“Caro ministro, riporti la cultura nelle carceri” di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 8 novembre 2025 I familiari delle vittime di terrorismo e criminalità, da Giovanni Bachelet ad Agnese Moro a Fiammetta Borsellino a Manlio Milani, scrivono a Nordio dopo la circolare che impone lo stop ai percorsi di rieducazione. Il contatto esterno con il carcere importante anche per lenire il dolore e applicare la Costituzione. Uno stop alle attività culturali all’interno delle carceri. Il ministro Nordio ha recentemente introdotto, con una circolare del 21 ottobre, una misura per cui il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) obbliga le Direzioni degli istituti penitenziari in cui siano presenti detenuti in reparti di Alta Sicurezza o in regime ex art. 41 bis a sottoporre a preventiva approvazione della Direzione Generale Detenuti e trattamento ogni evento di carattere trattamentale che coinvolga la comunità esterna al carcere. Ciò significa un rallentamento, se non uno stop definitivo ai percorsi rieducativi e un esautoramento del magistrato di sorveglianza cui finora era affidato il compito di verificare la corrispondenza degli eventi proposti con il percorso di riabilitazione. Sul tema intervengono, con una lettera al Ministro, i familiari delle vittime del terrorismo rosso e nero e della criminalità organizzata chiedendo di poter proseguire nelle attività che prevedono la risocializzazione e la rieducazione dei detenuti così come previsto dalla nostra Costituzione. Ecco il testo della missiva: Gentile signor Ministro della Giustizia, noi familiari di vittime delle azioni terroristiche, della lotta armata e della criminalità organizzata, da tempo impegnati in attività volte a realizzare il dettato Costituzionale di favorire la rieducazione dei detenuti, • consci del fatto che il ripensamento del proprio passato criminale molto raramente è frutto di un’improvvisa “illuminazione”, essendo più spesso il risultato di una contaminazione culturale, emotiva e relazionale, che supera le barriere fisiche tra il mondo esterno ed interno alle carceri, • consapevoli che anche la semplice partecipazione a incontri e confronti con il mondo esterno rappresenta per i detenuti coinvolti una iniziale rottura verso il passato, esponendoli ai rischi e pericoli di emarginazione ben noti a chi frequenta le carceri, • convinti che il cambiamento di valori richieda costanti, faticosi, lunghi e dolorosi processi di revisione critica del proprio vissuto, di assunzione di responsabilità molteplici e di emancipazione emotiva e culturale dal passato, • consapevoli che il riconoscimento reciproco dell’uomo detenuto e della vittima costituisce il presupposto di un fecondo rapporto di relazione trasformativa, • essendo testimoni dei cambiamenti indotti da queste frequentazioni anche nella relazione dei detenuti con l’autorità rappresentata dal personale di custodia, • avendo constatato di persona l’importanza e la ricchezza dei confronti tra detenuti e studenti nel processo rieducativo, poiché questi ultimi spesso rappresentano il volto dei loro figli, • avendo altresì constatato il valore sociale, psicologico e morale di questi incontri, al fine di prevenire il bullismo e derive criminali negli adolescenti, • convinti che un cambiamento, una emancipazione ed una nuova scelta di campo sia possibile anche per chi ha commesso delitti particolarmente gravi, • avendo sperimentato personalmente come questi incontri aiutino anche noi vittime della violenza a vivere le ferite del passato in modo diverso, • consapevoli che la sicurezza della società dipende dalla qualità della cittadinanza di chi esce dal carcere, guardiamo con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane volte a irrigidire, limitare e contingentare queste feconde attività di relazione tra detenuti e cittadini, in particolare laddove queste vengono obbligatoriamente sottoposte ad una impersonale e spesso soffocante centralizzazione burocratica. Giovanni Bachelet Fiammetta Borsellino Marisa Fiorani Manlio Milani Lucia Montanino Maria Agnese Moro Giovanni Ricci Sabina Rossa Paolo Setti Carraro Carceri, la denuncia degli operatori: “Il Dap restringe le attività culturali” di Fulvio Fulvi Avvenire, 8 novembre 2025 Tutto deve passare da Roma e la stretta burocratica sulle attività educative, culturali e ricreative all’interno delle carceri dove sono presenti sezioni di alta sicurezza, pentiti, o detenuti del 41-bis comincia a farsi sentire. Con la circolare del Dap numero 454011 del 21 ottobre scorso, firmata dal direttore dei detenuti e del trattamento, Ernesto Napolillo, si stabilisce infatti che le richieste di autorizzazione per lo svolgimento degli eventi, adeguatamente dettagliate, devono essere inviate al ministero e non più ai singoli direttori dei penitenziari. Una disposizione che blocca e ritarda iniziative e percorsi di formazione e riabilitazione dei reclusi in quasi tutti i 192 istituti di pena italiani. Intanto i familiari delle vittime di terrorismo e mafia impegnati in attività di giustizia riparativa, hanno inviato al ministro Carlo Nordio una lettera in cui esprimono “notevole perplessità e sofferenza personale nei confronti delle norme, volte a irrigidire, limitare e contingentare queste feconde attività di relazione tra detenuti e cittadini, in particolare laddove queste vengono obbligatoriamente sottoposte a una impersonale e spesso soffocante centralizzazione burocratica”. “Siamo testimoni diretti, che anche la semplice partecipazione a incontri e confronti con il mondo esterno rappresenta per i detenuti coinvolti un’iniziale rottura verso il passato, e possono rappresentare un’occasione, seppure lunga, faticosa e dolorosa, di un cambiamento”, scrivono Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Marisa Fiorani, Manlio Milani, Lucia Montanino, Maria Agnese Moro, Giovanni Ricci, Sabina Rossa e Paolo Setti Carraro. “Abbiamo anche constatato l’importanza e la ricchezza dei confronti tra detenuti e studenti nel processo rieducativo - prosegue la lettera - poiché questi ultimi spesso rappresentano il volto dei loro figli”. Si tratta di un appello a rivedere una normativa che rischia di eliminare ogni utile contaminazione culturale, emotiva e relazionale tra carceri e mondo esterno compromettendo il principio costituzionale della pena finalizzata alla rieducazione del condannato. Il sistema carcerario, già gravato dal sovraffollamento e della mancanza di personale rischia la paralisi totale. A Padova è stato annullato all’ultimo momento un evento promosso dal Garante comunale delle persone private della libertà con il quale quattro donne magrebine impegnate nel campo dei diritti civili avrebbero dovuto incontrarsi e consegnare a detenuti cento libri in arabo (di contenuto laico). Le spese erano già state pagate e il personale del carcere impiegato nell’organizzazione. A Milano Opera dopo un’incertezza durata due settimane, dovrebbe essere proiettato oggi ai detenuti il film “Io capitano”. “Ma solo grazie all’impegno della segreteria dell’istituto e degli agenti di polizia penitenziaria - sottolinea Giovanna Musco dell’associazione In Opera - perché hanno fatto fronte alle richieste esagerate del Dap cercando di far svolgere questa attività nonostante siano in pochi”. Secondo Musco “la circolare aggrava la situazione di precarietà degli operatori in carcere, la carenza di personale o il suo cattivo utilizzo sono un grave problema che il provvedimento non fa altro che esacerbare”. In un altro carcere uno psicoterapeuta che svolge un servizio di volontariato con i detenuti, ci ha confidato che attende la risposta da Roma alla sua richiesta di introdurre ai colloqui collettivi (se saranno confermati) un semplice registratore (come altre volte avvenuto), necessario strumento di lavoro. Chiedere un modello di pena più umano non vuol dire dimenticare le vittime di Mario Sacchi* L’Unità, 8 novembre 2025 Il 13 novembre 2009 ho iniziato a pensare che cosa sia la giustizia e cosa significhi chiedere giustizia. Il 30 ottobre 2025, sedici anni dopo, una visita al carcere di Monza me l’ha chiarito. Sono entrato nella Casa Circondariale insieme all’Associazione Nessuno tocchi Caino, ad altri amministratori locali e imprenditori del territorio, al garante dei detenuti di Monza e Brianza Roberto Rampi. Un’esperienza che scuote, genera domande, intensifica l’ascolto, stimola l’impegno a fare di più per le nostre comunità. Nella delegazione del mio Comune Usmate Velate c’erano anche la Presidente del Consiglio Comunale Stefania Brigatti e la Consigliera Francesca Tornaghi, con le quali abbiamo provato a dare voce a quello che accade in un non-luogo della nostra società, dove a perdere la voce sono le persone detenute ma anche chi qui lavora con professionalità, umanità e impegno. Nella nostra società e nel panorama politico c’è chi si indigna davanti alla proposta di abolire il carcere. Ma è ora di abolire quello che Filippo Turati, più di un secolo fa, già definiva “il cimitero dei vivi”. C’è chi mi ha chiesto, a fronte della mia posizione, che posto abbiano le vittime nel mio cuore. Rispondo che la notte del 13 novembre 2009 mia zia Cristina fu vittima di un incidente stradale. Avevo 14 anni e frequentavo il primo anno di liceo. Da quel momento le vite della mia famiglia sono cambiate. Credo di avere una certa empatia verso la sofferenza delle vittime e delle persone a loro care, così come credo di sapere quanto sia importante il riconoscimento della vittima in quanto tale. La sofferenza la vivo ogni giorno nel cuore. Da quel 13 novembre di sedici anni fa però mi interrogo su cosa sia la giustizia, su cosa significa chiedere giustizia per un torto e se il modello che la nostra società utilizza per farsi giustizia sia effettivamente giusto. Molti sostengono che il carcere non sarebbe “uno strumento di vendetta” e affermano che la pena avrebbe “una funzione alta e nobile” perché volta a punire l’atto ingiusto con una risposta proporzionata, a proteggere la sicurezza della collettività e a rieducare. Ritengo che quanto visto al carcere di Monza smentisca immediatamente questa idea. Al momento la situazione delle carceri italiane è più vicina a quanto parte dell’opinione pubblica e di una certa destra pensa debbano diventare gli istituti penitenziari, ovvero un luogo dove sbattere in cella il colpevole e buttare via la chiave. Il carcere è oggi solo l’ultimo colpo della spada brandita minacciosa in una mano come appare nell’iconografia della giustizia. Un’arma che incute timore e separa il lecito dall’illecito, il legittimo dall’illegittimo, il bene dal male. La separazione del reo diventa segregazione, esclusione fisica, morale e sociale. Non c’è nulla di alto e nobile in questo. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” recita l’articolo 27 della Costituzione. Al contrario, ci troviamo di fronte una situazione di sovraffollamento inumano delle carceri - a Monza la capienza massima del carcere sarebbe di 411 detenuti, il giorno della visita erano 722. La cifra delle persone detenute che tornano in carcere perché recidivi è altissima: nessuna sicurezza per la società e nessuna rieducazione. Basterebbe leggere la realtà dei numeri per capire che il modello è più ingiusto che giusto. Il nostro modello culturale di giustizia è retributivo, repressivo e punitivo. È una giustizia che calcola, che misura nei termini di ciò che spetta e ciò che deve essere negato. La responsabilità è verso il fatto e la norma, mentre si cancella la responsabilità verso l’altro offeso, verso la vittima, che a sua volta è semplicemente dimenticata. Penso che questo modello non risponda al sentimento di giustizia che proviamo davanti all’ingiustizia. Esistono alternative, purtroppo poco utilizzate nel nostro Paese. Ne è un esempio la giustizia riparativa, contenuta peraltro in una Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1999 e i Principi Base sull’Uso di Programmi di Giustizia Riparativa in questioni criminali (2000-2002) delle Nazioni Unite. Voler cambiare l’attuale sistema di reiterazione della sofferenza delle carceri non significa dimenticarsi delle vittime, come invece fa l’attuale modello, ma è al contrario la spinta a tenere viva la domanda di giustizia cercando però una risposta umana, così come ci ricorda la nostra Costituzione. *Vicesindaco del Comune di Usmate Velate Nei penitenziari italiani 20mila tossicodipendenti. Piano per trasferirli nei Centri di recupero di Valentina Pigliautile Il Messaggero, 8 novembre 2025 Dopo l’approdo in Consiglio dei ministri ad agosto scorso, il disegno di legge targato Nordio-Schillaci - che introduce un regime di detenzione domiciliare in strutture specializzate per condannati tossicodipendenti e alcoldipendenti - si prepara a percorrere il primo miglio a Palazzo Madama. Martedì scorso l’assegnazione in commissione Giustizia del testo, che potrà godere di un più rapido: voti degli emendamenti in commissione e passaggio in Aula solo per l’approvazione finale. Un dossier del Senato dà conto dell’impatto delle nuove norme e dei primi passi per realizzare il piano destinato, in prima battuta, ai condannati affetti da dipendenze e con pene da scontare non superiori a 8 anni (o a 4 in caso di reati di maggiore pericolosità sociale). Al 31 dicembre 2024 risultavano presenti all’interno delle strutture penitenziarie italiane 19.755 detenuti con la sola tossicodipendenza (il 31% dell’intera popolazione carceraria), da sommare agli alcoldipendenti, approssimativamente 6300. Il dossier stima che i soggetti potenziali beneficiari delle misure siamo quasi 11mila nel primo caso e 3772 nel secondo. Per quanto riguarda i beneficiari effettivi, però, almeno per il 2026, prevale la cautela: si prevede, infatti, che il numero medio di detenuti tossicodipendenti condannati che richiederanno la misura saranno circa 217: totale che scende a 76 nel caso dei detenuti con dipendenze da alcol. Numeri che impattano anche sulle prime misure da mettere in campo: sono 500 i posti letto da considerare “aggiuntivi rispetto al più ampio sistema sanitario”, con un costo medio giornaliero di 106,50 euro da destinare al trattamento terapeutico riabilitativo nell’arco di 365 giorni. Per un onere che, complessivamente, nel 2026, si potrebbe aggirare intorno ai 19,5 milioni di euro. Una cifra che non copre solo le spese per i detenuti che richiederanno la detenzione domiciliare. Il disegno di legge inserisce una sorta di “patteggiamento speciale”, ovvero la definizione anticipata del processo con finalità di recupero per gli imputati che siano tossicodipendenti e alcoldipendenti. Nel dossier, poi, una fotografia dettagliata della capacità ricettiva nazionale e dei costi associati ai servizi erogati nel percorso riabilitativo da parte delle comunità terapeutiche e delle strutture di accoglienza accreditate. L’analisi, a partire dai dati (aggiornati a luglio 2022) pubblicati dal Dipartimento per le politiche antidroga e le altre dipendenze, mette in luce come dei 13.276 posti letto presenti in Italia, il 97,51% sia gestito in regime privato, mentre i residuali siano in regime pubblico o misto. Ad oggi, l’assistenza sanitaria per i detenuti tossicodipendenti, oltre che dalle aziende sanitarie territoriali, è garantita dai 154 servizi/équipe per le Dipendenze presenti all’interno dei 189 istituti penitenziari sul territorio nazionale. Che potrebbero essere alleggeriti di alcuni compiti se andrà in porto il ddl all’esame del Senato: uno tassello del piano del governo per contrastare il sovraffollamento che si attesta ancora a un tasso del 122,3%. Salvini esulta per una ragazza incinta detenuta in carcere, Antigone: “Questo è essere pro vita?” di Luca Pons fanpage.it, 8 novembre 2025 “Bene così!”, ha scritto sui social Matteo Salvini alla notizia di una ragazza di 24 anni che sarà detenuta in carcere, nonostante sia incinta, applicando le norme del decreto Sicurezza. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, ha parlato a Fanpage.it di cosa significhi davvero, per una donna incinta o con figli piccoli, la vita in carcere. Una ragazza di 24 anni è detenuta in carcere, a Venezia, anche se è incinta. È in custodia cautelare, dopo essere stata sorpresa nel presunto furto di un borsello, perché era già finita al centro di indagini della Procura per altri furti. A permetterlo è il decreto Sicurezza, varato dal governo Meloni, che ha cambiato il Codice penale per togliere tutele alle donne incinte e a quelle con figli piccoli. Una battaglia portata avanti soprattutto dalla Lega. Matteo Salvini, vedendo la notizia della detenzione di una giovane che presto sarà madre, ha esultato sui social: “Bene così!”, ha scritto, rivendicando la misura. Parole che hanno sollevato proteste dall’opposizione. “Che Stato è quello che si vanta di togliere la libertà a una donna incinta invece di aiutarla, accompagnarla, reinserirla?”, ha chiesto Sandro Ruotolo, eurodeputato del Pd. Fanpage.it ha contattato Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, associazione che si impegna per tutelare i diritti umani nelle carceri italiane. Marietti non si è limitata a commentare le parole del vicepresidente del Consiglio, ma ha spiegato cosa significa, davvero, per una donna vivere l’esperienza del carcere quando è incinta o quando ha un figlio di meno di un anno. Cosa pensa delle dichiarazioni di Matteo Salvini sul caso di Venezia? Si commenta da sola una persona che esulta sempre e solo quando i più fragili e i più deboli vengono gestiti con la repressione e il pugno duro, invece che attraverso gli strumenti delle politiche sociali. La gioia di chi è contento di vedere un feto svilupparsi dentro una galera, con tutti tutti i rischi che questo comporta, e con la possibilità che poi la stessa donna si ritrovi a partorire in carcere, come già altre volte è successo. Questa evidentemente è l’idea del ministro di essere ‘pro vita’. Negli anni ci ha abituati, e d’altra parte questa è una norma che ha voluto in prima persona, non potevamo aspettarci nulla di diverso. Al di là della situazione giudiziaria che si è verificata con la 24enne di Venezia, Antigone ha comunicato che negli ultimi mesi è tornato a salire. Sono gli effetti del decreto Sicurezza? È presto per dirlo, bisogna valutare la situazione specifica di ciascuna detenuta e vedere se la tendenza continuerà anche in futuro. Ma mi sembra verosimile che le due cose siano collegate. Certamente questa è la direzione in cui va la norma. Quando si parla di carcere, spesso lo si fa in maniera vaga e un po’ astratta. Ma cosa significa concretamente, per una donna incinta, ritrovarsi detenuta invece di poter usufruire di misure alternative? Una donna incinta in carcere, nella gran parte dei casi, vive continuamente nella paura. Come tutte noi donne che abbiamo partorito sappiamo, durante una gravidanza sei seguita costantemente, e da vicino. Ci sono medici che monitorano la situazione, e questo ti dà tranquillità. In carcere tutto questo è molto più difficile. Il nostro sistema penitenziario è a macchia di leopardo, il sistema sanitario è regionalizzato, sono le Asl che entrano negli istituti, quindi le condizioni possono cambiare molto da un carcere all’altro. Ma in generale non si riesce ad avere le attenzioni specifiche di cui avrebbe bisogno la donna che aspetta un figlio. E in una gravidanza l’inaspettato può sempre succedere. Per una perdita di sangue, ad esempio, chiunque correrebbe subito dal ginecologo o al Pronto soccorso. Ma nelle carceri è tutto molto rallentato. Senza parlare di quando poi si arriva al parto. La situazione si complica soprattutto se è un parto prematuro, ma non solo. Pochi anni fa, a Roma, una donna partorì da sola, aiutata solo dalla compagna di cella, perché il medico non arrivò in tempo. La compagna era un’altra donna incinta, e senza nessuna competenza. Il decreto Sicurezza colpisce non solo le donne incinta, ma anche quelle con figli piccoli, fino a un anno. Per loro la vita in carcere è ancora più difficile? Abbiamo parlato con molte di loro. Una cosa che ritorna spesso è il senso di colpa che provano per l’esperienza che loro figlio sta vivendo, un’esperienza che rischia di segnarlo per tutta la vita. Tutti gli psicologi dell’età evolutiva ce lo dicono: in quella fase, i bambini sono delle ‘spugne’, assorbono sensazioni ed emozioni che hanno un forte impatto nel loro sviluppo cognitivo verso l’età adulta. Molte detenute sono frustrate all’idea che i loro bambini si porteranno strascichi di questa esperienza in futuro. Detto questo, non dipende tutto dalle norme. In che senso? Mi piacerebbe vedere un’amministrazione penitenziaria e una magistratura di sorveglianza più reattive. Sono certa che se si lavorasse caso per caso, si riuscirebbe anche con le norme attuali a trovare alternative per tutte, o quasi, le donne che si trovano in carcere. Non parliamo mai di grandi criminali, ma di piccoli reati di strada. E anche quando una donna è in carcere con il bambino, l’amministrazione penitenziaria potrebbe intervenire per migliorarne la vita. Il bambino non è detenuto, non c’è motivo per cui non possa allontanarsi dalla struttura. Servirebbero delle figure apposite che lo portino all’esterno - all’asilo, al parco, in piscina, come tutti i bambini - e la sera lo riportino in carcere dalla mamma. Questa cosa si fa, oggi, solo dove ci sono associazioni di volontariato che se ne fanno carico. Perché non intervengono le istituzioni a riempire questo vuoto? Perché non lo si fa? Probabilmente, perché queste donne vengono prese come simbolo di qualcosa da colpire, da punire. Lo dimostra anche l’esultanza di Salvini. La legge prevede che le donne in questa situazione siano detenute nei cosiddetti Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Ma i posti a disposizione sono pochi, gli Icam sono solo quattro in Italia. Bisognerebbe espanderli? In realtà, l’Icam non è poi così diverso da un carcere. È una struttura detentiva chiusa, gestita dal ministero della Giustizia, da cui la madre non può allontanarsi. Concretamente, hanno degli spazi un po’ più adeguati. Ma, per fare un esempio a Roma, l’asilo nido di Rebibbia non è così lontano dall’Icam di Lauro. Su cosa bisogna puntare, allora? Le case famiglia. Quelle sì, sono un’altra cosa. Sono una misura alternativa, principalmente le si usa per la detenzione domiciliare speciale introdotta nel 2001 proprio per le madri, fino ai dieci anni di età. L’idea è di ripristinare la convivenza con il figlio. Sono piccole strutture a vocazione familiare, un po’ come un appartamento d’accoglienza, dove la mamma può stare col figlio e il figlio esce tranquillamente. Servirebbero i soldi per espanderle: all’epoca, la legge fu fatta scaricando tutte le responsabilità sugli enti locali, che però nel tempo non vi hanno dedicato molte risorse. Ostellari: “La mamma rom in carcere per furto? La gravidanza non è uno scudo penale” di Massimo Malpica Il Giornale, 8 novembre 2025 Maternità come scudo penale? Addio. Parola del sottosegretario alla Giustizia e senatore leghista Andrea Ostellari, che commenta la notizia che arriva da Venezia, dove una borseggiatrice seriale, pizzicata in fragrante resterà in carcere anche se incinta. Esulta Salvini, che ricorda come il merito sia di quell’articolo modificato per volontà del Carroccio. E se il Pd lo accusa di usare la maternità a fini di propaganda, Ostellari taglia corto: “Non siamo certo contro la maternità o contro i bambini. A differenza della sinistra, vogliamo semmai dare dignità alla maternità e proibire che organizzazioni criminali possano ancora sfruttare la gravidanza per far commettere reati. La norma serve a questo”. Peraltro, è il giudice che potrà decidere, discrezionalmente, se rinviare o meno l’esecuzione della pena per una condannata incinta... “Mai pensato di eliminare quella discrezionalità. Abbiamo invece tolto l’automatismo che impediva di procedere nei confronti di una donna in stato di gravidanza. Ci fidiamo dei nostri giudici, saranno loro a valutare, caso per caso, se e quando la maternità è stata utilizzata solo per ottenere una sorta di impunità”. Il caso veneziano ha fatto scalpore, ma basterà questa novità ad arginare il fenomeno dei borseggi, che continua a destare allarme sociale, soprattutto nelle città e nei luoghi più turistici? “La norma funziona, ma oggi chiediamo di ritornare alla procedibilità d’ufficio contro il fenomeno dei borseggi, che ha preso la ribalta proprio perché a commettere tali reati ora sono autori differenti: non più solo donne, ma uomini, in particolare ragazzi, magari giovani. E su questo aspetto io e il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni abbiamo una proposta”. Quale? “Ecco, con la riforma Cartabia s’è tolta la procedibilità d’ufficio per quasi tutte le fattispecie di furto aggravato, come il furto con destrezza. Ci si rimette alla querela di parte. E secondo noi questo è un bel danno per lo Stato. Perché vittime del furto con destrezza, come dicevamo, sono spesso i turisti”. Che si trovano costretti a proporre la querela... “Sì, e non solo il malcapitato turista è costretto a sporgere querela, ad attivarsi con una burocrazia a volte impegnativa, ma poi quando torna nel suo Paese magari deve anche manifestare la sua volontà di proseguire nell’azione penale nei confronti dei responsabili, se individuati, ritornando in Italia. E a quel punto spesso il gioco non vale più la candela, e di conseguenza molti procedimenti finiscono per chiudersi senza alcun tipo di conseguenza per i borseggiatori”. Un’altra sacca di impunità.. “L’improcedibilità d’ufficio fa arenare tanti procedimenti penali, e comporta anche un danno economico per l’Italia. Che viene dipinta come il Paese in cui i ladri la fanno franca. E se un turista magari aveva pensato di tornare a Venezia, a Roma, a Firenze, a Milano, può darsi che scelga un’altra meta e non ci torni più. Ricordandosi quell’inutile trafila burocratica seguita al furto subito più che la bellezza della città. Questo ovviamente comporta un grande danno d’immagine all’Italia: cattiva stampa, cattiva pubblicità, con rischi concreti di ricadute negative sul turismo”. Voi che cosa proponete? “Completiamo l’opera. Torniamo alla procedibilità d’ufficio per questi reati, così turisti e cittadini non dovranno più affrontare la trafila burocratica per presentare la querela di parte, e la magistratura e gli inquirenti potranno agire in modo veloce ed efficace nei confronti dei responsabili. Proponiamo ai nostri alleati questo pacchetto giustizia/sicurezza, e contiamo sull’imminente adozione di un provvedimento che vada in continuazione con il decreto sicurezza già approvato e che contenga misure a tutela della sicurezza di cittadini e turisti, oltre che naturalmente delle nostre forze di polizia”. Tutela salute delle detenute, Nordio firma la Convenzione di Alessandro Guidolin gnewsonline.it, 8 novembre 2025 Il Guardasigilli Carlo Nordio ha firmato la Convenzione per la Promozione della Prevenzione e tutela della salute della donna. La Convenzione è stata sottoscritta anche dal Ministro della Salute Orazio Schillaci, da Alba Di Leone dell’organizzazione no-profit Think Pink Italy, e da Paola Severino della Fondazione Severino Onlus; e intende promuovere iniziative congiunte volte a tutelare la salute delle donne sottoposte a pena detentiva. Nella Convenzione si legge che “le Parti si impegnano a collaborare per sviluppare e realizzare il Progetto Pluriennale di promozione della prevenzione e tutela della salute per donne sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. Il progetto prevede l’organizzazione di eventi di sensibilizzazione della popolazione penitenziaria sull’importanza di seguire corretti stili di vita, incontri individuali e collettivi con finalità educative, e test di screening medici attraverso giornate di prevenzione, per consentire l’erogazione di esami strumentali all’interno degli Istituti penitenziari. Da sottolineare che “le prestazioni saranno offerte anche al personale di Polizia penitenziaria e amministrativo”. Inoltre, “Il Ministero della Giustizia si impegna a favorire l’accesso e l’adesione alla progettualità delle donne detenute”. La Convenzione ha validità ed efficacia fino a giugno 2027 e potrà essere rinnovata dalle Parti. Se il diritto penale contemporaneo è ancora basato sull’antica legge del taglione Diego Mazzola L’Unità, 8 novembre 2025 Al mito e alle leggende dobbiamo sempre molta della nostra conoscenza. Narra Pausania il Periegeta che, quando nella città di Argo regnava Crotopo, sua figlia Psamate ebbe un figlio da Apollo di nome Lino. Per la vergogna e il timore della reazione del padre, Psamate abbandonò il neonato all’aperto tanto che venne dilaniato dai cani del gregge reale. Non soddisfatto di questo, Crotopo uccise anche la figlia, sfidando l’ira di Apollo che l’amava molto. Infuriato, il dio delle arti e degli amori sfortunati mandò ad Argo l’esatto contrario dell’amore e della pietà, un terribile mostro marino chiamato per l’appunto “Pena”, uso a strappare i figli alle madri e poi ucciderli. Da allora la parola “pena” assunse il significato di “punizione”. Si punisce qualcuno perché ci si sente autorizzati a farlo, e nel farlo non si rammenta l’insegnamento evangelico della parabola sulla “prima pietra”. Il valore della “pena”, dunque, non può essere assimilato a quello di Deterrenza, tanto meno a quello di Giustizia. Poco importa se dopo i neonati innocenti la leggendaria “pena” verrà imposta solo agli adulti colpevoli che, in quanto tali, possono pur sempre testimoniare lo strazio insopportabile che il tempo, il luogo e i mezzi di “punizione” comportano. Psamate deve aver sofferto molto per aver abbandonato il figlio a quella orrenda fine, ma non è bastato: è stata ulteriormente “punita” con la sua di morte. Il concetto di “giusta pena” è, quindi, una emerita scemenza che, nelle mani di chi crede di poter impunemente scagliare la famosa pietra, arriva a infliggere dolore anche nelle forme più estreme della tortura o della morte. La scelta della procurata sofferenza dipende più dal desiderio di una vendetta personale o per conto terzi che dalla stessa gravità del fatto. Ad esempio, che cosa ne sappiamo della mente e dei sentimenti di quella ragazza che, essendo riuscita a nascondere ben due gravidanze al suo fidanzato e alla famiglia, è arrivata a uccidere due sue creature e seppellirle in un terreno poco distante da casa? Che cosa ne sappiamo dei successi o dei fallimenti cui è andata incontro la psichiatria cercando di curare i cittadini affetti dalla malattia della violenza? Perché la violenza è solo una malattia, per cui accade di esercitare il diritto di odiare e torturare, invece di amare e perdonare. Forse, gli psichiatri si sono occupati solo di sapere se il reo ha agi to essendo o non essendo in grado di intendere e volere. L’idea che si potesse fare prevenzione non ha neppure sfiorato le loro menti. E come ci si domanda in prefazione a “Il delitto del cervello”, “l’immagine di un uomo adottata dal Diritto, quella cioè di persona libera, razionale, consapevole e padrona delle proprie azioni, viene oggi messa radicalmente in discussione dalla ricerca neuro scientifica?”