grande arretramento della politica. Quindi, se il contrasto si è accentuato con le indagini di Tangentopoli, è perché la magistratura ha voluto e vorrebbe con le sue indagine condizionare la storia del nostro paese. Ci troviamo di fronte una narrazione, da Tangentopoli in poi, che ha distrutto i partiti, ma che non corrisponde alla verità, che ha fatto venir fuori il populismo e che ha allontanato definitivamente il cittadino dalle istituzioni. La colpa è soprattutto della magistratura, perché ha assunto un valore etico molto pericoloso, perché ha deciso di dover incidere nelle questioni sociali, non come “terzo”, ma come parte in causa rispetto alle grandi questioni sociali che affliggono il nostro Paese. La Costituzione fu fatta sulle ceneri del fascismo e il capitolo “magistratura” fu messo da parte, in qualche modo in una “nicchia”, perché l’esperienza fascista precedente faceva temere la perdita della indipendenza dell’organo giudiziario. Non si voleva correre il pericolo che la magistratura influisse e prevalesse, quindi l’”autonomia”, prevista dalla Costituzione, aveva questa finalità. Di conseguenza oggi la magistratura è più “autonoma” che “indipendente”: questo è il grande problema. L’ “autonomia” è caratteristica dell’”ancien regime”, perché l’evoluzione istituzionale richiede l’indipendenza ma anche la responsabilità e la magistratura non è responsabile istituzionalmente. Il Pubblico Ministero non è responsabile. Il legislatore non lo ha voluto riforme o modifiche in tutti i lunghi anni della Repubblica è anche difficile farle oggi. Il problema da affrontare è dunque quello di far coincidere la responsabilità con la piena indipendenza e superare l’”autonomia” che porta alla separatezza. È vero che la interpretazione è data dalla giurisprudenza che è prevalente, che le leggi che approviamo contengono una “delega” ampia, e oggi, nonostante il contrasto che c’è tra la maggioranza di governo e la magistratura, la delega è ancora più accentuata, per cui il magistrato interviene su tutte le questioni e decide… interpretando. La conclusione sul piano istituzionale è che la prevalenza della giurisdizione è insopportabile per la democrazia e siccome nel mondo è contestata la democrazia che registra la sua debolezza, la prevalenza del giudiziario ritengo che sia particolarmente pericoloso. E allora, per intenderci, la “divisione delle carriere”, che sta per essere approvata è un problema importante non propedeutico alla subordinazione all’esecutivo, come dicono in coro i magistrati, ma funzionale ad un sistema che rompa l’unità della giurisdizione per un approccio costituzionale diverso. Tanti di noi ci siamo battuti per questo quando nel 1989 approvammo la riforma del Codice della Procedura Penale, e bisognerebbe rileggere le osservazioni del Ministro Giuliano Vassalli in quegli anni, che diceva a gran voce: se modifichiamo il Codice di Procedura Penale, ne viene di conseguenza che bisogna cambiare i ruoli della magistratura, perché la divisione delle carriere, cioè “la divisione dei ruoli”, è una riforma sistematica, di principio e deve essere un caposaldo del processo, nel quale si contrappongono le “parti”. Non è rilevante il difficile passaggio da pubblico ministero a giudice, ma è necessaria una configurazione sistematica del processo con le “parti” e il giudice terzo. Quindi è giusto introdurre questa distinzione di ruoli ma è necessario modificare la Costituzione se vogliamo risolvere il problema fondamentarle del rapporto istituzionale tra i poteri dello Stato. Bisogna, in conclusione, prendere atto che la magistratura oggi è un “potere” che va regolato, come tutti i poteri; ma in riferimento alla proposta di legge in discussione al Senato non possiamo non rilevare che il sorteggio per la scelta dei componenti del CSM è scandaloso, anticostituzionale e arretrato, e offusca il ruolo al Consiglio Superiore che tanto varrebbe sopprimerlo. Il sorteggio veniva fatto ai tempi dell’Agorà, ma mi pare che il processo democratico abbia fatto maturare altri orizzonti istituzionali lungo i secoli. Il Consiglio Superiore ha la rappresentanza dei magistrati e in epoca moderna, dopo la Rivoluzione Francese la rappresentanza avviene col voto dei cittadini: in questo caso con il voto dei magistrati. Il sorteggio previsto anche per il Parlamento è avvilente e altera le regole democratiche. Bisogna recuperare un dialogo tra maggioranza e opposizione in modo da premiare il significato vero della divisione dei ruoli e cancellare il sorteggio. Se dunque la divisione delle carriere è l’inizio di un itinerario istituzionale di riforme coerenti e innovative al tempo stesso, è necessario evitare lo scontro o l’incomunicabilità tra la maggioranza e la opposizione per evitare un referendum artificiosamente divisivo. Zaccaro: “La riforma preoccupa i garantisti” di Mario Di Vito Il Manifesto, 10 ottobre 2025 Toga party Si apre il congresso di Area democratica per la giustizia, intervista al segretario. A Genova, tre giorni di incontri. Ci saranno anche Landini, Schlein, Conte e Vendola. Da oggi a domenica, al Teatro della Tosse di Genova, si tiene il quinto congresso nazionale di Area democratica per la giustizia. Dopo i saluti istituzionali della sindaca Silvia Salis e la relazione introduttiva del segretario Giovanni Zaccaro, Serena Bortone intervista il procuratore generale Enrico Zucca. A seguire, tavola rotonda a tema “I diritti negati” con il segretario della Cgil Maurizio Landini, la magistrata Gabriella Luccioli, Filomena Gallo dell’Associazione Coscioni, Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino e il cappellano di Mediterranea Mattia Ferrari. Più politica la giornata di domani: hanno annunciato la loro presenza il ministro della Giustizia Carlo Nordio, la segretaria del Pd Elly Schlein, il leader del M5s Giuseppe Conte, Riccardo Magi di +Europa e Nichi Vendola di Sinistra italiana. Con loro anche i membri del Csm e vari rappresentanti delle associazioni di magistrati e di quelle forensi. Zaccaro, il titolo del congresso è “La forza e il diritto - Il presidio della giurisdizione”. Perché? Affrontiamo il tema del diritto e della forza. Il diritto, anzi, i diritti sin dalla antichità sono un argine alla forza del più forte, del più numeroso. È un tema attualissimo visto che la forza degli eserciti annichilisce i diritti umani e la forza del mercato selvaggio dimentica i diritti dei laboratori, il diritto ad un ambiente salubre. Non per nulla quelli che difendono i diritti, avvocati e magistrati, in tutto il mondo sono delegittimati. Sullo sfondo però c’è anche la riforma della separazione delle carriere e del referendum costituzionale previsto per la prossima primavera… Ovviamente si parlerà anche della riforma Nordio, della riforma della magistratura, che non serve a garantire processi più giusti o veloci. La separazione dei pm dai giudici rischia di portare a una situazione in cui a decidere chi, quando e come fare indagini e processi siano le maggioranze di turno. Cosa preoccupante, per i veri garantisti, visto che in tutto il mondo prevalgono logiche securitarie ed insieme di clemenza per i colletti bianchi. Praticamente dice che spesso il garantismo che tanti professano è a corrente alternata... Banalmente succederà che ci saranno processi solo per i delinquenti di strada e non per i corruttori e gli evasori. Ma il fronte dei garantisti, almeno quelli più mainstream, sostiene che la separazione delle carriere sia la panacea di tutti i mali della giustizia... La separazione delle carriere, siccome separa chi accusa da chi giudica, viene spacciata come una riforma garantista, ma i veri garantisti sanno che l’imparzialità del giudice e la tutela dell’imputato si devono avere nel processo penale. Non con norme che riguardano la carriera dei magistrati. Ieri la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere contro i ministri coinvolti nel caso Almasri. Cosa ne pensa? La Camera ha esercitato una sua prerogativa negando il processo per i ministri. Sul merito non dico nulla perché ci sono indagati che non sono ministri ed io potrei occuparmene perché faccio il giudice penale a Roma. Caso Almarsi: niente processo per Nordio, Piantedosi e Mantovano di Simona Musco Il Dubbio, 10 ottobre 2025 La Camera nega l’autorizzazione a procedere, mentre la maggioranza prova a scudare anche Bartolozzi. Gianassi (Pd): “Governo debole, ha ceduto alle minacce libiche”. Non ci sarà alcun processo per i ministri Carlo Nordio (Giustizia), Matteo Piantedosi (Interno) e per il sottosegretario Alfredo Mantovano. I tre esponenti di governo, accusati di aver liberato e rispedito in Libia su un aereo di Stato Osama Almasri, capo della Rada libica e noto torturatore, sono stati “salvati” dalla Camera dei deputati che ha votato contro l’autorizzazione a procedere: 251 voti per Nordio, 256 per Piantedosi e 252 per Mantovano. La maggioranza ha così evitato l’apertura di un processo, dopo la decisione, tra il 19 e il 21 gennaio 2025, di rimpatriare Almasri, arrestato a seguito di un mandato della Corte penale internazionale. Accusati di favoreggiamento, peculato e omissione di atti d’ufficio, i ministri e il sottosegretario sono stati difesi dalla maggioranza, che ha sostenuto come la scelta fosse dettata da ragioni di sicurezza nazionale. Rimane aperto il fascicolo su Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto del ministro Nordio, indagata dalla procura di Roma per false dichiarazioni. Un’ipotesi di reato autonoma, secondo il capo della procura, Francesco Lo Voi, ma non per la maggioranza, che invece vuole sottoporre la sua posizione alla Camera. È l’azzurro Pietro Pittalis, relatore di maggioranza, a ribadire il punto, chiarendo definitivamente anche la natura politica delle decisioni prese dal governo, fatte passare come “tecniche” durante le comunicazioni all’Aula fatte a febbraio da Nordio e Piantedosi. Si sarebbe trattato di una questione di “sicurezza