Manconi: “Il carcere è fallito, attenti al dolore sociale” di Diego Motta Avvenire, 9 novembre 2025 Il sociologo: il sistema penitenziario dovrebbe portare i libri in Tribunale, i detenuti non interessano più a nessuno. Siamo in regressione, cresce l’intolleranza anche linguistica e viene meno l’idea di comunità. Ci sono urla nel silenzio, che nessuno ascolta più. C’è un diffuso “dolore sociale” che stiamo sottovalutando, nella stagione dell’odio. Luigi Manconi si misura da una vita con l’idea di una società disumanizzata e, se possibile, adesso vuole dare ancora più voce a chi non ha voce. Con parole nette, calibrate. Nell’ufficio di Roma dell’associazione “A buon diritto”, dove ci riceve, non ha paura a chiamare le cose con il loro nome. “Mi chiede del carcere? Penso che si debba parlare di fallimento, tutto il sistema penitenziario italiano dovrebbe portare i libri in tribunale” dice il sociologo, che tratteggia il volto di “comunità friabili e allentate”, di una società che ha smarrito se stessa. Occorre mettersi in guardia, dice, dalla “regressione anche linguistica in corso nel Paese”, difendendo e rilanciando le poche, buone pratiche che ancora ci sono. Professor Manconi, il viaggio dentro un’Italia spaventata non può che partire da quella parola, “aporofobia”, su cui Stefano Zamagni invitò a riflettere diversi anni fa. Dalla paura e dal disprezzo per il povero, siamo passati al rancore e alla guerra sociale, tra ultimi e penultimi. Oggi a che punto siamo della notte? Penso che la precipitazione verso l’oscurità della disperazione e della alienazione sia tutt’ora in corso e che abbia anzi subito un’accelerazione. Sembra che nulla possa arrestarla. Si può arrivare a dire che si sono create delle condizioni strutturali che contribuiscono all’acutizzazione di questi sentimenti. Penso alla crescente debolezza dei corpi intermedi, ad esempio. Oggi siamo in presenza di una “società senza società” che rende ancora più violenta l’affermazione di Margareth Thatcher: “Non esiste una cosa chiamata società, esistono uomini e donne”. È venuta meno l’idea di comunità, di un’aggregazione tra persone diverse unite dal legame sociale. Che effetti sta avendo tutto questo? Sono saltate tutte le reti di protezione e l’allentamento della solidarietà sociale ha interessato innanzitutto i lavoratori dipendenti. Si sta moltiplicando il numero di individui isolati, lasciati soli nei processi di deindustrializzazione anche da alcuni sindacati che paradossalmente hanno finito per assecondare i processi di disintermediazione. Guardo a due fenomeni in particolare: l’impoverimento e la rinuncia alle cure sanitarie. Da un lato, occorre riconoscere che l’occupazione stabile, a tempo indeterminato e qualificata, che un tempo era stata fattore di stabilità economica e insieme elemento di identità collettiva, oggi non garantisce più dal rischio di indigenza e questo sta diventando una gigantesca insidia per la società democratica. Una volta, essere parte della classe operaia significava stabilità, aggregazione, identità. Adesso non è più così. C’è poi un secondo segnale che mi preoccupa: il dato dell’abbandono delle alle cure sanitarie, che certifica la crisi del Sistema sanitario nazionale, ormai incapace di garantire efficienza e universalità nel diritto all’assistenza e alla cura. Tutto questo mi fa parlare di un dolore sociale diffuso, che non si attenua, anzi si approfondisce con il passare del tempo. È un dolore che è l’esito finale di tante fatiche personali e comunitarie, di vite precarie che una volta erano garantite, di opportunità cancellate. Se poi penso ai cittadini di origine straniera che sono in Italia, vedo una fetta di popolazione che affronta gli stessi problemi con ancora minori garanzie, dal welfare alla cittadinanza. Nel frattempo parole d’ordine come “remigrazione” e “riconquista” si moltiplicano, nell’indifferenza della politica... Assistiamo a una normalizzazione di questo vocabolario aggressivo che occulta più o meno efficacemente le radici razziste e le tendenze suprematiste, quasi che l’intolleranza sia diventata parte ordinaria della dialettica pubblica. Io che personalmente soffro di una sorta di “patologia della parola”, vedo in ogni decadenza linguistica un processo di regressione sociale. Lo sviluppo di un linguaggio discriminatorio e criminalizzante è fattore di tensione sociale, di incattivimento delle relazioni tra i gruppi. Il fatto stesso di porre come priorità la difesa del proprio territorio e della propria identità diventa un elemento di ostilità verso chi sta fuori dal proprio perimetro. A proposito di muri e recinti, ormai ci sono mondi invisibili: i detenuti nelle carceri, sempre più sovraffollate, i migranti nei Cpr. Perché sono stati esclusi dall’agenda della politica? Perché il loro grido di dolore non interessa più a nessuno. Ricordo nel Duemila, con l’allora Giubileo, la fatica improba che si fece a livello parlamentare per offrire uno spiraglio di libertà ai prigionieri attraverso la proposta di un atto di clemenza. Erano tentativi fatti, peraltro, in coincidenza con la visita di papa Giovanni Paolo II alla Camera dei deputati. Anche nel giugno scorso, al Senato, durante un’iniziativa pubblica, il presidente della Cei, il cardinale Zuppi, ha nuovamente sollevato la questione della clemenza riprendendola dall’oblio in cui era precipitata, proprio in questo Anno santo. La verità però è che, al netto di questi piccoli presìdi di pensiero nei quali la Chiesa cattolica svolge un ruolo importantissimo, la questione della clemenza contenuta nella bolla d’indizione del Giubileo, è stata espunta da qualsiasi spazio di riflessione. Amnistia e indulto semplicemente non esistono. Perché neppure la proposta di liberazione anticipata dei detenuti, sostenuta anche dal presidente del Senato, ha fatto breccia? Perché il carcere è fallito. La situazione rispetto a 25 anni fa è ulteriormente precipitata. Ripeto: il sistema penitenziario oggi dovrebbe portare i libri in Tribunale. Siamo davanti a un fallimento totale, non dico solo rispetto all’articolo 27 comma 2 della Costituzione sul fine rieducativo della pena, ma anche sull’obiettivo di un dignitoso contenimento delle presenze in cella. Una disfatta sia dal punto di vista dei diritti che da quello più banalmente amministrativo. E chi si trova in carcere? A parte i membri della criminalità organizzata, una moltitudine dei poveri, quel popolo che manifesta quel dolore sociale che non vediamo. Ci sono i dipendenti da tutte le dipendenze: alcol, psicofarmaci, sostanze psicotrope. I senza casa, la popolazione straniera finita ai margini e nei gironi della delinquenza, un numero crescente di pazienti psichici. Sono persone che vivono in uno stato di alienazione, una completa estromissione da tutti gli ambiti sociali e comunitari. È possibile che non vi sia proprio speranza? Sono totalmente pessimista, ma certo non ci resta che valorizzare le rarissime buone pratiche che si incontrano dietro le sbarre, dallo studio al lavoro. Parliamo di ciò che si sta facendo di buono, grazie all’impegno di tante persone che silenziosamente lavorano per il prossimo. Ancora una volta spes contra spem o, come diceva Beckett: “Non posso andare avanti. Andrò avanti”. Il caso Del Grande, quando la pena espiata non basta e dopo 27 anni prevale la pericolosità sociale di Maria Fantauzzi e Luigi Manconi La Repubblica, 9 novembre 2025 La sua lettera mette in luce le contraddizioni del sistema penale italiano nella reintegrazione dei detenuti in società. Nel 1998 un ragazzo sterminò la propria famiglia; uccise a fucilate la madre, il padre e il fratello. Condannato all’ergastolo, la pena fu ridotta a trent’anni di carcere per vizio parziale di mente. La vicenda, per via del mestiere della famiglia, venne ricordata sui giornali dell’epoca come la strage dei fornai. Del ragazzo, poi diventato uomo in carcere, non si seppe più nulla. Nel 2023, dopo oltre 26 anni di detenzione, l’uomo esce. Ma invece della libertà, poiché considerato ancora socialmente pericoloso dal giudice, viene condotto in una casa di lavoro nel modenese. Elia Del Grande, su cui fino a questo momento l’oblio era calato, torna sul giornali nazionali. Del Grande, infatti, da una settimana si è allontanato volontariamente dalla struttura di sicurezza e ha inviato una lettera a Varese News spiegando le motivazioni del suo gesto. Parte dalla constatazione che le case di lavoro poco hanno di casa e niente hanno di lavoro, e prosegue descrivendo la convivenza forzata di persone che, pur avendo scontato quello che dovevano scontare, sono punite in una sorta di limbo giudiziario, ammansite se non stordite da terapie farmacologiche poiché spesso colpite da patologie psichiatriche e forzatamente isolate. Come Del Grande, le altre persone internate devono rimanere in queste strutture per almeno sei mesi ma, si legge ancora nella lettera, molte di loro finiscono per rimanerci per anni e anni, con il rischio di non vedere mai la libertà. “Avevo ripreso in mano la mia vita - scrive - ottenendo con sacrificio un ottimo lavoro che oggi mi hanno fatto perdere senza il minimo scrupolo, mi riferisco alla magistratura di sorveglianza. Avevo ritrovato una compagna, un equilibrio, i pranzi, le cene, il pagare le bollette, le regole della società, tutto questo svanito nel nulla [...] facendomi fare almeno mille passi indietro riproponendo soltanto la realtà repressiva carceraria, anzi quella delle case lavoro è ben peggio”. Le misure di sicurezza a cui Del Grande fa riferimento sono l’eredità più concreta e più socialmente accettata dell’epoca fascista. Vennero infatti inserite all’interno del Codice Rocco, in vigore per alcune sue parti ancora oggi, dopo 95 anni dalla sua emanazione. In origine, le case di lavoro e le colonie agricole nacquero per “riadattare gli internati alla vita sociale” grazie al lavoro obbligatorio. La concezione positivista dell’obbligatorietà del lavoro come forma di espiazione della pena fu ribaltata nel 1975 con l’approvazione dell’art. 20 dell’ordinamento penitenziario, per cui l’organizzazione e il metodo di lavoro intramurario avrebbe dovuto riflettere quello vigente nella società libera. Fu Bruno Mellano, ex Garante delle persone private della libertà personale della Regione Piemonte, a definire le misure di sicurezza un “fossile vivente”. Un fossile che riguarda qualche centinaio di persone in tutta Italia, internate in strutture adiacenti agli istituti penitenziari o direttamente dentro ex-carceri, con celle, sbarre e personale in