. Se quello che noi tutti desideriamo è che sia fatta giustizia, dobbiamo chiederci se il carcere sia mai servito allo scopo. La punizione serve solo a nutrire il famelico mostro marino mandato da Apollo per colpire chi ha violato la Legge, con piena soddisfazione della nostra pretesa di vendetta, ma non ha mai pensato di analizzare i motivi che hanno condotto tanti nostri simili in carcere. Siamo tanto disperati da non sapere neppure immaginare luoghi in cui possa essere messa sotto controllo la malattia della violenza e continuiamo a sottoporre degli esseri umani alla tortura del carcere, privandoli del senso della loro stessa dignità personale. Che genere di conoscenza e di giustizia ci è stata tramandata se oggi si dimostra essere totalmente priva del senso della pietà e del perdono. Non ci accorgiamo che il diritto penale contemporaneo è stato scritto sulla base della antica Legge del taglione, immaginando che un ladro smetta di esercitare la professione non per essere stato aiutato a trovare un lavoro onesto, ma per paura di ciò che accade in carcere. Questo significa credere nella magia, perché la minaccia della retribuzione punitiva non ha mai dissuaso nessuno, giudici o sottoposti a giudizio. È solo di recente che si ricomincia a parlare, solo a parlare naturalmente, di portare nelle scuole e nei luoghi di reclusione l’educazione sentimentale e la consuetudine al dialogo. Sempre più accade siano pubblicati libri nei quali il tema della Giustizia sembra essere al centro di un grande dibattito: vuol dire che si sta dibattendo troppo, senza concludere un accidente. Perfino il tema della “giustizia riparativa” sembra caduto nel dimenticatoio, perché sono sempre molto forti le voci di chi sostiene che la pena carceraria sia un “diritto” delle vittime. Erano le mie posizioni di quando ero giovane, ma poi sono state fatte a pezzi da Altiero Spinelli, il quale già nel 1949 sulla rivista “Il Ponte” scriveva: “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. La riforma del Csm rischia di rallentare i processi penali di Claudio Castelli Il Domani, 8 novembre 2025 I due Csm impediranno il rapporto di relazione tra procure e tribunali, rendendo il sistema meno efficiente. Ci sarà un aumento dei processi con torsioni inquisitorie. Lo stesso ministro della Giustizia ha ammesso che la modifica costituzionale approvata dal parlamento non avrà alcun effetto positivo sull’efficienza del sistema giustizia essendo finalizzato per altri scopi. La realtà purtroppo è opposta e peggiore. Una seria e serena valutazione di impatto ci porta a ritenere che le modifiche attuate, che devono essere viste nel loro complesso, porteranno invece ad una ulteriore inefficienza del sistema con un forte impatto che si riverbererà anche sul settore civile. Difatti la rottura del Csm e la creazione di un Csm solo per i pubblici ministeri porta ad una inevitabile autoreferenzialità, cessando quel rapporto di costante interrelazionalità organizzativa che deve crearsi tra uffici giudicanti e requirenti, come tra primo e secondo grado, che sola può dare un sistema efficiente. In tutte le occasioni di formazione professionale nei confronti dei magistrati abbiamo sempre insistito che il sistema giudiziario deve essere visto come una filiera in cui gli uffici devono viversi non come monadi separate, ma come parte di un unico organismo che solo alla fine del percorso ci dà un prodotto apprezzabile. Tempi e qualità derivano da questa filiera, in cui interviene anche l’avvocatura come parte integrante della giurisdizione. Tutto ciò viene smantellato in un attimo con i due Csm. Le interrelazioni fortemente stimolate dal Csm nelle sue deliberazioni, i protocolli e le linee guida stipulati a livello distrettuale o circondariale tra uffici giudicanti e requirenti per gestire il flusso dei procedimenti penali vengono in tal modo buttati in un cestino e saranno rapidamente abbandonati. Concetto sottolineato anche nella relazione di minoranza del Csm ad opera del professor Felice Giuffré che, in un contesto per lui favorevole alla riforma, rimarca che sarebbe stato invece opportuno mantenere un unico Csm suddiviso in due diverse sezioni, con momenti plenari proprio per mantenere quel necessario “incrocio tra le due componenti dell’ordine giudiziario”. La scelta radicale di due Csm, oltre a dare ulteriore potere ai pm, non più minoritari come oggi, non consente invece nessuna interlocuzione. Con l’ulteriore conseguenza, estremamente grave, di mettere i flussi e la qualità dell’intervento penale interamente in mano ai P.M., semplicemente per il fatto che sono gli inquirenti ad avere il monopolio dell’azione penale e di situarsi a monte, gestendo “il rubinetto” dei procedimenti. Già oggi il numero di procedimenti penali che gli uffici inquirenti riversano sui giudicanti sarebbe ingestibile se non intervenissero protocolli e/o accordi basati sui criteri di priorità che cercano di limitare in particolare le citazioni dirette entro un tetto gestibile dagli uffici giudicanti. Protocolli e accordi incoraggiati dal Csm. Una volta interrotta la comunicazione e lasciati a se stessi gli uffici requirenti è facilmente prevedibile che questo self restraint finirà e che i tribunali saranno sommersi dalle richieste di rinvio a giudizio e dalle citazioni dirette. Del resto in un sistema in cui sempre più l’unica cosa che conta e che viene valorizzata sono numeri e tempi, l’inevitabile tentazione sarà di una bulimia investigativa in cui il miglior pm sarà quello che fa più numeri e che manda tanto a giudizio. Se poi la valutazione si spostasse, come sarebbe più opportuno, sull’esito dei processi intentati il rischio sarebbe di incoraggiare una ferocia accusatoria in cui fondamentale non sarebbe più la ricerca della verità, ma incastrare l’imputato, al di là di prove e circostanze. Non si tratta di denigrare uffici del pm, cui va riconosciuta oggi in generale saggezza e cautela, ma capire che quando si crea un’istituzione a sé stante dedicata alle indagini e alle accuse, il rischio di incoraggiare torsioni inquisitorie è formidabile ed insito nella stessa creazione. La conseguenza sarà di avere un eccesso non sostenibile di processi penali proprio nel momento in cui i dati PNRR relativi al settore penale venivano ad essere molto incoraggianti con una riduzione del Disposition Time, ovvero dei tempi attesi del 37,8 per cento rispetto al 2019, ben superiore all’obiettivo PNRR del 25 per cento. “Difensore”, senza altre specificazioni di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 8 novembre 2025 Probabilmente l’immagine del difensore di ufficio nell’immaginario collettivo italico è ancora quella del leggendario film “Un giorno in Pretura”, dove troneggia uno strepitoso Alberto Sordi alias Nando Moriconi, imputato - di fronte al non meno strepitoso Pretore Peppino De Filippo - di “oltraggio al pudore”, per essersi fatto il bagno nudo “nella marana”. Il processo si svolge davanti ad un distratto ed annoiato difensore di ufficio, che legge il giornale mentre il processo si celebra, e che dopo aver chiesto senza successo denaro a Moriconi per impegnarsi, riprende stizzito a leggere il giornale, accada quel che deve accadere. Agli albori dell’anno 2000 si tradusse in legge una pervicace battaglia delle Camere penali italiane, con una radicale riforma della difesa di ufficio (e del patrocinio dei non abbienti). La ratio era quella di sottrarre la difesa di ufficio al mero volontariato o, peggio ancora, alle scelte di comodo di Polizia Giudiziaria e Procure, restituendole piena dignità tecnica, al punto che da allora l’iscrizione alle liste - dalle quali la nomina viene assegnata mediante una incontrollabile procedura informatica - esige un corso di formazione biennale, e l’attestazione documentata di un certo numero di processi già patrocinati. Al contempo, la riforma stabiliva l’obbligo di retribuzione dell’attività professionale espletata in capo all’imputato assistito di ufficio, ovvero in capo allo Stato se l’assistito dimostrava un reddito non abbiente. Che bilancio si può trarre da questa epocale riforma? Beh, intanto che il difensore di ufficio di Nando Moriconi è certamente solo un brutto ricordo, e non è poco. La formazione obbligata biennale, il legittimo incentivo di un onorario, l’assunzione di responsabilità dinanzi al giudice e al proprio ordine professionale, hanno certamente significato una crescita forte della tutela del diritto di difesa dei più deboli. Proprio il processo penale per l’orrendo delitto Regeni ne è la più clamorosa dimostrazione. In un processo a carico di imputati stranieri rimasti assenti, reso possibile - in deroga ai principi generali del codice - da una sconcertante decisione della Corte Costituzionale (di rendere possibile il processo in absentia sostanzialmente solo per questo processo), i difensori di ufficio hanno proposto, e la Corte di Assise ha sollevato, un nuovo incidente costituzionale, che chiarisca come si possa giustificare che i difensori di ufficio di imputati con i quali non si è instaurato il rapporto processuale, non siano messi in condizione di accedere al patrocinio dei non abbienti, e dunque debbano prestare la propria attività gratuitamente, ed anzi eventualmente anticipare di tasca propria le spese di indispensabili consulenze tecniche. Onore a quella Corte di Assise, e a quei colleghi che stanno dimostrando in concreto come un difensore è un difensore, senza bisogno di aggettivi. Di questa vicenda e di questa ordinanza parliamo a lungo in questo numero, ma al tempo stesso vogliamo raccontare di come, invece, la difesa di ufficio funziona molto meno bene fuori dalle aule, quando si tratta di prestare assistenza ai detenuti nelle carceri. Lì prevale un senso di abbandono, ed è un fatto gravissimo perché l’esperienza ci dice che più quei detenuti sono deboli, gli ultimi del mondo, più sarebbe necessaria una presenza forte e costante del difensore di ufficio, che invece qui scompare. È un vulnus grave, una ferita da rimarginare, una emergenza sulla quale l’avvocatura deve tornare ad impegnarsi. Perché non accada che quel difensore di Nando Moriconi, che abbiamo cacciato via dalle aule, riappaia, nella sua ignavia, nell’inferno delle carceri. Difesi per modo di dire: il paradosso di una giustizia sbrigativa di Elton Kalica* Il Riformista, 8 novembre 2025 Un tema che ricorre in carcere dove entro come volontario è che la popolazione detenuta è oggi profondamente mutata. Ci sono sempre meno persone che hanno fatto della criminalità una scelta di vita, e, invece, sempre più spesso persone provenienti da contesti di povertà estrema, che hanno commesso reati per necessità. Tra loro, moltissimi giovani, spesso figli di migranti, definiti “stranieri di seconda generazione” come se un’etichetta potesse imprigionarli dentro un’identità che non appartiene più né ai genitori né a loro. Questa trasformazione della popolazione detenuta mostra come il sistema penale sia diventato, per riprendere le parole di Loïc Wacquant in Punire i poveri (Derive Approdi, 2006), “un dispositivo di gestione della marginalità: gli esclusi del welfare, i disoccupati cronici, i migranti irregolari, i soggetti con dipendenze non trattate”. Lo vedo ogni volta che un ragazzo mi racconta di essere finito dentro per ruberie, o fatto trascinare da un amico che spacciava. Storie di disperazione che il sistema traduce in condanne “esemplari”. Accanto alla povertà, c’è un altro denominatore comune: la maggior parte di queste persone è stata difesa da un avvocato d’ufficio. L’articolo 24 della Costituzione italiana afferma che ai non abbienti sono assicurati mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. Su questo principio si fonda l’istituto del patrocinio a spese dello Stato, nato per rendere effettivo il diritto alla difesa anche per chi non dispone di risorse economiche. Ma le persone che incontro quotidianamente in carcere mi dicono che il gratuito patrocinio si è trasformato in una difesa solo formale. Avendo usufruito anch’io del patrocinio gratuito, ho chiesto un parere ad alcuni avvocati che continuano a difendere con dedizione anche chi non può permettersi un legale di fiducia. Il quadro che mi hanno descritto ha confermato le voci dei detenuti. Il gratuito patrocinio prevede compensi bassissimi e, soprattutto, un’incertezza cronica nel pagamento, che spesso arriva dopo un anno o più. A questo si aggiunge il sovraccarico di udienze, che rende difficile costruire un rapporto autentico con l’assistito. Infatti conosco bene quella sensazione di essere un fascicolo tra molti. Ti siedi davanti a un giudice e sai che chi dovrebbe parlare per te non ha avuto il tempo di studiare il fascicolo e improvvisa una difesa sbrigativa. Una mera formalità procedurale. Il sociologo statunitense Matthew Clair, nella sua ricerca