Lettera aperta al Direttore della Direzione Generale dei detenuti e del trattamento, Ernesto Napolillo di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 7 novembre 2025 Gentile dottor Napolillo, Lei è stato di recente nella Casa di reclusione di Padova e ha visto un carcere dove, pur nelle difficoltà del sovraffollamento, si cerca con la collaborazione di tutti di rispettare il mandato costituzionale, cioè di garantire a più detenuti possibile di non entrare in carcere e uscirne a fine pena come sono entrati, ma di fare un percorso realmente rieducativo, che significa crescere culturalmente, mettere in discussione le proprie scelte passate, avere voglia di fare i conti con la sofferenza provocata dai reati, nelle vittime ma anche nei famigliari delle stesse persone detenute. Quando noi volontari raccontiamo alla società civile (le scuole, e non solo) dove nascono le scelte sbagliate, che poi portano le persone in carcere, lo facciamo perché riteniamo, e l’esperienza di questi anni, le migliaia di studenti e insegnanti che abbiamo incontrato ce lo confermano, che dal carcere si può fare autentica prevenzione. Ma se il carcere diventerà essenzialmente quella segregazione, di cui ha parlato lei, non solo non si riuscirà a fare nessuna prevenzione, non si riuscirà a “salvare” nessun ragazzo giovane dal rischio di rovinarsi la vita e finire in galera, ma non si riuscirà neppure a creare più sicurezza per la società, perché da quel carcere “segregante” usciranno a fine pena, dal momento che prima o poi la pena per quasi tutti finisce, non delle persone più responsabili, ma delle bombe a orologeria, caricate di rabbia e pronte ad esplodere. Le assicuriamo che a noi le regole piacciono, e nel confronto e nella delicata attività rieducativa che noi volontari portiamo avanti le poniamo al centro delle nostre azioni, ma le regole che sono state di recente fissate per qualsiasi iniziativa culturale, per qualsiasi attività “trattamentale” che avvenga in carcere sono così macchinose, che rischiano di portare alla paralisi qualsiasi istituto di pena che le debba applicare. Pensi al paradosso della Casa di reclusione di Padova: per la presenza di una piccola sezione di Alta Sicurezza di una ventina di detenuti, gli altri 650 detenuti comuni dovranno sottostare a regole che rischiano di distruggere qualsiasi progettualità. La burocrazia infatti, quando è ossessivamente tesa al controllo, impedisce qualsiasi cambiamento e qualsiasi crescita culturale, Ebbene, non è esagerato dire che in queste nuove disposizioni si può riconoscere proprio quella burocrazia, che è in grado di paralizzare qualsiasi iniziativa. La circolare di recente emanata ha effetti penalizzanti per tutte le nostre attività, che dovrebbero piuttosto potersi ispirare a quelle regole penitenziarie europee, che sostengono tra l’altro che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”. Quello che invece succede è che: • viene scoraggiata la società civile dall’assumersi il compito, che le è riconosciuto dalla Costituzione, di promuovere la rieducazione delle persone detenute; • viene così compromesso un rapporto di fiducia che da sempre è risorsa e supporto per le stesse Istituzioni • si rischia che aumentino enormemente autolesionismi, tentati suicidi, suicidi, aggressioni, proteste, comportamenti violenti, che segnalano quanto sono poco umane e poco dignitose le condizioni di vita nelle carceri; • il reato di rivolta penitenziaria, che punisce con pene fino a otto anni di carcere il detenuto che disobbedisce anche in forma nonviolenta agli ordini impartiti, provocherà più conflitti, più pene e più carcere per tutte quelle persone detenute, e sono tante, così disperate che non hanno nulla da perdere. Siamo certi che non interessa a nessuno tornare a carceri dove il conflitto, l’aggressività, la rabbia la fanno da padroni. Allora, per parlare di questi temi, la invitiamo a incontrare i rappresentanti delle nostre associazioni e ad aprire un dialogo. E se ha un po’ di tempo ci piacerebbe anche che partecipasse a un incontro in carcere tra le scuole e le persone detenute: si potrà così rendere conto che è da lì che bisognerebbe partire, dalla responsabilizzazione delle persone detenute, è quella la sfida vera e coraggiosa per dare un senso alle pene. Agnese Moro, una donna straordinaria vittima di un reato atroce come l’uccisione del padre, ci ha detto più volte che NON VUOLE BUTTARE VIA NESSUNO, e sono tante le vittime di reati che come lei si sono rese conto che il carcere “cattivo”, la pena del “marcire in galera fino all’ultimo giorno” sono un male che produce soltanto altro male. E segregare le persone vuol dire solo buttarle via. Grazie dell’attenzione, siamo sicuri che accetterà il nostro invito *Per la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Attività in carcere, la stretta del Dap: “Un arretramento di 50 anni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2025 Una circolare centralizza le autorizzazioni per gli eventi educativi e culturali. L’allarme di magistrati e associazioni: “Così si svuota il carcere dalle occasioni di riscatto”. Giachetti interroga Nordio. Una nota del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rischia di paralizzare le attività trattamentali in buona parte delle carceri italiane. È questa la denuncia che emerge dall’interrogazione parlamentare presentata martedì scorso dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva e dai durissimi comunicati del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza e di AreaDG. Al centro della polemica c’è la circolare n. 454011 del 21 ottobre scorso, con cui il direttore generale dei detenuti e del trattamento ha deciso di accentrare su Roma tutte le autorizzazioni per gli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo che si svolgono negli istituti penitenziari dove sono presenti sezioni di alta sicurezza, collaboratori di giustizia o detenuti sottoposti al regime del 41-bis. Una stretta burocratica che rappresenta “un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale” pensato cinquant’anni fa dall’ordinamento penitenziario. Tutto passa da Roma - La novità introdotta dalla nota del Dap è apparentemente tecnica, ma le sue conseguenze sono potenzialmente devastanti. D’ora in poi, ogni volta che un’associazione, una cooperativa o un volontario voglia organizzare un laboratorio, un corso o un incontro in un carcere dove sono presenti detenuti di alta sicurezza o in regime speciale, l’autorizzazione dovrà passare dalla scrivania del direttore generale a Roma. E questo vale anche quando l’evento è destinato esclusivamente ai detenuti del circuito di media sicurezza che si trovano nello stesso istituto, ma in sezioni completamente separate. Il punto è che stiamo parlando della stragrande maggioranza delle carceri italiane. I detenuti di alta sicurezza sono circa 8.800, distribuiti in decine di istituti su tutto il territorio nazionale. La nuova procedura si applicherà indistintamente a tutti questi istituti, con un effetto domino che il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza non esita a definire allarmante: “Un aggravio notevolissimo circa i tempi di definizione delle autorizzazioni e la conseguente inevitabile riduzione delle attività trattamentali”. C’è però un problema ancora più profondo. L’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, quello che disciplina la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa, stabilisce con chiarezza che devono essere il magistrato di sorveglianza e il direttore del carcere a decidere chi può entrare in un istituto penitenziario. Non è una scelta casuale: direttori e magistrati di sorveglianza conoscono direttamente la popolazione detenuta, sanno quali sono le risorse del territorio, possono valutare caso per caso l’utilità di un’iniziativa con i percorsi individuali di risocializzazione. La circolare del Dap, secondo Giachetti e i magistrati di sorveglianza, rovescia questa logica. Introduce un controllo dall’alto che burocratizza e centralizza decisioni che per loro natura dovrebbero essere prese a livello locale. “Viene svilito il ruolo dei Direttori d’Istituto”, scrive il Coordinamento dei magistrati, “per i quali sarà ancor più complesso riuscire a realizzare le attività previste dalla programmazione annuale”. E viene esautorato, di fatto, anche il magistrato di sorveglianza, che pure l’ordinamento penitenziario indica come la figura chiamata a verificare la coerenza delle attività proposte con il concreto percorso rieducativo. Il paradosso: meno trattamento nel momento del sovraffollamento La circolare arriva nel momento peggiore. Le carceri italiane vivono una delle emergenze più drammatiche della loro storia recente: sovraffollamento crescente, condizioni insostenibili, suicidi che non si fermano. In questa situazione, le attività trattamentali rappresentano spesso l’unico elemento che permette di mantenere un minimo di tensione vivibile dentro gli istituti, l’unica occasione per i detenuti di mantenere un contatto con il mondo esterno, di formarsi, di costruire prospettive. Associazioni come Nessuno tocchi Caino o Ristretti Orizzonti hanno costruito negli anni una rete capillare di laboratori, incontri, redazioni di giornali. La preoccupazione, espressa con forza da Giachetti nella sua interrogazione, è che la nuova stretta burocratica finisca per paralizzare proprio queste attività, quelle che più di tutte incarnano il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. Il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza non usa mezzi termini: “Vista la drammatica situazione in cui versano gli Istituti penitenziari, la scelta adottata dal Dipartimento rischia di consegnarci un carcere dove le occasioni di confronto con l’esterno, le opportunità di formazione e le possibilità di crescita culturale in favore dei detenuti saranno sempre meno”. Mentre Giachetti, nell’interrogazione, richiama anche le Regole penitenziarie europee, che stabiliscono che “la vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera” e che “devono essere incoraggiate la cooperazione con i servizi sociali esterni e la partecipazione della società civile”. La circolare del Dap sembra andare nella direzione opposta. Invece di incoraggiare la partecipazione della società civile, la sottopone a una procedura così farraginosa da scoraggiarla. E lo fa proprio nell’anno in cui l’ordinamento penitenziario compie cinquant’anni. Un ordinamento che nel 1975 aveva scardinato la logica puramente custodialistica del vecchio regolamento carcerario mettendo al centro la finalità rieducativa della pena, l’individualizzazione del trattamento, l’apertura al territorio. Logica unicamente repressiva - Il gruppo di lavoro di AreaDG punta il dito contro il ministero della Giustizia: “Ormai totalmente inerte di fronte ad un sovraffollamento carcerario in costante e allarmante crescita, continua ad adottare misure e provvedimenti che rispondono unicamente ad astratte finalità repressive e sicuritarie e che sacrificano ingiustificatamente le finalità del trattamento e della rieducazione”. È un’accusa pesante, che fotografa un clima di crescente sfiducia tra chi lavora sul campo dell’esecuzione penale e chi governa le politiche penitenziarie a livello centrale. La nota del Dap, secondo questa lettura, non sarebbe un semplice provvedimento organizzativo ma l’ennesimo segnale di una visione del carcere che privilegia la custodia sulla risocializzazione, il controllo sul trattamento. Nell’interrogazione parlamentare, Giachetti chiede al ministro della Giustizia se sia a conoscenza della nota, se non ritenga che questa sia in contrasto con l’articolo 17 dell’ordinamento penitenziario, se non consideri preoccupante l’aspetto accentratore e se non ritenga necessario ritirarla o riformularla “secondo i principi che ispirano la normativa in vigore”. Domande che pongono una questione più ampia: quale carcere vogliamo? Un carcere che si limita a custodire i corpi o un carcere che prova a costruire percorsi di cambiamento? Il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza auspica “un’interlocuzione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che possa riportare nell’alveo del ragionevole bilanciamento tra sicurezza e risocializzazione lo svolgimento delle attività trattamentali”. È un appello al dialogo, alla ricerca di un equilibrio. Ma è anche l’ammissione che quell’equilibrio, in questo momento, si è rotto. E che il rischio concreto è quello di un carcere sempre più vuoto di senso, sempre più lontano dai principi costituzionali, sempre più incapace di svolgere quella funzione rieducativa che non è un optional ma un dovere imposto dall’articolo 27 della Costituzione. La palla ora passa al Ministero. Ma intanto, dentro le celle, qualcuno sta già calcolando quante attività, quanti laboratori, quanti spiragli di speranza andranno perduti per colpa di una circolare che nessuno, tra chi lavora davvero nel carcere, sembra aver chiesto. Rieducazione dei detenuti, centralizzate le iniziative di Teresa Olivieri Italia Oggi, 7 novembre 2025 A decidere sulle attività educative e ricreative dei detenuti non saranno più i direttori degli istituti e i giudici ma il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Con il rischio di allungare i tempi e creare ulteriore burocrazia. Le nuove indicazioni, che riguardano gli Istituti penitenziari con circuiti a gestione dipartimentale (Alta sicurezza-AS, Collaboratori di giustizia, 41 bis), sono contenute in una circolare datata 27 febbraio 2025 ma formalizzata il 21 ottobre scorso, firmata dal Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Ministero della giustizia, Ernesto Napolillo, indirizzata ai Provveditorati regionali e alle Direzioni degli istituti penitenziari. Secondo la circolare, tale centralizzazione delle decisioni si rende necessaria a causa di presunti disallineamenti rispetto alle circolari precedenti del 2015 e di una generica permeabilità dei circuiti detentivi AS, rilevata da alcune indagini delle Procure distrettuali Antimafia. Secondo la circolare, tale centralizzazione si rende necessaria a causa di presunti disallineamenti rispetto alle circolari precedenti del 2015 e di una generica permeabilità dei circuiti detentivi AS, rilevata da alcune indagini delle Procure distrettuali Antimafia. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Dap chiede ai direttori la trasmissione immediata del regolamento interno dell’istituto nella parte relativa alla vita dei detenuti AS, degli ordini di servizio con indicazione degli orari di apertura e chiusura delle celle, degli spazi comuni e di quelli destinati alla socialità, e di ogni documento relativo ai detenuti, comprese petizioni, lettere, note o lamentele di detenuti, familiari o terzi. Richieste particolarmente rigide, che si aggiungono alla disposizione secondo cui ogni autorizzazione per eventi di carattere trattamentale, anche se destinati a detenuti allocati nel circuito di media sicurezza dello stesso istituto, va richiesta direttamente alla Direzione generale del Dap, sottraendo di fatto ai direttori degli istituti penitenziari poteri decisionali in merito al coordinamento delle attività rieducative e trattamentali. Il no dei Garanti - Secondo Samuele Ciambriello, Garante Campano delle persone private della libertà personale e Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti delle persone private della libertà personale, “le ultime circolari a firma Capo Dap, Stefano Carmine De Michele, e Direttore generale detenuti e trattamento, Ernesto Napolillo, lasciano perplessi per impostazioni e contenuti. In particolare, la circolare firmata da Napolillo rischia di mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale negli istituti, in particolare per il circuito di Alta sicurezza. Tale circolare dà anche una certezza di una scarsa contezza reale dei contesti carcerari, trasforma le autorizzazioni della magistratura di sorveglianza in orpelli, elementi ancillari. Ci sono iniziative trattamentali di cooperative, associazioni, enti locali e non si comprende la gestione diretta della Direzione generale degli istituti con i circuiti di Alta sicurezza. Ma allora i direttori sono semplici amministratori di condominio?”. Reinserimento sociale vanificato? - La legge stabilisce che la finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari, con autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che dimostrino di poter promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera, operando sotto il controllo del direttore. In pratica, la legge assegna al direttore dell’istituto il potere esclusivo di valutare e autorizzare l’ingresso di soggetti esterni e di vigilare sulle attività svolte all’interno della struttura. La circolare Napolillo va in senso contrario, lamenta Ciambrello. “Noi utilizziamo il Terzo settore, il volontariato per mantenere alto il livello di inclusione, con attività culturali e ricreative. Il rischio è di tornare indietro. Questa circolare rischia di far stare i detenuti chiusi 20 ore al giorno in celle strapiene, senza la possibilità di svolgere attività”. La situazione critica delle carceri italiane - Il documento di prassi arriva in un contesto molto critico per le carceri italiane. Nei primi mesi del 2025 si sono verificati 69 suicidi tra i detenuti, con un totale di 117 decessi all’interno delle carceri dall’inizio dell’anno. Persistono problemi strutturali come sovraffollamento, assenza di attività trattamentali significative, carenza di supporto psichiatrico e sanitario. E il tempo “vuoto” all’interno delle celle per i detenuti di Alta sicurezza può superare le otto ore al giorno, senza alcuna attività educativa o lavorativa. Per colpa di una Circolare ministeriale nelle carceri non si può più fare (quasi) niente di Chiara Cacciani huffingtonpost.it, 7 novembre 2025 I primi effetti della centralizzazione voluta dalla Giustizia per il via libera a tutte le iniziative culturali negli istituti penitenziari. Boscoletto (cooperativa Giotto): “Faccio davvero fatica a capirne il senso”. Un incontro di promozione alla lettura rivolto a detenuti maghrebini annullato all’ultimo minuto a Padova: era stato programmato da mesi, erano state coinvolte le istituzioni e il Consolato e già pagati i biglietti ferroviari per le due scrittrici di origine tunisina e invece niente. E poi un evento della Camera penale saltato a Torino, mentre viene sospeso (momentaneamente? Chissà) a Parma il progetto che da alcuni anni portava classi di un liceo classico oltre le sbarre, a confrontarsi insieme alle persone ristrette sul tema fondamentale della giustizia riparativa. Non solo: sarà quasi impossibile mantenere in tutti e 40 gli istituti penitenziari coinvolti l’appuntamento del prossimo 15 novembre con la Colletta Alimentare, il momento che da 15 anni permetteva alle persone detenute di contribuire alla spesa solidale attiva nel resto d’Italia. Inizia a mostrare i suoi effetti concreti l’ormai famigerata circolare ministeriale del 21 ottobre 2025 che sposta a Roma, alla Direzione generale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), le pratiche di autorizzazione per eventi educativi, culturali e ricreativi nelle carceri che hanno (anche) reparti di Alta Sicurezza. E questo tra incredulità e paradossi. Un esempio? Nella già citata casa circondariale di Padova, sono meno di 20 - e ultrasettantenni - i detenuti in Alta Sicurezza. Ma trattandosi dello stesso istituto penitenziario, il provvedimento andrà a colpire anche chi è ospitato nella Media Sicurezza: oltre 630 persone, la stragrandissima maggioranza. “Quale sarebbe la pericolosità della Colletta alimentare?” si chiede Nicola Boscoletto, fondatore 35 anni fa della cooperativa sociale Giotto, che ha portato nella casa circondariale di Padova numerosissimi progetti di successo sul fronte dell’inserimento lavorativo di detenuti e ex detenuti. “Di fronte ai nostri appelli, ci è stata promessa per oggi la circolare da Roma che sblocca l’iniziativa. Ma i tempi sono ormai strettissimi - spiega - mancano i passaggi al Provveditorato regionale e alle direzioni coinvolte e a quel punto ci sono i tempi della spesa: normalmente ci vogliono due settimane prima che le persone ristrette possano ricevere ciò che mettono nella lista. Spero che qualcuno riesca a aderire, ma il 15 novembre è davvero dietro l’angolo”. Lo ammette, Boscoletto: “Faccio fatica a commentare le circolari degli ultimi mesi che riguardano le attività trattamentali. Faccio fatica a capirle e a capirne il senso”. A provocare più amarezza è, dice, “il concentrarsi sulle poche cose che funzionano e che aiutano a rendere un po’ più umani il carcere e la vita delle persone detenute, ossia quelle svolte per la quasi totalità dal Terzo Settore, dalle Università e dalle scuole. Non credo sia la scelta giusta, soprattutto perché ancora una volta è qualcosa di calato dall’alto senza alcun approfondimento e confronto”. “Un errore le norme che restringono le attività tra detenuti e cittadini esterni” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 7 novembre 2025 La lettera a Nordio di Agnese Moro, Bachelet e altri familiari delle vittime. “Gentile signor ministro della Giustizia, noi familiari di vittime delle azioni terroristiche, della lotta armata e della criminalità organizzata, da tempo impegnati in attività volte a realizzare il dettato Costituzionale di favorire la rieducazione dei detenuti”, (...) “guardiamo con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane”. Comincia così la lettera che Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Marisa Fiorani, Manlio Milani, Lucia Montanino, Maria Agnese Moro, Giovanni Ricci e Sabina Rossa hanno inviato al ministro della Giustizia, Nordio. Il testo fa riferimento alla circolare del Dap - il Dipartimento amministrazione penitenziaria - datata 21 ottobre (numero 0454011.U) che limita con nuovi paletti - riuscendo, secondo diversi osservatori, a impedirle di fatto pur senza vietarle formalmente - le attività nelle carceri che prevedano partecipazione di persone esterne. Ecco come prosegue il testo della lettera: “Consci del fatto che il ripensamento del proprio passato criminale molto raramente è frutto di un’improvvisa “illuminazione”, essendo più spesso il risultato di una contaminazione culturale, emotiva e relazionale, che supera le barriere fisiche tra il mondo esterno ed interno alle carceri; consapevoli che anche la semplice partecipazione a incontri e confronti con il mondo esterno rappresenta per i detenuti coinvolti una iniziale rottura verso il passato, esponendoli ai rischi e pericoli di emarginazione ben noti a chi frequenta le carceri; convinti che il cambiamento di valori richieda costanti, faticosi, lunghi e dolorosi processi di revisione critica del proprio vissuto, di assunzione di responsabilità molteplici e di emancipazione emotiva e culturale dal passato; consapevoli che il riconoscimento reciproco dell’uomo detenuto e della vittima costituisce il presupposto di un fecondo rapporto di relazione trasformativa; essendo testimoni dei cambiamenti indotti da queste frequentazioni anche nella relazione dei detenuti con l’autorità rappresentata dal personale di custodia; avendo constatato di persona l’importanza e la ricchezza dei confronti tra detenuti e studenti nel processo rieducativo, poiché questi ultimi spesso rappresentano il volto dei loro figli; avendo altresì constatato il valore sociale, psicologico e morale di questi incontri, al fine di prevenire il bullismo e derive criminali negli adolescenti, convinti che un cambiamento, una emancipazione ed una nuova scelta di campo sia possibile anche per chi ha commesso delitti particolarmente gravi; avendo sperimentato personalmente come questi incontri aiutino anche noi vittime della violenza a vivere le ferite del passato in modo diverso; consapevoli che la sicurezza della società dipende dalla qualità della cittadinanza di chi esce dal carcere; guardiamo con notevole perplessità e sofferenza personale alle norme restrittive recentemente introdotte nelle carceri italiane volte a irrigidire, limitare e contingentare queste feconde attività di relazione tra detenuti e cittadini, in particolare laddove queste vengono obbligatoriamente sottoposte ad una impersonale e spesso soffocante centralizzazione burocratica”. Seguono le firme di cui sopra. In direzione ostinatamente contraria... alla logica di Marcello Pesarini transform-italia.it, 7 novembre 2025 Prima i fatti poi le interpretazioni. Solo una breve premessa: per una parte non indifferente dell’amministrazione della Giustizia, si susseguono dichiarazioni, interventi, interviste. Poi, di fronte a necessità che non possono essere ignorate, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria pensa siano sufficienti o comunque necessarie comunicazioni che non hanno nulla di complessivo, ma possono ulteriormente infastidire o gettare la zizzania. Nel giro di una settimana, il 14 e il 21 ottobre 2025, sono state consegnate alle organizzazioni sindacali dei lavoratori penitenziari e ai provveditorati penitenziari nonché alle direzioni degli istituti penitenziari, due diverse direttive. Quella a data 14/10 è dedicata alla prevenzione degli eventi critici, e rivolta alle organizzazioni sindacali oltre che alle direzioni. La comunicazione del 21/10 è invece rivolta a disciplinare gli eventi ricreativi, di studio, pedagogici negli istituti dove sia presente anche l’Alta Sicurezza. La prima sembrava aprire una riflessione su uno dei passaggi più dolorosi della sofferenza legata al sovraffollamento: la scarsa attenzione nell’accoglienza dei detenuti trasferiti da altra sede, e la necessità che tutto il corpo lavorante in un istituto si faccia carico della corretta informazione dei suoi diritti, ai doveri, alle comunicazioni con le famiglie, ai permessi. La circolare trasmessa il 14/10 dice: “L’esperienza dimostra che la sicurezza e il trattamento non sono due binari paralleli, ma due dimensioni inscindibili della vita penitenziaria. Ogni ritardo nella consegna di effetti personali, ogni incertezza nell’organizzazione di colloqui o telefonate, ogni lentezza nella gestione sanitaria o amministrativa diventa terreno fertile per malcontento e conflittualità”. E anche: “Non è ulteriormente tollerabile che il personale di Polizia addetto alla vigilanza e osservazione delle sezioni, già gravato da un impegno straordinario, diventi il prevalente presidio di contenimento di problematiche che traggono origine da ritardi nell’erogazione dei servizi, da mancate comunicazioni, da difetti di coordinamento tra aree funzionali”. In poche parole, nessuno si senta escluso, meno che meno non ritenga poco considerate le sue capacità, quando sono pedagogiche o sanitarie, e in attesa dei rinforzi, che dalle decisioni governative di agosto assommano a soli 1.000 agenti, facciamo quadrato sia per rispetto nei confronti dei nostri ospiti momentanei, i detenuti in attesa di libertà o di trasferimento, sia di chi negli istituti lavora a vari titoli ed è bene che non subisca il proprio lavoro e lo valorizzi. Il terreno sul quale tenta di intervenire, usando parole precise e concetti chiari, la comunicazione del 14 ottobre è quello definito nel rapporto del Garante Nazionale sui decessi e suicidi nel periodo che esaminiamo dal 2021 al 2025, quest’ultimo fino al 31 luglio. Si è passati da 32 suicidi a 46 nel 2025(31.7), 60 decessi per cause naturali a 69, da 6 a 30 per cause da accertare, 2 accidentali a 1 e 1 omicidio a 0 nel 2025. Sono evidenti i tentativi di unificare e responsabilizzare tutti i settori ma la coperta resta troppo corta, col pericolo di creare ulteriori tensioni invece di semplificarle. Questo non è un processo alle intenzioni quanto un intervento con evidenti limiti di mezzi e scarso intervento della politica. Quanti sono i calvari di detenuti che vengono trasferiti da un carcere all’altro in seguito a malumori espressi in maniera singola e collettiva per le condizioni di vitto, alloggio, trattamento, promiscuità? Quanti loro trasferimenti non ricevono spiegazioni, attenzioni, alla partenza o all’arrivo? Le informazioni sulle quali ci basiamo derivano ad esempio da “Morire di carcere. Sportello di supporto psicologico dei parenti di detenuti” e “Associazione Yairaiha Onlus”, in primis, e dicono: quasi nessuno, per non dire nessuno. Che poi da questi passaggi derivino ulteriori malcontento e conflittualità, non è cosa di cui stupirsi. A seguire la scarsa consultazione delle cartelle mediche, la sottovalutazione che poi diventa creazione di condizioni che portano al suicidio, la malasanità che crea veri e propri circuiti chiusi con gli ospedali. Chi sta male crea problemi se nessuno se ne fa veramente carico come persona, e se in carcere come in ospedale non si dà ascolto alla medicina soggettiva, la fine è prossima. La medicina soggettiva risente della storia di ogni persona, ed è più pesante se la persona non ha avuto un cammino lineare. Vorremmo tornare presto su quanto descritto con nomi e persone, nella speranza di poter fornire anche buone notizie. A seguito della comunicazione del 21 ottobre, che subordina all’approvazione dello stesso DAP la realizzazione di ogni iniziativa negli istituti in cui è presente una sezione di Alta Sicurezza, anche se l’iniziativa non riguarda la stessa Alta Sicurezza, il carcere dei Due Palazzi ha annullato il giorno 30 un’attività programmata da mesi. Il progetto Kutub Hurra (libri liberi) ha permesso l’acquisto di 50 libri in arabo per ogni istituto, di contenuto laico e la creazione di un gruppo di lettura in arabo importanti per la popolazione reclusa arabofona e non. Nel 1998 la rivista Ristretti Orizzonti, fulcro di proposte trattamentali, di giustizia riparativa, archivio vivente e pulsante di attività, iniziò a Padova la sua attività e tutt’ora va avanti con la libera collaborazione delle voci più svariate del Mondo a Quadretti (definizione diffusa senza copyright). Al