divisa. Così come in carcere, anche qui spesso sono previsti il portavitto, la scopino, lo spesino, il concellino e la domandina. La struttura che avrebbe dovuto preparare la persona alla libertà, la fa regredire a quella stessa condizione infantile che strutturalmente è propria del carcere. La lettera di Del Grande ripropone una delle grandi contraddizioni su cui si basa il sistema penale Italiano. Lo Stato prevede l’applicazione dell’art. 27 della Costituzione a prescindere dalla gravità del reato: persino nel caso di un detenuto condannato all’ergastolo ostativo (in genere perché non collaborante), la Consulta ha sottolineato l’incostituzionalità dell’automatismo della presunzione assoluta di pericolosità sociale, anche rispetto ai detenuti condannati per i reati di mafia e terrorismo. Ovvero, è incostituzionale presumere che il detenuto riconosciuto colpevole di un reato grave e gravissimo, non possa mai accedere a una qualche forma di ri-socializzazione. E qui veniamo alla contraddizione che segnala Del Grande nella sua lettera: se la pena espiata non basta e la pericolosità sociale è sempre in agguato, se finita la detenzione ne inizia un’altra, se la rieducazione del condannato è un astratto futuro e mai un concreto presente, in che modo la persona può smettere di essere il reato che, trent’anni di galera fa, ha commesso? Nordio “Trovare lavoro a detenuti è carta vincente” Italpress, 9 novembre 2025 “L’introduzione del lavoro all’interno del carcere serve non solo a combattere la noia e il bisogno, come diceva Voltaire, ma è anche una forma rieducativa prescritta dalla nostra Costituzione e imposta dalla nostra coscienza cristiana. Il nostro progetto ‘Recidiva zero’ consiste nel trovare un lavoro a chi esce dal carcere. Abbiamo visto che la recidiva, dal 40%, scende al 2% e soprattutto per i tossicodipendenti questa possibilità è la carta vincente”. Lo ha detto Carlo Nordio, ministro della Giustizia, intervenendo alla Conferenza Nazionale sulle Dipendenze a Roma. Sulla prevenzione in carcere, “in Italia la situazione non è grave ma è da monitorare, la droga più pericolosa è questo fentanyl di cui si è parlato a lungo”, ha aggiunto Nordio. Sui detenuti in carcere in relazione alla droga, una “buona parte sono spacciatori, veri e propri criminali per i quali non ha senso parlare di ciò di cui stiamo discutendo oggi - ha spiegato -. Ma c’è una percentuale di detenuti che hanno commesso reati in relazione al loro stato di tossicodipendenza: questi sono più malati da curare che delinquenti da punire. Per loro abbiamo già presentato un disegno di legge lo scorso luglio per una detenzione differenziata presso comunità terapeutiche”, ha aggiunto. Referendum, Nordio avrà un “dream team” (ma senza Delmastro) di Valentina Stella Il Dubbio, 9 novembre 2025 Con il guardasigilli, in campo Sisto, Ostellari e il portavoce Specchia. Il sottosegretario di Fratelli d’Italia? Troppo tiepido. Se, come anticipato sul Dubbio, sarà il ministro della Giustizia Carlo Nordio il vero frontman della campagna referendaria per il Sì alla separazione delle carriere, all’inizio della prossima settimana molto probabilmente ci sarà una riunione tra il guardasigilli, il sottosegretario Alfredo Mantovano, la premier Giorgia Meloni e sua sorella Arianna, capo della segreteria politica di Fratelli d’Italia, per mettere su la squadra che accompagnerà il responsabile di via Arenula in questi mesi di maratone televisive. Sicuramente saliranno a bordo il viceministro Francesco Paolo Sisto, molto efficace nella sua metafora della giustizia come triangolo isoscele, e il sottosegretario Andrea Ostellari, bravo a veicolare il canovaccio nordiano, e non è escluso che possa essere ingaggiato lo stesso portavoce di Nordio, il giornalista Francesco Specchia. Nordio verrà posizionato sulla scacchiera per fronteggiare il presidente dell’Anm Cesare Parodi, mentre gli altri per battersi, ad esempio, contro il segretario generale del ‘sindacato’ delle toghe Rocco Maruotti. Rimangono dei dubbi sull’altro potente sottosegretario e fedelissimo della presidente del Consiglio, Andrea Delmastro Delle Vedove. Lo si vorrebbe nel dream team ma bisogna capire quanto lui sia convinto di voler farne parte. Ricordiamo che, in una ‘confessione’ fatta al Foglio, fu lui a dire che “il Csm per i pubblici ministeri è un errore strategico: i pm, prima dei politici, divoreranno i giudici. L’unica cosa figa della riforma è il sorteggio”. Quindi ci si chiede se lui, seppur abile oratore, abbia la giusta convinzione per sedersi in un salotto televisivo e difendere strenuamente la riforma dinanzi a un interlocutore contrario che non avrebbe problemi a ricordargli quello scivolone, di fronte al quale Nordio tentò invano di minimizzare, fino a parlare dell’infortunio come di una “enfatizzazione giornalistica di una discussione complessa”. Nella riunione della prossima settimana occorrerà anche iniziare a ragionare seriamente sul messaggio da veicolare. Le alternative sono due: quello in punta di diritto, che mira a enfatizzare le conseguenze positive in termini di giusto processo e di sradicamento del potere correntizio, o un altro più pop e aggressivo. Molto dipenderà anche dal registro comunicativo che sceglierà di usare l’opposizione. Se da Pd, M5S e Avs verranno propalati messaggi ritenuti fake news dal governo e dalla maggioranza, allora si passerà a uno stile altrettanto di attacco. L’auspicio sarebbe quello di rimanere entro i confini della riforma, abbandonare un linguaggio di scontro con la magistratura ed evitare politicizzazioni eccessive, ma anche espressioni aspre come quella con cui Mantovano ha evocato la necessità di “ricondurre il potere giudiziario nei suoi limiti costituzionali”. Tanto è vero che proprio la premier Meloni non ha voluto che i singoli partiti - Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia - costituissero dei comitati per il Sì. E anche gli azzurri si sarebbero convinti di questa idea: da quanto appreso, infatti, starebbero studiando una formula per creare dei comitati di area centrodestra ma non direttamente riferibili ai partiti. Nel frattempo proprio Sisto ha annunciato: “Faremo degli spot in tv per il referendum e, se fosse per me, Belen la prenderei subito. Ma, scherzi a parte, dal mio punto di vista ci vedrei meglio un giurista”, ha detto il numero due di via Arenula intervenendo al talk KlausCondicio dopo le lamentele espresse dalla showgirl argentina al programma Rai2 Belve sulla giustizia italiana in relazione a una sua vicenda giudiziaria. “Sono convinto che la spettacolarizzazione del referendum non sia una buona cosa”, ha proseguito Sito. “L’Anm ha organizzato due manifestazioni invitando artisti, cantanti eccetera. Io trovo che questo non sia consono alla serietà del referendum”. Ha concluso con una provocazione: “Cosa voteranno i magistrati? Se il voto sarà ragionevole il 90% voterà Sì”. Intanto oggi, a proposito di Anm, si preannuncia un Comitato direttivo centrale infuocato. Infatti Magistratura indipendente ha chiesto di inserire all’ordine del giorno, e di trattarlo con priorità, il seguente punto: “Assunzione da parte del Cdc degli indirizzi generali per l’impostazione e il coordinamento delle attività dell’Anm, del Comitato e delle sue articolazioni territoriali in relazione alla campagna referendaria”. Una sorta di vademecum non di certo per imbavagliare i colleghi ma per farli restare all’interno di determinati binari comunicativi. Ma soprattutto per evitare di partecipare agli eventi legati “direttamente o indirettamente alla politica”. L’obiettivo sarebbe preservare l’autonomia del Comitato per il No rispetto ad altre organizzazioni e altri comitati. “Ma se già per il Comitato sono stati messi dei paletti quali l’esclusione di farvi iscrivere anche ex parlamentari, ora vogliono impedirci anche di andare in parrocchia? Ogni dove ora è un luogo politico!”, replica una toga di Magistratura democratica. Polarizzare oppure no, il dilemma delle toghe di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 novembre 2025 L’Anm e il referendum Verso il confronto con Nordio. Parodi: “Andrei solo per spiegare le nostre ragioni”. Polarizzare o non polarizzare? La domanda delle domande sulla campagna referendaria della riforma della giustizia non ha ancora risposta. Ieri, al quinto piano del palazzaccio della Cassazione, l’Anm ha deciso di adottare una linea attendista. “L’Anm e il Comitato - così recita la risoluzione votata da tutti, con la sola astensione dei due di Articolo 101, la corrente “anti-correnti” - si asterranno dall’organizzare eventi insieme ad organismi che hanno una connotazione politica, ferma restando la facoltà di partecipare ad ogni iniziativa in cui saranno invitati al fine di rappresentare le criticità della riforma. La nostra è e rimarrà esclusivamente una battaglia per la giustizia nell’interesse dei cittadini”. La questione è in realtà meno lineare di come appare: inizialmente, per iniziativa di Magistratura indipendente (la corrente di destra) la proposta prevedeva sostanzialmente il divieto per i magistrati di partecipare a ogni iniziativa organizzata da “organismi che hanno una caratterizzazione politica”, ma alla fine è arrivata la mediazione. Del resto, se si escludono partiti, sindacati e associazioni varie, gli spazi per fare campagna si esauriscono e la voce della magistratura organizzata non avrebbe possibilità di esprimersi in una fase in cui ne avrebbe un bisogno pressoché vitale. Per il resto, la questione della polarizzazione verrà affrontata al momento opportuno, guardando soprattutto alla voce più incerta dei sondaggi: quella che riguarda l’affluenza. La teoria è tutto sommato semplice: se è prevista scarsa partecipazione al voto bisognerà mobilitare tutte le opposizioni e, più in generale, le voci critiche verso il governo. Se invece il tema costituzionale attrarrà le masse, e si prevedrà dunque un’alta affluenza, bisognerà andare in cerca del consenso degli indecisi. Intanto, si va verso un confronto televisivo tra il ministro della giustizia Carlo Nordio e il presidente dell’Anm Cesare Parodi. La data non c’è ancora (si parla di farlo a brevissimo, entro fine mese) e tra le toghe si pensa che partecipare possa prestare il fianco alle critiche di chi già adesso bolla l’Anm come una parte politica. Ma Parodi risponde: “Certamente questo sarebbe un argomento che verrebbe utilizzato contro di noi, ma credo che a qualunque domanda mi venisse posta quel giorno risponderei con le ragioni tecniche che ci portano a non