nazionale” e non - come contestato dal Tribunale dei Ministri - di un tentativo di “sottrarre Almasri al mandato della Corte penale internazionale”. Per Pittalis, la relazione del Tribunale dei ministri sarebbe stata piena di “vizi procedurali”, con una “evidente forzatura giuridica”, di fronte a membri di governo che avrebbero agito “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante”, dato il rischio per la sicurezza e per gli interessi diplomatici e commerciali italiani in Libia. Un rischio “concreto” di ritorsioni, “aggravato dal ruolo apicale di Almasri nella Rada Force” e condiviso da Aise, Aisi, Dis, Capo della Polizia e ministro dell’Interno. “In una situazione così complessa, che cosa avrebbe potuto o dovuto fare di diverso il governo?”, si chiede Pittalis, che parla di un “caso di scuola”, un’azione a tutela di “un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. I ministri, secondo il forzista, non avrebbero mentito in Parlamento, ma omesso per tutelare la sicurezza nazionale e proteggere dati classificati. “Non dire tutto non equivale a dire il falso”, spiega Pittalis, negando qualsiasi ricatto da parte della Libia o “resa a poteri stranieri”: si sarebbe trattato solo di “una misura precauzionale per preservare vite umane e interessi nazionali in un contesto eccezionale”. Per quanto riguarda Bartolozzi, invece, sarebbe emersa “una possibile connessione teleologica” e, dunque, “la posizione di co- indagato laico”, dal momento che “le asserite false informazioni sarebbero state rese in relazione ai medesimi fatti per i quali al ministro sono attribuiti reati funzionali”. Parla a braccio, invece, il relatore di minoranza, il dem Federico Gianassi, secondo cui la vicenda “ha umiliato il governo italiano, che è apparso debole nella gestione di situazioni complesse nello scenario internazionale”. Un governo che avrebbe subìto “la pressione e la minaccia di un gruppo armato libico” e avrebbe messo in atto una “strategia” omissiva “per determinare la liberazione di Almasri” e consentirgli di tornare in Libia, dimostrando debolezza “anche di fronte alla banda dei tagliagole”. Applausi dall’opposizione che, però, non vota compatta: una ventina di deputati della minoranza si schiera infatti contro l’autorizzazione a procedere. Di certo, come annuncia Davide Faraone in aula, Italia viva sceglie di “salvare” Piantedosi, che pochi giorni fa, per inciso, ha partecipato alla Leopolda. “Liberare Almasri è stato come cedere a un’estorsione”, dice il 5 Stelle Federico Cafiero de Raho. Caustico il dem Matteo Orfini: “Noi avevamo capito che il preminente interesse pubblico di questo Paese fosse quello di combattere i trafficanti di esseri umani in tutto il mondo. Almasri era già in carcere e voi l’avete liberato per riaccompagnato a continuare a trafficare esseri umani, mettendo così a rischio gli interessi del nostro Paese - incalza -. Sostenete che il motivo fosse il timore di rappresaglie, ma da parte di chi? Della milizia Rada?”. La stessa milizia, sottolinea, che “ha rapporti strutturali con i nostri servizi segreti e collabora attivamente con l’Italia” e alla quale “è affidata la sicurezza dei cittadini italiani in Libia, una scelta che è stata fatta da questo governo”. Da qui l’invito a non rinnovare il memorandum Italia- Libia, dal momento “che quelli che noi armiamo e addestriamo mettono a rischio la sicurezza dei nostri concittadini”. In aula anche la premier Giorgia Meloni, che a operazioni concluse riceve il sostegno dei suoi ministri e il baciamano di Nordio. Ministro che vota per scudare i colleghi, non parlamentari, ma non per sé. E il guardasigilli, al termine del voto, difende di nuovo la sua capa di gabinetto. “Speriamo che il capitolo su Bartolozzi si chiuda come questo”, sottolinea, criticando poi duramente il Tribunale dei Ministri. “Da modesto giurista lo strazio che ha fatto delle norme più elementari del diritto è tale da stupirsi che non gli siano schizzati i codici dalle mani, ammesso che li abbiano consultati - afferma -. È andata come doveva andare”. Il capogruppo di FdI, Galeazzo Bignami, gongola all’idea dei “franchi tiratori dell’opposizione”. Una rivincita dopo il caso Ilaria Salis, che pure viene tirata impropriamente in ballo in aula come picchiatrice acclarata, in barba alla presunzione d’innocenza. Il leader dei Verdi, Angelo Bonelli, prova a suscitare vergogna, mostrando in aula le foto delle vittime di Almasri. “Le ha mai viste queste immagini? - urla rivolgendosi a Nordio. Sono uomini e donne torturati e voi avete liberato questo uomo: vergognatevi”. La Camera scuda il governo sul caso Almasri. Nordio attacca le toghe ed è scontro con l’Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 ottobre 2025 Rigettata l’autorizzazione a procedere nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano per la vicenda del generale libico. Il Guardasigilli: “Tribunale dei ministri ha fatto strazio delle norme del diritto”. Insorge l’Associazione nazionale magistrati. Passeggiando verso l’ingresso dell’Aula della Camera, a inizio mattinata, alcuni deputati non avevano nascosto il timore di un colpo di scena (“Oggi siamo sulle montagne russe”, il sussurro di un onorevole), ma alla fine il richiamo alla “presenza obbligatoria” inviato dai vertici dei partiti della maggioranza ai propri membri ha avuto effetto (tanto che a Montecitorio si è vista persino Marta Fascina): la Camera ha votato contro il processo nei confronti dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e del sottosegretario Alfredo Mantovano per il caso della scarcerazione del generale libico Almasri. Ad avanzare la richiesta era stato il Tribunale dei ministri, attivato dopo un esposto ricevuto dalla procura di Roma. Tre votazioni distinte, tutte a scrutinio segreto, sotto lo sguardo vigile della premier Giorgia Meloni, arrivata in conclusione della discussione e poi fuggita via dopo il voto senza rilasciare alcuna dichiarazione. Con una sorpresa in senso opposto rispetto a quanto preventivato: la presenza di franchi tiratori nell’opposizione. A votare contro la richiesta di autorizzazione a procedere, infatti, alla fine è stato un numero di deputati superiore a quello della maggioranza di governo (242): 251 voti per Nordio, 252 per Mantovano e 256 per Piantedosi. In favore del ministro dell’Interno aveva annunciato il proprio voto favorevole solo Italia viva. “C’erano alcuni assenti nella maggioranza, quindi avevamo calcolato di arrivare a 235: ci sono stati 15-20 franchi tiratori tra le opposizioni”, ha spiegato il capogruppo di FdI a Montecitorio, Galeazzo Bignami, dopo la votazione. Un dato politico non irrilevante, che consente a Luca Ciriani, ministro dei Rapporti con il Parlamento, di rivendicare “la compattezza straordinaria della maggioranza”, che ha preso persino “più voti del previsto”. E’ stata accolta così la linea tracciata dalla relazione predisposta da Pietro Pittalis (FI), anticipata su queste pagine nei giorni scorsi: sul caso Almasri i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano agirono “per la tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante” e per perseguire “un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”, in particolare “tutelando la vita e l’incolumità dei numerosi italiani residenti in Libia”, che secondo fonti qualificate dei servizi segreti sarebbero stati esposti a un rischio concreto di ritorsioni da parte della milizia libica Rada in caso di trattenimento in Italia di Almasri. La relazione della maggioranza non risparmia dure critiche all’operato del Tribunale dei ministri, accusato di scorrettezze giuridiche non da poco, come l’aver utilizzato le informative rese al Parlamento dai ministri Piantedosi e Nordio come “versione difensiva degli indagati”. Ancor più netto è stato Nordio in Transatlantico, subito dopo aver ottenuto il “no” dell’Aula al processo ai suoi danni: “Da modesto giurista lo strazio che il Tribunale dei ministri ha fatto delle norme più elementari del diritto è tale da stupirsi che non gli siano schizzati i codici dalle mani, ammesso che li abbiano consultati”, ha detto il Guardasigilli. Parole che hanno generato la dura reazione dell’Associazione nazionale magistrati: “Stupisce e rammarica che il ministro della Giustizia, che ha un alto compito istituzionale, decida invece di venir meno a ogni principio di continenza, rispetto e misura, aggredendo in maniera scomposta dei colleghi, peraltro sorteggiati per far parte del Tribunale dei ministri, contraddicendo il più volte decantato intento di abbassare i toni”. La vicenda Almasri, comunque, non può ancora essere archiviata del tutto. Resta aperto il capitolo che riguarda Giusi Bartolozzi, capa di gabinetto del ministro Nordio, indagata dalla procura di Roma per false informazioni rese al Tribunale dei ministri proprio sul caso del generale libico. Il Guardasigilli ha auspicato che “il capitolo su Bartolozzi si chiuda così come questo”, ma la strada da percorrere appare più complessa. Nella relazione di Pittalis si sottolinea la “connessione teleologica” tra le contestazioni mosse a Nordio, Piantedosi e Mantovano e l’ipotesi di false informazioni ravvisata nei confronti di Bartolozzi. Si sostiene, quindi, che anche nei confronti di Bartolozzi dovrebbe essere applicata la disciplina prevista per i ministri, con la richiesta di autorizzazione a procedere al Parlamento. Una lettura radicalmente diversa da quella offerta dalla procura di Roma, e che dovrebbe portare la Camera a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. Gli spari dei carabinieri, la cocaina, il giallo dei testimoni: perché è morto Simone Mattarelli? di Stefano Vergine Il Domani, 10 ottobre 2025 I colpi di pistola rivolti a terra, la morte causata dalla cocaina, i testimoni. “Simone”, podcast d’inchiesta (si ascolta qui: https://open.spotify.com/show/3zcUG0l8xT8cjSiXoVP79H), contiene alcune notizie inedite sulla morte di Simone Mattarelli, avvenuta