di là dello stupore e dell’indignazione che suscitano queste decisioni proprio in un luogo che è punto di riferimento per tanti di noi attivisti, il punto è il seguente: a fronte dei pochi spunti degli interventi della ministra Cartabia non portati avanti, si è insediato il ministro Nordio il cui capolavoro sembra ad oggi essere la riforma concernente la separazione delle carriere, un regalo alle destre e ai forzisti per chi scrive e non solo. Ci piacerebbe pensare a degli Stati Generali della Giustizia; ma se con il ministro Orlando venne gettata la spugna, non ci resta che sognare il volo di tante farfalle (ricordate la rivista e il film omonimi?), oppure un’altra marea che dal fiume vada al mare come per Gaza, tessuta dalle madri dei detenuti, sempre più disperate ma proprio per questo capaci di inventiva altrove inesistente. Nordio e Delmastro… venite a vedere che succede nelle carceri di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 7 novembre 2025 Luciano fino a qualche giorno fa era il mio “capocella”: nella cella 2-B-13 (ovvero secondo piano, reparto B, cella 13, la stessa dove quarant’anni fa stavo con Paolo Di Nella) era il più anziano di permanenza. Da sei giorni Luciano è stato trasferito in una cella singola, i cosiddetti “cubicoli”. Luciano è uomo d’altri tempi, trapiantato nella nostra contemporaneità. Scolpito nella roccia nonostante abbia superato i 60, faccia buona che in un attimo può diventare feroce, nella vita fa il muratore e il capomastro e qui a Rebibbia è uno dei migliori lavoranti impiegati nell’edilizia. Ogni giorno racconta con soddisfazione tutto il lavoro che ha fatto, spesso da solo e in condizioni proibitive, ma sempre a perfetta regola d’arte: l’abito mentale dell’artigiano, soddisfatto della sua maestria, del lavoro ben fatto, più che del ritorno economico ottenuto (qui in carcere veramente miserevole: mediamente 700 euro al mese). In galera da più di 9 anni non ha mai avuto un beneficio, se non andare qualche giorno in permesso per la prima volta un mese fa. Poi, proprio in quanto lavorante d’eccellenza, aveva ottenuto, dopo tre anni d’attesa, la sospirata cella singola, che - quando non serve a isolare persone problematiche - è uno “status symbol” molto ambito: permette di guadagnare indipendenza e privacy, di leggere e scrivere giorno e notte senza disturbare nessuno, di sistemare e abbellire a piacimento il proprio ambiente. Così, quando si è trasferito 6 giorni fa, Luciano era dispiaciuto di lasciarci, ma felice e orgoglioso per il riconoscimento ottenuto. Passano 6 giorni e Luciano viene convocato insieme ai lavoranti che stanno in celle singole, per essere informati dall’Amministrazione che la cella singola può essere revocata a tutti da un momento all’altro. Uno scherzo di pessimo gusto? No, l’ennesimo effetto del sovraffollamento acuito dal crollo di Regina Coeli. A lui, come a tutti i lavoranti che rischiano di essere trasferiti in celle a 6 posti, viene detto: “Ormai siamo costretti a trasferire le funzioni di Regina Coeli al braccio G8 di Rebibbia”. Ovvero quello che era il “fiore all’occhiello” del carcere, il reparto di media sicurezza ricco di attività lavorative e sociali, costruito in anni d’impegno appassionato dalla ex cooperatora Cinzia Silvano, sarà trasformato nel “reparto di transito” dove verranno portati tutti i 30- 40 arrestati che ogni giorno vengono presi a Roma. Stesso destino per il padiglione “Venere” che nel G8 era il reparto riservato ai lavoranti ex art. 21 o. p., ovvero quelli che vengono mandati a lavorare all’esterno del carcere, come ulteriore passo verso la riconquista della libertà. Padiglione abolito, tutti questi lavoranti sono già stati trasferiti nella “terza casa”, un tipo di carcere appositamente dedicato. Sembrerebbe una buona cosa, in realtà è pessima perché questo rappresenterà in futuro un’altra barriera all’accesso delle persone detenute al lavoro esterno. Oggi servono posti a Rebibbia che supera già il 150% di sovraffollamento e il sistema diventa doppiamente punitivo: strappa quella sorta di “patto trattamentale” che ha permesso ai lavoranti di ottenere la cella singola o il lavoro esterno, seguendo le regole imposte di non avere rapporti disciplinari nei 6 mesi precedenti e di stare in cima a una graduatoria basata su un punteggio, sulla buona condotta e sull’anzianità nel carcere. Sono stati colpiti anche gli ergastolani, visto che anche a loro hanno chiesto di lasciare le celle singole, forse dimenticando che l’art. 22 c. p. impone che l’ergastolo vada scontato lavorando e dormendo da soli. Diversi lavoranti minacciati di questo destino hanno chiesto di essere sospesi dal lavoro per non perdere la cella singola, ma la risposta è stata che così facendo non solo perdono lo stesso la cella singola ma ottengono anche un bel rapporto disciplinare. Una domanda che non trova risposta è la seguente: perché servono tutte queste celle singole? Forse perché devono essere allocate persone problematiche di vario genere, affette da patologie psichiatriche o infettive? Se è così, significa che ogni reparto sarà esposto alle intemperanze violente dei “mattaccini” (nel gergo carcerario, chi è ingestibile per problemi psichiatrici) e al rischio contagio di malattie infettive. In ogni caso quello che viene totalmente devastato è il “trattamento penitenziario” che dovrebbe essere il cuore pulsante della giurisdizione di sorveglianza. Se viene ignorato, svuotato, contraddetto, allora non è solo la persona detenuta a essere tradita, ma l’intero sistema penale e con esso la promessa costituzionale di una giustizia che deve tendere alla rieducazione del condannato. Nel Vangelo della Messa di oggi, Padre Lucio ha letto il brano (Mt 25,31- 46) in cui Gesù, per indicare i giusti, dice fra l’altro: “ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Il ministro Nordio e il sottosegretario Delmastro, che nei mesi scorsi avevano promesso di gestire il sovraffollamento senza violare i diritti delle persone detenute, conoscono questo Passo del Vangelo? E perché non vengono a vedere cosa sta succedendo? Sulla giustizia ballo in maschera a suon di slogan di Enrico Bellavia L’Espresso, 7 novembre 2025 Insofferenza. È il sentimento che muove le reazioni del governo contro la “pretesa invadenza” dei giudici. Un’irritazione che diventa pura avversione quando il controllo di legalità costituisce un argine alla dismisura, allo strapotere, all’arbitrio. In tempi di propaganda anche lo stop della Corte dei conti al Ponte e perfino le attuali indagini sulla sbrigativa soluzione data allora al delitto di Garlasco vengono usati per puntellare il sì al referendum sulla separazione delle carriere. Che, però, con i casi elevati a pretesto nulla ha a che fare. L’uso distorto degli argomenti tradisce l’obiettivo reale: la riforma costituzionale che Meloni vuole appuntarsi al petto ha la funzione di dare una lezione ai magistrati. Non è però l’efficienza del sistema a interessare. C’è l’urgenza di un avvertimento ai magistrati più zelanti. Abbassate la testa. Rinunciate a mettere becco sulle decisioni dell’esecutivo. Lasciate perdere il passato che, quando riaffiora, continua a imbarazzare, perché svela sempre intrecci tra poteri diversi. Come per le stragi, che non si prescrivono. E stanno lì a indicare l’angolo cieco della nostra fragile democrazia. La riforma, solo in apparenza tecnica, è in realtà un messaggio, una forma di intimidazione istituzionale che un potere, appunto insofferente, manda all’altro. Basta con i casi Delmastro. Lasciate perdere Almasri. Niente indagini sui milioni persi nei Cpr d’Albania. Smettetela con la storia dei migranti ostaggio sulla Diciotti. Evitate tutte quelle inchieste sulla corruzione che dal Sud rischiano di risalire a Roma. E finitela pure con i ministri sotto processo. Tanto, lo sapete, il rango condona il pregresso. Per sostenere la campagna referendaria, sulla quale persino Ignazio La Russa intravede rischi di contraccolpi per la premier, si cercano testimoniai. Anche tra i morti. Così Giovanni Falcone viene evocato come sostenitore della separazione delle carriere. Quando invece parlava di distinzione di funzioni e di specializzazione, cioè di investimenti e organizzazione: tutto ciò che il ministro Nordio non ha affrontato. Meglio una riforma-bandiera che sciogliere nodi reali: tempi, organici, carenze strutturali, accesso e filiera di incarichi come canale di influenza politica sulle toghe. E poi le carceri, ridotte a non luoghi del diritto. Niente di tutto ciò è toccato dalla riforma. Abituato a giocare sulle fasce, Nordio è arrivato anche a propugnare - lo ha fatto per il delitto di Garlasco - una sorta di pietoso oblio sui casi irrisolti, affidando semmai agli storici la ricerca della verità. Strana forma di garantismo intermittente la sua. Se ne infischia di eventuali errori giudiziari da riparare e bolla come accanimento l’indagine retrospettiva. Quando invece una giustizia giusta dovrebbe accertare responsabilità anche retroattive, e, se necessario, tra investigatori e magistrati che non hanno fatto il loro dovere. La storia, però, è più malleabile della giurisdizione. La si piega, la si riscrive, la si alleggerisce. La giurisdizione no: pretende nomi, prove, responsabilità. La riforma più che separare le carriere mira a separare il potere dalle sue conseguenze. Scava un fossato a protezione del castello di una politica intangibile. Che non risponde più del proprio operato. Ciò che viene presentato come riequilibrio dei poteri è, in realtà, il suo opposto. Mentre regnanti e cortigiani si esibiscono nel ballo in maschera degli slogan. L’investitura a Nordio: sarai il simbolo del referendum di Errico Novi Il Dubbio, 7 novembre 2025 A Palazzo Chigi la “war room” tra il ministro e il sottosegretario Mantovano. In via di definizione la strategia mediatica per il voto sulla riforma. Sarà lui, Carlo Nordio, il vero frontman della campagna referendaria. Il guardasigilli come simbolo della battaglia per il Sì. Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza e, come Nordio, magistrato e principale consigliere della premier Giorgia Meloni sulla giustizia, ieri mattina avrebbero dovuto confrontarsi sull’investitura al ministro, già ben consapevole della propria destinazione alla prima linea. Poi altre emergenze hanno rubato la scena, ma la strategia in vista del voto popolare sulla separazione delle carriere resta in cima all’agenda. È d’altronde il punto di caduta, la missione affidata al guardasigilli, delle discussioni intercorse nella maggioranza sulla consultazione che dovrà confermare la riforma. Meloni ha spiegato, soprattutto ad Antonio Tajani, che sarebbe incoerente schierare le articolazioni territoriali di Forza Italia nella campagna per il Sì a fronte del mantra che la stessa presidente del Consiglio ha indicato per il referendum: noi abbiamo approvato il nuovo ordinamento della magistratura, cari cittadini, perché crediamo possa essere utile a tutti voi, e se lo pensate è opportuno che votiate Sì, altrimenti vorrà dire che l’articolo non v’interessa e noi non ne faremo un dramma. Ecco, il discorso con cui Meloni vuole disallineare il proprio futuro di leader (cioè la vittoria alle Politiche 2027) dall’esito del referendum è riassumibile in quei termini. E appunto, Carlo Nordio è lo snodo perfetto, la sintesi in cui confluiranno le aspettative dei berlusconiani e la prudenza di Fratelli d’Italia, con la Lega a metà strada fra le due posizioni. Tajani e gli azzurri dovranno farsene una ragione: Nordio è il solo che possa mettersi in gioco in tutto e per tutto. E non perché sia l’agnello sacrificale di una possibile sconfitta. Nordio non è un politico. È un magistrato e, prima ancora, un tecnico del diritto. È perciò lui il miglior testimonial di una campagna in cui il centrodestra, almeno nelle intenzioni della sua leader, chiederà il Sì alle carriere separate in nome del giusto processo, e al più della lotta alla correntocrazia nella magistratura. Nordio è il volto che può rappresentare una battaglia preparata come rivoluzione tecnica ma non come regolamento di conti con le toghe. E la ragione è sempre la stessa, nota da tempo: va bene portare a casa una riforma della Costituzione, perché sarebbe un risultato notevole, per la prima presidente del Consiglio di destra nella storia repubblicana, ma il gioco non vale la candela della vittoria alle Politiche 2027. Ieri a Palazzo Chigi, Mantovano e Nordio, che hanno discusso da soli, hanno parlato soprattutto di altro. Dei capitoli di spesa inseriti nella legge di Bilancio che riguardano la giustizia, di norme come il contestato (dall’avvocatura innanzitutto) requisito previsto per gli incarichi legali pubblici, dai quali saranno esclusi i professionisti non in regola con fisco e previdenza (la misura è enunciata all’articolo 129 comma 10 della Manovra). Focus anche sul piano per l’edilizia penitenziaria e sulle altre misure presenti e future sulle carceri, con margine zero per gli “sconti di pena”, cioè per ampliamenti della già vigente liberazione anticipata. Mantovano e Meloni (con il pieno consenso del sottosegretario Andrea Delmastro) temono che qualsiasi vero intervento per contrastare il sovraffollamento delle prigioni, se realizzato durante campagna referendaria sulla separazione delle carriere, sarebbe spacciato come il segno che l’Esecutivo sta dalla parte dei delinquenti: “Da una parte gli svuotacarceri per liberare i criminali comuni, dall’altra il “divorzio” tra giudici e pm per dare copertura anche ai colletti bianchi”. A breve si passerà alla definizione del “messaggio” per il referendum. Che, secondo Meloni, dovrà enfatizzare il più possibile il valore civile della riforma sulle carriere dei magistrati. Sottrarre il giudice al condizionamento del pm, che avrà un Csm tutto suo, dovrà essere presentato, e d’altronde è così nella realtà, come una modifica necessaria nell’interesse dei cittadini. Ed ecco perché, secondo Palazzo Chigi, sarà importante valorizzare il contributo che, nella campagna referendaria, potrà arrivare da componenti esterne alla politica: l’avvocatura, certo, ma pure testimonial significativi come Antonio Di Pietro, ex magistrato-simbolo della rivoluzione giudiziaria eppure convinto sostenitore della riforma Nordio. Non si è parlato invece di Almasri, della comunicazione relativa all’arresto del militare-torturatore libico, della difesa che, esaurito l’iter dell’autorizzazione a procedere, l’Esecutivo dovrà ancora sostenere. Non sarà certo quella la sola insidia mediatica, di qui al referendum sulle carriere. Ieri Pd, M5S e Avs hanno depositato in Cassazione le firme con cui un quinto dei loro senatori chiede di indire il referendum sulla “separazione”. Elly Schlein non ha mancato di replicare a Nordio sui benefici che, secondo il ministro, la riforma arrecherà anche a futuri governi della sinistra: “Io non me ne servirò”. Il guardasigilli non sarà solo il simbolo della campagna per il Sì: sarà anche la bambola vodoo