condividere la riforma e quindi non sarei lì come rappresentante di una forza politica, perché noi non siamo e non possiamo esserlo”. La vera sfida per il centrodestra sulla riforma della giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 novembre 2025 Riuscirà il centrodestra, che pure aveva la riforma della giustizia nel suo programma, a tenere un profilo basso, parlando di merito, e non trasformando una riforma che di destra non è in una bandiera della destra? C’è un dato sorprendente, e inaspettato, che riguarda l’iter della riforma costituzionale. Parliamo naturalmente della riforma della Giustizia, della separazione delle carriere, del sorteggio del Csm, della alta corte disciplinare, e quel dato riguarda la presenza non scontata di un gruppo nutrito di esponenti del mondo progressista che di fronte all’iter referendario, con coraggio, hanno detto di no: questa non è una riforma di destra. Lo ha detto Antonio Di Pietro, lo ha detto Augusto Barbera, ex presidente della Corte Costituzionale, lo ha detto Giovanni Maria Flick, altro presidente della Corte Costituzionale, lo ha detto Sabino Cassese, lo hanno detto esponenti riformisti del Pd. Il corpaccione politico del campo largo voterà No al referendum costituzionale, lo ha già detto, anche la minoranza. Ma la presenza di un fronte ampio di esponenti politici e istituzionali non ostili alla riforma, e non vicini alla destra, testimonia l’esistenza di un’opportunità notevole per il centrodestra: dividere la coalizione avversaria attraverso lo strumento del garantismo e cercare di avvicinare un pezzo dell’elettorato in cerca d’autore al proprio mondo d’appartenenza. Scommessa difficile, non impossibile, che dipende a sua volta da un fattore non scontato: riuscirà il centrodestra, che pure aveva la riforma della giustizia nel suo programma, a tenere un profilo basso, parlando di merito, e non trasformando una riforma che di destra non è in una bandiera della destra? È una sfida che riguarda la riforma, ovviamente, ma è una sfida che riguarda l’identità della coalizione dei conservatori: di fronte a una sinistra in difficoltà esistenziale, la priorità sarà portare a votare i propri elettori o la priorità sarà provare ad allargare il bacino, immaginando che il perimetro più grande creato al referendum possa ripetersi magari alle elezioni? Chissà. Carofiglio: “Una riforma mediocre e demagogica. Non migliora la giustizia” di Giuliano Foschini La Repubblica, 9 novembre 2025 Lo scrittore ed ex magistrato: “Questa legge è come un’infiltrazione di umidità: rende la casa sempre più insalubre e meno abitabile”. “È il risultato di una pericolosa mistura di incompetenza, inconsapevolezza e malafede. Hanno costruito un apparato che, a prescindere dal giudizio politico, danneggerà il funzionamento concreto della giustizia. Non renderà i processi più rapidi né più giusti, ma più confusi e meno indipendenti. Insomma: più capaci di generare ingiustizia. È una riforma sbagliata non perché non ci piace, ma perché è fatta male. Malissimo. Tutto è concepito in bilico fra dilettantismo e mediocre demagogia”. Può fare un esempio? “Ce ne sarebbero molti, ma prendiamo un punto di cui si parla poco: l’istituzione dell’Alta Corte per la responsabilità disciplinare dei magistrati. È l’aspetto più rivelatore - e al tempo stesso più nascosto - dell’intero impianto normativo”. In che senso? “Il pilastro ideologico della riforma è la presunta necessità di garantire giudizi imparziali. Poco importa se, come mostrano le statistiche, questi giudizi sono già imparziali. Ma vediamo come la riforma si smentisce da sola. Oggi è il Csm, attraverso la sua sezione disciplinare, a giudicare i comportamenti scorretti dei magistrati. Contro le sue decisioni è possibile fare ricorso davanti alle Sezioni Unite della Cassazione, cioè davanti a un giudice terzo. Con la riforma, invece, il magistrato verrebbe giudicato da una nuova, bizzarra Alta Corte di giustizia disciplinare ad alto tasso di politicizzazione. L’aspetto più preoccupante è che e i ricorsi contro le sue decisioni verrebbero decisi dallo stesso organo. In parole povere: chi giudica i magistrati in primo grado, lo giudica anche in secondo. In una riforma che si proclama ispirata dall’imparzialità, è una contraddizione clamorosa. Se non fosse un colpo diretto all’indipendenza dei giudici, sarebbe ridicolo”. C’è davvero un rischio per la democrazia? “Bisogna evitare toni apocalittici, ai quali è facile replicare: “Ma quale pericolo per la democrazia?”. Questa riforma non è una bomba che farà saltare in aria il sistema costituzionale il giorno in cui venisse approvata, cosa che mi auguro non accada. È qualcosa di più subdolo: un virus che rischia di indebolire lentamente e inesorabilmente il sistema immunitario della democrazia. O, se preferisce un’altra immagine, è come una grave infiltrazione di umidità che rende la casa ogni giorno più insalubre, meno abitabile. È ciò che è accaduto in Polonia e in Ungheria, poi duramente sanzionato dall’Unione Europea. Il rischio è che la democrazia costituzionale in un ibrido malsano in cui salta il controllo di legalità e il cittadino resta senza protezione”. Il suo nuovo libro, “Con parole precise”, lo definisce un “manuale di autodifesa civile”. Come dovrebbero parlare oggi i magistrati? “Bisogna dire la verità in modo chiaro, in modo che tutti possano capirla. Non è facile, certo, in un territorio devastato dalla peggiore propaganda. Ma usare parole precise, consapevoli della responsabilità di una lingua della chiarezza e della democrazia è un tema centrale dell’etica civile”. Un consiglio? “Non troppi, pubblicamente… (sorride). Nella discussione pubblica, ripeto, è fondamentale esprimersi in modo leggibile, comprensibile. Karl Rove, stratega della destra americana ai tempi di Bush, diceva: “Non è importante quello che dici, ma quello che sentono”. Vale per tutto: per le manipolazioni come per le cose serie. È come l’albero nella foresta deserta: fa rumore se non c’è nessuno ad ascoltarlo? Se quello che dici, anche se giustissimo, non è percepibile perché è detto male o in modo autoreferenziale, è come se non lo avessi detto”. Dunque, come spiegarla ai cittadini? “Bisogna dire con chiarezza che non ci sarà un solo processo che durerà un giorno di meno. Il guadagno per il cittadino sarà zero spaccato. Spiegare che questa riforma è un’illusione ottica, una truffa sostanziale: dice una cosa, ma ne fa un’altra. Il caso dell’Alta Corte è emblematico: da un lato proclama la separazione, dall’altro la nega nei fatti. Dobbiamo usare parole come equilibrio, garanzia, libertà dei cittadini, Costituzione come patto, controllo del potere, responsabilità. E dire che questa riforma non migliora la giustizia - che pure ne avrebbe un bisogno enorme”. Lo pensano in tantissimi... “La giustizia è malata e questa malattia andrebbe affrontata con serietà e onestà istituzionale, con soluzioni strategiche, moderne, non con aggressioni demagogiche e vendicative. Questa riforma non risolve alcun problema, al contrario ne crea di nuovi e gravi. Se venisse approvata, avremmo giudici e pubblici ministeri intimiditi e un sistema costituzionale sbilanciato a favore della peggiore politica. Molti processi non verrebbero più fatti, e per i cittadini sarebbe più difficile, ogni giorno, difendersi dalle prepotenze del potere”. Legittima difesa, borseggiatrici in carcere: il centrodestra alle elezioni regionali punta sulla sicurezza di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2025 “Grazie al decreto sicurezza voluto dalla Lega. Bene così!”. Il tweet su X del leader della Lega Matteo Salvini in merito ad una borseggiatrice arrestata a Venezia che resta in carcere con le nuove norme, nonostante sia incinta, è solo l’ultima tappa del derby tra Lega e Fratelli d’Italia sul fronte della sicurezza. Una bandiera quest’ultima, issata con forza da entrambi i partiti mentre sale la temperatura della campagna elettorale in vista delle elezioni regionali del 23 e 24 novembre in Veneto, Campania e Puglia. Lo dimostra la corsa a intestarsi i futuri interventi per assicurare “sfratti lampo” nei confronti degli inquilini morosi e un nuovo pacchetto sicurezza allo studio del governo. E lo confermano le sempre più frequenti incursioni su questo tema da parte dei leader Meloni e Salvini. Respingendo le critiche piovute negli ultimi giorni da diversi esponenti delle opposizioni, dalla sindaca dem di Genova Silvia Salis al leader M5S Giuseppe Conte, che hanno accusato il Governo di “non aver fatto nulla sulla sicurezza”, Meloni si è difesa giovedì in un lungo post nel quale ha rilanciato i risultati del governo. Lo ha fatto rivendica i circa “37.400 agenti” assunti negli ultimi tre anni e le “altre 31.500 assunzioni” previste fino al 2027, lo stanziamento di “un miliardo e mezzo per rinnovare i contratti del comparto, il rinnovo dei contratti dell’ultimo triennio per le Forze di Polizia, con aumenti medi lordi mensili di 198 euro”, ma anche lo stesso decreto sicurezza rivendicato da Salvini, nonché “pene più severe” per le aggressioni agli agenti e l’aumento dei “presìdi nelle aree più sensibili: ospedali, stazioni, scuole e periferie”, la lotta alle mafie e il modello Caivano. Con la chiosa finale: “Stiamo ponendo rimedio a decenni di lassismo e sottovalutazione” “La difesa è sempre legittima” - Non basta. “La difesa è sempre legittima”, ha scritto la premier il 5 novembre in un post, a commento della vicenda dell’uomo che, in provincia di Rovigo, ha ferito un ladro durante una tentata rapina in casa e non è indagato in base alle novità sulla legittima difesa introdotte nel 2019 dal Governo Conte 1. “Un risultato grazie alle norme volute dalla Lega, a tutela dei cittadini perbene”, ha precisato a stretto giro il vicepremier e leader del Carroccio. La tutela processuale delle forze dell’ordine - Né va dimenticata la proposta di legge presentata il 5 novembre dallo stato maggiore di Fdi (dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro al responsabile organizzazione Giovanni Donzelli) sulla tutela processuale delle forze dell’ordine. Un testo che punta a superare le iscrizioni automatiche nel registro degli indagati. Non uno “scudo” solo per gli agenti. Ma una norma “erga omnes” pensata però soprattutto a tutela delle forze dell’ordine. E una proposta analoga annunciata nei giorni scorsi dalla Lega con i sottosegretari all’Interno, Nicola Molteni, e alla Giustizia, Andrea Ostellari, che nell’occasione hanno rivendicato l’articolo del decreto Sicurezza che ha