il 3 gennaio del 2021 in Lombardia e causata ufficialmente da suicidio. Una versione a cui i familiari non hanno mai creduto. “Ci sono molti indizi che indicano come quello di Simone non sia stato un suicidio ma un omicidio: per questo chiediamo che le indagini giudiziarie vengano riaperte, e ci appelliamo a chi sa qualcosa di più su come sono andate le cose affinché la verità venga finalmente a galla”, dice Matteo Mattarelli, fratello della vittima. Il corpo di Mattarelli è stato trovato all’interno di una fabbrica di Origgio, in provincia di Varese, il 3 gennaio del 2021, in pieno lockdown. Era impiccato ad un macchinario industriale, con i piedi appoggiati per terra. Per il Tribunale di Busto Arsizio, il 28enne brianzolo si è tolto la vita a causa dell’assunzione di cocaina, dopo tre ore di inseguimento con sei gazzelle dei carabinieri tra le province di Milano, Como, Varese e Monza. Entrambe le inchieste giudiziarie aperte nel corso di questi anni si sono concluse con l’archiviazione. “Io penso che qualcuno lo abbia ucciso”, sostiene invece Luca Mattarelli, padre della vittima. Grazie ad audio e documenti inediti, interviste con i protagonisti della storia ed esperti tra cui Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo, Riccardo Noury di Amnesty International e Susanna Marietti Antigone, l’inchiesta giornalistica ricostruisce la storia di Simone Mattarelli, le sue ultime ore di vita, le indagini giudiziarie che ne sono seguite e i tanti punti oscuri che emergono in questo caso di provincia di cui Domani ha già scritto. Diviso in sei puntate, il podcast contiene anche alcune notizie inedite. Una di queste riguarda l’ultima parte dell’inseguimento, quella avvenuta a piedi nelle campagne di Origgio, poco prima che i carabinieri, come riportato nei verbali, decidessero di smettere di cercarlo e tornare in caserma. I filmati dell’inseguimento, ripresi dalla bodycam di uno dei carabinieri coinvolti, mostrano che due colpi di pistola (sugli otto esplosi in totale) non sono stati sparati verso terra, come invece riportato nei verbali, ma verso l’alto. Inoltre, uno dei dipendenti della fabbrica dentro la quale è stato ritrovato il corpo di Mattarelli, intervistato per il podcast ha affermato che la mattina del 3 gennaio non era al lavoro, come invece riportato nelle carte giudiziarie che hanno condotto all’archiviazione del caso. L’inchiesta audio, durata oltre due anni, lascia aperti dubbi anche sulle ragioni del suicidio. Secondo il Tribunale di Busto Arsizio, Mattarelli è morto a causa dell’assunzione di cocaina. In macchina i carabinieri hanno riportato la presenza di due tessere magnetiche e di cinque bustine di cellophane abitualmente usate per impacchettare la sostanza. Nel sangue della vittima ne è stata trovata un’alta concentrazione: 266 nanogrammi per millilitro. L’esperto chimico-tossicologico consulente della Procura, nella relazione tecnica che ha portato all’archiviazione, ha scritto che la vittima era nell’ultima fase provocata dalla cocaina, quella “depressiva”. La dinamica degli eventi “è suggestiva di un quadro depressivo/maniacale sofferto dal Mattarelli”, è stata la conclusione del perito. Veniero Gambaro, professore di chimica tossicologica all’università di Milano, già consulente di diverse procure ma non coinvolto in questo caso, esclude invece che con la quantità di cocaina trovata nel suo corpo Mattarelli potesse essere nella fase di down, considerata dal Tribunale di Busto Arsizio la causa del suicidio. “Non era sicuramente in una fase di down”, dichiara Gambaro nel podcast. “Simone” approfondisce anche il tema dell’uso delle bodycam da parte delle forze di polizia, tra le misure contenute nel Decreto Sicurezza convertito in legge lo scorso 9 giugno. “Le bodycam sono già a disposizione degli agenti, ma non è stabilito alcun criterio di utilizzo. Come dimostra il caso di Mattarelli, in questo modo possono essere non solo inutili, ma addirittura dannose. Insomma, è fantastico sapere di queste telecamere accese, che poi si spengono proprio quando invece sarebbe interessante guardarne le immagini”, dice la senatrice Ilaria Cucchi intervistata per il podcast. La famiglia Mattarelli ha già tentato di far riaprire le indagini sottolinenando alcune incongruenze con la tesi del suicidio: il modo usato da Mattarelli per impiccarsi, la cintura priva di tracce ematiche, la presenza di un dna sconosciuto sotto le sue unghie. Finora, però, tutti i tentativi sono andati a vuoto. Volontariato e lavoro non bastano: la semilibertà si guadagna risarcendo le vittime di Umberto Maiorca perugiatoday.it, 10 ottobre 2025 La Cassazione respinge il ricorso di un ergastolano: “Stipendio mai usato per risarcire le vittime”. La Corte di Cassazione ha confermato il rigetto della semilibertà per un 59enne di Taranto, detenuto a Spoleto, dove sconta l’ergastolo per reati di mafia, disposto dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia dello scorso ottobre. I giudici hanno ritenuto che nonostante il positivo comportamento carcerario e l’ammissione al lavoro esterno, al condannato manchi un elemento ritenuto cruciale dalla legge: il concreto impegno a risarcire le vittime dei suoi reati. L’uomo, definito nelle sentenze “uomo di assoluta fiducia dei capoclan”, sta scontando la pena per associazione mafiosa. Dal ottobre 2022 lavora all’esterno con uno stipendio di 1.482 euro, ma come rilevato dalla Cassazione “non ha mai usato queste risorse, neanche in parte, per ridurre il suo debito civile” verso le persone offese, destinando invece il denaro alla propria famiglia. La Corte ha respinto tutte le tesi della difesa. In particolare, ha giudicato “manifestamente infondata” l’obiezione secondo cui le modeste risorse economiche giustificherebbero la mancata riparazione dei danni. Al contrario, i giudici hanno osservato che lo stipendio fisso rappresenta “una possibilità di adempimento, anche parziale, delle obbligazioni civili”. Altri argomenti presentati dal difensore, come la mancanza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata, l’intenzione di svolgere volontariato con bambini disabili, gli encomi ricevuti in carcere per il suo impegno come bibliotecario e i progressi nel trattamento rieducativo, sono stati considerati elementi positivi, ma non sufficienti a superare l’ostacolo rappresentato dalla mancata collaborazione con la giustizia e dall’assenza di risarcimenti. Reati ostativi, alla Consulta il divieto di sospensione dell’esecuzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2025 La Cassazione, ordinanza n. 32882/2025, ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma che vieta la sospensione dell’ordine di carcerazione per i condannati per reati ostativi, ritenendo che tale automatismo possa violare i principi di uguaglianza e di funzione rieducativa della pena quando la sanzione per il reato ostativo risulti già integralmente espiata. Il caso era quello di una persona condannata per spaccio di ingente quantità di stupefacente, reato ricompreso nell’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Il Gip del Tribunale di Palermo - quale giudice della esecuzione - aveva dunque respinto la domanda di sospensione temporanea dell’ordine di esecuzione del Pm. Secondo la difesa però l’imputato avrebbe potuto ottenere la liberazione anticipata, avendo sofferto tre semestri di custodia cautelare; ragion per cui la pena per il reato ostativo risulterebbe integralmente scontata e ciò avrebbe dovuto determinare, in rapporto alla pena residua, la sospensione dell’ordine di carcerazione ai sensi dell’art. 656 comma 5 cod. proc. pen. Per la Prima sezione penale la decisione impugnata “è aderente al contenuto della disposizione di cui all’art. 656 comma 4 bis cod. proc. pen.”. Il legislatore, spiega la Corte, ha infatti, voluto escludere dal cono applicativo della disposizione i soggetti che, in rapporto ai contenuti del titolo esecutivo, risultino condannati per uno dei reati ricompresi nell’elenco dell’art.4 bis ord. pen., “senza operare distinzione alcuna tra l’ipotesi in cui l’attribuzione della liberazione anticipata (sul titolo ostativo) possa aprire la strada alla sospensione del titolo (che è, per l’appunto l’in sé della norma) e le altre”. Sotto tale profilo, dunque, il provvedimento impugnato non contiene alcun vizio. Tuttavia, prosegue la Cassazione, la questione incidentale di legittimità costituzionale è rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3 e 27 Cost.. Per i giudici in ossequio alla “scindibilità del cumulo” la pena riferibile a reato ostativo dovrebbe ritenersi interamente espiata in ragione del periodo di presofferto e del preventivo scomputo del periodo di liberazione anticipata. La “scissione del cumulo”, ricorda l’ordinanza, riguarda l’attribuzione dei periodi di pena già espiata al reato che condiziona l’applicazione in concreto di una legge peggiorativa, come l’art.4 bis ord. pen. E secondo la prevalente linea interpretativa di legittimità è applicabile anche alla fase della sospensione dell’ordine di esecuzione. E allora, l’esclusione della possibilità di sospensione del titolo nei confronti dei condannati per reati ostativi, può trovare applicazione solo se ed in quanto (in caso di cumulo eterogeneo) la quota di pena riferibile al reato ostativo non sia stata già interamente scontata. Diversamente, prosegue, si determina l’ingresso temporaneo in carcere “anche nelle ipotesi in cui la domanda di misura alternativa sarebbe resa possibile dalla immediata attribuzione della liberazione anticipata, con obbligo - a quel punto - di sospensione del titolo”. Così determinando un “surplus di afflittività che non trova razionale giustificazione” per via di un “transito temporaneo in carcere di un soggetto che ben potrebbe aspirare alla sospensione, essendo potenziale destinatario di una liberazione anticipata già maturata (durante il periodo di custodia cautelare) ma non oggetto di valutazione da parte del Magistrato di Sorveglianza”. La Suprema corte ha dunque dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 4 bis, ultimo periodo, cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3 e 27 della costituzione. Sardegna. Caligaris (Sdr): “Oltre la metà dei detenuti è anziana e malata” cagliaritoday.it, 10 ottobre 2025 Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il 50,8 per cento delle persone detenute negli istituti sardi ha più di 45 anni. Aumentano i problemi sanitari e il sovraffollamento, mentre le colonie penali restano semivuote. Sdr: “Senza investimenti la riabilitazione resta un’illusione”. “Il 50,8% dei detenuti dei 10 Istituti Penitenziari della Sardegna ha un’età compresa tra 45 e oltre 70 anni. La fascia dei giovani tra 18 e 34 anni copre il 23,2%. In numeri assoluti i primi sono 1174 e gli altri 537 su 2309 presenti. Il dato è molto significativo ed è destinato a crescere con l’arrivo a Cagliari-Uta dei ristretti al 41bis. La “vecchiaia” incide pesantemente sulle problematiche sanitarie degli Istituti, peraltro già molto difficili per la presenza di tossicodipendenti e pazienti con disturbi della sfera psichica. Dai numeri del Ministero della Giustizia, pur senza poter disporre di statistiche che possano rivelare il genere e la realtà dei singoli Istituti Penitenziari, emerge che la seconda fascia più rappresentativa delle persone ristrette è quella compresa tra 35 e 44 anni con 598 detenuti (25,89%)”. Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, prendendo in esame i dati dell’Ufficio Statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che ha fotografato la realtà isolana al 30 settembre scorso esprime dubbi sulle reali possibilità, nonostante l’impegno degli operatori penitenziari e dei Direttori, di garantire il recupero sociale dei detenuti e condizioni di salute compatibili con la detenzione. “Con questi numeri - afferma Caligaris - con la situazione delle colonie penali, ancora semivuote e con poche reali possibilità di offrire lavoro qualificato costante e ambienti adeguati, e con l’elevato numero di persone nelle carceri dove le presenze continuano a crescere, senza dimenticare il numero insufficiente di Agenti Penitenziari e Sanitari, è difficile che si concretizzi per i detenuti un percorso di riabilitazione. Le aziende sarde, molte a conduzione familiare, hanno una scarsa propensione delle ad assumere persone detenute. L’unica strada maestra è quella di una amnistia che consentirebbe di avviare un percorso virtuoso con la riqualificazione delle strutture e il loro adeguamento ai bisogni reali con progetti di riabilitativi. Non fare questa scelta significa aumentare i problemi dentro gli Istituti”. “Nelle carceri sarde continuano ad aumentare i ristretti. Attualmente, sempre con riferimento ai dati del Ministero, a Cagliari-Uta ci sono 729 detenuti per 561 posti. A Sassari le persone private. della libertà sono 543 per 454 posti. Oltre il numero regolamentare ci sono anche Lanusei (39 per 33 posti), Oristano (231 per 210 posti disponibili 54 non lo sono). A Nuoro104 posti non si possono utilizzare; 50 a Is Arenas. Complessivamente sono recluse 2380 persone per 2348 posti (231 infatti non sono disponibili)”. “Pur apprezzando il lavoro spesso misconosciuto degli operatori penitenziari, dei Direttori e del Provveditore - conclude la presidente di SDR - la situazione in Sardegna ha bisogno di un deciso intervento finanziario del Ministero affinché non solo gli spazi delle Colonie vengano resi più adeguati ma soprattutto affinché vengano incrementati il lavoro e le attività formative. Solo così lo Stato può garantire i diritti e farsi riconoscere”. Venezia. Era in permesso dalla mamma detenuta si uccide di Monica Zicchiero Corriere del Veneto, 10 ottobre 2025 Una detenuta di 62 anni del carcere della Giudecca si è tolta la vita lunedì scorso e il tema dei suicidi tra detenuti torna preponderante. La donna era di Vicenza, ristretta per un crimine non violento: nel ruolo di amministratrice di sostegno, avrebbe adoperato impropriamente i fondi di anziane. Lunedì scorso aveva avuto un permesso ed era tornata a casa nel capoluogo berico, per andare a trovare la madre. E lì, l’epilogo. “Oggi sono andata alla Giudecca per stare vicina alle sue compagne”, dice la garante per i diritti dei detenuti Rita Bressan. È il primo suicidio di una detenuta nel carcere femminile veneziano. Non era in vista del fine pena, situazione che spesso pone di fronte ad un futuro difficile, la signora era attiva nella vita della Giudecca, aveva anche partecipato alla preparazione della Biennale, a nessuno risulta avesse manifestato intenzioni di farla finita. Dopo la serie nera del 2024 di tre suicidi in carcere a Venezia nel circondariale maschile di Santa Maria Maggiore, quest’anno sembrava esserci stata una tregua psicologica ed emotiva. La condizione alla Giudecca era cambiata con la penultima direzione, c’era stata una stretta sulle cose più basilari, dagli acquisti all’accesso delle associazioni. La Camera penale aveva segnalato alcune criticità e ora con l’arrivo della nuova direttrice Maurizia Campobasso il clima è migliore. Non è un carcere sovraffollato, ma ci sono stanzoni dove le detenute vivono in otto o in sei, le più fortunate in quattro, ricorda la garante. Padova. Il Garante dei detenuti: “Episodi di autolesionismo in drammatica crescita” padovaoggi.it, 10 ottobre 2025 “La condizione più preoccupante la sta vivendo il Circondariale. Quattro anni fa erano 130 circa i detenuti, oggi sono 267. Aumento dovuto anche al trasferimento a Padova di persone che dovrebbero stare nel carcere di Venezia, ora infestato dalle cimici”. L’aumento della popolazione carceraria in Italia continua a ritmi intensi, creando non pochi problemi alla gestione in senso costituzionale dell’esecuzione penale. È di questi giorni la notizia dell’ennesimo suicidio nel carcere di Montorio, a Verona, dove l’indice di sovraffollamento si aggira intorno al 200%. Uno dei molti episodi demoralizzanti che segnalano la condizione d’impotenza cui sono costretti operatori, agenti, volontari e garanti, di fronte a un fenomeno che non accenna a ridimensionarsi, ha dichiarato il Garante dei detenuti, Antonio Bincoletto. “A oggi i ristretti nelle carceri italiane sono oltre 63.000; fra di essi dall’inizio del 2025 ben 66 persone si sono uccise: più di una ogni 1000. Si tratta di una percentuale spaventosa, superiore di 25 volte a quella dei suicidi fra le persone libere in Italia. Giusto per aver un’idea, si pensi a cosa succederebbe se in una città di 60.000 abitanti in 9 mesi avvenissero più di 60 suicidi! Che si tratti di un fenomeno inevitabile, normale, ineluttabile, indipendente dal sovraffollamento, come ha affermato in diverse occasioni il ministro Nordio, è smentito dai dati: mai in Italia si erano raggiunte quote suicidarie nelle carceri come negli ultimi anni, col record negativo del 2023, quando 91 detenuti si diedero la morte dietro le sbarre. E la crescita dei casi è andata sempre più accentuandosi man mano che aumentavano le presenze di persone rinchiuse nelle nostre prigioni. La relazione affollamento/suicidi non è certo automatica e i fattori che entrano in gioco sono senz’altro molti, ma negare che vi sia qualunque rapporto fra i due fenomeni è semplicemente mistificatorio: è evidente che più gente c’è più calano gli spazi disponibili, assieme alle attenzioni e alle opportunità trattamentali che l’istituzione è in grado di offrire per fare un percorso positivo in carcere a chi è recluso. E quando il contenimento avviene in spazi sempre più stretti e costringe alla passività, aumenta inevitabilmente l’aggressività verso se stessi e gli altri. Allora la speranza di cambiamento scompare e si può anche arrivare al gesto estremo, come purtroppo vediamo accadere sempre più di frequente”, sottolinea Bincoletto. “Deve dunque preoccupare assistere a un continuo aumento della popolazione carceraria, come sta avvenendo anche negli Istituti padovani. La Casa di reclusione oggi contiene circa 630 persone, su una capienza regolare che si aggira intorno ai 480 posti, con la prospettiva di veder fra poco, quando aprirà la nuova sezione appena restaurata, la popolazione aumentare di altre 50 presenze. La condizione più preoccupante la sta però oggi vivendo il Circondariale, struttura datata che ha visto negli ultimi anni raddoppiare i reclusi. Quattro anni fa erano130 circa, oggi sono 267, e l’aumento è dovuto anche al trasferimento a Padova di persone che dovrebbero stare nel carcere di Venezia, ora infestato dalle cimici. Gli edifici del circondariale sono in parte fatiscenti, con stanze umide, celle con letti a castello dove convivono 8 e più persone; locali dove sarebbero necessari lavori e ristrutturazioni importanti. Le sezioni ordinarie sono piene, ultimamente i detenuti comuni vengono immessi nelle sezioni ICAT a custodia attenuata, destinate a chi ha problemi di tossicodipendenza, creando ulteriori difficoltà nella convivenza. I nuovi giunti non si sa più dove metterli, ormai non c’è più posto nei blocchi”, evidenzia con una certa veemenza il garante. “La situazione dell’Istituto sta perciò diventando esplosiva, e non si sa per quanto ancora polizia e personale penitenziario riusciranno a governare una tale condizione di sovraffollamento”. Ci sono anche aspetti positivi, come il senso di responsabilità di chi è impiegato negli isituti. E lo dice Bincoletto, facendo proprio riferimento a come si gestiscono i momenti critici: “Finora gli episodi di protesta e autolesionismo da parte dei detenuti sono stati tenuti sotto controllo senza giungere a conseguenze estreme, ma se non si corre ai ripari c’è il rischio che la situazione degeneri. In tal senso si sono espressi nei giorni scorsi sia la Direzione che gli organismi rappresentativi della Polizia penitenziaria dell’Istituto. È fondamentale che gli organi direttivi dell’Amministrazione