di Anm e fronte del No. Ma almeno, spilloni a parte, difficilmente potrà essere destinatario di avvisi di garanzia da qui al voto di primavera, il che è un vantaggio da non trascurare. Nordio si sbaglia: anche una riforma costituzionale può violare la Costituzione di Vitalba Azzollini* pagellapolitica.it, 7 novembre 2025 Il ministro della Giustizia ha definito “stupidaggini” le critiche contro il sorteggio dei componenti dei due nuovi CSM, ma la questione è più complessa. Il 3 novembre, in un’intervista con il Corriere della Sera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito una “stupidaggine” l’accusa secondo cui la riforma costituzionale della giustizia, approvata il 30 settembre dal Senato, violerebbe la Costituzione. “Come fa una legge costituzionale a essere anticostituzionale? Questa è la Costituzione”, ha detto Nordio. La dichiarazione del ministro della Giustizia apre due questioni. Da un lato, una riforma costituzionale può essere incostituzionale? In breve, la risposta è sì. Dall’altro lato, la riforma della giustizia è incostituzionale? Qui la risposta cambia in base alle argomentazioni dei favorevoli e dei contrari: come sempre in questi casi, l’ultima parola spetterebbe alla Corte Costituzionale, nel caso fosse chiamata in causa. Ma procediamo con ordine. La Costituzione prevede un articolo specifico per stabilire come può essere modificata. L’articolo 138, infatti, definisce il procedimento di revisione della Costituzione, che è più complesso rispetto a quello delle leggi ordinarie. Questo è l’unico paletto procedurale che la Costituzione impone, nero su bianco, ai poteri di modifica del Parlamento. Dunque, tutte le altre riforme della Costituzione sono da considerarsi costituzionali? Qui si confrontano due orientamenti. Secondo una visione “formale”, le riforme approvate con il procedimento previsto dall’articolo 138 diventano automaticamente parte integrante della Costituzione, e quindi non possono essere sottoposte al giudizio di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale. In altre parole - secondo questa visione - qualsiasi modifica della Costituzione approvata nel rispetto delle forme previste dalla stessa Costituzione sarebbe valida e insindacabile nel merito, perché il nuovo testo della Costituzione sarebbe “la Costituzione” stessa. Secondo una visione “materiale”, invece, anche le riforme costituzionali devono rispettare alcuni limiti, come ha stabilito la stessa Corte Costituzionale in una sentenza del 1988. Circa quarant’anni fa, i giudizi costituzionali hanno scritto che “la Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. Tra questi limiti rientra anzitutto quello fissato dall’articolo 139 della Costituzione, secondo cui “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Ma per la Corte esistono anche altri “principi supremi” che, pur non essendo esplicitamente menzionati, appartengono all’essenza dei valori fondamentali su cui si fonda la Costituzione italiana. Tra questi principi supremi rientrano, per esempio, l’uguaglianza dei cittadini, i diritti inviolabili dell’essere umano, la separazione dei poteri e - punto centrale nel dibattito di questi mesi - l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario. Se quindi alcuni principi supremi non possono essere modificati nel loro contenuto essenziale, neppure rispettando il procedimento previsto dall’articolo 138, la Corte Costituzionale mantiene la possibilità di intervenire anche sulle leggi di revisione. In altre parole, il fatto che una riforma sia stata approvata seguendo le regole previste per modificare la Costituzione non la mette al riparo da ogni controllo, se tocca i valori fondamentali dell’ordinamento. Diversamente - ha osservato la Corte nella sentenza del 1988 - si arriverebbe al paradosso di lasciare senza protezione proprio i principi più alti, quelli che costituiscono l’identità stessa della Costituzione. Chiarito questo, la risposta alla domanda di Nordio - come può una legge costituzionale essere incostituzionale? - è che una legge di revisione può essere messa in discussione se viola il procedimento previsto o se contrasta in modo evidente con i principi supremi dell’ordinamento. Nella pratica, però, la Corte Costituzionale non ha mai annullato una riforma per motivi di merito legati a questi principi, limitandosi finora a riconoscerne l’esistenza in linea teorica. Veniamo adesso al caso specifico di cui si sta dibattendo in questi giorni, cioè il contenuto della riforma costituzionale della giustizia, che introduce la separazione della carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Una delle novità riguarda il Consiglio superiore della magistratura (CSM), l’organo di autogoverno dei magistrati, che si occupa delle nomine, delle carriere e delle sanzioni disciplinari dei giudici e dei pubblici ministeri. La Corte Costituzionale ha sempre riconosciuto al CSM il ruolo di garante dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Per esempio, con una sentenza del 1992, la Corte ha stabilito che il CSM gode di una posizione di piena indipendenza rispetto a ogni altro potere dello Stato quando decide su questioni che riguardano lo status dei magistrati. Attualmente, l’articolo 104 della Costituzione prevede che il CSM sia presieduto dal presidente della Repubblica. Ne fanno parte, di diritto, anche il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri membri sono per due terzi eletti dai magistrati (i cosiddetti “togati”) e per un terzo dal Parlamento riunito in seduta comune, che sceglie tra professori ordinari di materie giuridiche e avvocati con almeno quindici anni di esperienza professionale (i cosiddetti “laici”). La riforma costituzionale modifica l’articolo 104 della Costituzione: crea due CSM separati, uno per i giudici e l’altro per i pm, entrambi presieduti dal presidente della Repubblica, e modifica il metodo di elezione dei suoi componenti. I componenti dei due CSM non sarebbero più eletti direttamente dai magistrati e dal Parlamento, come avviene oggi, ma scelti tramite sorteggio. Un terzo verrebbe estratto da un elenco di professori ordinari di materie giuridiche e di avvocati con almeno quindici anni di esercizio, elenco che il Parlamento in seduta comune predispone attraverso una votazione. I restanti due terzi sarebbero sorteggiati tra i giudici, per il Consiglio superiore della magistratura giudicante, e tra i pm, per il Consiglio superiore della magistratura requirente, secondo modalità che saranno definite da una nuova legge ordinaria. I componenti dei CSM così individuati resterebbero in carica quattro anni e non potrebbero essere sorteggiati di nuovo nel turno successivo. Ricapitolando: la riforma abolisce il principio dell’elezione diretta dei membri del CSM. I magistrati non sceglieranno più i propri rappresentanti e il Parlamento non designerà più direttamente i membri laici. Al loro posto subentrerà un sistema di sorteggio, basato però su liste predefinite per assicurare requisiti professionali minimi. Se la riforma sarà confermata, sarà istituita anche una nuova Alta Corte disciplinare, esterna ai CSM, incaricata di occuparsi dei procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati e composta anch’essa, in buona parte, tramite sorteggio. A questo punto si pone una domanda centrale: l’elezione dei componenti del CSM da parte dei magistrati, e di quelli laici da parte del Parlamento, fa parte del “nocciolo duro” dell’indipendenza della magistratura, cioè di quel principio che nemmeno una riforma costituzionale può intaccare? In altre parole, trasformare un organo di autogoverno rappresentativo in un organo composto per sorteggio incide su un principio supremo della Costituzione - l’indipendenza e l’autonomia della magistratura - rendendo quindi teoricamente incostituzionale la riforma voluta dal governo Meloni? Il dibattito sulla costituzionalità del sorteggio non è nuovo: se ne discuteva già nel 2018, quando alcune proposte di riforma del CSM ipotizzavano un sistema misto di elezione e sorteggio per limitare il potere delle correnti, e l’Associazione nazionale magistrati lo definì incostituzionale perché avrebbe cancellato il principio rappresentativo previsto dall’articolo 104. Secondo i critici della riforma, la risposta è sì. La rappresentanza prevista dall’articolo 104 della Costituzione nel suo impianto originario - i magistrati eleggono, tra loro, i membri che li governano - non è un semplice dettaglio organizzativo, ma un elemento strutturale del sistema di garanzie. È, infatti, il meccanismo che assicura che l’organo di autogoverno resti espressione del corpo giudiziario e non diventi uno strumento controllabile dall’esterno. In questa prospettiva, il principio elettivo, proprio del modello di autogoverno rappresentativo, sarebbe parte integrante delle garanzie costituzionali di indipendenza della magistratura. Per questo, l’introduzione del sorteggio - che modifica radicalmente quel modello - inciderebbe su un principio supremo, rendendo la legge di riforma in contrasto con la Costituzione. Per i contrari alla riforma, sostituire l’elezione con l’estrazione casuale avrebbe due effetti principali. Da un lato, indebolirebbe l’autogoverno, perché i magistrati non parteciperebbero più alla scelta dei propri rappresentanti. Dall’altro, aumenterebbe in modo più sottile, ma non meno significativo, la capacità del potere politico di influire sulla composizione del CSM. Basterebbe, per esempio, restringere i criteri di accesso o il numero dei candidati nel “listino” da cui si effettua il sorteggio per orientarne l’esito verso profili più graditi alla maggioranza parlamentare del momento. In sintesi, per gli oppositori il voto diretto dei magistrati è una garanzia essenziale di indipendenza, perché mantiene il legame tra CSM e corpo giudiziario e limita l’ingerenza della politica. Il sorteggio, al contrario, metterebbe a rischio questo equilibrio e, di conseguenza, un principio supremo dell’ordinamento. Su un piano opposto si collocano i sostenitori della riforma. Secondo loro, l’elezione dei componenti togati del CSM, così come prevista dall’articolo 104, non rappresenta un principio supremo intangibile, ma una delle molte possibili modalità organizzative per comporre il Consiglio. L’essenza della garanzia costituzionale - sostengono - non risiede nel metodo di selezione, ma nella posizione di indipendenza del CSM rispetto agli altri poteri dello Stato. Questa indipendenza, a loro avviso, resterebbe intatta anche dopo la riforma. “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, continua infatti a sancire l’articolo 104 della Costituzione, anche dopo la riforma. Di conseguenza, il Parlamento avrebbe la facoltà di modificare il sistema di elezione introducendo un meccanismo di sorteggio, purché il procedimento segua le regole previste dall’articolo 138 della Costituzione e non comprometta l’autonomia del potere giudiziario. I sostenitori aggiungono che il sorteggio avrebbe un vantaggio ulteriore: ridurrebbe il peso delle “correnti” interne alla magistratura, limitando le dinamiche di potere, le spartizioni e le influenze che negli anni hanno segnato le elezioni per il CSM. In questo modo - a detta loro - la riforma renderebbe il Consiglio meno manipolabile e l’indipendenza interna della magistratura, cioè la libertà dei singoli magistrati rispetto alle proprie fazioni, ne uscirebbe rafforzata. Alle critiche sul carattere casuale del sorteggio, i favorevoli rispondono che non si tratterebbe di un’estrazione “al buio”. La selezione avverrebbe infatti all’interno di elenchi di candidati già qualificati, scelti in base a criteri fissati dal Parlamento, come l’anzianità di servizio o i titoli professionali. Secondo questa lettura, questi criteri non costituirebbero un mezzo per esercitare influenza politica, ma piuttosto una garanzia di competenza e qualità dei futuri consiglieri. In conclusione, per i sostenitori della riforma, l’obiezione di incostituzionalità si ribalta. Il sorteggio, lungi dal violare la Costituzione, potrebbe addirittura realizzarne meglio i principi, perché non solo non metterebbe in discussione l’indipendenza della magistratura, ma addirittura la rafforzerebbe. Quest’ultima resterebbe tutelata dal fatto che i componenti togati del CSM, anche se non eletti, sarebbero comunque magistrati in attività, soggetti soltanto alla legge, e che il CSM continuerebbe a esercitare in autonomia le proprie funzioni, senza interferenze da parte del governo. *Giurista Il senso perverso di una controriforma costituzionale di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 7 novembre 2025 Il senso della contro-riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario è uno solo: un atto di ostilità e di disprezzo nei confronti dei magistrati e un primo passo verso la subordinazione dei pubblici ministeri al potere politico. La separazione delle carriere è un falso argomento, essendo già stata realizzata. Oggi i passaggi di carriera riguardano ogni anno lo 0,4% dei magistrati. Se questa fosse stata la ragione della riforma sarebbe bastato eliminare questo insignificante residuo con una legge ordinaria, senza scomodare Costituzione e popolo sovrano, mobilitato con il referendum su una simile sciocchezza. Il vero senso della riforma è un altro. Consiste nel mettere un timbro post-fascista sulla Costituzione nata dalla Resistenza, tramite un’insensata ristrutturazione del Consiglio superiore della magistratura, sdoppiato in due Consigli diversi ai quali viene aggiunta un’Alta corte disciplinare. È chiaro che un Consiglio separato dei pubblici ministeri ha il senso di una dislocazione della pubblica accusa fuori dall’ambito della giurisdizione e di un suo enorme potenziamento: i pubblici ministeri saranno governati soltanto da pubblici ministeri. Si può ben condividere la separazione delle carriere. Ma questa collocazione della pubblica accusa fuori dal campo della giurisdizione ne riduce la natura di organo di garanzia, titolare della funzione cognitiva che è tipica di tutta l’attività giurisdizionale, e si spiega soltanto come un primo passo per ridurne l’indipendenza. D’altro canto, la sostituzione del carattere elettivo dei componenti del Consiglio con il sorteggio equivale alla negazione del principio costituzionale dell’autogoverno dell’ordine giudiziario e a un atto di sfiducia nelle capacità di autogestione dei magistrati. Viene giustificata con la necessità di porre fine al potere delle correnti, le quali sono state invece, storicamente, il principale fattore di democratizzazione della magistratura. Quel potere è semmai dovuto alla reintroduzione delle carriere dei magistrati. È chiaro che in un organo collegiale sono inevitabili i compromessi tra i gruppi in esso rappresentati. Se la designazione dei capi degli uffici fosse invece nuovamente affidata al semplice criterio dell’anzianità, con la sola eccezione della pronuncia a sostegno di candidati di eccezionale valore da parte di maggioranze consiliari