portato a 10mila euro l’anticipazione delle spese legali da parte dello Stato per la tutela delle forze dell’ordine. Catanzaro. Nel penitenziario Ugo Caridi 6 morti in 6 mesi, i detenuti scrivono a Mattarella di Alessandra Serio tempostretto.it, 9 novembre 2025 C’è anche il caso del messinese Ivan Lauria tra i sei decessi avvenuti nel giro di sei mesi al carcere di Catanzaro, dove i detenuti hanno preso carta e penna ed hanno scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ai ministri della Giustizia e della Salute e alle procure competenti, per chiedere di verificare le condizioni in cui sono reclusi, soprattutto sotto il profilo sanitario. Il dossier menziona i sei casi e indica molte criticità, ascritte alla gestione: farmaci consegnati in ritardo, visite mediche ridotte, medici irreperibili. Un grido dall’allarme, quello dei detenuti del penitenziario Ugo Caridi, un appello per le condizioni di dignità e assistenza che sono loro riconosciuti dalla legge. Le condizioni del centro clinico sono al centro della denuncia dei detenuti, che secondo loro finisce per aggravare le patologie che li affliggono. Per questo si fa riferimento alle sei morti avvenute in sei mesi, tra luglio 2024 e gennaio 2025, tutte per arresto cardiaco, secondo il certificato dei medici del penitenziario. Sei nomi, sei famiglie alla ricerca della verità - Antonino Pugliese, 45 anni; Angelo Pino, 47 annui. Fatmir Dulla 57 anni, morto pochi prima della sua scarcerazione. Ancora: Ivan Claudio Covelli, 42 anni. Dopo un periodo di lavoro fuori dal penitenziario, è tornato all’interno della casa circondariale ed è deceduto. Damiano Ferraggine: 37 anni, deceduto lo stesso giorno del suo ingresso in carcere. Ivan, morto a 28 anni - Poi il messinese Ivan Domenico Lauria, il più giovane di tutti: 28 anni, una vita intera davanti ancora a disposizione, dopo aver scontato la sua pena, per ricostruirsi una esistenza. Una speranza interrotta in circostanze che secondo la madre sono sospette. Tempostretto ha raccolto lo sfogo della donna, il suo dolore e la sua denuncia, presentata insieme all’avvocato Giuseppe Ruggeri. La sua toccante vicenda è arrivata al Presidente della Repubblica, che le ha scritto per manifestarle la sua solidarietà. Roma. Detenuto torturato a Regina Coeli, per Nordio si tratta di un caso isolato di Gabriel Bernard fanpage.it, 9 novembre 2025 Il legale: “Speravamo in risposte concrete”. Dopo la vicenda di Simone, seviziato a Regina Coeli per 48 ore, il ministro della Giustizia Carlo Nordio annuncia controlli e perquisizioni in carcere. L’avvocato e il deputato Grimaldi denunciano la crisi del sistema penitenziario e chiedono interventi concreti. Controlli e perquisizioni in carcere dopo la vicenda di Simone, svelata da Fanpage.it, seviziato e torturato per quarantotto ore da altri detenuti all’interno di una cella di Regina Coeli per essersi rifiutato di nascondere un cellulare. A dirlo è il ministro della Giustizia Carlo Nordio nella risposta all’interrogazione parlamentare presentata da Marco Grimaldi, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra. “Le cause di queste criticità sono riconducibili a dinamiche di gruppo e rivalità etniche o criminali”, spiega il Guardasigilli. Che assicura: “L’ufficio ministeriale competente all’attività di controllo si è tempestivamente attivato inviando delegazioni ispettive per la verifica diretta dei fatti”. E proprio su questo punto il parlamentare di Avs Grimaldi vuole ulteriori chiarimenti: “Attendiamo di conoscere l’esito delle indagini, più che opportune, perché qualcuno deve rispondere di un’assenza di controlli durata quarantotto ore. Restiamo convinti che nonostante i dichiarati sforzi dell’Amministrazione penitenziaria nel contrasto degli episodi di violenza, non si dovrebbe minimizzare appellandosi a cause riconducibili a conflittualità individuali, dinamiche di gruppo e rivalità etniche o criminali”. Il legale di Simone, Marco Valerio Verni, accoglie con favore “l’interessamento dell’onorevole Grimaldi e la risposta del ministro Nordio”. E sottolinea: “Ci saremmo aspettati una replica più concreta in alcuni aspetti”. E rilancia: “I fatti denunciati non sembrano potersi considerare come mere rivalità o conflitti etnici. Non si possono intendere come episodi isolati, ma il sintomo di una crisi profonda del sistema penitenziario, dove circolano droga, cellulari e perfino armi”. E se da un lato Grimaldi e l’avvocato Verni non si ritengono pienamente soddisfatti dalla ricostruzione fornita da via Arenula, dall’altro il ministro spiega che “le verifiche hanno l’obiettivo di consolidare una rete di prevenzione”. Nella sua risposta, Nordio elenca una serie di interventi messi in atto dall’amministrazione, tra cui l’installazione di alcuni sistemi, ad esempio quelli anti-drone, per prevenire il traffico di cellulari, droga e armi. Il 16 settembre è stata aggiudicata la gara per realizzare, nelle carceri di Napoli, Palermo, Torino, Milano e Sulmona, sistemi di schermature telefoniche per evitare comunicazioni illecite. Le carceri italiane, spiegano gli esperti, sono zone franche dove la legge non entra e tante inchieste dimostrano che la violenza prolifera. “È un bene che ci si adoperi per prevenire il traffico di oggetti dall’esterno e all’interno delle strutture penitenziarie e per installare sistemi di sicurezza e videosorveglianza, ma nelle carceri i problemi importanti sono altri”, sottolinea Grimaldi. “Troppi detenuti e pochi agenti, educatori, psicologici e medici. La verità è che il governo non ha una strategia per affrontare la crisi del carcere e ridurre la popolazione detenuta ricorrendo a pene alternative. Inoltre non interviene sull’abuso delle misure cautelari, all’origine della vicenda di Simone”. Il legale poi richiama ciò che è accaduto al sindaco di Roma: “Roberto Gualtieri è stato minacciato da un detenuto del carcere di Frosinone attraverso un cellulare. I sistemi di schermatura non possono restare promesse, devono diventare effettivi per impedire che chi è ristretto possa ancora comunicare e delinquere, perché in questo modo la funzione del carcere viene svilita”. E conclude con un monito: “Se certe cose accadono, è anche perché, forse, qualcuno, tradendo la sua funzione, lo permette e ne è complice. Dalle proposte si passi concretamente ed in tempi certi e brevi alla loro completa attuazione, perché se oggi, nel 2025, rivedessimo Detenuto in attesa di giudizio di Alberto Sordi, ci accorgeremmo che le carceri italiane non sono poi cambiate così tanto”. Lecce. Il primo recruiting day in carcere con dieci imprese del territorio di Antonio Nicola Pezzuto L’Edicola del Sud, 9 novembre 2025 Si è svolto nella casa circondariale di Borgo San Nicola il primo recruiting day con colloqui di lavoro tra dieci imprese del territorio e 25 detenuti. L’iniziativa è nata su indicazione di Natalino Manno, prefetto di Lecce. L’input è stato pienamente accolto da Arpal Puglia che, insieme alla direzione della casa circondariale e ad un ampio partenariato, porta avanti da oltre un anno il progetto “Lavoro Fuori” (Formazione unita a orientamento per il reinserimento e l’inclusione). L’inedito appuntamento ha chiuso la seconda edizione di “Qui non c’è Lavoro Festival”, organizzato da Arpal Puglia. Ogni settimana, gli operatori e le operatrici dei Centri per l’impiego incontrano i detenuti per i colloqui di orientamento. Sono cento quelli per cui si è già proceduto alla profilazione (dodici donne e 88 uomini). Si tratta di persone in regime di semilibertà o che godono di permessi premio o che usufruiscono della possibilità offerta dall’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario che prevede il beneficio di poter uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa all’esterno. “La giornata di oggi rappresenta un’ulteriore dimostrazione della solidarietà del tessuto socioeconomico salentino”, ha commentato il prefetto Natalino Manno. “Questo primo recruiting day in carcere rafforza il posizionamento dell’Agenzia regionale pubblica per le Politiche attive del lavoro nei confronti di chi non ha la capacità o la possibilità di autodeterminarsi”, ha rimarcato Gianluca Budano, direttore di Arpal. “Una parte delle persone detenute prese in carico dai Centri per l’impiego si è dimostrata pronta per sostenere i colloqui con dieci realtà produttive”, ha sottolineato Marta Basile, dirigente di Arpal. Maria Teresa Susca, direttrice della casa circondariale di Lecce, ha evidenziato che il progetto “rappresenta una valida opportunità per le persone detenute sotto molteplici aspetti”. Piero Rossi, garante regionale, ha concluso: “Tutti quanti auspichiamo la replicabilità di questa straordinaria opportunità”. Cuneo. Muore suor Caterina Elsa Galfrè, la suora del carcere di Massimiliano Cavallo laguida.it, 9 novembre 2025 Suora Giuseppina, aveva insegnato per molti anni scienze nelle scuole superiori di Cuneo, e dal 1989 era volontaria in carcere. È morta ieri, sabato 8 novembre, suor Caterina Elsa Galfrè. Suora Giuseppina aveva 91 anni. Nata a San Lorenzo di Caraglio il 15 settembre 1934 da una famiglia di mezzadri, secondogenita di quattro sorelle e tre fratelli, Caterina decide di abbracciare la vita religiosa a sedici anni, dopo che con il padre era andata a Roma per il Giubileo. Entrò nelle suore di San Giuseppe di Cuneo il 20 marzo del 1952 con la quinta elementare e si mise a studiare prima per l’esame di terza media, poi dopo i voti nel 1955 fece l’esame per la maturita? magistrale e l’anno successivo la maturita? al Liceo Scientifico, successivamente la laurea in Scienze naturali all’Universita? di Torino. Iniziò il suo percorso nell’insegnamento prima nelle scuole della congregazione, poi dal 1976 alle Magistrali di Cuneo, al Liceo scientifico di Mondovi? e infine, negli ultimi vent’anni prima della pensione, all’Itis di Cuneo. Proprio in quegli anni conosce il carcere da cui non si staccò più nel suo volontariato. Aveva raccontato a La Guida: “Mi trovavo a scuola, precisamente all’Itis di Cuneo dove insegnavo Scienze quando nel 1989 arrivo? una circolare della Caritas che invitava noi docenti a preparare all’esame di maturita? sei brigatisti. Don Eraldo Ferrero, direttore della Caritas, mi prego? di accettare. Oltrepassare quei cancelli fu traumatico e mi si spalanco? un universo di paure ma anche di affetti e speranze. Con me ed altri c’erano anche la professoressa Gabbi, docente di italiano e il professor Linguanti, docente di chimica che si adopero? molto, portando successivamente in