penitenziaria intervengano con urgenza per riportare un minimo di normalità, consentendo al Circondariale di riprendere un’operatività regolare e di continuare a essere, come è stato finora, un esempio di gestione positiva”. Ivrea (To). Richieste condanne per i falsi e le violenze in carcere. La pg: “Clima omertoso” di Andrea Scutellà La Sentinella del Canavese, 10 ottobre 2025 Per dodici agenti chiesta la condanna, per altri assoluzioni e prescrizioni. I pm Noce e Avenati Bassi descrivono una “macelleria sudamericana”. Relazione del Ministero definita “tentativo d’insabbiare”. Alla fine i pestaggi in carcere a Ivrea sono scomparsi dal processo, per la maggior parte. Sono tutti prescritti. Ne è rimasto solo uno, del 2021, per cui è stata chiesta una pena totale di 4 anni per tre agenti. A pesare sono i falsi, perché reati di un pubblico ufficiale. “Nella mia esperienza sono reati sentinella delle violenze”, dirà l’avvocata di parte civile per l’associazione Antigone, Simona Filippi. Per i falsi sono stati chiesti 1 anno e 6 mesi per 8 agenti e 1 anno e 8 per uno, che ne ha commessi due, in tutto più di 13 anni. Poi ci sono le tre assoluzioni chieste perché gli agenti hanno dimostrato di non essere in servizio nel giorno del presunto pestaggio. Che si aggiungono a quelle chieste a inizio processo per gli agenti accusati di relazioni false, per cui non sono stati trovati i relativi documenti. La tortura è stata depennata già in udienza preliminare. A Ivrea non ci sono telecamere, come a Santa Maria Capua Vetere, a garantire trasparenza. Il carcere di Ivrea è un luogo opaco, altro che casa di vetro. E allora dove non si arriva con i riscontri fattuali, si va con la logica. “Perché i detenuti, che normalmente sono reticenti alle denunce, dovrebbero inventare dei pestaggi?”. È questo il ragionamento esplicitato più volte dai pm Sabrina Noce e Giancarlo Avenati Bassi, nel processo istruito sulle accuse che la procura generale di Torino ha avocato a quella di Ivrea. Dopo segnalazioni e opposizioni dei garanti comunali dei detenuti, attraverso l’avvocata Maria Luisa Rossetti, e dell’associazione Antigone. Esposti, opposizioni all’archiviazione e, infine, l’avocazione. Il tentativo è quello di far luce su un mondo di ricordi che vacillano, omissioni, tentativi di ricostruzione. E persino di chi ricerca falsi ricordi, più che cercare di capire se un detenuto è stato effettivamente pestato oppure no. In mezzo a questo marasma, dove la verità è soltanto una traccia, la ragione è l’unica bussola dei pm che ci dicono che “i detenuti sono cittadini come tutti gli altri”, che “la tipica violenza del carcere di Ivrea era rivolta verso le persone più deboli”, che durante la cosiddetta “rivoltina” del 25-26 ottobre 2016 - chiamata così in ossequio alla tradizione infantilizzante del linguaggio carcerario - “la situazione era da macelleria sudamericana”, come sostiene Noce. Avenati Bassi, invece, torna sulla relazione dei funzionari del ministero Marco Bonfiglioli ed Ermanno Mina, testimoni al processo, che definisce “un tentativo di insabbiare l’indagine”, ricordando la “vergogna” dell’introduzione sull’epistemiologia, con citazioni filosofiche annesse, e i tentativi di individuare falsi ricordi nei medici che testimoniavano un pestaggio. Sono quattro, in sostanza, gli episodi che restano in piedi nel processo. Il primo è il pestaggio di un detenuto che si sarebbe consumato alla rotonda del piano terra, mentre due detenuti semiliberi, che poi hanno denunciato, guardavano dallo spioncino. Qui avrebbero visto anche il medico alla macchinetta che sorseggiava un caffè durante l’accaduto. Qui c’è l’accusa di falso a Simpatico, per la relazione dove si sostiene che i detenuti non potevano aver visto il punto del pestaggio. Nella sala d’attesa dell’infermeria senza arredi, riscaldamento, né bagno, né luce naturale, chiamata “Acquario”, e utilizzata secondo quanto sostenuto dall’accusa e dai garanti dei detenuti, sarebbe stato picchiato un detenuto con problemi di tossicodipendenza e autolesionismo. Qui le relazioni false sarebbero di Firenze e Rao, dove si sostiene che il detenuto “prendeva a testa lo spigolo della colonna”. Quella di Firenze aggiunge anche che l’uomo avrebbe gridato: “Mi spacco la testa e vi denuncio così poi dico che siete stati voi a farlo”. Roma. Crolla il tetto di una rotonda a Regina Coeli, trasferiti 250 detenuti di Angela Stella L’Unita, 10 ottobre 2025 Attimi di paura ieri a Regina Coeli quando una porzione del tetto del carcere romano è crollata. Per fortuna non ci sono stati né morti né feriti. Non appena appresa la notizia, il capo del Dap Stefano De Michele “si è immediatamente recato” sul posto per coordinarsi con i Vigili del Fuoco. Dopo un’ora è arrivata anche una nota del sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove che ha spiegato come a crollare sia stata “improvvisamente - e in termini non prevedibili - la cupola della seconda rotonda a causa di una tarmatura delle travi interne, già indebolite dall’umidità, non rilevabile. Il carcere è in sicurezza sotto tutti i profili”. Ha poi annunciato che una ditta era già al lavoro per riparare il danno e che i detenuti sono stati sfollati per spostarli in altre strutture. Una tragedia sfiorata che comunque lascia spazio alle polemiche. Per la deputata Pd Michela Di Biase, componente della commissione Giustizia, quanto successo “dimostra in modo drammatico quanto il Governo continui a ignorare la vera emergenza delle carceri italiane. Mentre si moltiplicano gli annunci di nuove strutture, la realtà è che quelle esistenti versano in condizioni inaccettabili, tra degrado, mancanza di manutenzione e sovraffollamento. È la fotografia di un sistema abbandonato e di un esecutivo che preferisce nascondersi dietro slogan vuoti anziché affrontare con serietà il problema”. Secondo recenti dati del Garante regionale dei detenuti nel carcere romano a fronte di una disponibilità di 572 posti, ci sono 1.116 detenuti. Proprio Stefano Anastasia ha così commentato: “Per fortuna non si è fatto male nessuno. Il crollo della volta della II rotonda di Regina Coeli mi sembra una metafora delle condizioni del nostro sistema penitenziario. È importante che, con i vigili del fuoco, ci sia andato anche il capo dell’amministrazione penitenziaria, per rendersi conto di persona di cosa si tratti. Non abbiamo quasi neanche più la voce per dirlo: così non si può andare avanti”. “Sono anni che discutiamo delle condizioni strutturali di Regina Coeli - ha aggiunto la garante cittadina Valentina Calderone - tra infiltrazioni, muffe, tubature che si rompono e caldaie sempre guaste. Un anno fa è stata chiusa l’ottava sezione a seguito di un incendio che aveva causato danni strutturali. Nonostante un intero reparto in meno, il numero delle persone è continuato a crescere e sfioriamo il 200% di tasso di sovraffollamento”. Critiche anche dal sindacato Fns Cisl che raccoglie vigili del fuoco e polizia penitenziaria: “quanto accaduto evidenzia ancora una volta lo stato di grande fragilità strutturale che moltissimi istituti penitenziari soffrono, situazioni che mettono a rischio non solo la sicurezza dell’integrità che un ambiente detentivo deve avere per sua natura, ma mette a rischio la sicurezza di chi nel carcere lavora e vive. Auspichiamo che questo ennesimo grave fatto sia da monito affinché il governo trovi risorse economiche aggiuntive per consentire agli organi preposti del Dap di riuscire ad intervenire sulle molte criticità che insistono sul territorio nazionale”. Piacenza. Convegno all’Università Cattolica. “Chi è escluso dalla giustizia è povero” ilpiacenza.it, 10 ottobre 2025 In Cattolica per la settimana del Dono il convegno “Abitare la giustizia: la Costituzione degli esclusi”. “Chi è escluso dalla giustizia è povero e la costituzione che dovrebbe tutelare tutti e non discriminare, è ancora in attesa di cambiamenti che evitino le disparità. La fratellanza va costruita con coraggio e la giustizia va “abitata” nella condivisione”. Concetti di accentuata rilevanza sociale e giuridica emersi nel corso dell’incontro “Abitare la giustizia: la Costituzione degli esclusi” che si è tenuto all’Università Cattolica di Piacenza nell’ambito della Settimana del Dono, un convegno organizzato con lo scopo di offrire uno spazio di confronto sul significato costituzionale della giustizia penale e sulla necessità di renderla un’esperienza inclusiva, capace di tutelare gli ultimi e di dare sostanza al valore della pari dignità sociale. Dopo i saluti di Marco Allena, preside della Facoltà di Economia e Giurisprudenza, con il coordinamento di Francesco Centonze docente dell’Ateneo (ha ricordato alcune situazioni molto difficili come il sovraffollamento delle carceri, i suicidi, lo sfruttamento del lavoro e gli infortuni, vera piaga sociale), hanno preso la parola il vescovo della Diocesi di Piacenza-Bobbio, il monsignor Adriano Cevolotto, il magistrato Gherardo Colombo e la professoressa Claudia Mazzucato, ciascuno cercando di offrire, da prospettive complementari, uno sguardo ampio e articolato sul tema della giustizia sociale e sulla tutela dei diritti fondamentali, per riflettere sulle modalità di tutela dei più fragili e sull’importanza di ricostruire i legami sociali attraverso la giustizia riparativa, nella prospettiva di promuovere una cultura autenticamente solidale. Il vescovo ha ricordato i dieci anni della “Laudato si” di Papa Francesco ed in particolare i punti che riguardano “l’iniquità planetaria e la giustizia ambientale”, evidenziando le ragioni delle distorsioni e sottolineando che “l’uomo è equilibrio predatorio che colpisce soprattutto poveri ed esclusi, con il creato ridotto a risorse e la necessità di una giustizia sobria vissuta con consapevolezza”. Colombo ha sostenuto che “la storia è fatta di discriminazioni e se c’è una cultura della prevaricazione la legge la segue, con la giustizia quasi costruita per mantenere