condotta nei tribunali di Boston (Privilege and Punishment: How Race and Class Matter in Criminal Court, Princeton UP, 2020), ha osservato come il semplice rapporto tra avvocato e imputato rifletta le disuguaglianze sociali: i più istruiti tendono a dialogare con il legale e negoziare strategie, mentre i poveri e le minoranze si mostrano diffidenti, rassegnati, e finiscono per subire passivamente il processo. Credo che, se si svolgesse anche in Italia un simile studio empirico, i risultati non sarebbero molto diversi. Ricordo che, mentre ero detenuto, avevo collaborato con un ricercatore, Alvise Sbraccia, mentre svolgeva interviste a detenuti stranieri. Molti raccontavano di essere stati “difesi per modo di dire”, denunciando come la loro esperienza con la legge fosse stata segnata dalla mancata conoscenza della lingua e dall’assenza di un legale di fiducia (Migranti tra mobilità sociale e carcere. Storie di vita e processi di criminalizzazione, Franco Angeli, 2010). Allora pensavo che queste criticità riguardassero soprattutto gli immigrati, intimamente diffidenti verso una giustizia visibilmente severa. Ma oggi vedo che le stesse dinamiche si ripetono per chiunque viva in condizioni di vulnerabilità: italiani compresi. Persone che parlano perfettamente la lingua, ma che assistono passivamente a condanne patteggiate in processi troppo celeri. Non è una questione di lingua o di razza, è una questione di classe, ed è, soprattutto, una questione politica. Perché quando il diritto diventa strumento di esclusione, e quando il principio di eguaglianza davanti alla legge è affidato a difensori privi dei mezzi per esercitarlo, significa che si è scelto (consapevolmente o meno) di trasformare un istituto nato per riequilibrare le disuguaglianze in un meccanismo che le riproduce. Le conseguenze di una giustizia sbrigativa sono visibili dentro e fuori le carceri. Dentro, perché si svuota di senso la funzione rieducativa della pena. Fuori, perché la retorica della recidiva alimenta paura, stigma e intolleranza verso il diverso, il povero e l’ex detenuto. E così la giustizia, che dovrebbe essere garanzia di diritti, diventa un nuovo confine sociale. Perché nessuno venga più “difeso per modo di dire”, bisogna ripensare la difesa d’ufficio e il gratuito patrocinio come servizio pubblico essenziale: compensi adeguati, tempi certi di liquidazione, risorse per una vera difesa. Ma soprattutto, serve restituire dignità al rapporto tra difensore e difeso, perché i processi penali sono spesso storia di fragilità e la difesa è sempre un atto di fiducia, anche quando è patrocinata dallo Stato. *Ristretti Orizzonti Giovanni Bachelet e il senso della giustizia riparativa di Errico Novi Il Dubbio, 8 novembre 2025 “Sia mio padre sia Aldo Moro, che la Costituzione l’ha pure scritta, sarebbero di certo contenti che l’articolo 27 della Carta, almeno nel caso di Anna Laura Braghetti e di altri, è stato rispettato: la pena deve rieducare, dare un’altra possibilità”. Hanno molto colpito, le parole di Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio, l’allora vicepresidente del Csm ucciso nel 1980 da un commando di cui faceva parte proprio Braghetti. Il figlio del professore al quale oggi è intitolata la sede stessa del Csm è un cattolico autentico, e straordinario. Ma fra la restorative justice introdotta nel 2021 da Marta Cartabia e le vittime del terrorismo brigatista c’era già un nesso molto chiaro. Com’è noto, Cartabia prefigurò, almeno idealmente, gli interventi poi firmati come ministra guardasigilli in un saggio pubblicato, nell’ottobre 2020, con il criminologo Adolfo Ceretti, “Un’altra storia inizia qui”. Ebbene: proprio Ceretti, cinque anni prima, era stato autore di un altro volume, “Il libro dell’incontro”, in cui raccontava il proprio impegno nel favorire un clamoroso archetipo di giustizia riparativa: i colloqui che, insieme con i coautori Claudio Mazzuccato (giurista) e Guido Bretagna (sacerdote) aveva reso possibili fra gli ex br e alcune loro vittime. Tra i protagonisti della restorative justice ante litteram vi furono anche Agnese Moro e Franco Bonisoli, componente del commando che pianificò il rapimento e poi l’esecuzione dello statista Dc. Può apparire persino scontato, il legame (e addirittura la derivazione sistemica) tra le storie legate agli anni più bui della Repubblica e le novità introdotte da Cartabia nel 2021 (con la legge delega numero 134 attuata, l’anno dopo, con decreto legislativo 150). Sembra un’evoluzione naturale, eppure il limite della giustizia riparativa in Italia trova un corrispettivo proprio nell’eccezionalità delle sue premesse storiche. Sono straordinarie e non facilmente ripetibili, nel nostro Paese, le parole pronunciate Giovanni Bachelet non solo giovedì dinanzi alla morte di Braghetti (“sia mio padre sia Aldo Moro, che la Costituzione l’ha pure scritta, sarebbero di certo contenti che l’articolo 27 della Carta, almeno nel caso della Braghetti e di altri, è stato rispettato: la pena deve rieducare, dare un’altra possibilità”). Già durante le solenni esequie del padre, l’allora 25enne Bachelet junior ebbe a dire: “Preghiamo anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”. È come se le testimonianze di Agnese Moro, o del figlio del vicepresidente Csm assassinato nell’ 80, conferissero, per contrappunto, un peso ancora più desolante al quadro generale. Basta considerare la limitatissima diffusione della giustizia riparativa nelle carceri una volta entrato in vigore il decreto legislativo 150: un anno dopo, nel 2023, riferiscono i dati di Antigone più volte citati su queste pagine, i programmi riconciliativi erano stati attivati in appena 13 carceri sugli oltre 200 istituti di pena (minorili inclusi) esistenti nel Paese. Ridottissima l’adesione dei detenuti, che in genere optano per proposte trattamentali in grado di concedere loro, almeno in prospettiva, la fruizione di benefici all’esterno della prigione. Sempre per l’associazione presieduta da Patrizio Gonnella, a Busto Arsizio solo 10 detenuti su oltre 450 avevano aderito al programma riconciliativo. Ed erano appena 15 su 690 a Genova e 55 su 990 a Santa Maria Capua Vetere. Vuol dire che la restorative justice è in affanno al di là degli attriti che sembra generare, anche secondo una parte dell’avvocatura, con la presunzione d’innocenza: è vero che l’accesso (anzi, l’invio, da parte del giudice) agli incontri con la vittima è previsto anche prima della condanna definitiva ma, come si vede, la “scarsa popolarità” resta pure quando le condanne passano in giudicato. Le tensioni, in termini di principio, possono essere anche forti, ma non bastano a spiegare la debole penetrazione dell’istituto, la scarsa comprensione del valore civile che la riparazione, il dialogo reo- vittima, può avere non solo per le vite dei protagonisti, ma nella stessa percezione collettiva della giustizia penale. In un saggio scritto con il giornalista del Corriere della Sera Edoardo Vigna, “Oltre la vendetta. La giustizia riparativa in Italia”, il magistrato Marcello Bortolato, giudice di sorveglianza che dedica ogni possibile sforzo ad affermare il valore rieducativo della pena, sostiene che la riconciliazione rappresenta “qualcosa di rivoluzionario” perché “nella sua sostanziale contrapposizione alla giustizia punitiva, mette in crisi principi consolidati e molte delle nostre certezze, e soprattutto rompe quella verticalità che da sempre assiste il processo”. Ma forse è proprio la dimensione della “rottura” con il quadro generale, a compromettere la diffusione del principio. Sempre Giovanni Bachelet, nelle dichiarazioni rilasciate giovedì, ha chiuso con un’analisi rivelatrice: “Quando la pena non è una condanna senza speranza, è un successo della nostra democrazia, della nostra Costituzione” Bene. Ma non si può tacere della freddezza che il governo Meloni e l’attuale maggioranza di centrodestra hanno manifestato proprio nei confronti del “diritto alla speranza” per gli ergastolani ostativi. E in particolare, per i detenuti colpevoli dei reati di mafia e terrorismo. Addirittura, il primo provvedimento dell’attuale Esecutivo è consistito in un decreto sulla concessione della libertà ai condannati all’ergastolo per mafia che non “collaborano” con la giustizia. Decreto “imposto” da una precedente, celebre ordinanza della Corte costituzionale, la 97 del 2021, ma che ha finito per subordinare lo spiraglio voluto dalla Consulta a condizioni così stringenti da rendere il “diritto alla speranza” di fatto inaccessibile. Proprio Cartabia, da giudice e presidente della Corte, aveva contribuito, con Giorgio Lattanzi, ad aprire la breccia dello Stato di diritto nel muro dell’ergastolo ostativo. Ma la soluzione poi trovata dal governo successivo a quello, presieduto da Mario Draghi, di cui Cartabia ha fatto parte è la più plastica dimostrazione di quanto sia impopolare, in Italia, un’idea riconciliativa e non vendicativa della giustizia penale. Quel perdono trasformante. La morte dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti di Lucio Brunelli L’Osservatore Romano, 8 novembre 2025 Anna Laura Braghetti, morta ieri 72 anni, è stata una delle militanti più note ed efferate delle Brigate rosse. Nel 1978, quando aveva venticinque anni ed era ancora incensurata, fu una dei carcerieri di Aldo Moro. Quando il prigioniero chiese dei libri lei gli portò delle opere sul marxismo che avevano in casa; gentilmente Moro fece notare che quei libri li conosceva già e avrebbe preferito, possibilmente, una Bibbia e le lettere di san Paolo. L’anno seguente, datasi alla clandestinità, la giovane terrorista partecipò all’attacco contro la sede provinciale della Dc romana, a piazza Nicosia; insieme al brigatista Francesco Piccioni aprì il fuoco contro una volante della polizia accorsa sul posto uccidendo due inermi poliziotti. Nel 1980 sparò a Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, lasciandolo senza vita in un pianerottolo della facoltà di Scienze politiche a La Sapienza di Roma. Sia Bachelet sia Moro insegnavano in quella facoltà: entrambi miei professori, li ricordo come persone miti, credenti veri, dediti con un alto senso del dovere al servizio del bene comune. Arrestata nello stesso anno dell’omicidio Bachelet, la Braghetti non negoziò mai sconti di pena. Rifiutando di unirsi ai “dissociati” o ai “pentiti”. Ma pentita lo fu davvero. Un pentimento graduale e autentico, quindi lancinante, consapevole del terribile male compiuto. E compiuto - questo il paradosso più drammatico di quella storia - in nome di un ideale di giustizia. Nel 1998 Anna Laura Braghetti pubblicò con la giornalista Paola Tavella il libro autobiografico “Il prigioniero” in cui raccontava della prigionia di Moro e dell’assassinio di Bachelet. Mettendosi a nudo scriveva: “Dopo l’azione provai un senso di vuoto assoluto. Per uccidere qualcuno che non ti ha fatto niente, che non conosci, che non odi, devi mettere da parte l’umana pietà, in un angolo buio e chiuso, e non passare mai più di lì con il pensiero. Devi evitare sentimenti di qualunque tipo, perché sennò, con le altre emozioni, viene a galla l’orrore. Ormai lascio che mi succeda, che mi attraversi un’onda di dolore tremendo, la coscienza di avere ucciso un uomo con le mie mani. Lo rivedo dove l’ho lasciato, per terra. La mia punizione non è il carcere, ma quell’immagine. Sono condannata ad averla per sempre davanti agli occhi, e a non volerla scacciare”. L’incontro per lei più imprevisto e trasformante avvenne in carcere, con il fratello dell’uomo che aveva ucciso. Si chiamava Adolfo Bachelet, era un gesuita. Fu lui che andò a cercarla. Ancora una volta non ci sono parole più vere, per raccontare questo incontro, di quelle usate da Anna Laura nel suo libro di ricordi: “Ai funerali di Vittorio Bachelet la famiglia perdonò gli assassini, pregò per me. Adolfo Bachelet prese a girare per le carceri e a intrattenersi con i detenuti politici. Fu così che incontrò Francesca, e le chiese di me. Mi raccontava spesso dei figli e delle figlie dell’uomo che io ho assassinato, ma la domanda “perché proprio mio fratello?” non era un ingombro fra noi. Da lui ho avuto una grande energia per ricominciare, e un aiuto decisivo nel capire come e da dove potevo riprendere a vivere nel mondo e con gli altri. Ho capito di avere mancato, innanzitutto, verso la mia propria umanità, e di aver travolto per questo quella di altri. Non è stato un cammino facile. Quando si ammalò trascorsi molto tempo con lui, e verso la fine mi disse: “Io muoio, ma non ti lascio sola, perché per te c’è sempre mio fratello Paolo”. Don Paolo è il cappellano della città universitaria. Non sono andata ai funerali di Adolfo. Lo desideravo, ma in quella chiesa sarebbero potute esserci persone cui non posso imporre la mia presenza, per le quali io sono un insulto. Ho mandato una lettera senza firma per ringraziarlo”. A un convegno sul carcere organizzato dalla Caritas, qualche tempo dopo, la Braghetti incontrò il figlio di Bachelet, Giovanni. Si riconobbero e si salutarono. Giovanni le disse: “Bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato”. Anna Laura commentò: “Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”. Forse sono ingenuo o forse è la vecchiaia ma ogni volta che leggo queste pagine mi commuovo nel profondo. E penso che solo un Dio, e un Dio vivo, può fare miracoli così. Il tribunale non è il luogo del dolore: la “sentenza” di Gino Cecchettin di Francesca Spasiano Il Dubbio, 8 novembre 2025 Dopo le polemiche per la condanna all’ergastolo di Filippo Turetta senza le attenuanti della crudeltà e dello stalking, si è detto e scritto che bisognava distinguere tra il piano giudiziario e quello “culturale”. E per la stessa logica, ora che il processo per il femminicidio di Giulia Cecchettin si è chiuso definitivamente, si può dire che l’unica “sentenza” che abbia senso leggere alla società in ascolto, l’ha scritta il papà della 22enne uccisa dall’ex fidanzato l’11 novembre 2023. “Non esiste una giustizia capace di restituire ciò che è stato tolto, ma esiste la consapevolezza che la verità è stata riconosciuta e che le responsabilità sono state pienamente accertate”, spiega Gino Cecchettin. Con una nota che arriva all’indomani della notizia, diffusa dagli stessi legali della famiglia, della rinuncia da parte della procura generale di Venezia di impugnare la condanna all’ergastolo emessa nei confronti di Turetta. La decisione rende definitivo il verdetto di primo grado e mette la parola fine a una vicenda che ha scosso profondamente il Paese, dopo la rinuncia all’appello anche da parte del 25enne detenuto nel carcere veronese di Montorio. Il quale, attraverso una lettera