qualificate e trasversali, verrebbe meno il potere discrezionale del Consiglio e, conseguentemente, delle correnti. Si otterrebbe la soppressione delle carriere, che fu la prima conquista delle battaglie civili degli anni Sessanta e Settanta, in accordo con il principio dell’indipendenza interna e perciò dell’uguaglianza dei magistrati, i quali, dice l’articolo 107 della Costituzione, “si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. La controriforma della destra si inserisce dunque nel generale attacco alla giurisdizione da parte delle autocrazie elettive nelle quali vanno trasformandosi i sistemi politici occidentali, insofferenti - da Trump a Netanyahu e a Erdogan - della soggezione alla legge dei poteri politici e perciò del controllo sulle loro illegalità da parte di magistrati indipendenti. Ogni iniziativa dei giudici nei loro confronti viene in vario modo osteggiata: con il loro arresto (metodo Erdogan), o con la loro neutralizzazione (metodo Trump) o con la loro squalificazione come complottasti politicizzati e comunisti solo perché, talora, applicano la legge anche ai potenti (metodo Meloni, Salvini e Le Pen). Dietro questi attacchi c’è una concezione elementare della democrazia, sulla base della quale la sola fonte di legittimazione del potere è il voto popolare e non c’è quindi spazio per la separazione dei poteri e per l’indipendenza della magistratura. È una concezione che ignora che la giurisdizione ha un fondamento di legittimità non solo diverso ma opposto a quello del potere politico, consistendo nell’accertamento della verità processuale, a garanzia della sua soggezione soltanto alla legge e dell’uguaglianza dei cittadini. Nessuna maggioranza, per quanto schiacciante, può rendere legittima la condanna di un innocente o sanare un errore commesso ai danni di un solo cittadino. Nessun consenso politico - del governo, o del parlamento, o della stampa, o dei partiti o della pubblica opinione - può surrogare la prova mancante o indebolire le prove acquisite di un’ipotesi accusatoria. Giudici e pubblici ministeri sono tali solo se sono in grado di assolvere o chiedere il proscioglimento quando tutti chiedono la condanna e di condannare o di indagare un potente quando tutti ne pretendono l’impunità. Non si può punire un cittadino o ottenerne l’impunità solo perché questo risponde alla volontà o all’interesse della maggioranza. Lo si può punire solo se si è accertato che ha commesso un fatto previsto dalla legge come presupposto di una pena. E questo vale per i giudici, ma anche per i pubblici ministeri, la cui fonte di legittimazione è parimenti contro-maggioritaria, consistendo le loro funzioni nello svolgimento di indagini e quindi nell’accertamento della verità. È l’abc dello stato di diritto, ignoto, purtroppo, all’analfabetismo istituzionale dei nostri governanti. Così il Csm ha vanificato i test psicologici per le toghe voluti da Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 novembre 2025 Nel marzo 2024 il governo ha introdotto i test psicoattitudinali per i magistrati per intercettare eventuali disturbi psichici o di personalità. Ora il Csm ha approvato una delibera in cui esclude l’uso di test sulla personalità, ribaltando la volontà del legislatore. Il problema italiano va ben oltre la separazione delle carriere tra pm e giudici e riguarda nientemeno che la separazione dei poteri. A confermarlo in modo emblematico è quanto avvenuto attorno a un tema che un anno fa aveva acceso le polemiche tra governo e magistratura: i test psicoattitudinali per le toghe. Auspicati per lungo tempo da Silvio Berlusconi, che non si fece problemi a definire “matti” alcuni pm, i test psicoattitudinali per i magistrati sono stati introdotti dal governo Meloni con un decreto legislativo approvato il 26 marzo 2024, in attuazione di una legge delega del 2022. A chiedere al governo di valutare l’introduzione dei test erano state le commissioni Giustizia di Camera e Senato. Alla fine il decreto legislativo elaborato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio ha previsto lo svolgimento di test psicoattitudinali soltanto nella fase del concorso per l’accesso alla magistratura (e non con cadenza periodica durante la carriera), affidandone peraltro l’elaborazione concreta al Consiglio superiore della magistratura, “nel rispetto delle linee guida e degli standard internazionali di psicometria”. Nella conferenza stampa successiva all’approvazione del provvedimento, il ministro Nordio disse chiaramente che l’obiettivo dei test era intercettare nei candidati eventuali “disturbi psichici o di personalità”. “Ho fatto anch’io il test Minnesota, che è quello che vorremmo introdurre noi”, dichiarò Nordio, riferendosi a un noto test usato per i concorsi delle Forze armate per individuare disturbi di personalità (come schizofrenia, paranoia e isteria). Cos’è avvenuto da allora? La Sesta commissione del Csm ha impiegato un anno e mezzo per approfondire il tema, ascoltando i pareri di 19 docenti e professionisti, specialisti in psicologia, psichiatria e medicina del lavoro, per poi concludere che l’intento del legislatore è quello di utilizzare i test per valutare nel candidato non la presenza di disturbi psichici o di personalità, bensì “le capacità cognitive specifiche necessarie per svolgere la professione di magistrato”. Per il Csm, lo scopo dei test psicoattitudinali “è quello di ricercare nel candidato particolari abilità, come la capacità di ragionamento, la velocità di apprendimento, la soluzione di problemi e l’adattamento a contesti nuovi”. Di conseguenza, viene escluso l’impiego di test sulla personalità come il Minnesota, che “non risponderebbero alle esigenze espresse dal legislatore, in quanto scarsamente predittivi (valutando aspetti molto dinamici e variabili nel tempo)”. Un palese ribaltamento della realtà e della reale intenzione espressa chiaramente dal governo per bocca del ministro Nordio. La delibera della Sesta commissione è stata approvata mercoledì dal plenum del Csm, con l’astensione delle consigliere laiche Claudia Eccher e Isabella Bertolini. Quest’ultima nel corso del plenum ha attaccato: “La delibera non rispetta la volontà del legislatore, che semplicemente intendeva introdurre dei test che vengono usati dalle Forze dell’ordine, dall’esercito e in alcuni concorsi pubblici, e che non sono offensivi del ruolo e della dignità della persona”. Come se non bastasse, la delibera stabilisce un ulteriore periodo di elaborazione dei test, con il supporto di quattro docenti, della durata di circa un anno. Insomma, il Csm è riuscito nell’impresa di vanificare i due intenti del governo: introdurre dei veri test psicoattitudinali (incentrati sulla valutazione di disturbi psichici e di personalità), e farlo per i concorsi a partire dal 2026 (il Csm non terminerà i suoi lavori prima di novembre del prossimo anno, e vista la vicinanza con la sua scadenza, prevista a gennaio 2027, alla fine potrebbe non approvare alcuna delibera). Di fronte a un ribaltamento così palese da parte del Csm della volontà espressa dal Parlamento e poi dal governo, la politica ha un’unica via per riappropriarsi dei propri spazi: approvare una legge di interpretazione autentica del decreto legislativo, in cui si specifica che i test psicoattitudinali sono finalizzati alla valutazione di eventuali disturbi psichici e di personalità. Ma servirebbe coraggio. Moussa Diarra, la Procura chiede l’archiviazione. La famiglia si oppone: “Chiediamo solo verità” di Giulio Cavalli Il Domani, 7 novembre 2025 Sarà il gip a decidere se il caso di Moussa Diarra, ucciso dai colpi di pistola sparati da un agente della Polfer, debba essere valutato in un processo. Per i pm fu legittima difesa: la famiglia ha appreso dalla stampa della richiesta di archiviazione. Gli avvocati chiedono di visionare tutti gli atti. La richiesta di archiviazione è stata depositata il 5 novembre dalla Procura di Verona. Il procuratore Raffaele Tito ritiene che l’assistente capo della Polizia ferroviaria che il 20 ottobre 2024 ha sparato a Moussa Diarra in stazione Porta Nuova abbia agito in condizioni di legittima difesa. Nella nota diffusa ai giornalisti, la procura afferma che l’agente avrebbe risposto a un “pericolo attuale” e che la reazione sarebbe stata “proporzionata”. L’attenzione viene posta sul coltello da cucina impugnato da Moussa, con lama seghettata di circa undici centimetri, definito “non meno letale” dell’arma da fuoco, perché “una pistola richiede tempo di estrazione e mira”. Nello stesso momento in cui quella nota veniva trasmessa alle redazioni, alla famiglia è stato comunicato che per accedere alle motivazioni dell’atto servivano 8 euro di diritti di copia. “Vogliamo solo verità” - Gli avvocati di parte offesa parlano di “sconcerto” per la scelta di rendere pubblica la sintesi prima ancora di metterla a disposizione dei familiari. Non è la prima volta: il 20 ottobre 2024, poche ore dopo la morte di Moussa, procura e questura avevano diramato un comunicato congiunto che già ipotizzava la legittima difesa dell’agente, quando le verifiche tecniche erano ancora in corso. La famiglia chiede da mesi di accedere integralmente agli atti. Il fratello è arrivato in Italia nei giorni successivi alla morte e partecipa alle iniziative pubbliche della comunità maliana. Il punto è sempre lo stesso: comprendere che cosa sia avvenuto in quel corridoio della stazione, quali parole siano state pronunciate, quale distanza ci fosse tra Moussa e l’agente, quali margini operativi fossero ancora disponibili. Djemagan Diarra lo ripete da mesi: “Non cerchiamo vendetta, voglia solo la verità”. Prima la stampa, poi la famiglia - La comunità maliana di Verona ha organizzato cortei, presidi e momenti pubblici nell’ultimo anno, insistendo sulla necessità di conoscere la dinamica completa dell’evento. Nelle manifestazioni è stato ricordato che Moussa aveva 26 anni, era arrivato in Italia dopo un viaggio lungo e difficile e nei mesi precedenti era stato intercettato più volte dalle forze dell’ordine e da operatori sociali in stati di agitazione. La ricostruzione dei passaggi che hanno portato all’intervento in stazione, del dialogo tra centrale operativa e agenti e della valutazione delle alternative disponibili è uno dei punti ancora aperti. Gli avvocati chiedono di visionare integralmente la perizia balistica per stabilire distanza, traiettorie e numero esatto dei colpi esplosi. Alcune cronache locali hanno riferito di tre spari, uno dei quali mortale. Il dato non è un dettaglio tecnico isolato: indica la distanza reciproca, la sequenza dei movimenti e l’eventuale margine operativo residuo. Il Comitato Verità e Giustizia per Moussa definisce la richiesta di archiviazione il “quarto colpo”, dopo la morte, dopo la nota congiunta di Procura e questura del primo giorno, dopo l’attesa prolungata per l’accesso agli atti. La questione non riguarda solo la valutazione della condotta dell’agente. Riguarda anche l’iter seguito. La procura sottolinea di aver svolto “tutti gli accertamenti ritenuti necessari”. La difesa della famiglia rileva che la comunicazione al pubblico è avvenuta prima della comunicazione alle persone offese, nonostante queste avessero rispettato la secretazione durante le indagini. Ora la valutazione passa al giudice per le indagini preliminari, che potrà accogliere la richiesta o fissare l’udienza in cui discutere l’opposizione. Un caso politico - Giorgio Brasola, dell’associazione Parat@dos, osserva che dichiarazioni politiche successive all’evento avevano già escluso la possibilità di reato. Il riferimento è alle reazioni istituzionali delle ore e dei giorni immediatamente successivi alla morte di Moussa, in cui esponenti di governo, Salvini in primis, avevano parlato di “intervento corretto” e “reazione necessaria”. Brasola aggiunge che nelle settimane seguenti altri interventi delle forze dell’ordine in contesti simili, in stazioni ferroviarie di altre città, si sono conclusi senza l’uso di armi da fuoco, anche quando erano coinvolte persone armate. Inevitabile pensare al quadro nazionale: negli ultimi due anni, in Parlamento, sono state avanzate più proposte di modifica del regime di perseguibilità degli agenti durante il servizio. Il tema dello “scudo penale” per le forze dell’ordine è ricorrente nel dibattito pubblico. In questo clima, il caso Diarra arriva in un momento in cui il confine tra valutazione giudiziaria e legittimazione preventiva di alcune condotte operative è oggetto di confronto. La decisione ora è nelle mani del giudice per le indagini preliminari. La famiglia presenterà opposizione. Sarà quell’udienza, se fissata, a stabilire se la morte di Moussa Diarra dovrà essere ricostruita e discussa in un processo, oppure considerata giuridicamente chiusa. Intanto, a più di un anno dai fatti, la salma di Moussa risulta ancora conservata in cella frigorifera in attesa dell’esito completo delle perizie. È un dato materiale che misura il tempo sospeso di questa vicenda. Sardegna. è record di detenuti stranieri: a Massama uno su cinque è nato all’estero linkoristano.it, 7 novembre 2025 L’associazione “Socialismo Diritti Riforme” denuncia: “Isola luogo di ‘deportazione’. Mancano personale educativo e mediatori culturali”. Nel carcere di Massama è straniero quasi un detenuto su cinque. Sono 254 le persone ristrette nella casa circondariale di Oristano, che può ospitarne fino a 264. I detenuti di origine straniera sono 49. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, esaminando i dati pubblicati dall’Ufficio Statistica del Ministero della Giustizia, esprimendo “viva preoccupazione per le condizioni di vita delle strutture carcerarie sarde, quasi tutte oltre il limite regolamentare e per la carenza di personale educativo e di mediatori culturali, senza dimenticare la presenza dei 41-bis a Sassari e Nuoro e, a breve, a Cagliari”. “Ministero e Dipartimento della Giustizia continuano e riversare nell’isola senza sosta detenute e detenuti. I dati di ottobre”, ha evidenziato Caligaris, “fanno registrare infatti un’impennata di presenze straniere, con una percentuale che sfiora il 30%. A fronte di 2.547 (per 2.479 posti) persone private della libertà 746, pari al 29,2%, sono straniere, prevalentemente extracomunitarie, giunte nell’isola da altre strutture detentive. Un autentico record anche in considerazione della crescita del 20,3% nell’ultimo mese. A settembre i detenuti stranieri erano infatti ‘solo’ 620”. “A soffrire maggiormente”, ha aggiunto la presidente di Sdr, “sono, come sempre, le principali case circondariali di Cagliari (188 stranieri su 737 detenuti - 25,5% per 561 posti) e Sassari (172 stranieri su 552 detenuti, 31,1%) per 458 posti. Il numero più elevato si registra a Mamone-Onanì (107 stranieri su 192 detenuti, pari al 56,2%). La realtà isolana della detenzione ha ormai perso del tutto quell’immagine di oasi che il Ministero ha sempre voluto accreditare per assumere invece quella di luogo di ‘deportazione’ in una servitù penitenziaria circondata dal mare”. “Attualmente”, ha detto ancora Caligaris, “è cresciuto notevolmente anche il numero delle donne nelle sezioni di Cagliari-Uta (32) e Sassari-Bancali (24) senza che questo abbia comportato un miglioramento dei servizi. Spesso i trasferimenti avvengono senza che le persone possano portare con sé il vestiario e i propri oggetti personali e sono costrette ad aspettare mesi, e spesso a pagare il viaggio del bagaglio lasciato nelle carceri di provenienza”. “Il sovraffollamento comporta serie limitazioni nelle attività trattamentali, già messe in profonda crisi dal centralismo ministeriale che ha avocato a sé il nulla osta per qualunque iniziativa di recupero sociale e culturale. In realtà è chiaro che è in atto un tentativo di mettere tra parentesi l’articolo 27 della Costituzione e l’Ordinamento penitenziario per una gestione sicuritaria. La carenza di personale penitenziario, con e senza, e la burocratizzazione comporteranno la chiusura dei detenuti nelle celle, senza attività riabilitative. Continuando di questo passo”, ha concluso la presidente di Sdr, “la detenzione assumerà sempre più un carattere punitivo fine a se stesso, facendo tornare il sistema indietro di 50 anni”. Milano. “Preoccupante l’aumento di giovani condannati per violenza di genere” di Simone Bauducco Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2025 L’allarme del presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia di fronte ai dati in crescita nella fascia 18-41 anni. La presidente del gruppo di lavoro sul tema Elisabetta Canevini: “Bisogna lavorare sulla figura di adulti che abbiano una funzione educativa esterna alla famiglia”. A Milano, aumentano i giovani adulti condannati per reati di violenza di genere. Se nel 2024 la fascia tra i 18 e i 41 anni rappresentava il 58 per cento del totale degli autori di questo tipo di reati, nel 2025 si è saliti al 62 per cento. Una tendenza che preoccupa il Presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia: “Significa che la cultura patriarcale viene trasmessa anche alle nuove generazioni e che anche i giovani uomini adulti tendono ad esercitare un rapporto di forza nei confronti della donna che richiama alla cultura patriarcale”. La ricetta secondo la presidente e coordinatrice del gruppo di lavoro violenza di genere Elisabetta Canevini deve partire dalle scuole. “Bisogna lavorare sulla figura di adulti che abbiano una funzione educativa esterna alla famiglia e che possano porsi come punti di riferimento culturale e di orientamento al rispetto reciproco con un senso istituzionale riconosciuto - ha sottolineato la magistrata - la prevenzione non può provenire dalla famiglia perché sono reati che maturano all’interno della famiglia dunque non si può pensare che il nucleo famigliare sia il luogo dove il problema si risolve”. Un approccio condiviso anche, a titolo personale, dal presidente Roia che aggiunge: “Sono favorevole all’introduzione di corsi strutturati a livello scolastico che insegnino l’educazione al rispetto e alla diversità di genere perché qui parliamo di reati che vengono commessi non per una forma di disagio psichico ma per una forma di distorsione culturale perché evidentemente anche nei giovani adulti permane un retaggio patriarcale”. Alghero. Dal carcere al Baretto di Porto Ferro, il reinserimento lavorativo dei detenuti è realtà sassaritoday.it, 7 novembre 2025 La cooperativa Piccoli Passi coordina l’intera operazione. Nella cucina dell’Istituto Alberghiero, interna all’istituto penitenziario, un gruppo selezionato è stato coinvolto in un percorso strutturato che ha portato i beneficiari a produrre tramezzini, focacce farcite e toast, destinati alla vendita. Un’iniziativa che guarda lontano, con l’ambizione di ridurre la recidiva. Dalla Casa di Reclusione di Alghero fino alla spiaggia di Porto Ferro: è questo il percorso, inedito e carico di significato, tracciato da InsideOut, un progetto di formazione professionale e reinserimento lavorativo rivolto ai detenuti. L’obiettivo? Offrire competenze, dignità e una concreta opportunità di cambiamento. Nella cucina dell’Istituto Alberghiero, interna all’istituto penitenziario, un gruppo selezionato di detenuti è stato coinvolto in un percorso strutturato che ha portato i beneficiari a produrre tramezzini, focacce farcite e toast, destinati alla vendita presso Il Baretto di Porto Ferro, locale gestito direttamente dalla Cooperativa Sociale Piccoli Passi, promotrice dell’iniziativa. A curare la formazione professionale è stata l’agenzia Exfor che ha attivato un percorso didattico mirato, articolato in lezioni teoriche e esercitazioni pratiche, al termine del quale, i partecipanti hanno acquisito certificazioni utili per il reinserimento lavorativo una volta concluso il periodo detentivo. Il progetto è stato reso possibile anche grazie al fondamentale contributo dello staff educativo della Casa di Reclusione di Alghero - che ha accompagnato ogni fase con estrema attenzione e una presenza costante, creando le condizioni per un percorso motivante e partecipato - e del personale di Polizia Penitenziaria che ha contribuito a definire e applicare le procedure di sicurezza per la fase operativa. La cooperativa Piccoli Passi, da anni impegnata in progetti sociali sul territorio, coordina l’intera operazione: dalla gestione del laboratorio interno - con l’assunzione di 4 soggetti, tra i 25 beneficiari del progetto - alla logistica, fino alla commercializzazione dei prodotti presso Il Baretto di Porto Ferro, punto di contatto tra l’esperienza carceraria e la comunità esterna, luogo in cui un gesto quotidiano - come mangiare un panino - si trasforma in un atto di fiducia e solidarietà. Inside Out è un progetto che mette insieme carcere, formazione e impresa sociale, dimostrando che anche in contesti difficili è possibile costruire occasioni reali di riscatto. Un’iniziativa che guarda lontano, con l’ambizione di ridurre la recidiva, rafforzare la coesione sociale e promuovere una nuova idea di giustizia: più educativa, più umana, più efficace. “Crediamo fortemente che la detenzione debba offrire reali opportunità di crescita e riscatto - afferma la referente del progetto per la cooperativa Piccoli Passi, Giuseppina Pintus. Con Inside Out, uniamo formazione, lavoro e responsabilità sociale, in una rete virtuosa tra carcere, terzo settore e territorio”. Torino. Carcerati, raccolta aiuti nelle parrocchie vocetempo.it, 7 novembre 2025 Le parrocchie del Centro storico e il Santuario della Consolata (Unità pastorale 1) stanno raccogliendo aiuti materiali per i detenuti indigenti del carcere delle Vallette. In collaborazione con i cappellani del penitenziario hanno annunciato l’iniziativa in occasione del dibattito promosso il 3 novembre dalla Consolata e da La Voce e Il Tempo proprio sui temi del carcere, ospite la direttrice alle Vallette Elena Lombardi Vallauri. Le parrocchie del Centro storico di Torino e il Santuario della Consolata (Unità pastorale 1) stanno raccogliendo aiuti materiali per i detenuti indigenti nel carcere delle Vallette. In collaborazione con i cappellani del penitenziario hanno annunciato l’iniziativa in occasione del dibattito promosso il 3 novembre dalla Consolata e da “La Voce e Il Tempo” proprio sui temi del carcere, ospite la direttrice alle Vallette Elena Lombardi Vallauri. Nella tradizionale cornice del “Lunedì della Consolata” Vallauri ha condiviso ad un folto pubblico, santuario gremito, una domanda che viene in particolare evidenza nell’anno del Giubileo della Speranza: “C’è speranza anche in carcere?”. Sullo sfondo il degrado dei penitenziari italiani, la piaga del sovraffollamento e dei suicidi. La raccolta di aiuti promossa dall’Unità pastorale invita a consegnare nelle parrocchie e in santuario biancheria intima e prodotti per l’igiene personale. In particolare: shampoo, sapone di Marsiglia, asciugamani per viso e doccia, accappatoi, slip, boxer, calze e magliette intime di taglia M, L e XL. “Neanche un filo d’erba”. Il carcere minorile in un libro di Curcio e Bellati di Riccardo Rosa napolimonitor.it, 7 novembre 2025 “Neanche un filo d’erba. Socioanalisi narrativa di un carcere minorile” è un libro curato da Paolo Bellati e Renato Curcio, da pochi giorni pubblicato tra i Quaderni di ricerca sociale delle edizioni Sensibili alle foglie. Il volume costituisce l’ultima tappa di una serie di incontri fatti con un gruppo di giovani ex detenuti del carcere minorile Beccaria di Milano, e restituisce un quadro preciso di questa istituzione che è sempre più uno strumento ordinario nella gestione delle politiche giovanili. Non è un caso che dall’entrata in vigore del decreto Caivano, che aumenta a dismisura le possibilità per un minore di finire in carcere a discapito delle pene alternative, gli ingressi nei penitenziari minorili siano aumentati del cinquantaquattro per cento, facendo arrivare a seicento il numero dei giovani ristretti. Ho letto “Neanche un filo d’erba” mentre sono costretto a fare i conti con le storie di due ragazzi da qualche mese detenuti in due istituti penali minorili campani (Nisida e Airola). Li conosco da bambini - ora hanno rispettivamente sedici e diciassette anni - e li ho seguiti come educatore per buona parte della loro vita, entrando in relazione con i loro ambienti familiari, con le gioie e le frustrazioni, le aspirazioni e gli errori. M. è finito dentro per una serie di aggressioni, di cui una a un poliziotto, connesse a una patologica difficoltà, mai affrontata da nessuno, a gestire le proprie emozioni negative. L’altro è semplicemente un giovane inquieto e irrequieto. È un adolescente come tanti, C., in cerca di risposte che non sa e probabilmente non vuole darsi, ma che ben presto si è stancato della scuola, del calcio, degli assistenti sociali e di chiunque gli imponga, o anche solo gli suggerisca, una strada o un modo di fare. Sia M. che C., in momenti diversi, hanno scelto di andare in carcere rinunciando alla possibilità, dopo averla sperimentata, di stare in una comunità. Il Beccaria di Milano è uno degli istituti in Italia che più di frequente raggiunge gli onori della cronaca per scandali di vario genere, episodi di violenza, proteste e rivolte dei detenuti. Le riflessioni dei due curatori del libro, e soprattutto le parole dei diretti protagonisti, non risparmiano nulla a chi legge: sovraffollamento a livelli cronici, incapacità (e mancanza di volontà) nell’affrontare la multietnicità sempre crescente, violenza costante e quasi sempre impunita degli agenti con attribuzione arbitraria di punizioni fisiche e psicologiche ai ragazzi, normalizzazione di prassi non scritte - se non in qualche astrusa circolare - che così come nel carcere degli adulti costruiscono le regole de facto del carcere, e che sono diverse istituto per istituto. È il caso di quella che Bellati e Curcio definiscono “pedagogia nera”, la pedagogia della pena o “del bastone”, una traslazione dell’equilibrio basato sulla punizione che sorregge l’istituzione (degli adulti) in un universo che, nelle sue folli teorizzazioni, pretenderebbe di essere educativo per giovani che hanno commesso degli errori ma hanno un’intera vita davanti per recuperare. “Per i maltrattamenti aggravati - si legge nel volume - esercitati tra il 2021 e il 2024 (tra i quali, oltre alle lesioni, le umiliazioni e gli insulti razzisti subiti dai ragazzi compaiono una tentata violenza sessuale operata da un agente nei confronti di un detenuto, e la voce ‘torture’) sono state messe sotto inchiesta giudiziaria quarantadue persone. In un primo tempo, nell’aprile 2024 vennero messi sotto indagine tredici agenti penitenziari, otto dei quali furono anche sospesi dal lavoro. All’inizio di agosto 2025 i pm incaricati hanno pero? aggiunto a quel primo elenco un comandante e altri tredici agenti, un medico, due operatori sanitari, due ex direttrici e una vicedirettrice”. Il libro ha il merito di partire dall’analisi di un caso per tracciare linee generali, ragionando - sempre a partire dalle parole dei ragazzi - sul (non) funzionamento di questa istituzione. È probabilmente per questo che i capitoli più efficaci risultano quello che rivela il carcere minorile come arma impropria della gestione illiberale del fenomeno migratorio; quelli che svelano con pochi e chiari esempi l’ascensore dei meccanismi premiali, un inferno dantesco che istituisce condizioni diverse di detenzione a seconda della docilità o della renitenza di un detenuto al rispetto di regole assurde; quelli che sconfinano senza perdere il filo del ragionamento nei campi della sociologia dei processi migratori, della psicologia, dell’antropologia culturale, mostrando le continue evoluzioni e involuzioni, a livello individuale e collettivo, delle relazioni tra istituzioni totali e linguaggio, privazione dello spazio e processi di alienazione, gestione chimica del dolore, autolesionismo e “ricadute”, invisibilizzazione burocratico-amministrativa e rivendicazioni identitarie. Vale la pena infine soffermarsi su due questioni che hanno la forza di aprire spunti di riflessione non scontati sulla carcerazione minorile. La prima è quella relativa agli “spazi per il sé”, una lettura più profonda del tema del sovraffollamento, che non si riduce alla denuncia di condizioni pur infami di detenzione, e alla descrizione di stanze in cui per andare in bagno bisogna calpestare i materassi su cui, per terra, sono assiepati gli altri detenuti. Quello che è in ballo, spiegano gli autori del volume, è l’impossibilita? di momenti d’introflessione, di elaborazione della propria situazione e delle possibili prospettive: “momenti indispensabili a qualunque età, ma in quella dei ragazzi più ancora decisiva sia per la loro crescita personale che per la maturazione emotiva. Si tratta, insomma, di un vero e proprio soffocamento psicologico e sociale” che “aggiunge un quid specifico alla brutalità ordinaria della condizione carceraria, ne accentua, se possibile, la pena e la sofferenza dei corpi” e “contribuisce in modo decisivo allo smantellamento di un qualsivoglia, sia pure vago ed embrionale, progetto educativo”. Anche la seconda questione, che riporta alle storie dei ragazzi napoletani con cui si è iniziato questo testo, ha molto a che vedere con lo “smantellamento del progetto educativo” scientemente operato dal carcere minorile. È infatti legata alla desolante descrizione, che è uno dei fili conduttori del libro, del complesso equilibrio di relazioni, rapporti lavorativi e personali, compartimentazione delle mansioni e quindi delle responsabilità del mondo degli adulti che operano in carcere. Gli educatori e il personale civile escono a pezzi dalla descrizione dei ragazzi, che ritraggono queste figure per lo più - mantenendo comunque una discreta capacità di differenziazione - come quelle di scialbi passacarte, capaci di parlare e mai di ascoltare, latitanti tra le sezioni persino nelle poche ore durante le quali sono chiamati, con un magro stipendio, va detto, a lavorare