il conflitto, con torto e ragione che separano sempre. I cambiamenti culturali (ma anche quelli costituzionali) richiedono tempo e impegno ma si possono realizzare stando attenti al rischio. Le società “verticali” si stanno rafforzando, invece di dare importanza alla persona; bisogna rivedere il senso della giustizia, mettere d’accordo più che separare, riuscire a ricomporre”. Concetti condivisi da Claudia Mazzuccato secondo la quale “chi opprime sta murando fuori la propria umanità e questo riguarda tutti; ci sono anche le vittime “che vanno di moda” e quelle dimenticate. La fratellanza va costruita con coraggio, la giustizia va “abitata” con esperienze comuni tra vittime e aguzzini; giustizia è relazionarsi con gli altri; è anche capace di renderci crudeli; giudicare non vuol dire esprimersi contro l’altro, ne credersi superiore”. Velletri (Rm). Il “Gran Caffè”, evento musicale per i detenuti gnewsonline.it, 10 ottobre 2025 Un’atmosfera da “Gran Caffè” nella casa circondariale di Velletri. Lo spettacolo di musica e convivialità, promosso dalla Regione Lazio, si è svolto ieri pomeriggio nel teatro dell’istituto. Sul palco Marcello Cirillo, cantante e volto del programma tv “I Fatti Vostri”, che ha intrattenuto i detenuti del carcere veliterno con racconti e un repertorio di canzoni italiane e internazionali. A riscaldare l’atmosfera, Gino Mariniello alla chitarra, Dario De Sanctis al basso, Domenico Rizzuto alle percussioni e Irina Arozarena come vocalist. Presente all’evento, anche la componente del Garante nazionale dei detenuti, Irma Conti. La direttrice del carcere, Anna Rita Gentile, sottolinea come attività del genere “si pongono in linea con il creare dei ponti oltre i nostri muri per una narrazione del lavoro svolto dagli istituti penitenziari”. Per la dirigente è essenziale sviluppare progetti di reinserimento sociale tramite il lavoro, “a mio parere - commenta Gentile - l’unica strada per un vero recupero per coloro che hanno commesso reati”. Se il carattere si delinea nell’adolescenza, che ne sarà dei nostri figli assediati? di Michel Martone* Corriere della Sera, 10 ottobre 2025 In un momento storico in cui sul palcoscenico mondiale tornano a prevalere modelli di leadership dal carattere autoritario, per non dire predatorio, all’Europa spetta la responsabilità storica di difendere quella cultura dei diritti che dà senso e sostanza alle forme più avanzate di democrazia, anzitutto in tema di parità di genere. Può così ancora accadere che, mentre oltreoceano si moltiplicano gli ordini esecutivi che impongono a università ed aziende la chiusura dei programmi che promuovono il multiculturalismo e la parità di genere, ci si ritrovi a Milano nel giardino della Triennale al Tempo delle donne con migliaia di persone per discutere e ragionare per un intero week end, all’insegna della “libertà di volere ancora tutto”. Così di fronte a un cartellone ricco e articolato ho scelto di seguire gli incontri che in un modo o nell’altro hanno affrontato il delicato tema del futuro delle relazioni umane in quest’epoca di incalzante innovazione tecnologica perché ho un figlio di dieci anni e mi sono chiesto, con Francesco Piccolo ed Edoardo Albinati: se una parte determinante del nostro carattere si è formata nell’adolescenza quando eravamo maggiormente influenzabili, cosa accadrà a quello dei nostri figli ora che in quel particolare momento della loro vita sono esposti ai pericoli dei social media e alle lusinghe dell’intelligenza artificiale? Quello che segue è il mio personale diario delle risposte che ho trovato girovagando tra i tanti appuntamenti di questa riuscita edizione del Tempo delle donne. Un’edizione che si è aperta con una riflessione agrodolce sui risultati di uno sconsolante sondaggio dal quale emerge che i giovani della generazione Z, nonostante le tante potenzialità sprigionate dall’innovazione tecnologica, sono talmente smarriti da non sentirsi all’altezza dei padri e dei nonni. Se i Boomer erano così pieni di sé da dirsi pronti a fare la rivoluzione, loro preferiscono rendersi invisibili ripiegandosi sul telefonino per sfuggire alle complessità del mondo che stanno ereditando. Una reazione sconsolata e difficile da spiegare se solo si pensa che ciò accade in un frangente in cui l’innovazione tecnologica ha completamente sovvertito i rapporti di autorità e autorevolezza tra generazioni posto che, come precisato da Mauro Bonazzi nello spazio Vox, se quelle più anziane non hanno esperienza delle innovazioni, le nuove devono imparare a conviverci sin dalla prima infanzia. Così alla ricerca di un po’ di conforto, è facile che i giovani della Gen Z si rivolgano ai social media per ottenere qualche like o al chatbot preferito alla ricerca di qualche consiglio che li sollevi dal loro disagio, come ha rilevato una brillante terapeuta, Lara Pelagotti, che, per comprendere meglio il fenomeno, si è sottoposta ad una terapia con l’intelligenza artificiale per cercare di comprenderne l’efficacia. Un esperimento durato sei mesi e fatto di incontri settimanali con un chatbot chiamato Francesca con il quale ha parlato di amore, tristezza, allegria, depressione, rapporti famigliari, ferite originali e sogni alla ricerca di soluzioni ai problemi quotidiani. Ne è venuto fuori un quadro fatto di luci ed ombre, piuttosto utile a distinguere che non ad accomunare l’intelligenza umana con quella artificiale. Se, come ha sottolineato la neuroscienziata Martina Ardizzi, l’intelligenza umana è “esperienziale” nel senso che si forma attraverso le emozioni e le esperienze che la vita porta con sé, quella artificiale è appiattita sul presente perché si forma attraverso i dati disponibili in rete in un determinato momento storico. Ricorda ciò che dici ma non lo assimila perché, come sottolineato da padre Guidalberto Bormolini, è incapace di vedere e sentire la complessità dell’essere umano anche perché è priva di corporeità e quindi non ha mai sentito le farfalle nello stomaco tipiche dell’innamoramento o la cupa tristezza che accompagna i momenti di depressione. E di certo non può comprendere il significato di un silenzio o l’infinita gamma di emozioni che può suscitare una canzone, come quelle cantate da Riccardo Cocciante, Coez o Francesca Michielin nel Teatro dell’arte. Anche per questo mi sono convinto che, almeno allo stato attuale, l’intelligenza artificiale se è in grado di sostituire i lavori ripetitivi o meramente operativi, come ricorda Silvia Cassano, di sicuro non può sostituire i terapeuti o gli psicologi perché un depresso non ha certo bisogno di un terapeuta, privo di intelligenza emotiva o di empatia, che sia stato progettato per assecondare i suoi stati di animo. Anche perché questa pericolosa deriva è aggravata dal fatto che, come rilevano Paolo Giordano e Jonathan Bazzi, ormai anche giornali e tv si fanno dettare l’agenda da social media ai quali non chiediamo di essere visti o compresi per come realmente siamo ma piuttosto di essere accettati per l’immagine che offriamo di noi, secondo una logica identitaria piuttosto che pluralista. Insomma una società innamorata del proprio riflesso, nella quale all’intelligenza maschile e femminile si aggiunge quella artificiale mentre si riduce lo spirito critico e si moltiplicano le dipendenze, da quelle per il telefonino a quelle per lo shopping. Un contesto problematico nel quale i nostri figli sono troppo spesso lasciati soli da genitori che per fragilità preferiscono negare i loro problemi piuttosto che farsene carico quando, come rileva Matteo Lancini, il bisogno primario di qualsiasi adolescente è quello di essere riconosciuto nella sua delicata unicità. Tutti i relatori hanno poi concordato sul fatto che il problema è ben più ampio perché l’innovazione tecnologica scardina gran parte delle certezze con le quali eravamo cresciuti, anche quelle sulla famiglia tradizionale come testimonia il brillante corto di Francesca Romana Zanni sulla gestazione per altri, non a caso titolato Presente, di cui abbiamo discusso con Barbara Chichiarelli in Sala Cuore, dove ci siamo divisi tra quanti ritengono che l’innovazione non debba incontrare limiti se permette alle persone di realizzare i loro sogni e quanti temono che, per questa via, l’uomo finisca per sentirsi onnipotente fino a dimenticare che esistono dei limiti naturali che non possiamo superare senza prima esserci posti nuove e delicate questioni etiche. Questioni appassionanti che, per essere affrontate, richiedono coraggio, apertura mentale e capacità di dialogo. Qualità che si fanno sempre più rare ma che hanno consentito a donne straordinarie come Goliarda Sapienza - magistralmente raccontata nel film Fuori di Mario Martone e Ippolita Di Majo proiettato nel Teatro dell’arte - o Mimi Pecci-Blunt - ricordata con l’apertura del Teatro Cometa da Maria Grazia Chiuri e Rachele Regini - di farsi valere nella cultura patriarcale degli anni 60 e di ispirare tante giovani donne. Anche per questo il Tempo delle donne mi ha fatto ricordare la fortuna di essere cittadini europei e quanto sia importante potersi incontrare in un parco per parlare, discutere e ragionare liberamente del nostro futuro e del nostro modo di vivere in comunità. *Giurista, professore di Diritto del lavoro e relazioni industriali alla Sapienza di Roma Paolo Picchio: “Porto nelle scuole il sogno di Carolina. Lei non odiava i bulli” di Filippo Massara La Stampa, 10 ottobre 2025 Il papà della 14enne suicida: “È ora di cambiare. Negli anni ho incontrato mezzo milione di giovani”. Il libro non poteva che intitolarsi così: “Le parole fanno più male delle botte” è una citazione della lettera che Carolina Picchio scrisse prima di lasciarsi cadere dalla finestra di casa all’età di 14 anni nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 2013. La ragazza non riuscì a reggere il peso delle migliaia di insulti ricevuti sui social a seguito del filmato che la ritraeva, priva di coscienza, mentre