dello scorso ottobre, aveva spiegato di accettare in pieno la pena che gli è stata comminata, assumendosi “piena responsabilità per quello che ho fatto di cui mi pento ogni giorno sinceramente dal profondo del cuore”. Inizialmente la procura aveva deciso di impugnare comunque la sentenza, con l’obiettivo di vedere riconosciute l’aggravante della crudeltà e quella dello stalking, legata nel primo caso all’interpretazione delle 75 coltellate inflitte alla vittima, che a parere dei giudici furono frutto di “inesperienza”. Resta cristallizzata invece la premeditazione, già riconosciuta in primo grado, e contestata dalla difesa nel ricorso che è stato poi ritirato. “Verrebbe naturale pensare di continuare a pretendere giustizia, di cercare ulteriori riconoscimenti della crudeltà o dello stalking. Ma continuare a combattere quando la guerra è finita è, in fondo, un atto sterile. La consapevolezza che è il momento di fermarsi, invece, è un segno di pace interiore e di maturità, un passo che andrebbe compiuto più spesso”, scrive ancora Gino Cecchettin. “La giustizia ha il compito di accertare i fatti, non di placare il dolore. Quel compito spetta a noi: a chi resta, a chi decide di trasformare la sofferenza in consapevolezza e la memoria in responsabilità. Come padre, ho scelto da tempo di guardare avanti, perché l’unico modo per onorare Giulia è costruire, ogni giorno, qualcosa di buono in suo nome”, prosegue la nota. Con parole che confermano l’impegno sociale contro la violenza di genere assunto dalla famiglia con la Fondazione Cecchettin. “Giulia - chiosa il papà - merita di essere ricordata non solo per la tragedia che l’ha colpita, ma per ciò che ha rappresentato: la sua dolcezza, la sua intelligenza, la sua voglia di vivere e di amare in libertà. Il dolore non si cancella, ma può diventare seme. Mi auguro che tutti impariamo a riconoscere e a respingere ogni forma di violenza, e che la cultura del rispetto diventi un impegno condiviso, nella quotidianità e nelle istituzioni. Solo così il sacrificio di Giulia potrà generare un cambiamento reale, profondo, duraturo”. Monza. Il pestaggio in cella, il ricovero in infermeria, il decesso di Stefania Totaro Il Giorno, 8 novembre 2025 Per la morte di un 63enne in carcere indagati per omicidio infermieri e detenuto. Si attendono gli esiti dell’autopsia e i famigliari dell’uomo chiedono che sia fatta chiarezza. Cause naturali o la morte come conseguenza delle botte prese? Sono i due scenari su cui sta lavorando la Procura di Monza. Per il detenuto 63enne italiano morto a metà ottobre nel carcere di via Sanquirico la Procura ha indagato per l’ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale un compagno di cella e per quella di omicidio colposo un infermiere e un medico in servizio nella casa circondariale quando è avvenuta la vicenda ora al vaglio della magistratura. Il decesso dell’uomo, italiano, che soffriva già di svariate gravi patologie, non pare dovuto a cause naturali e si attendono gli esiti dell’autopsia. A insospettire gli inquirenti è stata la lite che il 63enne ha avuto il giorno prima del decesso con un compagno di cella. Il 63enne avrebbe chiesto aiuto lamentando un dolore intenso al costato, conseguenza a suo dire del colpo infertogli dal collega di detenzione. Il caso sarebbe stato affrontato con il trasferimento nell’infermeria del carcere e con la somministrazione di un antidolorifico poi l’uomo sarebbe stato riaccompagnato in cella e separato dal compagno. Ma il dolore non sarebbe passato e all’antidolorifico si sarebbe aggiunto anche un antinfiammatorio. Poi la tragedia. Dopo la morte del detenuto, i carabinieri del Nucleo investigativo di Monza sono entrati in carcere. Escluso il suicidio come possibile causa del decesso, la Procura ha deciso di sottoporre il 63enne all’autopsia per svelare cosa possa averne determinato il decesso. Intanto, per chiarire un eventuale collegamento tra la lite, il presunto colpo all’addome sferrato dal compagno di cella e una ipotetica condotta omissiva da parte dell’infermiere e del medico in servizio, il magistrato ha aperto un fascicolo penale. Intanto i familiari del 63enne hanno deciso di rivolgersi a un legale per fare chiarezza sulla vicenda. Roma. Il convegno “Psichiatria e giustizia: malattia o delinquenza?” avantionline.it, 8 novembre 2025 Idee nuove su cura possibile ed esigenze di tutela sociale. Sabato 8 novembre a Roma, Università La Sapienza di Roma, (aula magna edificio Marco Polo viale dello Scalo di San Lorenzo). Convegno promosso dalla Fondazione Massimo Fagioli. Partecipano magistrati, dirigenti pubblici, giuristi, psichiatri e ricercatori. Un confronto dialettico tra il mondo della psichiatria e quello del diritto sul tema dei pazienti psichiatrici autori di reato. È quanto propone il convegno Psichiatria e giustizia: Malattia o delinquenza? Idee nuove su cura possibile ed esigenze di tutela sociale che la Fondazione Massimo Fagioli ETS ha organizzato per l’8 novembre a Roma, (aula magna edificio Marco Polo, Sapienza Università di Roma, viale dello Scalo di San Lorenzo 82). Il progetto è a cura del Laboratorio Psichiatria (Area Studio e ricerca) con la collaborazione del Laboratorio Cultura, politica, scienza e società (Gruppo Diritti) della Fondazione. Malattia mentale o delinquenza? Quale cura e quali strutture per i cosiddetti folli rei? Quale è il ruolo dello psichiatra nell’attuale organizzazione dei servizi sanitari pubblici? L’esecuzione della pena risponde ai diritti sanciti dalla Costituzione? E infine, quale prevenzione si può adottare rispetto all’insorgere di patologie psichiatriche nei giovani e giovanissimi che possono diventare autori di reato? A queste domande, che suscitano un intenso dibattito pubblico, soprattutto quando i cittadini si trovano di fronte a delitti efferati come i femminicidi e gli omicidi in famiglia e a una narrazione mediatica sensazionalistica, il convegno ha lo scopo di rispondere con idee e proposte sulla base della teoria e della prassi dello psichiatra Massimo Fagioli, in un confronto continuo con giuristi, magistrati e operatori sociali. L’intento è individuare quali possano essere gli indici che consentono di distinguere, in materia di imputabilità, la delinquenza dalla malattia mentale e proporre il percorso di cura/assistenza più opportuno per chi viene riconosciuto come reo infermo di mente e socialmente pericoloso, al fine di riabilitare il paziente anche in termini di reintegrazione nella società. I lavori del convegno prevedono due momenti: durante la mattina dalle ore 10 le relazioni di giuristi e psichiatri svilupperanno il focus Psichiatria e giustizia: Malattia o delinquenza? Nel pomeriggio, si svolgerà la tavola rotonda dedicata ai minori autori di reato. Dopo il saluto di Marcella Fagioli, psichiatra e psicoterapeuta, presidente del Consiglio scientifico di indirizzo della Fondazione Massimo Fagioli e di Cristina Andrizzi, medico e psicoterapeuta, presidente del convegno, seguiranno le introduzioni dei due coordinatori scientifici: Andrea Masini, psichiatra e psicoterapeuta, direttore della rivista di psichiatria e psicoterapia “Il sogno della farfalla” e Francesco Dall’Olio, magistrato, docente della scuola di psicoterapia dinamica Bios Psychè. Con le loro relazioni parteciperanno Mauro Palma, presidente del centro di ricerca European Penological Center dell’Università Roma Tre, già Presidente del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, la giudice Paola Di Nicola, il procuratore Francesco Menditto, il Direttore generale dell’Istituto superiore di sanità Andrea Piccioli, le psichiatre e psicoterapeute Alessandra Carlotto e Viviana Censi, l’avvocato Monica Paglialunga, lo psichiatra forense Niccolò Trevisan. La tavola rotonda, nel pomeriggio, si intitola Il diritto alla speranza con l’intento di indagare il mondo dei minori autori di reato e la possibilità di interventi precoci per prevenire e curare patologie mentali nei giovanissimi. Parteciperanno Carla Garlatti, magistrato, già Autorità Garante nazionale per l’infanzia e adolescenza, Rachele Stroppa, ricercatrice dell’associazione Antigone, Ilaria Usai, avvocato, difensore d’ufficio presso il Tribunale per i minorenni e Laura Castaldo, neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta, coautrici entrambe del libro Giovani autori di reato (L’Asino d’oro edizioni). Coordinano la tavola rotonda Donatella Coccoli, giornalista e Claudia Dario, psichiatra e psicoterapeuta. Torino. “Il carcere restituisce cittadini?”, convegno a Palazzo Barolo di Liliana Perrone lincontro.news, 8 novembre 2025 Sul tema della detenzione, inteso come un processo di restituzione di individui alla società, si è svolto recentemente un incontro a Palazzo Barolo a Torino tra istituzioni ed esperti della materia, in collaborazione e in concomitanza con il Festival di Woman & the City. In una società dove si cerca con molta difficoltà di ricucire gli strappi, è possibile considerare la detenzione, anche di lungo periodo, come un luogo dove, paradossalmente, si possa coltivare la libertà, intesa non come assenza materiale di mura, ma come un ritorno alla consapevolezza di se stessi e come ritorno di cittadini nella comunità? In altri termini, il carcere può essere in grado di accompagnare, di educare e quindi di rigenerare, trasformando le storie di vite spezzate in una speranza per il futuro, per se stessi e per gli altri? Come precisato nel primo intervento delle istituzioni rappresentate dal vice ministro Francesco Paolo Sisto, questa è stata la sfida lanciata dai padri costituenti, laddove l’art. 27 della costituzione italiana stabilisce che la pena, non contraria ai principi di umanità, deve tendere alla rieducazione dell’individuo, quale principio fondamentale dell’ordinamento penale del nostro Paese. Ma quali sono i problemi che ostacolano la piena realizzazione di questo principio? Secondo il rapporto del Governo, il principale problema è quello del sovraffollamento delle carceri e, per questo, sono stati stanziati ben 758 milioni di euro nel triennio per 9600 nuovi posti. Il sovraffollamento è connesso a due fenomeni negativi: lo sdegno (che poi degenera nella rivolta) e la depressione (che poi degenera in atti di atti di autolesionismo, quando nei carcerati viene meno la “fiammella” della speranza). Un rimedio può essere individuato nella dimensione extracarceraria della pena, poichè le statistiche confermano che l’attività lavorativa durante la detenzione, limita la recidiva della popolazione carceraria al solo 2%. Altro punto delicato è quello della sanità all’interno del carcere, di competenza delle Regioni e spesso trascurato, se non del tutto ignorato, dalle stesse. Per il viceministro è importante che per i carcerati brilli sempre la “fiaccola” della speranza per non cadere nella depressione, sentendosi oggetto di attenzione quando qualcuno si occupa dei lori problemi (avvocato difensore, assistenti sociali, volontari). Il percorso di reinserimento nella società dovrebbe iniziare ben prima della fine della pena, per dare continuità al percorso di rieducazione in prospettiva del reinserimento positivo nella società civile. Per Mauro Palma, già garante per i diritti delle persone private della libertà - che non vuole siano definiti detenuti - il problema del sovraffollamento è uno dei problemi dell’universo carcerario, ma non il solo e forse non il principale, pur essendo vero che la popolazione carceraria è cresciuta in maniera esponenziale essendo nel 1975 pari a 35.000 unità (senza misure alternative non ancora presenti) poi salite a 100.000 nel 2016 (già in presenza di misure alternative al carcere) per raggiungere le 170.000 unità (di cui il 40% stranieri) nel 2024. Secondo l’ex magistrato un problema della società attuale è quello della politica penale, in quanto la collettività viene “abituata” all’intervento penale, ritenuto in passato solo sussidiario, Paradossalmente si è arrivati all’intervento penale anche per i genitori che non mandano i figli a scuola! Uno spiraglio viene aperto dalla cosiddetta giustizia ripartiva, dove in alternativa alla pena detentiva viene data la possibilità di riparare i propri sbagli, con particolare attenzione ai giovani (ad esempio con la “messa in prova” nella società). Sul fronte femminile si possono poi osservare altre peculiarità della problematica, messe in evidenza dalle associazioni di genere che si occupano di detenute. Le donne rappresentano solo il 42% della popolazione carceraria italiana e per esse, quindi, il problema del sovraffollamento non è cosi stringente. Il focus dovrebbe invece essere sui servizi, in particolare per il periodo post detenzione. La principale preoccupazione per le donne straniere che escono dal carcere riguarda il permesso di soggiorno: se esso non viene concesso o rinnovato, le donne straniere seppur ormai libere devono “nascondersi” e rendersi quindi invisibili nella società civile per via della distanza istituzionale su questo punto. Non si dimentichi che, statisticamente, le donne sono più collaborative nel processo di rieducazione durante il periodo della detenzione, generalmente imparando un mestiere per il periodo post pena. In punto, è bene ricordare, seppur cosa ovvia, che la funzione rieducativa della pena deve necessariamente prevedere la collaborazione fattiva del detenuto/a, senza la quale la rieducazione diventa davvero difficile, se non impossibile. La rieducazione dei detenuti - attraverso l’offerta di istruzione, formazione e lavoro - deve coinvolgere non solo lo Stato ma anche le comunità e i territori e deve essere considerata quale un mezzo per raggiungere un risultato, quale, per l’appunto, il reinserimento sociale. Anche il tempo diventa determinante per la rieducazione: difficilmente un periodo di pena breve tenderà alla rieducazione del detenuto e al suo positivo futuro reinserimento nella società civile. Non si dimentichi che, a tutt’oggi, ben 1400 detenuti scontano una pena inferiore a un anno, per i cosiddetti reati di “povertà”. Una considerazione basata sui numeri; nei primi 1000 giorni dell’attuale governo i detenuti sono aumentati del 6,5% e se tale trend viene confermato, come probabile, nei prossimi tre anni aumenteranno di 7100 unità. Pertanto, i nuovi 9600 promessi non risolveranno comunque in maniera significativa il problema del sovraffollamento nelle carceri. Un’alternativa al progetto di edilizia carceraria potrebbe essere la ristrutturazione e il ripristino di vecchie numerose strutture ormai in disuso. Quale è il punto di vista delle persone preposte in maniera diretta alla gestione e alla cura della popolazione carceraria? Nelle nostre carceri vi è