carce- re un corso della Scuola Alberghiera. All’inizio eravamo tutti vo-lontari senza una associazione alle spalle, poi nel 1994 si e? creata “Ariaperta” con l’instancabile professor Paolo Romeo”. Dal 1989 fino all’ultimo si è sempre recata tre volte la settimana nella casa circondariale di Cuneo e la montagna di lettere ricevute, ne ha conservate oltre diecimila, sono la testimonianza del suo operato. I mittenti sono ladri, rapinatori, omicidi, tossicodipendenti, ex terroristi, trafficanti e spacciatori di droga, pedofili, mafiosi. Tutti hanno raccontato alla suora le loro personali storie di vita accomunate da carenze affettive, insuccessi scolastici, famiglie disgregate, assenza di lavoro, dipendenze da alcool e droga. E lei ha sempre risposto a tutti. Da allora ha per molti anni scritto e collaborato con La Guida proprio sulle tematiche del carcere. Ricordava:”Il mio e? un volontariato centrato sull’amore perche? Dio e? amore. L’essenza dell’uomo sta nella relazione. Sono felice quando vedo tornare la luce negli occhi di uno di loro. Vedo un segno del Signore. Nel carcere ci sono barriere da attraversare, ma io non posso correre o invadere spazi. Devo rimanere ferma, ma presente. Anche il silenzio parla. Io ascolto, senza impormi. Ci sono i fallimenti, ma questi li metto in conto. Provo a dare speranza e la mia fede lascia esistere come buone anche le differenze”. In uno dei suoi ultimi interventi su La Guida scriveva: “Continuo a “sognare” una societa? piu? giusta, con piu? moralita? ed etica, con solidarieta?, fraternita? e rispetto della vita e della sua dignita?… Sogno un mondo con piu? prevenzione, meno carcere ed un carcere piu? umano. Sogno una societa? capace di accogliere e dare spazio e sostegno a chi esce dal carcere senza pregiudizi e senza etichette”. Milano. Focus in due tappe su madri e figli in carcere Corriere della Sera, 9 novembre 2025 BookCity porta la cultura anche in carcere per aprire un dibattito su che cosa significhi crescere un bambino o una bambina dietro le sbarre. Il confronto parte dal libro dell’educatrice Valentina De Fazio Madri detenute. Dal lavoro educativo in carcere alla ricerca sociopolitica (La Vita Felice). L’autrice ne parla mercoledì 12, alle ore 17, all’Istituto a custodia attenuata per madri detenute (Icam) di Milano con la direttrice reggente del carcere di San Vittore, Elisabetta Palù, il presidente di Fondazione Arché, Giuseppe Bettoni, e Federica Barile, coordinatrice Icam Bollate “sezione Nido”; nell’incontro “La maternità in carcere”. Il 14 novembre, alle ore 15, nella Casa circondariale di San Vittore, De Fazio interviene nell’incontro “Quando a pagare sono i bambini. Madri e figli in carcere”, con la presidente di Antigone Lombardia, Valeria Verdolini, e Luigi Pagano, dal 2025 garante dei detenuti di Milano, ex direttore di San Vittore e fondatore del carcere di Bollate. Milano. Con “Note di libertà” la musica è strumento di riscatto per i detenuti Corriere della Sera, 9 novembre 2025 Una serata-evento lunedì 10 novembre al Teatro Martinitt di Milano per il 15° anniversario delle attività musicali promosse nelle carceri milanesi dalla Fondazione Antonio Carlo Monzino e dall’Associazione Milano Musica. Quando le parole e i gesti non sono sufficienti… arriva la musica. Che non è solo emozioni. Può anche essere inclusione sociale e riabilitazione. È Il caso di “Note di libertà” l’espressione pubblica e condivisa di un percorso che da quindici anni utilizza la musica come strumento di crescita, espressione e rinascita all’interno degli istituti penitenziari milanesi. Ora i riflettori si riaccendono sull’esperienza milanese. Lunedì 10 novembre, con inizio alle 20.30, al Teatro Martinitt di Milano - in via Pitteri 58 a Lambrate - è in programma un concerto-evento, organizzato in occasione del 15° anniversario delle attività musicali promosse nelle carceri milanesi dalla Fondazione Antonio Carlo Monzino e dall’Associazione Milano Musica. Protagonista della serata sarà la Band Freedom Sounds, formazione composta da detenuti della II Casa di Reclusione Milano Bollate grazie al progetto Musica in Carcere. “In questi anni, con il supporto di insegnanti professionisti che settimanalmente hanno incontrato i detenuti coinvolti nel progetto - viene spiegato dai responsabili -, la band ha perfezionato il proprio percorso musicale con un programma continuativo di laboratori musicali collettivi. A fianco della band si esibiranno anche il gruppo torinese Eugenio in Via di Gioia, tra i fiori all’occhiello della musica italiana, e il giovane cantante Blu, nome d’arte di Nicolò Barbini, con il suo stile che unisce cantautorato italiano e pop urbano. Ma la serata, che sarà presentata dalla conduttrice radiofonica Rai e artista Alma Manera, non sarà soltanto dedicata alla musica. Tra gli altri sarà ospite dell’evento lo chef palermitano Filippo La Mantia, l’Oste & Cuoco, come ama definirsi, “che porterà sul palco la testimonianza sul periodo passato in carcere per un tragico errore giudiziario e su come la cucina sia stata la sua àncora e poi lo strumento di riscatto e successo personale”. “Pensare al carcere come a un luogo in cui si butta via la chiave, non serve a niente. Perché lavorare sul recupero e sul reinserimento delle persone è l’unico vero modo per abbassare il livello di violenza nella società” ha dichiarato Lucia Castellano, Dirigente Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, già direttrice della Casa di Reclusione di Bollate. Il “viaggio” di Francesca Ghezzani nelle profondità delle carceri italiane di Diego Paura Il Roma, 9 novembre 2025 L’intento de “Il silenzio dentro” è tessere un racconto che unisce testimonianze, dati e riflessioni. “Il silenzio dentro - Quando raccontare diventa un atto di giustizia” è un viaggio nelle profondità delle carceri italiane, un racconto orientato a offrire uno sguardo costruttivo sulle diverse realtà vissute dietro e oltre le sbarre. Scritto da Francesca Ghezzani e pubblicato da “Swanbook Edizioni” nel 2025, questo libro di narrativa d’inchiesta esplora il sistema penitenziario italiano, mettendone in luce le contraddizioni, ma anche i segnali di rinascita e cambiamento. Giornalista impegnata nella promozione di un giornalismo costruttivo, la Ghezzani varca i confini delle prigioni per dare voce tanto a chi le abita quanto a coloro che vi operano quotidianamente: operatori, direttori, psicologi, magistrati, volontari, rappresentanti del clero e persone provenienti dal mondo associativo e culturale. L’intento è tessere un racconto che unisce testimonianze, dati e riflessioni, restituendo profondità a un tema spesso trattato in modo superficiale o trascurato. Il punto cardine del libro si fonda sull’articolo 27 della Costituzione italiana, che sancisce che le pene non devono mai essere contrarie al senso di umanità e devono mirare alla rieducazione del condannato. Attraverso interviste a figure come Alessio Scandurra (Antigone), Enrico Sbriglia, Monica Bizaj, Don Luigi Ciotti, Carmela Pace, Pino Cantatore e Claudio Bottan, emerge un quadro sfaccettato del sistema penitenziario italiano. Vengono affrontati temi complessi quali il sovraffollamento, la salute mentale, le condizioni delle donne detenute o l’impatto della detenzione sui bambini. Tuttavia, accanto ai problemi, prendono forma esempi virtuosi: progetti di formazione, lavoro e cultura che fanno della detenzione un’opportunità di crescita individuale e collettiva. Con uno stile essenziale e un approccio basato sull’ascolto attivo, Francesca Ghezzani non propone né un saggio tecnico né una fredda inchiesta. Non giudica né giustifica; piuttosto, guarda al racconto come a una possibile forma di rinascita. Così, “Il silenzio dentro” si trasforma in una finestra aperta su una realtà che molti preferiscono ignorare, invitando i lettori a non sprecare il dolore ma a trasformarlo in rispetto, giustizia e responsabilità. Perché, una volta espiata la pena, anche il cambiamento personale può tradursi in un beneficio per l’intera società. Senza sicurezza non siamo liberi di Walter Veltroni Corriere della Sera, 9 novembre 2025 Destra e sinistra devono capire che sono necessarie politiche sociali di lotta a ogni forma di emarginazione e disagio. La sequenza impressionante di fatti di cronaca avvenuti in queste settimane, ultimi l’accoltellamento della donna a Milano e la tortura inflitta da parte di coetanei a un ragazzo in condizioni di disagio, hanno riproposto la questione sicurezza come centrale nell’agenda pubblica. Forse si potrebbe cercare di affrontarla senza il rimpallo infantile delle responsabilità, il gioco pavlovianamente eseguito a turno dalle forze politiche a seconda che siano al governo o all’opposizione, il modo infantile con il quale è facile riempire gli odiosi “pastoni” dei telegiornali, tutta una geremiade di “È colpa tua, no, è colpa tua.” I dati responsabilmente pubblicati dal Ministero degli interni hanno ispirato al Sole 24 Ore il seguente titolo: “Criminalità. Più furti, rapine, droga: colpite le grandi città. Criminalità aumentano i reati di strada, più denunce per violenze.” Carta canta. E poi c’è quella che viene chiamata, con sdegno aristocratico, semplice “percezione”, come a dire che è un’illusione, una baggianata fondata su un complotto plutogiudaicomassonico oppure ordito dalla destra in agguato. La percezione è la sicurezza. Se una ragazza non si sente di uscire di casa la sera o un anziano ha paura di prendere la metropolitana già questo altera i comportamenti e quindi limita le libertà. Non ci vuole tanto a capirlo. La sicurezza non è un problema di muscoli o peggio l’idea del difendersi da soli o di diffondere armi di difesa personale. In democrazia è lo stato che difende i cittadini, che li fa sentire sicuri, che ne garantisce l’integrità personale e la piena disponibilità di spazi urbani. Ma non si può neanche rinviare la soluzione del problema a quando il mondo sarà più uguale e giusto mettendo solo l’accento sul necessario riscatto sociale di aree o persone che sono segnate dal disagio. La percezione conta, i reati aumentano, lo Stato non ha una strategia. Non il governo, non solo, ma tutta la comunità. Faccio un esempio, un tema del quale non si parla più, come se si avesse paura di farlo. Siamo consapevoli della quantità assurda, enorme, di droga che circola in Italia, in tutti gli strati sociali, dall’emarginato al professionista? Mi colpisce che i più spaventosi incidenti stradali, spesso pedoni uccisi per la sola colpa di camminare su un marciapiede, siano