alcuni coetanei giocavano con il suo corpo mimando atti sessuali. Dopo la morte dell’adolescente di Novara, quello sfogo si è affermato come uno slogan della lotta contro il cyberbullismo che il papà Paolo conduce frequentando le scuole di tutta Italia, attraverso la Fondazione intitolata alla figlia e ora anche con la firma di un libro pubblicato da DeAgostini. Picchio, come nasce l’idea di scrivere? “È un cerchio che si chiude. Nella lettera di Caro non c’era odio verso i bulli, ma un invito a cambiare e essere più sensibili. Così cominciai a incontrare i ragazzi per condividere la sua testimonianza, nel 2018 nacque la fondazione e ad aprile il centro Re.Te a Milano per il recupero terapeutico dei disagi giovanili, la cura della dipendenza da Internet, dell’ansia e del ritiro sociale”. Quando si rese conto che gli incontri nelle scuole non erano più sufficienti? “Accadde nel 2016. Appena accennai al video che circolava tra gli amici di Caro, una studentessa fuggì via piangendo. La sua storia l’aveva scossa. Per la prima volta mi sentii fuori posto, inutile. Poi ragionai pensando che il racconto non fosse più sufficiente. Per fortuna, quella ragazza avrebbe trovato un sostegno. Ma che ne sarebbe stato di quegli studenti che non hanno la forza di chiedere aiuto o non sanno a chi rivolgersi? Così nacque l’idea di aprire una fondazione per offrire un supporto concreto, affidando il timone a Ivano Zoppi (segretario generale della Fondazione, ndr)”. Cosa ha insegnato la morte di Carolina? “Che il bullismo non è una ragazzata. Lo attestano le leggi ispirate e dedicate a mia figlia, i processi e le richieste di intervento che il team multidisciplinare della Fondazione riceve da tutta Italia. Negli ultimi due anni scolastici la squadra ha gestito circa 300 casi di violenza online. Il percorso si è sviluppato con l’apertura del Centro Re.Te che in questi primi sei mesi di attività ha preso in carico più di 40 giovani”. A chi si rivolge il suo libro? “A ragazzi e famiglie. Ma vuole anche essere un appello a istituzioni e addetti ai lavori perché trovino nelle parole e nel sorriso di Caro la stessa motivazione che ha portato un semplice papà a incontrare mezzo milione di giovani. Prima di salutarli, a loro raccomando sempre una cosa: “Quando tornate a casa da scuola, abbracciate i vostri genitori”. Vale più di mille like”. E agli adulti, cosa raccomanda? “Più consapevolezza e partecipazione. Ci piacerebbe incontrare ogni anno 100 mila genitori, uno per ogni ragazzo, ma purtroppo quando arriviamo a 20 mila è già tanto. Peccato che poi siano proprio loro a chiederci aiuto nel momento del bisogno. Occorre prevenire, e farlo alla svelta”. In che modo? “Facendo sistema per il benessere dei minori. Non basta operare a livello istituzionale sul rapporto con le “big tech” e gli organi per la tutela dei minori. Bisogna intercettare le sfide dell’intelligenza artificiale lavorando sull’educazione. Bullismo e cyberbullismo sono un tema culturale, su cui si può intervenire già a partire dall’infanzia accompagnando i ragazzi verso la comprensione e la gestione delle emozioni. Si deve educare all’affettività, al rispetto di se stesi e degli altri. Serve creare anche una comunità di adulti capace di accogliere il loro grido” Corte europea dei diritti dell’uomo: si può cancellare la seconda madre di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 10 ottobre 2025 La pronuncia dei giudici di Strasburgo sul caso di una coppia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso ieri una sentenza destinata a riaprire il dibattito sulle coppie omogenitoriali. Secondo i giudici di Strasburgo, l’Italia non ha violato i diritti di un minore, nato nel 2018 nel bellunese, quando ha imposto di cancellare dal suo certificato di nascita la seconda madre, mantenendo solo quello della madre biologica. Le due donne si erano opposte alla decisione, avviando un lungo percorso giudiziario: prima il tribunale, poi la Corte d’appello e infine la Cassazione, che nel 2023 aveva respinto il ricorso. A quel punto, la madre biologica aveva deciso di rivolgersi a Strasburgo. Per i giudici europei, la cancellazione della “madre intenzionale” - cioè la donna che condivide con la madre biologica il progetto genitoriale - non ha interrotto la vita familiare del bambino, che continua a vivere con entrambe. Non vi sarebbe stata quindi alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (Cedu): il diritto alla vita familiare del minore. Nella pronuncia, i giudici ricordano che gli stati non sono obbligati a inserire automaticamente i genitori d’intenzione nei certificati di nascita, purché offrano altre vie per riconoscere il rapporto familiare: nel caso italiano, ci si riferisce all’adozione. L’avvocato Alexander Schuster, che da anni tutela le famiglie omogenitoriali, sentito dal manifesto, ha dichiarato che questa pronuncia “è più argomentata rispetto a un’altra molto lapidaria del 2023, ma resta negativa perché considera l’adozione un rimedio sufficiente”. Il legale sottolinea il vuoto di tutela che l’adozione comporta: “Nel nostro ordinamento l’effetto si produce solo con la sentenza, non retroattivamente. Per anni il bambino resta privo di un genitore legalmente riconosciuto, con conseguenze concrete a partire dall’assistenza sanitaria in caso di disabilità”. Schuster sottolinea che il ricorso avrebbe potuto essere più incisivo se avesse fatto leva sull’articolo 14 della stessa Cedu sul divieto di discriminazione: “Non si è messo a confronto il figlio nato da due madri con quello nato da una coppia eterosessuale, dove pure vi è donazione di seme. Bisogna garantire equità in termini di tutela”. Un aspetto positivo, però, c’è stato: per la prima volta una sentenza su questo tema non è stata approvata all’unanimità. “Anche sul piano delle argomentazioni - osserva Schuster - Strasburgo è stata più elaborata e sensibile. Sono piccoli passi in avanti”. Sul fronte opposto, Pro Vita e Famiglia, da sempre contraria al riconoscimento di pari diritti per le famiglie omogenitoriali, esulta: “La Corte ha arginato la pericolosa deriva giudiziaria su un presunto “diritto al figlio” a ogni costo”. In assenza di una legge, la tutela dei figli delle coppie di donne continua a dipendere dai tempi dei tribunali e dalle scelte dei giudici. Strasburgo non chiude il dibattito: lo rimette all’Italia, lasciandole la responsabilità di colmare o di ignorare quel vuoto. Migranti. “Mediterranea” vince in tribunale, annullato il fermo della nave di Angela Stella L’Unità, 10 ottobre 2025 Il fermo della nave Mediterranea della Ong Mediterranea Saving Humans, sottoposto a fermo amministrativo per due mesi dal ministero dell’Interno per aver “disobbedito” lo scorso agosto agli ordini del Viminale e aver fatto sbarcare 10 persone migranti soccorse in mare a Trapani, in Sicilia, anziché a Genova, come le era stato indicato, è sospeso. Lo ha stabilito il tribunale di Trapani, accogliendo il ricorso dei legali della Ong guidata da Luca Casarini e Beppe Caccia. Si tratta dell’ennesimo insuccesso per le politiche del governo Meloni, che dal suo insediamento a colpi di decreto sta tentato di ostacolare in ogni modo le attività di soccorso in mare dei migranti. Ma la decisione del giudice di Trapani Federica Emanuela Lipari è particolarmente rilevante perché contrasta le regole modificate dall’esecutivo di destra sul soccorso dei migranti: leggi che dal 2023 obbligano le navi che soccorrono in mare a comunicare con la autorità per ottenere l’assegnazione di un porto, che spesso in maniera del tutto strumentale viene indicato a centinaia di chilometri di distanza dal punto in cui è avvenuta l’operazione. In questo modo aumentano i costi di gestione del viaggio, dovendo utilizzare più carburante, e si limitano gli interventi di soccorso perché costretti a navigare più giorni per poter attraccare, far scendere i migranti e ripartire per una nuova missione nel Mediterraneo. Era il caso della nave Mediterranea, che il 24 agosto scorso era sbarcata a Trapani dopo aver salvato dieci migranti al largo della Libia, fatti sbarcare in Sicilia per consentire le necessarie cure mediche e psicologiche. Il Viminale aveva invece indicato di raggiungere il porto di Genova, a 600 miglia nautiche e tre giorni di navigazione, nonostante i ripetuti appelli della Ong per ottenere un porto di attracco più vicino. Secondo il giudice di Trapani Federica Emanuela Lipari la scelta di Mediterranea di sbarcare a Trapani è stata presa “a tutela delle persone tratte in salvo” tenendo “conto delle loro condizioni di vulnerabilità e fragilità”. Il Tribunale di Trapani, in attesa di pronunciarsi sull’intera vicenda, ha deciso anche “l’illegittimità del provvedimento sotto il profilo della quantificazione della sanzione”, ovvero il fermo di 60 giorni e una multa da 10mila euro. Da Mediterranea Saving Humans si parla giustamente di “esito dell’udienza clamoroso”. “Il Tribunale di Trapani - scrive la Ong in una nota - in attesa di pronunciarsi sul merito complessivo della vicenda, intanto censura l’illegittimità del provvedimento del ministero dell’Interno, sotto il profilo della quantificazione della sanzione. E, dando ragione alle argomentazioni presentate dalle nostre avvocate Cristina Laura Cecchini e Lucia Gennari, insiste sul fatto che il Viminale ha ignorato tutte le richieste. Mediterranea ha fatto rotta su Trapani a tutela delle persone tratte in salvo”, spiegano da Mediterranea. Cosa dice l’accordo di pace per Gaza: le armi, i detenuti, il ritiro, la tempistica (non chiara) di Guido Olimpio Corriere della Sera, 10 ottobre 2025 Non è stata fissata una tabella di marcia precisa né si è stabilito chi dovrà disarmare i jihadisti. Israele e Hamas si sono piegati, per ora, ad una pressione senza precedenti. Da un lato l’ultimatum di Donald Trump simile a un ordine esecutivo articolato in una ventina di punti. Dall’altro il peso dei mediatori regionali, ossia