ancora la radice della speranza, posto che lo scontare la pena costituisce solo una fase della vita e il dopo rappresenta il tornare o il divenire cittadini? La considerazione della direttrice del carcere di Torino parte dal punto che generalmente le condanne arrivano molto tempo dopo la commissione del fatto criminoso e spesso, fortunatamente, vi è una sconnessione tra il prima e il dopo. Per una efficace rieducazione si deve lavorare sull’individualità del detenuto/a, ognuno con personalità diverse, più o meno complesse. L’art 27 della Costituzione italiana parla infatti di pene al plurale ma al singolare per quanto riguarda il condannato da rieducare. Per quanto ovvio, il sovraffollamento delle carceri rende decisamente più difficile il lavoro individuale della rieducazione dei detenuti. Alla domanda quale sia il problema principale, dopo la fine della pena, per il reinserimento nella società, la direttrice del carcere non ha dubbi: la casa in primis e poi il lavoro. Spesso, agli ex detenuti, la società civile, senza l’aiuto della famiglia, riesce soltanto ad offrire un posto in un dormitorio. Argomento ora attuale nelle carceri è il diritto all’utilizzo della cosiddetta “camera dell’affettività” a seguito di una recente pronuncia della Corte Costituzionale che ha riconosciuto tale diritto ai detenuti. Pur essendo un deciso passo in avanti nel riconoscimento dei diritti umani ai carcerati, la preoccupazione della direzione e del personale penitenziario riguarda l’aspetto della sicurezza dell’ospite il quale, senza la supervisione delle guardie carcerarie, potrebbe teoricamente correre dei pericoli. r concludere, come potrebbe oggi essere concepita una giustizia “giusta”? Mauro Palma, dalla sua lunga e consolidata esperienza in campo giudiziario, propone l’osservazione dell’affresco senese del XIV secolo di Ambrosio Lorenzetti rappresentante l’allegoria del buon governo: la giustizia è rappresentata da un maestoso personaggio femminile seduto su di un trono con la bilancia, i cui due piatti sono però manovrati dall’alto dalla sapienza, ricongiungendosi in basso con due fili alla concordia. Di tutta evidenza il messaggio allegorico dell’affresco senese: la saggia amministrazione della giustizia, determinando coesione porta alla prosperità e alla serenità del Paese. Nel medioevo come ai nostri giorni. Brindisi. Il carcere come luogo di umanizzazione: torna il progetto “Qui ed Ora” brindisireport.it, 8 novembre 2025 Anche quest’anno la Cooperativa sociale Il Sogno con sede a San Pietro Vernotico, avvia all’interno della Casa circondariale di Brindisi, la seconda edizione del progetto Dike 2 “Qui ed Ora”, riguardanda l’Avviso pubblico del dipartimento Amministrazione penitenziaria - Provveditorato regionale - Puglia e Basilicata. Il bando interviene sulla fragilità della detenzione con la finalità di rendere il carcere un luogo di umanizzazione e trasformazione, dove la pena non sia una sospensione della persona, ma un’occasione di riscatto. È un investimento nella sicurezza collettiva, ma soprattutto nella dignità dell’essere umano. Il sovraffollamento degli Istituti penitenziari, come quello della Casa circondariale di Brindisi d’altra parte non toglie solo spazi vitali, ma anche la possibilità di lavoro e di svolgere attività che spezzino la monotonia della vita penitenziaria con l’aumento dei detenuti vulnerabili, tossicodipendenti, senza fissa dimora, persone fragili, che in carcere acutizzano i loro problemi, diventando detenuti con disagio psicologico. La denominazione “Qui ed Ora” nasce dalla volontà di offrire alle persone detenute strumenti concreti per coltivare la consapevolezza del momento presente e migliorare la qualità della vita in carcere, ponendo le basi per un cambiamento profondo e duraturo con l’obiettivo di: favorire il benessere psicofisico attraverso pratiche di mindfulness e presenza consapevole; ridurre l’ansia, la ruminazione mentale e l’aggressività; rafforzare la capacità di autoriflessione e gestione emotiva; sostenere un percorso di responsabilizzazione e riconnessione con sé stessi e gli altri. L’approccio metodologico del team professionale della Cooperativa sociale Il Sogno si basa su aspetti mutuati dalla psicologia, pedagogia umanistica e dalle tecniche di educazione non formale. Agli incontri condotti da esperti pedagogici, psicologi e operatori sociali partecipano sedici detenuti, su propria richiesta, convalidata dall’area trattamentale. Le attività di intervento prevedono: Assistenza personalizzata attraverso azioni di Counselling di gruppo il cui obiettivo principale è quello di fornire uno spazio collettivo di riflessione circa le potenzialità, le emozioni e la loro gestione, i punti di forza e le aree di miglioramento di ogni singolo allievo-detenuto in merito al processo di reinserimento e socializzazione. I temi affrontati in sede di gruppo sono: atteggiamento relazionale, attribuzione causale, autoefficacia, autonomia, autostima, benessere, coping, gestione dello stress, stabilità emotiva. Azione di supporto all’inserimento lavorativo attraverso l’attivazione di n. 5 tirocini formativi di n. 20 ore ciascuno all’interno della stessa Casa Circondariale di Brindisi. Corso Grafica Base , che permetterà di acquisire le competenze e le metodologie di applicazione di base per la decorazione di insegne, cartelli, vetrate e muri. Laboratorio ricreativo di lettering introspettivo combina l’apprendimento delle tecniche del fumetto con percorsi terapeutici e riflessivi, offrendo ai partecipanti un mezzo per esplorare e comunicare le proprie esperienze personali far conoscere fuori dalle mura del carcere le voci dei detenuti contribuendo alla didattica, alla rieducazione, ma soprattutto a mitigare l’isolamento delle persone detenute con la realizzazione di un contenuto grafico, che sarà oggetto di mostra itinerante, che sia promotore di un punto di vista spesso poco ascoltato nella nostra società, quello dei detenuti. Firenze. Dal carcere al teatro, un’occasione di rinascita per i detenuti di Sofia Danti La Nazione, 8 novembre 2025 Al via l’undicesima edizione della rassegna di teatro in carcere Destini Incrociati, a cura del Teatro Popolare d’Arte e del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. “L’auspicio è quello di superare lo stigma del carcere e di generare ponti tra persone, ruoli, sensibilità. “Una rassegna che serve a sensibilizzare sul ruolo del teatro in carcere, per fare entrare le persone nei meccanismi pedagogici e didattici alla base del progetto”, afferma Francesco Giorgi, a capo della direzione organizzativa della Compagnia Teatro popolare d’arte. È stata presentata venerdì 7 novembre, alla biblioteca delle Oblate, l’undicesima edizione di Destini Incrociati, la rassegna nazionale di teatro in carcere promossa dalla Compagnia Teatro popolare d’arte e dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, con il sostegno del ministero della Cultura e della Regione Toscana. “La Toscana è una regione che promuove in modo significativo esperienze di teatro in carcere. Ha ospitato la prima rassegna di Destini Incrociati, e adesso ospita quella di quest’anno”, ha affermato Michalis Traitsis, del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. L’obiettivo della rassegna è quello di portare sulla scena la visione di spettacoli, video e presentazioni tutte incentrate sul lavoro del teatro in carcere, realizzato da persone ‘invisibili’, recluse in spazi non accessibili al pubblico, che, con questo progetto, si aprono alla visione di tutti. Da qui il nome dell’edizione 2025 intitolata “Le Città Visibili. L’arte del teatro sulla scena del carcere” - con la commissione artistica composta da Ivana Conte, Grazia Isoardi, Vito Minoia, Valeria Ottolenghi, Gianfranco Pedullà e Michalis Traitsis - che si svolgerà dal 12 al 15 novembre tra Firenze, Livorno e l’Isola della Gorgona. Anche l’immagine della rassegna, realizzata dal designer Marco Capaccioli ribadisce questo concetto. Da una pietra della Gorgona escono fuori figure umane, gli interpreti degli spettacoli teatrali, che tornano a essere protagonisti per una possibilità di riscatto e di reinserimento nella società. L’apertura ufficiale della rassegna è in programma mercoledì 12 novembre a Firenze, al Saloncino della Pergola, con l’incontro “Il senso del teatro in carcere”, che vedrà la partecipazione di studiosi e istituzioni, tra cui la regista americana Jean Trounstine, la prima ad aver sviluppato un progetto teatrale in un carcere femminile negli Stati Uniti. Seguirà la performance musicale “Innocentevasione” de I Cella Musica, band nata all’interno del carcere di Siena, composta da detenuti, personale esterno, agenti e musicisti professionisti. La rassegna proseguirà poi tra Livorno e Gorgona con spettacoli, incontri, laboratori e una ricca documentazione video dedicata alle esperienze teatrali delle edizioni precedenti e al progetto Il Filo di Arianna, il secondo episodio di Labirinti guidato da Traitsis. Tra gli appuntamenti più attesi la rappresentazione dello spettacolo “La città invisibile” della Compagnia Teatro Popolare d’Arte all’Isola della Gorgona, che si terrà venerdì 14 novembre alle 11.30 alla Casa di Reclusione. Il teatro come occasione di rinascita. È questa la direzione in cui si muove il progetto, proprio come sottolinea Giorgi: “Nella nostra esperienza di Gorgona iniziata nel 2019 abbiamo avuto occasione di vedere la crescita delle persone con cui abbiamo lavorato, soprattutto legata al fatto di uscire dal carcere come persone nuove. Spesso si pensa al carcere come un luogo dove abbandonare i reietti della società, ma in realtà è come se fosse un ospedale, dove si va per curarsi e tornare in salute. Il teatro è a tutti gli effetti una grandissima cura. Il nostro lavoro va in quella direzione lì”. Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere: “L’auspicio è quello che manifestazioni di questo tipo possano essere utili a superare lo stigma del carcere e a generare ponti tra persone, ruoli, sensibilità al fine di vivere più consapevolmente una società inclusiva”. Droghe. Conferenza nazionale sulle dipendenze: nessun confronto tra Movimenti e Governo di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 novembre 2025 Si apre a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze. Ma senza il Terzo settore. Sei chilometri di distanza appena separano due mondi completamente diversi, due approcci opposti, due paradigmi culturali alternativi. Da un lato c’è “l’obiettivo liberi dalla droga e dalle dipendenze” (vasto programma che conta almeno tre quarti di secolo di fallimenti, morti ed emarginazione), c’è “il bene e il male” (testuale), c’è l’”Insieme si può” (ma senza le associazioni del Terzo settore né i consumatori) e pure l’”approccio integrato” (ma su un binario unico). Dall’altro si persegue soprattutto la libertà dai pregiudizi e dall’ideologia dominante, si contano i danni del proibizionismo, considerati peggiori di quelli delle dipendenze, si analizzano e diffondono i dati che gli stessi organi governativi producono, si discute di scienza con esponenti dell’Onu che osano rompere le fila della “war on drugs”, e in videoconferenza c’è chi testimonia buone pratiche di riduzione del danno e ottimi risultati anche sulla sicurezza pubblica in città quali Amsterdam o Barcellona. Nessun dialogo tra la VII Conferenza nazionale governativa sulle dipendenze che si è aperta ieri all’Auditorium della Tecnica a Roma con gli interventi delle massime istituzioni italiane, presidente Mattarella compreso, e la Controconferenza autoconvocata da tutti i movimenti antiproibizionisti che per tre giorni anima la Città dell’Altra economia. E che ritorna necessaria dopo quella di Trieste nel 2009. Perché invece nel 2021, a Genova, le associazioni del Terzo settore si riunirono in una “Fuoriconferenza” in colloquio continuo con l’assemblea governativa voluta dall’allora ministra Dadone (M5S), e alla fine ne scaturì un piano d’azione subito cestinato dall’attuale governo. All’auditorium della Tecnica i vari tavoli hanno discusso separatamente e in contemporanea, all’affannosa “ricerca delle motivazioni per cui si creano dipendenze” e nel “tentativo di costruire consapevolezza per superare e vincere il problema”, come riassume il presidente del Senato La Russa. Gli onori di casa toccano al sottosegretario Mantovano, delegato alle droghe, che illustra le cinque “macroaree di intervento” e fa appello ai giornalisti (presenti in massa ma confinati nella sala stampa) per una “informazione non intrisa di messaggi devianti”. Anche Papa Leone invia il suo contributo e parla di fragilità e paura del futuro, soprattutto dei giovani. Il presidente Mattarella infrange il programma protocollare per un breve ma intenso augurio di buon lavoro, mentre il sindaco di Roma Gualtieri osa proporre il contrasto “alla mentalità che scarta invece di includere”. Ed è l’unica voce leggermente dissonante. La premier Meloni è entusiasta e partecipe (non quando parla Gualtieri, però); esalta “l’impegno corale delle istituzioni per salvare le persone dal giogo della dipendenza”, annuncia un “piano di prevenzione al fentanyl” (ma in Italia il problema è semmai il crack) e ammette l’interesse identitario - il tema droghe, dice, è una di quelle “sfide che definiscono ciò che siamo e che vogliamo diventare”. Poi assicura che “il governo è pronto a rendere operative le proposte che usciranno dalla Conferenza” che si concluderà oggi. Tra le proposte potrebbe emergere quella trasformata in un ddl che dispone la detenzione domiciliare in comunità dei detenuti tossicodipendenti che scontino pene, anche residue, non superiori a 8 anni. Detenzione riservata solo a coloro che accettano “un programma terapeutico residenziale presso una struttura privata autorizzata” e che abbiano commesso reati correlati alla tossicodipendenza. La proposta non è nuova, fu anticipata al tempo del decreto Sicurezza ma malamente accolta dalle comunità; la maggioranza però sembra voler insistere. C’è poi la questione delle risorse stanziate: “in aumento”, secondo Meloni. La premier ieri ha parlato della graduatoria (appena pubblicata) dei bandi finanziati con l’8 per mille dell’Irpef destinato ai progetti di prevenzione e recupero delle dipendenze patologiche. Dei 17 milioni e 220 mila euro, la fetta maggiore è andata ad alcune comunità come la Cooperativa Pars di Macerata, beneficiaria di ben 4 milioni, la Fondazione Eris Ets con 2,1 milioni e la Comunità Incontro di don Gelmini con quasi 1,7 milioni. Nell’elenco figurano però anche alcune strutture affiliate alla Cnca, uno degli attori della Controconferenza. Sei chilometri più in là, alla Città