sempre accompagnati dall’accertamento della alterazione del responsabile, spesso sotto l’effetto di cocaina, evidentemente diffusa ad ogni latitudine. Possibile che si accetti come normale che grandi quartieri periferici delle città siano ormai sequestrati dai trafficanti che li considerano cosa propria e mettono agli ingressi le vedette per segnalare l’arrivo di intrusi, nel loro caso le persone oneste? Fanno quello che dovrebbe fare, a parti rovesciate, lo Stato. E in quel caso non va solidarmente sostenuto uno Stato che eserciti la forza per ripristinare legalità e vivibilità? Non si può applaudire l’arresto di Totò Riina e poi accettare che il traffico dei suoi emuli continui imperterrito. Lo dico erga omnes. Non si dica, perché non è vero, che il problema sono solo gli immigrati. Per esempio i due casi che ho segnalato in testa a questo articolo riguardano delitti compiuti da persone nate sul nostro territorio. Ma certamente esiste un problema di integrazione e di responsabilizzazione di chi mette piede sul territorio italiano. Più la nostra comunità si aprirà e diventerà davvero multiculturale e più sicuri saremo tutti. Non solo perché è eticamente giusto, tanto più per un paese di emigranti, ma perché abbiamo bisogno degli immigrati per tenere aperte le nostre scuole, per pagare le pensioni a chi, per fortuna, vive più di prima. Qui sì, c’è bisogno di un grande lavoro sociale che unisca l’accoglienza e la fermezza. Niente mai può giustificare comportamenti lesivi della sicurezza altrui. Niente, mai. Quello che voglio dire è che sbaglia la destra a negare il problema o a scaricarlo tutto sugli immigrati o sui sindaci che, si dovrebbe sapere, non hanno responsabilità di ordine pubblico, oppure a cercare la semplificazione di inefficaci e pericolose derive securitarie. La destra è da tre anni alla guida del Paese. E, come chiedevano gridando quando erano all’opposizione a chi governava, devono rispondere dell’aumento dell’insicurezza reale e percepita che, come abbiamo motivato, sono poi la stessa cosa. Ma sbaglia la sinistra, l’ho scritto più volte, a sottovalutare o persino ignorare il tema sicurezza. Non solo perché su questo potrebbe mettere alle corde il governo ma perché, facendolo, viene meno al suo storico dovere fondamentale: la difesa dei più deboli. Se in un quartiere popolare le persone pensano sia pericoloso uscire di casa, se una ragazza si sente minacciata in una strada buia o un anziano ha paura degli altri, sarà un problema o no per quella cosa che, chiamandosi sinistra, è nata per tutelare chi ha di meno, socialmente e in termini di diritti? È chiaro che i ragazzini di quindici anni che torturano un coetaneo perché è più debole sono, in primo luogo, un problema sociale, formativo, e non sarà un bastone più duro dal punto di vista legislativo a risolverlo. Ma se una ragazza viene aggredita su un treno o se la droga viene diffusa a cielo aperto sarà anche il caso di rafforzare la presenza e l’organizzazione delle forze dell’ordine? O la sinistra vuole dire, a chi è preoccupato della incolumità sua o di sua figlia, che la questione è un’altra e che per la sicurezza è meglio si rivolgano a destra? La sicurezza non è un’esibizione di muscoli. Richiede politiche sociali di lotta a ogni forma di emarginazione e disagio. Politiche che vadano dalla scuola al territorio. Richiede, al tempo stesso, forza determinata nel contrastare le organizzazioni criminali e i singoli atti lesivi dell’integrità della persona. Bisogna essere chiari e onesti: più una società è povera e ingiusta più è violenta, la prevenzione è sempre meglio della repressione. E, infine, in democrazia la sicurezza è la libertà delle persone. La prima libertà. Migranti. Cpr e altri “non luoghi”, serbatoi di rancori antichi di Diego Motta Avvenire, 9 novembre 2025 Le strutture si vedono benissimo, chi c’è dentro no. Benvenuti nei luoghi in cui i nuovi “invisibili” sono sottratti agli occhi dell’opinione pubblica: che si tratti di detenuti, di maggiore o minore età, di persone straniere in attesa di capire se potranno restare in Italia o meno, di vite nel limbo perché nessuno se ne fa carico, l’imperativo di chi gestisce l’ordine pubblico pare essere diventato negli ultimi anni quello semplicemente di nascondere. Oscurare per tranquillizzare, non mostrare per cancellare. L’elenco di queste zone “protette” è lungo e va dai Cpr e dai Cas, centri pensati per trattenere o rimpatriare migranti senza alcun progetto di integrazione, agli stessi istituti penali minorili, dove la popolazione carceraria è in aumento (e le tensioni con loro). Senza dimenticare le Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno preso il posto degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Cattedrali che si trovano spesso e volentieri nel deserto della nostra coscienza civica e di cui pochi conoscono l’esistenza (e la funzione). L’elefante nel corridoio, ovviamente, resta il sistema nazionale delle carceri, il principale serbatoio del rancore sociale represso e dimenticato, tra numeri fuori controllo legati al sovraffollamento e all’emergenza suicidi che continua, così come le rivolte dietro le sbarre. Sono 68 le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre dall’inizio dell’anno, in un contesto in cui la popolazione carceraria complessiva è ormai stabilmente sopra le 60mila unità, con tassi di saturazione delle prigioni che hanno raggiunto una media del 130-140%. È giusto che di questi “mondi”, per quanto marginali, non si sappia più nulla? Il rischio è che, di questo passo, si affermi la logica del “rinchiudere e buttare la chiave”. Partiamo dai Centri di permanenza per il rimpatrio, i cosiddetti Cpr. I più famosi non si trovano in Italia: sono il centro di Gjader e l’hotspot della vicina Shengjin in Albania. Dovevano rappresentare l’inizio della fine dell’emergenza immigrazione, si sono trasformati in un imbarazzante manifesto dell’incertezza, legislativa e operativa, nella gestione dei flussi migratori. Perché hanno una capienza del tutto ingiustificata rispetto alle presenze attuali: si stima ci siano alcune decine di persone, ma nulla è ufficiale, mentre l’utilizzo atteso prevedeva arrivi di centinaia di profughi dal mare. Oltre al braccio di ferro con la magistratura sulla legittimità dell’iniziativa, preoccupa anche l’investimento fatto, che secondo il governo è di 130 milioni l’anno per 5 anni. Se guardiamo all’Italia, è rimasto lettera morta anche l’annuncio di creare un Cpr per regione, mentre nessuno dà seguito alla campagna lanciata da diverse sigle della società civile, tra cui la Comunità di Sant’Egidio, il Naga, le Acli di Milano e il Cnca, che hanno lanciato l’allarme sulla situazione delle persone “parcheggiate” nei centri in attesa di rimpatrio. È una campagna che chiede di chiudere questi spazi, veri e propri “non luoghi”, evocando addirittura la mobilitazione che ci fu ai tempi della legge Basaglia. “Come negli anni Settanta si abbattevano i cancelli dei manicomi - hanno scritto le organizzazioni della società civile nel loro appello -, oggi dobbiamo guardare oltre le reti dei Cpr e vedere quello che ci viene impedito di vedere: persone, vite, sogni interrotti, la cui unica colpa è non avere un permesso di soggiorno. Da troppo tempo nel nostro Paese non avere documenti giustifica la privazione così crudele della libertà”. Da Gradisca d’Isonzo a Ponte Galeria, nel frattempo, sono giunte segnalazioni di violenze ai danni dei reclusi, così come di trattamenti farmacologici al limite. Nulla però si conosce, formalmente. Per il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, “i Cpr funzionano e sono perfettamente compatibili con l’ordinamento nazionale ed europeo. Il trattenimento è una privazione della libertà personale che passa attraverso la convalida del giudice conforme a quelle che sono le previsioni della nostra Costituzione”. L’altra faccia nascosta del dolore sociale invisibile porta ai servizi territoriali per la salute mentale, sempre più carenti come dimostrano recenti fatti di cronaca, e agli istituti di pena minorili. Secondo le ultime rilevazioni diffuse dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, in tutta Italia alla data del 30 settembre 2025 risultavano 16.534 minorenni o giovani adulti complessivamente in carico agli uffici territoriali. Rispetto all’inizio dell’anno si è verificato un incremento di 1.566 unità, corrispondente a un tasso del 10,5%. Per il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, “questi numeri crescenti rendono sempre più critica la gestione dell’intero sistema della giustizia minorile che è stato investito da una pressione senza precedenti dopo l’approvazione del cosiddetto “decreto Caivano” del settembre 2023”. Migranti. Fondi a rischio, progetti fermi: perché i “ghetti” sono un caso di Diego Motta Avvenire, 9 novembre 2025 Fai-Cisl: meno di 20 milioni sui 200 previsti dal Pnrr per liberare i lavoratori dalle baraccopoli. Flai Cgil: sui braccianti stranieri è un fallimento eclatante. Soltanto 11 i piani approvati sui 37 presentati dai Comuni, escluse le situazioni di maggior emergenza. Risorse a rischio e progetti a rilento. Per liberare gli “schiavi” dai ghetti, la strada resta in salita. La voce dei sindacati agricoli si unisce ormai, da Nord a Sud, per chiedere chiarezza sui fondi stanziati dall’esecutivo al fine di superare gli insediamenti abusivi in cui vivono migliaia di braccianti. L’ultimo grido si è alzato questa mattina da Acerra, alla tavola rotonda organizzata in occasione della 75esima Giornata del Ringraziamento. È toccato alla segretaria nazionale della Fai-Cisl, Raffaella Buonaguro, puntare il dito contro il mancato uso dei 200 milioni stanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza per gli alloggi dei braccianti. “Servono per liberare i lavoratori dalle baraccopoli, invece sono meno di 20 milioni le risorse finora impegnate su progetti considerati idonei”. Il riferimento è ai progetti presentati dai Comuni per mettere in sicurezza le zone interessate dalle baraccopoli dei migranti, garantendo contemporaneamente il diritto alla casa dei lavoratori stranieri, spesso irregolari. Oltre alla Fai-Cisl, nei giorni scorsi, anche Flai Cgil era intervenuta nel dibattito, ricordando che “nel Pnrr erano previsti 200 milioni di euro e la struttura commissariale nominata per la realizzazione di questa misura ha confermato che partiranno solamente 11 progetti, anziché i 37 inizialmente previsti, per un ammontare di poco più del 10% dei finanziamenti stanziati”. Per