nelle strutture. Il fatto che molti ragazzi finiscano loro stessi per preferire, almeno nella brutale quotidianità, la guardia all’educatore, il carcere alla comunità, la repressione al confronto, è a ben pensarci il trionfo dell’istituzione totale, che ha come unico scopo un disciplinamento sociale raggiungibile solo attraverso la punizione, e perciò inconciliabile con qualsiasi millantata velleità di crescita personale, riabilitazione e reinserimento. A parità di vuoto, di noia, di assenza di figure adulte adeguate con cui confrontarsi, e di mancata apertura verso nuove prospettive reali, è comprensibile che i ragazzi scelgano almeno la chiarezza delle regole (per quanto ingiuste) e degli intenti all’ambiguità; preferiscano la crudezza all’ipocrisia, la punizione al ricatto morale, persino le botte alle chiacchiere vuote. Ma se questo modello disciplinante è indispensabile per la buona riuscita di ogni innaturale tentativo di mantenere una persona chiusa e ferma in una gabbia per un certo lasso di tempo, è anche vero che nel mondo dei ragazzi ha bisogno di più sforzo e tempo, elementi necessari a scalfire animi spesso più istintivi, meno interessati a calcolare il rapporto tra i comportamenti e le loro conseguenze, non ancora del tutto assoggettabili al rispetto di piccoli e grandi soprusi. Le continue proteste e le rivolte, più o meno pubblicizzate, che ogni settimana avvengono in molte carceri minorili in tutto il paese ci dicono che questo modello non è necessariamente destinato a vincere. Quella però è la parte che possono fare i giovani detenuti per l’eliminazione di queste inutili e ipocrite istituzioni. È ora di chiedersi cosa siamo disposti a fare noi. Un libro che racconta “Quel visionario di Eugenio Perucatti” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 7 novembre 2025 Nel 1960 nel carcere di Turi, in provincia di Bari, arriva un nuovo direttore. È già conosciuto per il suo lavoro nell’ergastolo di Santo Stefano: lo rimette a nuovo, lo arricchisce di attività per i detenuti. Viene chiamato “il direttore del megafono” per la sua abitudine di fare annunci e comunicazioni usando l’altoparlante. Si chiama Eugenio Perucatti. Il libro di Rosa Cirone, “Quel visionario di Eugenio Perucatti”, edito da Alvivo, racconta questa figura con testimonianze, materiali d’archivio e documenti inediti. Funzionaria del carcere di Pistoia in pensione, Cirone ha dedicato al volume due anni di ricerche. Il direttore che poi fu anche dirigente è il precursore della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che mette al centro il trattamento dei detenuti. “Era sempre presente nelle sezioni. Gesuita di formazione, praticava un profondo cattolicesimo aiutando la comunità penitenziaria, sia spiritualmente che materialmente”, racconta l’autrice a Gnews. Quando nel 1952 arriva a Santo Stefano con la moglie e i suoi 10 figli, Perucatti trova un carcere desolato e malconcio. Un “ergastolo”, appunto, che identifica anche il contenitore, prima del contenuto della condanna: originariamente luogo di lavori forzati per gli schiavi, poi luogo del “fine pena mai”. Nel carcere isolano che affaccia su Ventotene mancano acqua, luce: “una struttura panottica dove c’era un degrado strutturale, ma anche morale”, dice Cirone. In 8 anni Perucatti lo fa ristrutturare, apre la scuola per i detenuti, incentiva la biblioteca. Di quel periodo, “Quel visionario di Eugenio Perucatti” raccoglie le relazioni del direttore agli uffici del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero. “Sorprende quanto fossero dettagliate, corredate di foto, di elementi giustificativi a sostegno delle sue richieste”, sottolinea l’autrice. Nella concezione dell’ergastolo, c’è un prima e un dopo Perucatti. “I direttori generali del Dap dell’epoca - dice ancora Cirone - lo interpellavano, lo citavano come esempio. La sua idea era chiara e semplice: perché chiudere gli egastolani? Facciamoli lavorare, facciamoli studiare”. È a Santo Stefano che Perucatti scrive “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, un saggio dove propone una “pena condizionatamente perpetua”. Non un’automatica condanna a vita, ma un’esecuzione penale attenta al comportamento del detenuto durante la reclusione, che apre alla speranza di uscire dal carcere. Una visione costituzionalmente orientata della pena che regala a Perucatti il primato di detenuti ai quali è stata concessa la grazia: 11 nel solo penitenziario di Turi. Tramite le persone che hanno lavorato con il direttore, Cirone scopre la piccola rivoluzione che porta avanti anche nell’ergastolo pugliese, dopo il miracolo di Santo Stefano. Fa ripavimentare tutto l’istituto; assegna le celle ai reclusi che prima stavano nelle camerate; realizza uno spaccio per i generi alimentari a prezzi bassi per gli agenti in difficoltà economiche. E poi classi di scuola, uno spazio ricreativo, un laboratorio teatrale, un cinema. Ogni occasione è buona per aprire il carcere. Il cappellano dell’epoca racconta che permise ai detenuti di guardare di più la televisione. E si fermava con loro, quando a condurre i programmi era Mike Bongiorno. Il lavoro di Perucatti si muove tra le pieghe di regolamenti ormai vecchi. Il figlio Antonio intitola il suo libro “Quel criminale di mio padre” (edizioni Ultima Spiaggia, 2014), per come ha provato a scardinare il sistema da dentro. Anche il volume di Rosa Cirone è ricco di aneddoti che raccontano un’attività ai limiti dei rigidi protocolli penitenziari. Come quando un detenuto graziato a Turi, che quindi può uscire, chiede di rimanere un altro giorno per poter cantare durante il precetto pasquale nel coro del penitenziario. Perucatti lo autorizza e lo fa dormire, da uomo libero quale è, in caserma con gli agenti. O quando dà la possibilità ai reclusi di recitare in giacca e cravatta, cosa assolutamente vietata a quei tempi. Cirone riporta nel suo libro un’intervista del 1961 rilasciata da Perucatti a La Stampa, sul caso della scarcerazione di Salvatore Gallo, condannato dalla Corte d’assise d’appello di Catania e rinchiuso a Santo Stefano per l’omicidio del fratello, che alla fine era solo scomparso. Un errore giudiziario clamoroso. Perucatti, da sempre convinto della sua innocenza, commenta: “per quel caso, avevo un segreto dolore nell’animo; perciò, sono felicissimo del lieto fine di questa storia. E creda che sono sempre felice quando vedo qualcuno degli ergastolani graziati”, dice al giornalista. Perucatti resterà nel carcere pugliese fino 1967, per poi essere nominato ispettore distrettuale degli Istituti di rieducazione di Puglia e Basilicata. Un “Caronte buono”, traghettatore delle trasformazioni del carcere, da istituzione totale a luogo costituzionale di rieducazione e reinserimento sociale. Gianmarco Saurino: “I diritti umani non sono di destra o sinistra. Sono di tutti” di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 7 novembre 2025 Inizia la terza stagione di “Ellissi”, il podcast realizzato da Amnesty International Italia ed Emons Record in collaborazione con Domani. Anche questa volta i testi sono di Giuseppe Paternò Raddusa e l’attore Gianmarco Saurino sarà la voce narrante delle tre storie al centro della nuova stagione, quelle di Mauro Guerra, Gabriele Sandri e Davide Bifolco. Tutte vittime di uomini in divisa. Gianmarco Saurino, l’ultima stagione di Ellissi era su temi internazionali. Cosa ascolteremo, invece, questa volta? Negli anni scorsi abbiamo raccontato storie di diritti violati in varie parti del mondo. Ogni episodio aveva anche una parte positiva, per dimostrare quanto il lavoro di organizzazioni come Amnesty International sia concreto. Spesso ci chiediamo “cosa posso fare io?” - e sostenere realtà del genere significa davvero cambiare le cose. Quest’anno abbiamo deciso di rendere i racconti più vicini a chi ascolta. Il tema comune è il diritto violato dalle forze di polizia, cioè da quelle stesse autorità che dovrebbero proteggerci. Le storie che racconteremo sono quelle di Mauro Guerra, Gabriele Sandri e Davide Bifolco, tre casi diversi ma legati dallo stesso filo. Qual è il filo rosso che tiene uniti questi tre casi? Il dolore, certo. È qualcosa che non si attenua mai, anche dopo dieci o quindici anni. Ma quello che più le accomuna è l’insoddisfazione verso la giustizia. Tutte le famiglie sentono di non essere state protette. Non solo da chi ha materialmente ucciso i loro cari, ma dallo stato stesso. C’è una frase del padre di Davide, Gianni Bifolco, che mi ha colpito: “Tutti possono sbagliare, anche i poliziotti, perché sono esseri umani. Ma lo Stato non può sbagliare”. Ed è proprio questo il punto: non è solo una tragedia privata, ma una ferita pubblica, che riguarda tutti. Come mai la scelta di raccontare queste tre storie? Mi interessava superare la divisione politica che spesso accompagna certi temi. Parlare di abusi di potere o di violenza da parte delle forze dell’ordine viene subito associato a una parte politica. Invece io volevo un racconto universale. Per questo ho scelto due persone come Gabriele Sandri e Mauro Guerra, che erano di destra. I loro familiari raccontano che proprio quella loro identità li ha resi ancora più soli: la sinistra non li ha sostenuti perché “erano di destra”, e la destra non poteva farlo perché avrebbe significato criticare la polizia. È un paradosso fortissimo, che mostra come certi diritti, in Italia, restino appannaggio di una parte. Ma i diritti umani non sono di sinistra o di destra. Sono di tutti. Per il podcast hai vestito i panni del giornalista intervistando le rispettive famiglie nelle loro case... È stata la parte più emozionante. Nella prima stagione di Ellissi raccontavo storie che avevano spesso un legame personale con me. Nella seconda ho cercato di mantenere quel tono empatico. Ma in questa terza stagione volevo andare oltre: parlare direttamente con le persone. Entrare nelle loro case, vedere le foto, i quadri, la tesi di laurea di Mauro Guerra… tutto questo mi ha permesso di capire davvero chi erano. E credo che se io sono riuscito a entrare nelle loro vite, anche chi ascolterà potrà farlo. Per me le persone sono il cuore del racconto: io non sono che un tramite tra loro e il pubblico. Abbiamo un governo che inasprisce la repressione attraverso politiche securitarie come il dl sicurezza... La scelta di fare questo podcast nasce anche da lì, da questo clima politico. Penso che aumentare il numero dei reati non serva a niente: è solo uno slogan da campagna elettorale, un modo per dire “stiamo facendo qualcosa” quando in realtà si agisce solo sulla superficie. Le cose vere si cambiano con l’educazione civica, nelle scuole. Penso a un tema come i femminicidi: nel 99 per cento dei casi nascono da una cattiva gestione dell’affettività. Eppure questo governo ha deciso di ridurre o rendere facoltativi i percorsi di educazione all’affetto nelle scuole. È un errore gravissimo, perché quelle scelte educative - o la loro assenza - hanno conseguenze reali nella vita delle persone. E se continuiamo a pensare che i femminicidi siano causati dai “raptus”, allora significa che non vogliamo vedere la realtà per com’è. Negli ultimi mesi molti artisti si sono esposti su Gaza. Alcuni sono stati criticati per non averlo fatto. Cosa ne pensa? Io credo che un artista debba esporsi. Sempre. Ho trovato molto ipocrita il dibattito nato negli ultimi tempi: chi dice “io non parlo”, chi invece viene accusato di farlo troppo. La questione palestinese, per esempio, non nasce il 7 ottobre. Chi ha a cuore quella causa ne parlava molto prima. Però ho anche visto che molti, improvvisamente, si sono risvegliati, come se l’attivismo fosse diventato una tendenza. È una contraddizione, ma credo che - anche se se ne parla male - è meglio parlarne che tacere. Per me fare l’artista significa essere politico, non nel senso dei partiti, ma nel senso ateniese del termine: la polis, la piazza, il confronto civile. Mi dà fastidio quando sento dire “tu fai l’attore, non parlare di politica”. La politica non è dei politici. È nostra. Esporsi comporta rischi, certo. Ma se ognuno di noi parlasse almeno di un tema che gli sta a cuore avremmo un paese migliore. La politica, come la intendo io, è la capacità di prendersi cura della vita collettiva. E questo, per chi fa arte, è un dovere. Come vedi la crisi del settore dello spettacolo? Penso che questa crisi sia il risultato di una precisa scelta politica: quella di trattare la cultura come se appartenesse a una parte, come se fosse “di sinistra”. Il cinema, il teatro, la musica - non sono di nessuno. Sono del Paese. E fanno bene alle persone. È vero, in passato si sono spesi male molti soldi, ma questo non giustifica i tagli indiscriminati. Oggi per un giovane autore fare un film è un’impresa quasi impossibile. Stiamo rischiando di perdere un’intera generazione di registi, attori, tecnici, ma anche di cittadini che attraverso la cultura imparano a pensare in modo critico. La cultura non è un lusso. È la spina dorsale di una democrazia. Tagliarla vuol dire tagliare il futuro. E non c’entra nulla con la sinistra o la destra: ha a che fare con l’identità e la salute di un Paese. Giovani e carcere, l’importanza di curare i deficit di vista e udito unifimagazine.it, 7 novembre 2025 Ogni anno, nel mondo, circa un milione e mezzo di bambini e giovani entra in contatto con il sistema di detenzione. Queste cifre evidenziano un dramma sociale e una questione di salute pubblica: gli ex detenuti adolescenti presentano tassi più alti di disturbi mentali, malattie infettive e patologie croniche. Gianni Virgili, docente di Malattie dell’apparato visivo presso il Dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Area del Farmaco e Salute del Bambino, ha partecipato a una review condotta da un team internazionale e pubblicata su Clinical Medicine, rivista del gruppo The Lancet, che ha affrontato per la prima volta in maniera sistematica un aspetto rimasto finora ai margini del dibattito scientifico: il legame tra disturbi sensoriali e incarcerazione giovanile. La ricerca, coordinata dalla Queen’s University Belfast, ha raccolto dati da 23 studi per un totale di quasi 35mila ragazzi tra i 10 e i 24 anni provenienti soprattutto da paesi anglofoni ed europei ad alto reddito e ha rivelato come, rispetto ai loro coetanei non detenuti, il deficit uditivo risulti quattro volte più frequente tra i giovani passati dal sistema giudiziario, mentre il deficit visivo appare due volte più comune. Virgili, unico italiano nel team, ha curato il protocollo di ricerca, la selezione degli studi e la sintesi statistica dei risultati dello studio. “Le patologie più diagnosticate - afferma Virgili - sono l’ipoacusia neurosensoriale (la perdita dell’udito causata da un danno o malfunzionamento delle cellule sensoriali dell’orecchio interno o dei nervi che trasmettono il suono al cervello) e gli errori refrattivi (miopia, ipermetropia, presbiopia, astigmatismo). Condizioni spesso semplici da correggere con un paio di occhiali