dell’Altra economia, la sala stracolma non si è svuotata mai da giovedì sera, quando si sono aperti i lavori con centinaia di associazioni, esperti e partecipanti provenienti da ogni parte d’Italia e non solo. Si discute di leggi e di riforme, in Europa e nel mondo, di repressione e impatto sul sovraffollamento carcerario, delle nuove politiche di riduzione del danno che non contemplano solo interventi sanitari ma si muovono su più piani, riconoscendo “il nesso tra le politiche razziste, colonialiste, patriarcali e il proibizionismo”. I partiti d’opposizione si siedono attorno a un tavolo e discutono: Magi (+Europa), Fratoianni (Avs), Furfaro (Pd) e Quartini (M5S) si interrogano anche sui fallimenti del centrosinistra, accusano il governo di “paternalismo” e le politiche panpenaliste di farsi strada attraverso una propaganda massiccia che annulla la realtà. La sfida che hanno davanti è tenere insieme “idealità e concretezza”, e far confluire nel programma del campo largo le proposte che concluderanno oggi la Controconferenza. Droghe. “Noi contrari alla politica repressiva e per questo esclusi dal convegno” di Viola Giannoli La Repubblica, 8 novembre 2025 “Una conferenza escludente, repressiva e già scritta”. Stefano Vecchio, presidente del Forum droghe, parla dalla Città dell’Altra economia di Roma dove associazioni della società civile come Antigone, Coscioni, Cnca, Gruppo Abele, operatori, esperti e persone che usano sostanze hanno convocato una “Contro-conferenza sulle dipendenze”, il controcanto a quella istituzionale. Perché questa iniziativa? “Anzitutto perché stavolta siamo stati esclusi dai tavoli di confronto mentre quattro anni fa eravamo protagonisti attivi. E poi perché non condividiamo l’approccio del governo, abbiamo una visione alternativa”. Partiamo da qui: cosa non va nelle politiche dell’esecutivo? “Sono fondate sulla repressione, sulla patologizzazione, sulla stigmatizzazione e sulla marginalizzazione dei cosiddetti tossici. Ed è così dagli anni 90. Bisognerebbe essere onesti e prendere atto che le politiche sulle droghe hanno fallito”. La repressione non funziona? “La stessa relazione che Mantovano ha presentato al Parlamento ci dice che non solo il mondo non si è liberato dalle droghe ma che i consumi sono aumentati e il mercato delle sostanze si è diversificato. È un copione perdente che passa per il decreto anti-rave, l’assimilazione della cannabis light priva di effetti psicoattivi, il nuovo codice stradale che è una legge sulle sostanze mascherata. Non funziona e ha effetti sociali gravi: un terzo dei detenuti è in carcere per reati legati alle droghe, un sovraffollamento esploso anche negli istituti minorili a causa del decreto Caivano”. Qual è la vostra alternativa? “Serve una riforma strutturale della legge sulle droghe depenalizzando il consumo, rimodulando le pene per lo spaccio e prevedendo misure alternative al carcere nelle comunità e nei progetti territoriali di inclusione sociale. Vogliamo l’applicazione delle politiche di riduzione del danno previste nei Lea. Chiediamo una riforma del sistema dei servizi pubblico-privati, oggi incentrato solo sui SerD, con la promozione del ruolo dei Comuni. E la legalizzazione almeno della cannabis. Quella che il governo erroneamente chiama “lotta alla droga” è una lotta alle persone che consumano, mentre dovrebbe essere una lotta alle mafie e alla criminalità organizzata. Chi consuma va accolto, recuperato e responsabilizzato”. Droghe. Il futuro delle sostanze psichedeliche nelle terapie è già qui. Ma non in Italia di Marco Perduca Il Manifesto, 8 novembre 2025 Il potenziale terapeutico delle sostanze psichedeliche sta scatenando, per ora non in Italia, un’esplosione di discussioni sui media generalisti; la copertura mediatica della ricerca sulle sostanze psichedeliche ha rafforzato l’interesse pubblico per l’uso medico e non delle molecole. Del presente psichedelico se ne è parlato a Roma in apertura della Contro-conferenza sulle droghe, autoconvocata dalla società civile in contrapposizione a quella del governo. Il 2025 ha visto importanti passi avanti legislativi in Norvegia, Germania, Repubblica Ceca e Ucraina, che si aggiungono a quanto è già possibile in Svizzera, Canada e Australia ed esperienze statuali negli Usa. Progressi significativi si sono registrati negli studi clinici da aziende come Cybin, Compass Pathways e MindMed. A inizio novembre, l’alleanza europea PAREA.eu ha scritto a Ursula von der Leyen perorando maggiori finanziamenti per la ricerca con particolare attenzione alla salute mentale. Dal 2024 è attivo PsyPal un consorzio di studio e trial clinici sostenuto dal programma Horizon Europe con, soli, 6 milioni di euro. Grazie a legislazioni innovative e a solide infrastrutture di ricerca pubblica e privata, il Nord America guida ricerche e sperimentazioni psichedeliche preparandosi ad affrontare processi di riconoscimento istituzionali per: Mdma, Psilocibina, Lsd e Dmt. Oltre alla possibilità di cure efficaci, gli psichedelici rappresentano un’opportunità di investimento ad alto rischio e, quindi, ad alto rendimento, opportunità trainate dalla crescente domanda di risposte innovative alla crescente attenzione sulla salute mentale. Gli investimenti si concentrano principalmente su aziende biotecnologiche e farmaceutiche che conducono trial clinici per terapie accompagnate da psichedelici. Le previsioni di mercato variano notevolmente, per il biennio 2024-25 si stimano investimenti tra i 3,6 e 4,1 miliardi di dollari. I brevetti sulle molecole psichedeliche sollevano preoccupazioni legate alle loro proprietà, la loro storia e gli usi tradizionali o cultuali. La loro sessantennale criminalizzazione non ha consentito la formazione di personale specializzato per la loro regolamentazione, l’Ufficio Brevetti e Marchi degli Usa non ha personale con esperienza nel campo. Questa mancanza di competenze rende molto discutibile la qualità della valutazione dei brevetti che iniziano a essere richiesti. Inoltre, poiché le comunità indigene hanno aperto la strada a molti aspetti delle moderne terapie psichedeliche, la brevettazione da parte di aziende occidentali potrebbe portare alla biopirateria, lo sfruttamento economico della conoscenza indigena senza alcun compenso a chi ha elaborato conoscenza per secoli. Il controllo degli psichedelici da parte di un numero limitato di aziende potrebbe soffocare l’innovazione e ridurre l’accesso alle terapie. Si inizia a riflettere su soluzioni che prevedano impegni ad hoc sui brevetti psichedelici, creazione di archivi sullo stato dell’arte psichedelica e l’inasprimento dei requisiti di brevettabilità per le nuove terapie, fino a ritenere opportuno, come suggerisce un saggio sulla Harvard Law Review, considerare gli psichedelici come strumenti di scoperta scientifica, idonei solo per una limitata tutela brevettuale. Le Convenzioni Onu furono adottate per favorire l’accesso a sostanze psicoattive per motivi medico-scientifici, pur ancora stigmatizzate come “pericolose”, le molecole psichedeliche, come la cannabis, possono essere impiegate in vari contesti, occorre che, anche in Italia, domanda e offerta terapeutica si incontrino grazie a pazienti e medici determinati e col coraggio necessario per questo nuovo inizio. Migranti. Il silenzio assordante delle autorità italiane sul Cpr in Albania di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2025 Le autorità competenti non hanno risposto. Dopo tre mesi dall’invio di una relazione dettagliata, circostanziata, corredata di dati e testimonianze, il Prefetto di Roma Lamberto Giannini e il Capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione Rosanna Rabuano non hanno fornito alcun riscontro alle osservazioni presentate dai garanti dei detenuti Valentina Calderone (Roma Capitale) e Stefano Anastasìa (Regione Lazio) sulla situazione del Centro di permanenza per i rimpatri di Gjadër, in Albania. Un silenzio che pesa come un macigno e che solleva interrogativi inquietanti sulla trasparenza e sulla volontà di confrontarsi con chi, per mandato istituzionale, ha il compito di vigilare sui diritti delle persone private della libertà. La relazione, datata 3 ottobre 2025, è il frutto di una visita ispettiva condotta il 29 e 30 luglio scorsi presso la struttura albanese che, sulla carta, dovrebbe rappresentare una soluzione innovativa alla gestione dei flussi migratori. Sulla carta, appunto. Perché ciò che emerge dalla lettura della relazione dei garanti, è un quadro ben diverso: un centro costoso, sottoutilizzato, con criticità gravi che riguardano il rispetto dei diritti fondamentali delle persone ivi trattenute. Partiamo dai dati, che sono incontrovertibili e rendono plastica l’assurdità della situazione. Al momento della visita dei garanti, nel CPR di Gjadër erano presenti 27 persone. Ventisette. A fronte di una capienza di 144 posti regolamentari, con 96 posti contestualmente disponibili. Ventisette persone trasferite dall’Italia all’Albania, in una struttura che ha visto transitare, da aprile a luglio 2025, 140 persone di cui 113 già dimesse per i motivi più vari: 40 per mancata proroga del trattenimento, 37 rimpatriate, 15 per inidoneità sanitaria, 7 per riconoscimento della protezione internazionale. E mentre a Gjadër i posti restano vuoti, i CPR italiani non soffrono di alcuna condizione di sovraffollamento. Lo scrivono nero su bianco i garanti: il trasferimento in Albania non trova alcuna giustificazione pratica. Se non quella, non detta ma evidente, di alimentare una narrazione politica. Ma a quale prezzo? “Ingente costo per il bilancio pubblico”, complicazioni nelle comunicazioni, compromissione “in maniera rilevante” del diritto alla difesa. Quando la relazione entra nel merito delle condizioni di trasferimento, il quadro si fa ancora più inquietante. I garanti hanno ascoltato venti delle ventisette persone presenti. E tutte, senza eccezione, hanno raccontato la stessa storia: durante i lunghi trasferimenti in nave da Bari a Shëngjin, sono stati costretti a tenere i polsi legati con fascette di plastica. Per ore. Impedendo loro qualsiasi movimento. Un trattamento che i garanti definiscono senza mezzi termini inaccettabile, richiamando quanto già censurato dal Garante nazionale. Le fascette ai polsi non sono una misura di sicurezza proporzionata, sono una pratica lesiva della dignità umana. Eppure, continua ad essere applicata sistematicamente. Dalle testimonianze emerge un quadro allarmante: ritardi di settimane tra la richiesta e la formalizzazione del C3, quando per legge non dovrebbero trascorrere più di 48 ore. Con un numero così esiguo di persone, questi ritardi sono “particolarmente ingiustificati”. Ma c’è di più. Alcune persone hanno riferito di tentativi di dissuasione da parte di operatori dell’ufficio immigrazione, che avrebbero cercato di scoraggiarli dal presentare la domanda. Se confermato, sarebbe gravissimo: ostacolare l’esercizio del diritto di asilo è una violazione palese delle norme nazionali e internazionali. Eppure, su questo, le autorità non hanno fornito alcuna risposta. La distanza dalla terraferma crea problemi concreti. I trattenuti non hanno telefoni personali. L’ente gestore ha dichiarato l’intenzione di fornirne uno a ciascuno, ma si scontra con difficoltà: blackout elettrici frequenti, problemi di connessione. Il risultato è l’isolamento totale: incapaci di mantenere contatti con famiglie e legali. E poi la questione sanitaria. Un trattenuto ha segnalato che i farmaci somministratigli in Albania dopo un intervento al collo subito in Italia sarebbero “diversi” e meno efficaci. Un altro, con difficoltà di deambulazione, ha raccontato che la sua stampella gli è stata tolta all’ingresso. Episodi che sollevano dubbi sulle “innegabili differenze tra il Sistema sanitario italiano e quello albanese”. C’è un passaggio della relazione che è allarmante. Le persone dimesse per incompatibilità con la vita ristretta vengono accompagnate al porto di Bari e lì “lasciate senza alcuna offerta di presa in carico”. Persone fragili, con certificazione medica di inidoneità, vengono scaricate in porto e abbandonate a se stesse. E qui emerge un’altra contraddizione: alcune di queste persone, valutate come inidonee in Albania, una volta rientrate in Italia vengono nuovamente valutate come idonee e trattenute nei CPR italiani. Come è possibile? Chi sbaglia? I garanti chiedono di “indagare” su questa “scarsa perizia nelle valutazioni”. Ma anche qui, silenzio assoluto. La struttura si trova in un’area arida, senza vegetazione. Le aree comuni sono “sovrastate da reti metalliche che chiudono completamente i settori”. L’aspetto, scrivono i garanti, è quello di “una vera e propria gabbia”. E in questa gabbia, nessuna opportunità di attività. Nessuno spazio per attività motorie o sportive. Nessuna attività ricreativa. Solo l’attesa, in un ambiente “brullo e isolato”. I garanti raccomandano di rimuovere le reti metalliche, di organizzare attività, di piantare alberi. Raccomandazioni di buon senso, che richiamano standard minimi di umanità. Ma che non meritano nemmeno una risposta. E poi c’è il caso dei cinque cittadini egiziani che, secondo notizie di stampa, il 9 maggio 2025 sarebbero stati rimpatriati a Il Cairo direttamente dall’aeroporto di Tirana. I garanti hanno chiesto chiarimenti. Gli interlocutori “non hanno smentito” ma non hanno fornito dettagli. Nella relazione c’è una richiesta esplicita di documentazione. Anche qui, nessuna risposta. Il silenzio delle autorità potrebbe non essere una dimenticanza. Appare come una scelta precisa. Una scelta che tradisce la volontà di non confrontarsi con le criticità, di non rispondere alle domande scomode, di non prendere posizione su questioni che riguardano diritti fondamentali. I garanti sottolineano che “ogni visita rappresenta intrinsecamente un elemento di collaborazione con le Istituzioni competenti”. Hanno svolto il loro mandato con scrupolo, raccolto dati, ascoltato testimonianze, formulato raccomandazioni puntuali. Hanno fatto la loro parte. Ma le autorità competenti hanno scelto il silenzio. Un silenzio che suona come un rifiuto del dialogo istituzionale, come un disconoscimento del ruolo dei garanti. Perché affrontare quelle criticità significherebbe ammettere che il CPR di Gjadër non funziona. Che è un progetto costoso e inefficace. Che le persone ivi trattenute sono esposte a trattamenti degradanti. La relazione è stata resa pubblica. Insieme al silenzio delle autorità. Un silenzio che potrebbe dire molto più di tante parole. Migranti. Cpr di Milano, dopo la nostra denuncia lo deportano in Albania di Mai più lager - No ai Cpr L’Unità, 8 novembre 2025 Ricorderete forse la