Matteo Bellegoni, capo dipartimento legalità e immigrazione Flai Cgil, “ci troviamo purtroppo di fronte ad un eclatante fallimento che non possiamo accettare”. Ma com’è realmente la situazione, numeri e progetti alla mano? Lo scorso 23 luglio, il commissario straordinario per il superamento dei ghetti, Maurizio Falco, aveva comunicato lo sblocco di 12 progetti, poco meno di un terzo rispetto a quelli presentati, per circa 26 milioni di euro e appena 700 persone coinvolte. Uno dei Comuni coinvolti peraltro aveva poi rinunciato ai finanziamenti perché la comunità locale si era poi detta contraria. Tra i beneficiari c’erano soprattutto i piccoli insediamenti abusivi, da Castel Volturno a Saluzzo. Esclusi invece i “ghetti” della Capitanata pugliese e quello calabrese di San Ferdinando. Il governo, per bocca del ministro del Lavoro, Marina Calderone, aveva fatto sapere in estate che, visto il rischio consistente di non riuscire a spendere entro il termine previsto di giugno 2026 i fondi garantiti dal Pnrr, esisteva un’ipotesi allo studio di utilizzare le risorse come incentivi alle imprese agricole affinché potessero realizzare delle strutture di accoglienza per gli stessi braccianti. “La struttura commissariale - aveva però spiegato dieci giorni fa il capo dipartimento della Flai - ci aveva illustrato la proposta di dirottare una parte dei fondi del Pnrr non utilizzati a progetti abitativi che avrebbero potuto realizzare i datori di lavoro direttamente in azienda, ma ci è stato comunicato che la Commissione europea ritiene non percorribile questa ipotesi”. Per Fai-Cisl, invece, “al tavolo con il governo, siamo riusciti a portare diverse proposte e oggi alcune sono in via di realizzazione, ma un tema cruciale rimane quello dei migranti che diventano irregolari e rimangono sul territorio sfruttati come manodopera. Dobbiamo dare loro strumenti di emersione e regolarizzazione” ha ribadito la segretaria Buonaguro, che ha ricordato Hope, una giovane nigeriana morta nel febbraio 2020 in un rogo a Borgo Mezzanone. Droghe. Due piani opposti per il futuro di tutti di Eleonora Martini Il Manifesto, 9 novembre 2025 A Roma, governo e Terzo settore concludono le rispettive Conferenze con ricette divergenti. Più carcere da un lato, più diritti dall’altro. Mantovano: minori obbligati a terapia. Le associazioni: riforma della legge vetusta 309/90. Nove regole per allattare al seno il bambino, snocciolate una per una dal sottosegretario Alfredo Mantovano, sono forse la cosa più “stupefacente” del piano d’azione che il governo traccia a conclusione della VII Conferenza nazionale sulle dipendenze (comportamentali, in questo caso di una donna che sarebbe stata distratta dallo smartphone). Il resto è decisamente più in linea con la classica “guerra alla droga” perseguita da sempre e senza alcuna vittoria. Con qualche novità: “prevenzione precoce già dalle scuole primarie”; “obbligo per i minori tossicodipendenti a seguire brevi e personalizzati percorsi terapeutico riabilitativi” con “il consenso della famiglia e su disposizione dell’autorità giudiziaria”; “piena autonomia ai Dipartimenti per le dipendenze” e solo in rapporto di “cooperazione” con i Centri di salute mentale; “accesso diretto nelle strutture residenziali” che si realizza - puntualizza il sottosegretario con delega alle droghe, non senza un paio di citazioni delle “sacre scritture” - previa “apertura di riflessione laica tra servizi pubblici e comunità private”. E anche, finalmente, “valorizzazione della relazione con le società scientifiche” come il Cnr e l’Iss. “Abbiamo bisogno di evidenze scientifiche”, ammette dopo aver riconosciuto che “non riusciamo ancora a disporre di dati precisi sulla qualità del fenomeno” dipendenze, essendo “frammentati e raccolti in modo diverso da ciascuna Regione”. Sarà per questo che sembra una scoperta il fatto che “lo sballo sia considerato normale dal 69% dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni”. Mantovano poi insiste molto anche sulla formazione dei magistrati che, a suo dire, “ravvisano troppo facilmente l’uso personale” di sostanze nei casi evidenti di spaccio, o dilaterebbero a proprio piacimento i tempi delle sentenze nei Tribunali di sorveglianza. In questa prospettiva diventa decisivo il piano di edilizia penitenziaria che il delegato alle droghe dice di seguire “personalmente”: “Alla fine del 2027 - assicura - avremo 11 mila nuovi posti detentivi che, alle cifre attuali, colmeranno il divario tra detenuti e posti disponibili” (in realtà, a proposito di evidenze, al momento i posti necessari sono oltre 16.300 e il trend delle incarcerazioni cresce più velocemente dell’avanzamento dei lavori). Sul tema in mattinata si era espresso anche il ministro Nordio annunciando il ddl per la detenzione domiciliare nelle comunità dei detenuti con dipendenze (vedi il manifesto di ieri) e parlando di un fantomatico “problema fentanyl all’interno delle carceri” e di un piano di prevenzione che dovrebbe evitare l’insorgere di un “vero e proprio commercio di fentanyl”, casomai scaturito dallo scambio, “tra detenuti, dei cerotti” eventualmente “prescritti” regolarmente per i malati. Se il pacchetto vi sembra appena appena fuori calibro, bisogna sintonizzarsi altrove. Spostandosi di pochi chilometri, a Roma, dall’Eur fino nella sala della Protomoteca in Campidoglio dove, dopo i saluti del sindaco Gualtieri, si è conclusa anche la Controconferenza sulle droghe. Movimenti e associazioni, pur con sensibilità molto diverse tra loro (dai consumatori alle comunità del privato sociale), dopo un lungo percorso e tre giorni di dibattito, hanno illustrato il piano comune messo a punto per “politiche efficaci, giuste, sicure per la salute, il benessere e l’inclusione”. Un piano che, riassumendo, prevede una riforma strutturale della legge 309 del 1990, ormai vetusta e non adeguata a un mondo che cambia velocemente. In linea con le nuove Risoluzioni Onu che a marzo 2025 hanno preso atto del fallimento della “war on drugs”, il piano prevede dunque meno carcere e sanzioni; rispetto dei diritti umani, civili e politici; abrogazione di tutte le norme proibizioniste e punitive varate inutilmente dal governo Meloni (Rave, Caivano, Sicurezza e Codice della Strada). E poi: regolamentazione legale a partire dalla cannabis; fine della punizione dei consumatori e proporzionalità delle pene a partire dai fatti di lieve entità; attuazione uniforme dei Lea per la Riduzione del danno, oggi frammentaria, per prevenire overdose, infezioni, marginalità e insicurezza urbana; riallocazione di una quota, di almeno il 10%, delle risorse oggi destinate alla repressione verso sanità pubblica e servizi territoriali. Un piano che, suggerisce l’ex sottosegretario dalla Giustizia Franco Corleone, andrebbe inviato al presidente Mattarella, presente invece alla Conferenza governativa dalla quale sono stati esclusi il Terzo settore e perfino la rete Elide delle “città “per l’innovazione delle politiche sulle droghe”. “Ma questa Controconferenza è solo l’inizio di un percorso che si svilupperà nei prossimi mesi e anni”, assicurano i protagonisti che oggi sono cresciuti di numero e in “maturità” politica. Il loro piano lo dimostra. E riecheggia perfino negli interventi sparati dai soundsystem sulla grande folla che ieri ha attraversato Roma al seguito della ormai mitica Million Marijuana March. La “guerra alla droga” non è una cosa seria. Lo è quella alla nostra libertà di Antonella Soldo Il Domani, 9 novembre 2025 Una democrazia che teme una manifestazione pacifica, che reprime chi chiede ascolto, che rifiuta il confronto con la scienza, non è una democrazia sicura di sé. È una democrazia fragile, che confonde la forza con l’autorità, l’ordine con la giustizia. Ci sono momenti in cui la misura della democrazia non si riconosce nei discorsi ufficiali, ma nei gesti più piccoli. Davanti all’Auditorium della Tecnica a Roma, dove il governo ha convocato la Conferenza nazionale sulle droghe, insieme ad alcune attiviste dell’associazione Meglio Legale che presiedo e alla presenza dell’onorevole Riccardo Magi abbiamo tentato un piccolo atto di libertà: un flash mob ironico, pacifico, persino giocoso. Avevamo un accredito per seguire i lavori, ma una volta all’ingresso ci è stato negato l’accesso. Senza alcuna spiegazione. Sono anche vicesegretaria del partito +Europa e per questo essere lasciata alla porta in quel modo mi è sembrato ancora più sfacciato e incomprensibile. Così, insieme alle colleghe che erano già fuori abbiamo deciso di fare un piccolo flash mob. Giusto il tempo di una foto. Indossando costumi gonfiabili da pollo, da unicorno, da altri animali. Una scelta volutamente paradossale: per dire che la “guerra alla droga” non è una cosa seria, che la retorica proibizionista ha ormai assunto tratti farseschi. Ma la reazione dello Stato è stata tutto fuorché ironica: sessanta agenti ci hanno circondate, strattonate, immobilizzate. Ecco l’immagine più nitida del nostro tempo: un potere che teme persino il dissenso gentile, che scambia la satira per minaccia e il pensiero critico per disordine pubblico. Il divieto di manifestare, l’accerchiamento fisico, il rifiuto dell’accredito a organizzazioni riconosciute dall’Agenzia Onu sulle droghe - tutto questo non riguarda soltanto un episodio di eccesso di zelo. È la spia di una tendenza più profonda: la restrizione degli spazi democratici in nome di un ordine che non tollera deviazioni. Il proibizionismo, del resto, è da sempre una forma di governo morale: pretende di regolare i comportamenti più intimi e di decidere, in nome della virtù, ciò che ciascuno può fare del proprio corpo. In questo senso, la “guerra alla droga” non è mai stata solo una politica pubblica - è una pedagogia autoritaria, che trasforma la libertà individuale in colpa e la scelta personale in reato. Oggi questo governo - il più proibizionista degli ultimi trent’anni - ne ripropone la versione più ottusa. Si vieta la canapa industriale come se fosse eroina, si toglie la patente a chi non è sotto effetto di sostanze, si riempiono le carceri di minorenni per piccoli reati di consumo. E si continua a concentrare la repressione su un’unica sostanza, la cannabis, la meno dannosa, la più studiata, la più controllabile. Intanto, i dati ufficiali dello stesso Dipartimento Antidroga segnalano un aumento dei decessi legati al crack e alla cocaina. Eppure nessuna parola, nessun piano, nessuna attenzione. La realtà viene ignorata quando contraddice il dogma. Ma la questione non è solo sanitaria o sociale. È democratica. Perché una democrazia che teme una manifestazione pacifica, che reprime chi chiede ascolto, che rifiuta il confronto con la scienza, non è una democrazia sicura di sé. È una democrazia fragile, che confonde la forza con l’autorità, l’ordine con la giustizia. Davanti a quell’Auditorium blindato, ho avuto la sensazione che lo stato non avesse paura della droga - ma dei cittadini che osano discuterne. E allora sì, la loro guerra alla droga non è una cosa seria. Ma la nostra libertà, quella sì, lo è eccome. Israele. Quasi cento palestinesi “sotterrati” in prigione di Luca Foschi Avvenire, 9 novembre 2025 Un’inchiesta giornalistica rivela gli abusi del carcere di Rakefet, chiuso negli anni Ottanta e riaperto dopo il 7 ottobre. Gli Usa si prendono la gestione degli aiuti a Gaza. Altre polemiche sul mandato per Netanyahu. “Dove sono, e perché mi trovo qui?”