Qatar, Egitto, Turchia mobilitati per spegnere l’incendio. Anche l’Iran, punto di riferimento dell’asse radicale, si è espresso in modo favorevole. La diplomazia si augura che sia il primo sì verso una soluzione duratura ma è consapevole delle trappole presenti sulla strada tortuosa. Che in Medio Oriente si presentano con forme diverse e si annidano nei dettagli. A volte basta l’azione di un singolo per innescare la reazione a catena. Hamas deve (dovrebbe) cedere le armi. In una seconda fase, ha detto Trump. Passo costoso e sofferto per un movimento che ha nel suo nome il termine “resistenza”. In questi giorni i dirigenti hanno parlato di consegna parziale, insistendo sulla necessità di mantenere i mezzi per difendersi. In realtà c’è poca differenza visto che parliamo dello stesso “arsenale”. La fazione non possiede certo corazzati o aerei, bensì combatte con fucili, lanciagranate, ordigni, qualche drone e razzi. Secondo alcune stime conta ancora su oltre 11 mila militanti (forse anche più) ma ha perso il 90% degli ufficiali e il 97 % di razzi. Resta sempre il mistero dei tunnel: quanti ve ne sono ancora? Per alcuni ancora molti, una valutazione (imperfetta) che si basa su analisi belliche e affermazioni propagandistiche. Gli esperti hanno sottolineato che il pragmatismo dei capi - ok, accettiamo le condizioni dettate dalla Casa Bianca e limate dai negoziatori - è bilanciato dalla posizione dei miliziani addestrati alla lotta a oltranza. Abbandonare il kalashnikov equivale ad una resa e, stando a recenti indiscrezioni, questa nuova “leva” sarebbe stata contraria a cedere. C’è poi un secondo aspetto tecnico su chi debba raccogliere gli equipaggiamenti. Una delle ipotesi prevede che sia una forza di stabilizzazione multinazionale a farsene carico. Esperienze in altri conflitti raccontano che se c’è volontà è possibile mettere da parte i mitra e le bombe, così come esiste un lato segreto, con casse ben nascoste. L’intesa prevede un ritiro per tappe da parte di Israele. Nelle richieste di Hamas il risultato finale deve essere uno sgombero totale ma, intanto, Tel Aviv ha precisato che manterrà al momento il controllo del 53% del territorio. E non è stato fissato un calendario preciso. Facile comprendere come il mancato disarmo o un’occupazione prolungata possano diventare il motivo per una ripresa delle ostilità. Nel grande baratto Hamas ha inserito la consegna dei resti di Yahya e Mohammed Sinwar, idea subito respinta dall’avversario. Sempre la fazione ha richiesto il rilascio di alcune figure chiave: Marwan Barghouti, prigioniero-simbolo e dirigente del Fatah; Ahmad Sadat, segretario del Fronte popolare, laico, accusato di aver pianificato l’omicidio di un ministro nel 2001; Hassan Salameh e Abbas El Sayed, operativi di Hamas ispiratori di attentati suicidi. Per Tel Aviv la loro liberazione vorrebbe dire violare una linea rossa mentre agli occhi dell’avversario tirarli fuori gli ergastolani dalle celle ha un doppio significato: dimostra di non abbandonare nessuno e trasmette un messaggio unificante rivolto alle altre formazioni. Proprio Barghouti ne è l’esempio. In base alle ultime informazioni gli israeliani hanno ribadito il no, la tv qatarina al Jazeera ha riferito di trattative in corso. Il sito Middle East Eye ha sostenuto che sarebbe stato l’ufficio del premier Netanyahu a rimuovere dalla lista Barghouti, Salameh e Sadat. Vedremo nelle prossime ore cosa accadrà. Nella Gaza del futuro, secondo la “mappa politica”, non c’è spazio per Hamas. Si parla di esecutivo tecnico, di organismo internazionale che deve sovraintendere, di un probabile contingente di pace. I regimi arabi e l’Occidente studiano opzioni, calcolano i fondi necessari, elaborano agende di influenza. Il movimento, non da oggi, conta sulle radici profonde create nella Striscia ed è convinto che, nonostante tutto, il tempo sia dalla sua parte. Uno degli esponenti della diaspora, Moussa Abu Marzouk, ha dichiarato in un’intervista che la fazione non è più solo un’organizzazione ma piuttosto “un’idea” e dunque non può arrendersi. Il piano su Gaza è una pietra tombale sul diritto internazionale di Massimiliano Sfregola Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2025 Il piano in 20 punti su Gaza è una pietra tombale su convenzioni e diritti che hanno regolato - o avrebbero dovuto regolare - i rapporti tra gli Stati. Oggi viene sancito su carta che gli accordi si basano sulla legge del più forte, economica e militare, e non sui principi sanciti secoli fa e codificati negli ultimi cento anni. Il diritto internazionale resta “soft” per la sua intrinseca incapacità di farlo rispettare, mentre la versione mercantile e piramidale di questi accordi è uno schema pericolosissimo che cancella secoli di civiltà giuridica, contrappesi e procedure equilibrate. Così la voce dei giuristi, dei giudici e della dottrina viene sostituita da interessi di parte. Anche se alcune agenzie Onu e gran parte della dottrina considerano quello a Gaza un genocidio, se gli opinion maker dicono “no”, allora apparentemente è “no”. Lo stesso vale per la celebrazione odierna del “cessate il fuoco” come evento storico: più una sceneggiata politica che una vera svolta per la pace. L’operazione di marketing funziona così: si propone una tregua unilaterale dove una parte prende tutto, impone la propria immunità sulla devastazione causata e si candida a coprire i costi della guerra, vendendo contratti di ricostruzione e strumenti di sorveglianza come se fossero miracoli di pace. Il piano di Donald Trump per Gaza, rivelato il 29 settembre 2025 e strutturato in 20 punti, promette Gaza demilitarizzata, un comitato palestinese “tecnico” sotto supervisione internazionale presieduto dallo stesso Trump, e massicci aiuti economici. Ci sono certamente elementi positivi: rilascio di detenuti, assistenza umanitaria e impegni contro sfollamenti forzati e annessioni. Ma come sottolineano 36 esperti legali e per i diritti umani delle Nazioni Unite, queste sono già garanzie imposte dal diritto internazionale, non concessioni straordinarie. Trump, insomma, in perfetta coerenza con la storia coloniale infinita dell’area, sta vendendo ai palestinesi diritti che già hanno. Secondo gli esperti Onu, il piano di Trump viola principi fondamentali di legge internazionale per 15 ragioni principali: dalla condizionalità del diritto all’autodeterminazione palestinese, alla sostituzione dell’occupazione con un controllo straniero mascherato, fino all’assenza di meccanismi di responsabilità per i crimini israeliani e al rischio di sfruttamento economico di Gaza. Sotto l’apparenza di una tregua, la strategia rafforza disuguaglianze e vulnerabilità dei palestinesi, lasciando il futuro della loro terra nelle mani di attori esterni, con il beneplacito di uno show politico globale. Trump e Netanyahu giocano a chi passa alla storia come “risolutore di guerre” e “storico della pace”, mentre la mobilitazione globale, senza precedenti negli ultimi due anni, continua a difendere i palestinesi. La resilienza di chi lotta per sopravvivere in Palestina ha ispirato milioni di persone, comprese quelle che solo ieri ignoravano o disprezzavano la causa. Mezzo mondo si è “innamorato” dei palestinesi perché, tra i grandi perdenti della storia recente, il loro modello di resistenza e resilienza contro un colosso militare protetto da alleanze internazionali è diventato sinonimo di lotta contro le ingiustizie. Che la “pace” celebrata dai media e dai politici italiani non sia altro che una tregua temporanea e una sceneggiata da bazar è evidente: la storia vera continuerà a scriverla in Medio Oriente chi ha piede sul suolo, non chi firma carte da lontano. I palestinesi hanno fretta di non morire; Trump e Netanyahu, 79 e 75 anni, di passare alla storia (e all’incasso); centristi ed estrema destra in Europa e i sostenitori incondizionati di Israele di capitalizzare e spegnere in fretta le richieste di giustizia. Alberto Trentini ha chiamato la famiglia: l’attivista è detenuto in Venezuela da quasi 11 mesi di Francesco Bottazzo Corriere del Veneto, 10 ottobre 2025 È la terza telefonata durante i 327 giorni di carcere per il cooperante veneziano arrestato il 15 novembre 2024. Ha raccomandato ai genitori di prendersi cura di loro e ha assicurato di essere forte. Giovedì pomeriggio il cooperante veneziano Alberto Trentini in carcere da 327 giorni, e da allora detenuto senza processo in Venezuela, ha chiamato per la terza volta a casa. “Ha voluto ringraziare tutte le persone che gli sono state vicine in questi mesi e ha ribadito il suo affetto per i suoi cari”, sottolinea l’avvocata Alessandra Ballerini che assiste la famiglia. La visita dell’ambasciatore - La telefonata segue la visita in carcere dell’ambasciatore italiano in Venezuela e la missione a Roma di una delegazione venezuelana, due eventi che potrebbero preludere a breve a nuovi sviluppi diplomatici. “La chiamata di Alberto ci apre spiragli di speranza - sottolinea la famiglia - E in questi quasi undici mesi la nostra fede non è mai venuta meno. Grazie a chi sta lavorando al nostro fianco per la liberazione di nostro figlio”. Un paio di settimane fa era stata la premier Giorgia Meloni a telefonare alla mamma di Trentini Armanda Colusso assicurando “la grande attenzione con cui il governo segue la vicenda e il suo massimo impegno, attraverso tutte le strade praticabili, per un esito positivo”. Il posto di blocco e l’arresto - Il veneto, 46 anni, si trovava in Venezuela per una missione umanitaria con l’ong Humanity & Inclusion, impegnata nell’assistenza alle persone con disabilità. Il 15 novembre stava viaggiando nel sud-ovest del Paese, per portare aiuti alle comunità locali, quando è stato fermato a un posto di blocco assieme a un autista dell’organizzazione e tratto in arresto. Nella visita dei giorni scorsi l’ambasciatore italiano in Venezuela Giovanni Umberto De Vito lo ha trovato un po’ dimagrito ma in buone condizioni.