storia della persona con problemi psichiatrici trattenuta nel Cpr di Milano da oltre 9 mesi, della quale avevamo parlato qui (e anche a Radio Popolare). Non abbiamo neanche fatto in tempo a parlarne che, dopo poche ore, i detenuti ci hanno contattato per dirci che alle 5 del mattino questa persona era stata prelevata con la forza e trasferita. I detenuti ci hanno riferito anche che agenti e personale avevano trionfalisticamente raccontato che quella persona stava per essere trasferita in Albania: un deterrente in più, che fa sempre effetto tra persone già terrorizzate. Abbiamo sperato per qualche giorno che fosse una provocazione buttata lì ad arte, e che il ragazzo aveva avuto una sorte diversa. Abbiamo iniziato a cercarlo. Considerato che di rilascio non si poteva trattare (avvengono senza forza e non di notte), abbiamo avviato le nostre indagini, scrivendo due volte a Prefettura di Milano, AtsS Lombardia, gestore del Cpr (Ekene), Garante Nazionale e Garante Locale: niente. Solo per vie traverse, abbiamo recuperato il nome del ragazzo e lo abbiamo rintracciato: lo hanno deportato in Albania, dove è attualmente detenuto. Un atto di gravità inaudita: una persona che già per il suo stato non avrebbe potuto neppure entrare in Cpr (verificheremo anche quale medico ha attestato la sua idoneità!), non solo ci è rimasta 9 mesi in stato di totale abbandono (ricordiamo che i detenuti ci hanno detto che non lo hanno visto mai fare una doccia, con tutte le conseguenze del caso). Ma, appena sono stati accesi i riflettori, come sempre accade sul Cpr di Milano (il Cpr “vetrina” d’Italia), è stato prontamente trasferito, in modo che nessuno potesse più fotografarlo e riprenderlo, e soprattutto che nessuna ispezione potesse sorprenderlo all’interno e magari mettere le mani sulla catastrofica sua cartella clinica. E non è tutto: perché la destinazione non è stata un altro Cpr di Italia, come già accaduto (Ekene su Ekene, sono frequenti i trasferimenti degli “scomodi” da Milano o Gradisca a Roma, dove il gestore è lo stesso ma lì non hanno gli smartphone). È stato deportato in Albania, dove non solo è nei fatti è vietato l’utilizzo di telefoni personali e non ci sono telefoni fissi ma solo un cellulare del gestore da utilizzare sotto sorveglianza; ma soprattutto non vi è neppure la speranza di un accesso al Servizio sanitario nazionale italiano. Buttato, lì, come un rifiuto, come il più inutile dei rifiuti, a cercare di fare numero in un centro che è solo propaganda sulla pelle delle persone. La storia di A. non si ferma qui: faremo quel che c’è da fare per mettere in luce questa schifezza e imporre, allo Stato che l’ha preso in carico per torturarlo, di prendersene cura. Tunisia. Amnesty: L’Ue complice delle persecuzioni subite da richiedenti asilo e migranti” di Sofia Toscani L’Unità, 8 novembre 2025 Negli ultimi tre anni il regime di Saied ha annullato ogni possibilità di rifugio e tutela per i richiedenti asilo e migranti, soprattutto se neri, attraverso persecuzioni razziste per mano della stessa polizia. “L’Unione europea rischia di rendersi complice di tutto ciò - scrive Amnesty - mantenendo in piedi la cooperazione nel controllo dei flussi migratori senza garanzie effettive in materia di diritti umani”. Amnesty International ha condotto la ricerca tra febbraio 2023 e giugno 2025. Frammenti di alcune testimonianze, Celine camerunense: “Continuavano a colpire la nostra barca di legno con lunghi bastoni appuntiti, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre neonati senza giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare e poi non abbiamo più visto i corpi. Non ho mai avuto così tanta paura”. Report di Amnesty international: ecco di quali reati compiuti dal governo tunisino contro migranti subsahariani è complice l’Ue. “Ci hanno abbandonati al confine e ordinavano: andate in Libia, lì vi uccideranno”. “Ci picchiavano con tutto”. “Agenti della Guardia tunisina mi hanno stuprata quando m’hanno fermato e quando mi hanno deportata” Nessuno ti sente quando urli. È il titolo di un documento di Amnesty international che denuncia un’ulteriore stretta nella politica migratoria del governo tunisino. Negli ultimi tre anni il regime di Saied, tanto caro a Giorgia Meloni, ha annullato ogni possibilità di rifugio e tutela per i richiedenti asilo e migranti, soprattutto se neri, attraverso persecuzioni razziste per mano della stessa polizia. “L’Unione europea rischia di rendersi complice di tutto ciò - scrive Amnesty - mantenendo in piedi la cooperazione nel controllo dei flussi migratori senza garanzie effettive in materia di diritti umani”. Amnesty International ha condotto la ricerca tra febbraio 2023 e giugno 2025, intervistando 120 persone rifugiate e migranti provenienti da quasi 20 stati (92 uomini e 28 donne, comprese otto persone di età compresa tra 16 e 17 anni) a Tunisi, Sfax e Zarzis. Almeno 60 delle persone intervistate, tra cui tre minorenni, due rifugiati e cinque richiedenti asilo, sono state arrestate e detenute in modo arbitrario. Persone rifugiate e migranti dell’Africa subsahariana sono state prese di mira da singoli soggetti e dalle forze di sicurezza in un contesto di profilazione razziale sistemica e in varie ondate di violenza razzista alimentate dalla propaganda d’odio razziale, a partire dalle dichiarazioni del presidente Kais Saied del febbraio 2023. La situazione è peggiorata a causa della repressione che ha colpito almeno sei organizzazioni non governative che fornivano sostegno essenziale a persone migranti e rifugiate, con conseguenze umanitarie gravissime e un enorme vuoto di protezione. Dal maggio 2024 le autorità hanno detenuto arbitrariamente almeno otto loro operatori e due ex funzionari locali che avevano collaborato con esse. La prossima udienza del processo al personale di una delle organizzazioni non governative, il Consiglio tunisino per i rifugiati, è fissata per il 24 novembre. Amnesty International ha indagato su 24 catture in mare e ha raccolto le testimonianze di 25 persone rifugiate e migranti che hanno descritto comportamenti violenti da parte della Guardia costiera tunisina: speronamenti, manovre ad alta velocità che hanno rischiato di far capovolgere le imbarcazioni, colpi inferti a persone e imbarcazioni con manganelli, lancio di gas lacrimogeni da distanza ravvicinata. “Céline”, una donna migrante camerunese catturata dopo la partenza dalla regione orientale di Sfax nel giugno 2023, ha raccontato ad Amnesty International: “Continuavano a colpire la nostra barca di legno con lunghi bastoni appuntiti, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre neonati senza giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare e poi non abbiamo più visto i corpi. Non ho mai avuto così tanta paura”. Nonostante le persistenti preoccupazioni per la mancanza di trasparenza nei dati sugli intercettamenti, nel 2024 le autorità tunisine hanno smesso di pubblicare statistiche ufficiali dopo aver istituito, con il sostegno dell’Unione europea, una zona di ricerca e soccorso marittimo. In precedenza, avevano riferito un aumento significativo degli intercettamenti. Dal giugno 2023 in poi le autorità tunisine hanno avviato espulsioni collettive di decine di migliaia di persone rifugiate e migranti, perlopiù provenienti dall’Africa subsahariana, dopo arresti su base razziale o catture in mare. Amnesty International ha accertato che, tra giugno 2023 e maggio 2025, sono state effettuate almeno 70 espulsioni collettive, che hanno riguardato oltre 11.500 persone. Le forze di sicurezza tunisine hanno sistematicamente abbandonato persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate - anche donne incinte e bambini - in aree remote e desertiche ai confini con la Libia e l’Algeria, senza acqua né cibo, spesso dopo aver loro confiscato telefoni, documenti d’identità e denaro, esponendole così a gravi rischi per la vita e la sicurezza. Dopo la prima ondata di espulsioni, tra giugno e luglio del 2023, almeno 28 persone migranti sono state trovate morte lungo il confine libico-tunisino e 80 risultano disperse. Queste espulsioni sono state condotte senza alcuna garanzia procedurale e in violazione del principio di non respingimento. Mentre chi veniva spinto verso l’Algeria doveva camminare per settimane per tornare indietro o rischiare ulteriori respingimenti a catena fino al Niger, le persone che venivano condotte verso la Libia spesso finivano nelle mani delle guardie di frontiera locali o di milizie che le abbandonavano lì o le portavano in strutture non ufficiali. In Libia le persone migranti e rifugiate subiscono violazioni dei diritti umani gravi e sistematiche, commesse nell’impunità, che una missione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha qualificato come crimini contro l’umanità. “Ezra”, un uomo della Costa d’Avorio, ha raccontato ad Amnesty International come le forze di polizia tunisine lo abbiano espulso verso il confine libico nella notte tra il 1° e il 2 luglio 2023, insieme ad altre 24 persone, almeno una delle quali minorenne: “Siamo arrivati nella zona di confine con la Libia verso le sei del mattino… Un ufficiale tunisino ha detto: ‘Andate in Libia, là vi uccideranno’. Un altro ha aggiunto: ‘O nuotate, o correte verso la Libia’. Ci hanno restituito un sacco pieno dei nostri telefoni distrutti…”. Le persone che facevano parte di questo gruppo hanno tentato di risalire la costa verso la Tunisia ma uomini in uniforme militare le hanno intercettate e inseguite con i cani, hanno picchiato quattro di loro e infine le hanno riportate al confine. “Ci hanno costretti a gridare più volte ‘Tunisia mai più, non torneremo mai più’ Le forze di sicurezza tunisine hanno sottoposto 41 uomini, donne e minorenni a maltrattamenti e torture durante intercettamenti, espulsioni o detenzioni. “Hakim”, cittadino camerunese, ha descritto come gli agenti lo abbiano portato e abbandonato al confine con l’Algeria nel gennaio 2025: “Ci hanno presi uno per uno, ci hanno circondati, ci hanno fatto sdraiare, ci hanno ammanettati… Ci picchiavano con tutto ciò che avevano: mazze, manganelli, tubi di ferro, bastoni di legno… Ci hanno costretti a ripetere più volte ‘Tunisia mai più, non torneremo mai più’. Ci colpivano e prendevano a calci ovunque”. Amnesty International ha inoltre documentato 14 casi di stupro o altre forme di violenza sessuale da parte delle forze di sicurezza tunisine, alcuni dei quali avvenuti durante perquisizioni corporali o denudamenti forzati condotti in modo umiliante, tali da configurare tortura. “Karine”, una donna camerunese, ha raccontato ad Amnesty International che il 26 maggio 2025 agenti della Guardia nazionale l’hanno violentata due volte: prima durante una perquisizione dopo un intercettamento nella regione di Sfax, poi al confine con l’Algeria, dopo un’espulsione collettiva. La Spagna esternalizza i migranti in Mauritania di Marco Santopadre Il Manifesto, 8 novembre 2025 I due Centri sono pensati per 183 adulti, ma saranno trattenuti anche minori. Anche la Spagna, come altri paesi europei, ha deciso di compiere un ulteriore passo nel processo di esternalizzazione delle frontiere, finanziando la costruzione di due centri di trattenimento per migranti in Mauritania. A rivelarlo è un’inchiesta realizzata dalla “Fondazione porCausa” e pubblicata dal quotidiano “El Salto” che sta agitando le acque nella già traballante maggioranza di governo. L’esecutivo non ha dato grande pubblicità all’inaugurazione, avvenuta il 17 ottobre scorso, delle due strutture situate nella capitale mauritana Nouakchott e a Nouadhibou, al confine con il Sahara Occidentale. Entrambi i centri sono stati finanziati, con un milione di euro di fondi europei, dalla Fondazione per l’Internazionalizzazione delle Pubbliche Amministrazioni (FIAP), un’agenzia di cooperazione che fa capo al Ministero degli Esteri di Madrid. Ufficialmente si tratta di due “Centri di Accoglienza Temporanea per Stranieri” (CATE) simili a quelli già realizzati alle Canarie; a differenza di questi, però, oltre a 183 adulti le due strutture potranno ospitare anche dei minori, neonati compresi, una pratica vietata dalla legge spagnola. Secondo Madrid i migranti potranno essere trattenuti per un massimo di 72 ore allo scopo di chiarire se siano vittime di tratta, minori non accompagnati, persone vulnerabili o richiedenti protezione internazionale. Non è chiaro però cosa succederà agli “ospiti” una volta trascorso il periodo massimo di trattenimento. Finora la FIAP, i due governi coinvolti e la delegazione dell’Ue nel paese africano si sono rifiutati di rispondere alle richieste di chiarimenti degli autori dell’inchiesta e di vari esponenti politici. Secondo le fonti spagnole e mauritane citate nell’inchiesta si tratterebbe di veri e propri centri di detenzione per migranti, locali o provenienti da altri paesi. Il progetto sarebbe partito nel maggio del 2024, poco prima che 15 governi europei inviassero una lettera alla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, chiedendole di seguire l’esempio di Giorgia Meloni che aveva aperto un centro di detenzione per migranti in Albania. Il governo spagnolo non firmò la missiva ma assegnò l’appalto per la realizzazione dei due CATE; tre mesi dopo, Sánchez e von der Leyen visitarono la Mauritania promettendo al governo del generale Mohamed Ould El Ghazouani l’invio di 500 milioni di euro da destinare al contrasto dell’immigrazione clandestina. Le associazioni per i diritti umani denunciano che nel 2025 la polizia locale ha incrementato le retate contro i migranti con il supporto di 80 agenti spagnoli che chiudono un occhio sui metodi illegali e violenti utilizzati dai colleghi. Una volta catturati, i migranti vengono privati di tutti i loro beni (documenti e telefoni compresi), portati in prigione e sottoposti per giorni a condizioni di detenzione inumane; dopo di che, in alcuni casi, vengono abbandonati in una zona desertica al confine con il Mali. Non stupisce che la pubblicazione dell’inchiesta abbia scatenato le proteste di tutte le formazioni a sinistra del Partito Socialista, da Sumar a Esquerra Republicana, dai baschi di Bildu ai galiziani del BNG, per non parlare di Podemos che usa toni durissimi. Irene Montero, eurodeputata e numero due del partito viola, chiede la chiusura immediata dei due centri che definisce “prigioni illegali che violano i diritti umani”. Tesh Sidi, parlamentare di Más Madrid e Sumar, in un’interrogazione presentata al ministro degli Esteri José Manuel Albares accusa il governo di “attuare alle nostre spalle il modello Meloni, un modello di esternalizzazione delle carceri in Paesi terzi dove i diritti umani non vengono rispettati”.