. Così il detenuto ha salutato gli avvocati del Comitato pubblico contro la tortura in Israele (Pcati), Janan Abdu e Misherqi Baransi, incaricati di salvarlo dall’inferno sotterraneo del carcere di Rakefet, a pochi chilometri da Tel Aviv. Un reportage del quotidiano britannico The Guardian ha rivelato ieri che Israele tiene imprigionati in celle sotterranee in condizioni disumane quasi cento palestinesi provenienti da Gaza. Seppelliti dopo un processo sommario in locali sordidi, “per mesi, forse per anni sono stati picchiati, aggrediti dai cani, privati della luce del giorno, di cure mediche, di cibo adeguato e della possibilità di avere qualsiasi contatto con il mondo esterno”. Fra loro i due civili incontrati dal Pcati, un infermiere di 34 anni arrestato nel dicembre 2023 mentre lavorava in ospedale, e un giovane commerciante di 18 anni catturato dai soldati dell’esercito israeliano mentre attraversava un check-point nell’ottobre del 2024. Entrambi sono stati trasferiti nella prigione sotterranea di Rakefet nel gennaio di quest’anno. Il carcere è stato costruito nei primi anni ‘80 per ospitare gli esponenti più pericolosi della criminalità organizzata israeliana, e chiuso cinque anni dopo perché ritenuto disumano. A ordinarne il ripristino, dopo l’attacco del 7 ottobre, è stato il ministro della Sicurezza, Itamar Ben- Gvir, intenzionato a rinchiudervi membri delle forze di élite di Hamas e Hezbollah. Il Servizio penitenziario israeliano si è rifiutato di rispondere alle domande sullo status e l’identità degli altri reclusi nella struttura Il breve sguardo sull’orrore di Rakefet è coerente con lo scandalo dei brutali abusi avvenuti nella prigione di Sde Teiman, e con le dichiarazioni e i comportamenti offerti a favor di telecamera dal ministro Ben-Gvir durante le sue frequenti e intimidatorie visite ai detenuti palestinesi, siano essi di Gaza o della Cisgiordania. Continua nel frattempo a Gaza la ricerca e la restituzione dei corpi degli ostaggi israeliani. Ieri è stato confermato che le spoglie restituite venerdì sera appartengono a Lior Rudeaff, israeliano di origine argentina di 61 anni, ucciso dalla Jihad islamica il 7 ottobre, mentre quelle cedute all’esercito israeliano ieri mattina sono di Hadar Golding, caduto durante la guerra del 2014 e da allora trattenuto nella Striscia. Regge la tregua nella Striscia, nonostante le violazioni dell’esercito. Ieri due palestinesi sono stati uccisi e un altro ferito dal fuoco israeliano. Fondamentale per la tenuta del fragile accordo è l’intervento di Washington. Rispondendo alle pressioni della comunità internazionale, che denunciava da giorni l’insufficiente quantità di aiuti umanitari entrati nella Striscia, gli Stati Uniti hanno sostituito Israele nella gestione del flusso. Sarà il Centro di coordinamento militare e civile istituito dagli Usa a Kiryat Gat, nel sud dello Stato ebraico a occuparsene. Tel Aviv, che ha cercato di opporsi alla decisione, vedrà sensibilmente diminuito il ruolo del Cogat, l’organismo responsabile delle attività civili nei territori palestinesi. Il dissidio si è formalmente “risolto” con uno scambio di dichiarazioni. Un funzionario americano ha affermato che gli israeliani sono ancora “parte del dialogo”, ma le decisioni verranno prese dal centro di Kyriat Gat. “Scegliamo in modo comune, l’integrazione del Centro di coordinamento è già in corso”, ha replicato un funzionario della sicurezza israeliano. Ben più accesa la risposta offerta da Tel Aviv alla Turchia, che venerdì ha emesso mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di decine di altri funzionari israeliani con l’accusa di “genocidio”: “Nella Turchia di Erdogan la magistratura è da tempo diventata uno strumento per mettere a tacere i rivali politici e arrestare giornalisti, giudici e sindaci”, ha scritto su X il ministro degli Esteri Gideon Saar. Libia. L’autostrada (anche) italiana che ha portato alla caduta di Almasri di Mario Di Vito Il Manifesto, 9 novembre 2025 I lavori per collegare Maghreb e Levante e la sconfitta della Rada. La tregua è instabile, ma serve a mandare avanti gli affari in Libia. I rapporti tra la milizia del generale e i servizi segreti di Roma: “una collaborazione molto proficua in materia di contrasto ad attività criminose di vario genere”. L’Italia ha duemila chilometri di ottimi motivi per non litigare con la Libia. Sono quelli della mitica “Autostrada dell’amicizia” che collegherà il Maghreb al Levante, progetto nato nel 2008 quando a Tripoli c’era Gheddafi e a Roma Berlusconi, tornato di gran moda negli ultimi giorni, con il sottosegretario agli esteri Giorgio Silli che due giorni fa è andato dall’altra parte del Mediterraneo per celebrare la firma del contratto per la realizzazione del sub lotto 4.3. L’opera vale qualcosa come 700 milioni di euro e la parte italiana della costruzione è stata affidata all’azienda Todini Costruzioni Generali Spa. Il problema di ordine generale, però, è che questa autostrada collegherà la zona della Libia controllata dal generale Haftar a quella che fa capo al premier Dbeibah. E per andare avanti coi lavori ci sarebbe l’essenziale bisogno di cessare le ostilità, o quantomeno ridurle al minimo. In questo contesto si inserisce la caduta in disgrazia del generale Osama Almasri, arrestato mercoledì su mandato del procuratore generale di Tripoli per le accuse di tortura e omicidio. Negli ultimi mesi, la capitale libica è stata scossa da violenti scontri tra le varie milizie e la Rada - a cui appartiene Almasri - è stata sostanzialmente sconfitta, tanto che proprio Dbeibah ha trionfalmente annunciato che le forze del governo hanno ormai il totale controllo del territorio. Non è stata una cosa facile: tra omicidi eccellenti come quella del capo della Rada Abdelghani al-Kikli, misteriose gambizzazioni (il ministro Adel Juma, che poi è venuto a curarsi a Roma in una clinica privata), scorribande e attentati, regna ancora molta incertezza e gli analisti faticano a capire quali siano di preciso le gerarchie attuali. Persino l’Aise, spiega al manifesto una fonte, si trova in mezzo al guado. Il servizio segreto esterno italiano ha sempre fatto grande affidamento sulla Rada, e adesso si trova costretto a cercare nuovi interlocutori. L’importanza di questa milizia la illustrò senza troppi giri di parole il direttore dell’Aise Giovanni Caravelli quando venne ascoltato dal tribunale dei ministri nell’ambito delle indagini sulla liberazione e il rimpatrio di Almasri del 21 gennaio scorso. Il prefetto parlò dell’esistenza di una “collaborazione molto proficua con la Rada in materia di contrasto ad attività criminose di vario genere, con particolare riferimento a quelle legate ai traffici di esseri umani, oli combustibili, stupefacenti e attività terroristiche”. La milizia, inoltre, collaborò “nell’individuazione di un latitante”. L’affaire Almasri, e il silenzio del ministero della giustizia che non rispose alle sollecitazioni della Corte d’appello di Roma obbligandola a non convalidare il fermo, non deriva dal fatto c’era un mandato d’arresto libico nei suoi confronti, ma trova le sue basi in un documento d’intelligence classificato “segreto” con cui Caravelli aveva informato il governo che c’era una “certa agitazione che stava montando a seguito del fermo del generale”. Di questo clima pesante il direttore dell’Aise era venuto a conoscenza tra il 19 e il 20 gennaio grazie a “fonti di Tripoli” e alla stessa Rada. Il 19 era il giorno dell’arresto a Torino da parte della digos su mandato della Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Il 20 invece era il giorno in cui ancora Caravelli ha informato il governo di aver ricevuto “da Tripoli, in anticipazione, ma che era stata appena trasmessa all’ambasciata libica a Roma, una richiesta di estradizione elaborata e firmata dal procuratore generale Alsaddiq Ahmed Abour” che rivendicava la possibilità di “perseguire in Libia il generale Almasri”. Il 29 gennaio, poi, il procuratore e Caravelli si rividero un’altra volta e il primo disse che se “l’indagine avesse configurato una serie di reati, avrebbe proceduto all’arresto”. Da lì in poi però dell’inchiesta libica non si è saputo più nulla, il generale ha fatto ritorno a casa da uomo libero ed è rimasto a gestire la prigione di Mitiga fino a quattro giorni fa. E comunque, in definitiva, Almasri dall’Italia è stato espulso, non estradato. È soprattutto per questo che non regge la velina del governo sul fatto che il mandato d’arresto libico sia stato decisivo nel decidere cosa fare. I veri motivi, per il resto, li ha squadernati sempre Caravelli al tribunale dei ministri: c’era uno “scenario prognostico” di “implicazioni che tale arresto poteva avere sulla sicurezza dei cittadini italiani e degli interessi economici dell’Italia in Libia”. Quali potevano essere queste ritorsioni? Il prefetto, citando il precedente di Cecilia Sala in Iran, disse che la Rada, gestendo l’attività di polizia giudiziaria, avrebbe potuto effettuare fermi di cittadini italiani, o magari perquisizioni degli uffici dell’Eni a Mellitah, dove cogestisce uno stabilimento con la National Oil libica. Questi erano i guai che sarebbero arrivati se non fosse stato liberato Almasri. E, sempre secondo Caravelli, non c’era alcuna possibilità di percorrere “soluzioni alternative”, perché un eventuale rimpatrio degli italiani avrebbe richiesto tempi troppo lunghi. Eppure, nota il tribunale dei ministri, “è fatto notorio che, quando sono scoppiati i disordini in Libia nella metà del mese dì maggio del 2025, sono stati fatti evacuare nel giro di poche ore almeno un centinaio di cittadini italiani presenti nell’area”.