o un apparecchio acustico, ma che, se trascurate, possono contribuire a un percorso di esclusione e vulnerabilità. Questi problemi sono più rappresentati nei paesi a basso e medio reddito, dove opera il team di ricerca che ha prodotto questa review. Chi non vede o non sente bene - aggiunge - fatica a comunicare, apprendere, relazionarsi. L’ipoacusia infantile, ad esempio, può ostacolare lo sviluppo del linguaggio e la comprensione del mondo circostante, generando frustrazione e isolamento, soprattutto in paesi dove il supporto sanitario e sociale è limitato. I disturbi visivi non corretti, estremamente frequenti in Asia e Sud-est asiatico, compromettono il rendimento scolastico e la fiducia in sé stessi, aumentando il rischio di depressione negli stessi bambini. Con il tempo, queste fragilità possono tradursi in difficoltà comportamentali, abbandono scolastico e rischio di devianza”. Nonostante la prevalenza di disturbi sensoriali tra i giovani detenuti sia da due a quattro volte superiore rispetto ai coetanei, pochissimi studi hanno indagato se correggere questi problemi possa ridurre la recidiva, cioè il ritorno nel sistema di giustizia dopo la scarcerazione. Inoltre, gli autori della review lanciano un appello semplice ma cruciale: condurre ricerca sull’utilità degli screening per la vista e l’udito all’ingresso nelle strutture di detenzione giovanile, garantendo assistenza adeguata e continuità delle cure dopo il rilascio, un modello attualmente studiato in Malawi da questo Team. Un’azione di prevenzione che, oltre a migliorare la salute, potrebbe diventare uno strumento concreto di riabilitazione e inclusione. Il gruppo di ricerca, infine, sottolinea la necessità di condurre studi nei paesi a basso e medio reddito, dove vive la maggior parte dei giovani detenuti e dove l’accesso ai servizi sanitari è più limitato. “Un intervento sanitario, anche non particolarmente costoso come un paio di occhiali, può portare a benefici importanti sul piano educativo e delle prospettive economiche in questi paesi. A volte basta davvero vedere e ascoltare meglio per cambiare un destino”. Droghe. Abbiamo un piano: la disobbedienza di Franco Corleone Il Manifesto, 7 novembre 2025 La Controconferenza sulle droghe convocata dalla rete di associazioni della società civile che da anni si oppone alle politiche proibizioniste e puramente repressive dei governi in materia di stupefacenti proibiti. Un mistero si aggira nella politica italiana. Riguarda Alfredo Mantovano che è l’esponente più potente del governo Meloni e che oltre alla delega ai Servizi segreti ha voluto la direzione del Dipartimento antidroga. Perché occupare un ruolo che era stato di Carlo Giovanardi? Non penso che sia il frutto di una ossessione, ma si leghi alla ambizione di riscrivere la storia e di far prevalere la morale contro il diritto e sconfiggere la scienza e la razionalità. In apparente paradosso, infatti la destra proclama il “pugno duro sulla droga” e si è affidata a chi era stato l’ispiratore della legge iper proibizionista nota come Fini-Giovanardi per una rivincita dopo la cancellazione di quel mostro giuridico da parte della Corte costituzionale. Rientra così in circolazione la stessa paccottiglia di parole d’ordine reazionarie, fondata sugli stessi “miti”: la “droga è droga”, senza distinzione, perché la droga è il Male. Per questo la sostanza più demonizzata è la cannabis, la droga di passaggio alle sostanze pesanti: il “mito” per eccellenza per sbarrare la strada della legalizzazione corredato dalla falsità sullo spinello che non è più quello di una volta e dalla criminalizzazione perfino della canapa tessile. Quanto ai consumatori “tossicodipendenti”, è pronta la soluzione della reclusione nelle comunità sul modello di San Patrignano per “salvarli” dalla droga, nell’anima e nel corpo. Un obiettivo perseguito con integralistica determinazione, attraverso l’aggravamento delle pene per i fatti di lieve entità relativi alla detenzione di sostanze stupefacenti, con un decreto per costruire un albo di comunità fedeli e amiche per detenuti tossicodipendenti da far uscire dal carcere per operazioni di propaganda, con la rapina dell’8 per mille per finanziare progetti risibili. Insomma il consumatore di droghe pesanti per Mantovano è un malato da curare e un criminale da recuperare attraverso il pentimento, mentre il consumatore di canapa è un vizioso alla ricerca del piacere da punire. Addirittura si incolpa la legalizzazione della cannabis in tanti Stati Usa della diffusione del fentanyl (per fortuna Papa Leone ha denunciato il ruolo delle aziende farmaceutiche), in accordo con Trump che rilancia la war on drugs contro il Venezuela e la Colombia in una riedizione della guerra dell’oppio. “Abbiamo un piano” è il suggestivo titolo della Controconferenza sulle droghe che ha l’ambizione di contrastare la svolta reazionaria costruendo una rete tra i movimenti dei consumatori e le pratiche sociali della riduzione del danno alla base di un cambio di paradigma. E contrastare il pulpito di Mantovano che intende far assumere all’Italia la guida proibizionista di un cartello di Paesi autoritari colpendo i diritti umani e la salute. Il fondamentalismo della religione della proibizione si lega al divieto della scelta autonoma sul fine vita, alla retorica del reato universale per la maternità surrogata, al reato di resistenza nonviolenta, alla limitazione dell’aborto, alla nostalgia del manicomio e alla censura dell’affettività in carcere. La strada della riforma deve riprendere il monito di Grazia Zuffa sul numero 0 di Fuoriluogo nel 1995 per la politica come passione e di fronte alla perdita di senso della politica ritrovare “le parole per dirlo”. Una dimensione ineludibile. Le carceri scoppiano per l’incarcerazione di massa di persone che detengono sostanze illegali o le cedono magari gratuitamente o che sono definite tossicodipendenti: oltre 30 mila soggetti che rappresentano la detenzione sociale. La persecuzione si è diretta in questo quarto di secolo contro un milione e 500 mila giovani per il semplice consumo (oltre un milione per uno spinello) con le segnalazioni ai prefetti e le conseguenti odiose sanzioni amministrative. Il tentativo di decarcerazione e depenalizzazione proposto con un referendum presentato nel 2021 è stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale presieduta da Giuliano Amato caduto in clamorosi sbagli che è difficile pensare innocenti. È l’ora di superare stigma e pregiudizio con la disobbedienza. In Italia si torna a parlare di droghe e dipendenze (e qualcosa potrebbe cambiare) di Viviana Daloiso Avvenire, 7 novembre 2025 Al via a Roma la Conferenza nazionale: due giorni di lavori che vedono protagonisti gli operatori, i servizi e le comunità di recupero. Obiettivo, il confronto aperto col governo e l’attesa svolta sulla governance del sistema e sulla riforma del Testo unico. Dimenticate il fentanyl, la cannabis, l’eterna polarizzazione tra legalizzare sì e legalizzare no: le parole d’ordine sono, piuttosto, efficacia dei percorsi terapeutici, sistema multidisciplinare integrato, persone. E soprattutto, aspettative. Perché alla Conferenza nazionale sulle dipendenze che si apre oggi a Roma si è arrivati dopo un lungo lavoro preparatorio, con 8 tavoli tematici che si sono incontrati a cadenza quasi mensile a partire da aprile coinvolgendo tutto il mondo dei servizi con l’unico, ambizioso obiettivo di cambiare una volta per tutte il modo di occuparsi di “droga” nel nostro Paese. A cominciare dal destino di quel mezzo milione stimato di italiani che con le sostanze hanno un rapporto problematico e che soltanto in 130mila casi effettivi (il dato è relativo al 2024) sono in carico ai Serd, di cui appena il 20% al primo accesso. “Significa che su cinque persone che hanno problemi di dipendenze ne incontriamo e abbiamo la possibilità di curarne una - spiega il presidente della Federazione italiana delle comunità terapeutiche Luciano Squillaci -: solitamente già nota ai servizi, con problemi di eroina e sopra i 40 anni”. Come dire, una goccia nel mare. Non a caso il tema della moltiplicazione dei punti di accesso ai percorsi di recupero (non più solo tramite i Serd, ma anche attraverso centri diurni e centri giovanili, ambulatori, hub di territorio) sarà tra i principali capitoli all’ordine del giorno degli operatori riuniti all’Eur: un buon compromesso trovato tra chi da sempre sostiene l’opzione più spinta dell’accesso diretto alle strutture, in cui tuttavia sparirebbe il ruolo del servizio pubblico, e chi invece solo al Serd vorrebbe continuare ad attribuire il ruolo di filtro, col risultato dell’effetto imbuto che troppo spesso impedisce ai tossicodipendenti di accedere a percorsi più strutturati. Non è l’unico tema, tutt’altro: al governo, che con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano e su per giù la metà dei suoi ministri parteciperà al questione time di sabato (domani mattina invece ci saranno il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni), verrà manifestata la necessità di progetti pilota, sia sul fronte di una raccolta dati più omogenea sia di una verifica dell’efficacia dei percorsi sia dell’estensione di un modello di intervento integrato, sul modello per esempio di quello già adottato in Lombardia, capace di offrire supporto, prevenzione, trattamento e riabilitazione per tutti i tipi di dipendenza (dal consumo di droga o alcol fino al gioco d’azzardo) attraverso progetti individualizzati e condivisi con le strutture residenziali e quelle ospedaliere. E poi interventi ad hoc per i minori e gli under 25, anche sul piano della prevenzione nelle scuole: è la richiesta forte di San Patrignano e della Comunità Papa Giovanni XXIII, che proprio in questi giorni ha diffuso i dati di uno studio Espad Italia coordinato dal Cnr in cui emerge come proprio l’azzardo stia diventando una piaga tra gli adolescenti, con picchi fino al 57% di consumi. Ancora, attenzione alla tematica della riduzione del danno e alle politiche adottate a livello internazionale: istanze, queste, del Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca), che in queste ore ha organizzato la sua ormai tradizionale Controconferenza per dare voce al mondo delle organizzazioni dei consumatori e delle associazioni del Terzo settore che non gestiscono comunità “e che - spiega la presidente Caterina Pozzi - sono state ingiustamente escluse dai lavori, come la Rete Elide degli enti locali impegnati sulle droghe”. La Conferenza, d’altronde, “è stata prevista dalla legge 309/90 ogni tre anni proprio per questo - continua Squillaci -: perché i soggetti pubblici e privati che esplicano la loro attività nel campo della prevenzione e della cura delle dipendenze si incontrino e si confrontino sui problemi connessi alla diffusione delle sostanze e perché le loro conclusioni siano comunicate al Parlamento al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione”. Cioè a quel Testo unico 309 del 1990, fatto a misura di un mondo in cui esisteva ancora solo l’eroina e chi la consumava si bucava per la strada. “Oggi, lo ribadiamo ormai da anni, abbiamo bisogno di una legge che faccia i conti con nuove e complesse forme di consumo e di dipendenza, con un’emergenza sempre più diffusa tra giovani e giovanissimi, che affronti una volta per tutte un sistema sfilacciato e spezzettato di intervento in cui pubblico e Terzo settore accreditato riescono a lavorare insieme solo per la buona volontà di alcuni”. L’occasione allora è quella giusta, e l’appuntamento di Roma è solo il punto di partenza. Migranti. Ora i Centri in Albania rischiano di chiudere definitivamente di Giansandro Merli Il Manifesto, 7 novembre 2025 La Corte d’appello di Roma dubita che l’Italia potesse siglare il protocollo con Tirana. Decideranno i giudici di Lussemburgo, a cui è arrivato il terzo rinvio pregiudiziale sul protocollo. Questa volta i centri in Albania potrebbero saltare per sempre. E non solo quelli: pure gli altri che qualsiasi Stato membro pensi di costruire in maniera analoga al di fuori del territorio dell’Unione. Rischiano persino di essere limitati i poteri nazionali nelle materie a competenza concorrente tra Ue e paesi membri. L’asilo e molte altre. Mercoledì, alla vigilia del secondo compleanno del protocollo Meloni-Rama, la Corte d’appello di Roma, chiamata a esprimersi sul trattenimento di un cittadino marocchino che aveva chiesto asilo nel cpr di Gjader, ha fatto partire un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue. Il primo verteva sulla definizione dei “paesi sicuri” e ha dato torto all’esecutivo italiano. Il secondo, sollevato a maggio scorso dalla Cassazione, riguarda i trasferimenti dei migranti “irregolari” dal territorio nazionale e richiederà un paio d’anni per essere sciolto. Il terzo, anticipato ieri in un articolo di taglio basso del Corriere della Sera, va al nodo della questione: l’Italia poteva davvero firmare l’intesa con l’Albania dal momento che questa impatta su una materia fortemente regolata a livello comunitario come l’asilo? Richiamando i principi stabiliti da numerose sentenze della Corte europea, la giudice Antonella Marrone afferma che bisogna ritenere “preclusa agli Stati membri la facoltà di concludere accordi internazionali con paesi terzi” se questi possono incidere su materie che l’Ue ha in gran parte regolato. In un altro passaggio del provvedimento la magistrata ravvisa “non già solo il rischio che l’accordo internazionale incida sulle norme dell’Unione ma un effettivo conflitto tra il (suo) contenuto e il Ceas”, ovvero il sistema comune europeo d’asilo. Il ragionamento giuridico sconfessa quanto sostenuto dalla Commissione di Ursula von der Leyen sulla fase dei centri di Shengjin e Gjader riservata ai richiedenti asilo originari di paesi “sicuri”: siccome quelle persone non sono mai entrate nel territorio comunitario non sono soggette alle norme Ue. Il diritto europeo, invece, conta eccome. Anche per loro. E dal momento che conta le strutture detentive d’oltre Adriatico, iniziativa senza precedenti di trattenimento extra-territoriale, creano numerosi problemi all’applicazione uniforme dell’asilo. Aprono veri e propri buchi nel sistema comune, producendo gravi discriminazioni sui diritti fondamentali delle persone. In un vano tentativo di mettere una pezza al flop del progetto che avrebbe dovuto costituire il fiore all’occhiello delle politiche anti-migranti del governo, la premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi hanno sostenuto che con l’entrata in vigore del nuovo patto Ue su migrazione e asilo, a giugno 2026, tutte le obiezioni ai centri d’oltre Adriatico sollevate dalla magistratura sarebbero crollate. Secondo la Corte d’appello di Roma, invece, gravi violazioni del diritto comunitario resteranno comunque in piedi. La scelta di applicare le “procedure accelerate di frontiera” nell’esame delle domande di protezione al di fuori del territorio europeo, infatti, non è prevista da nessuna parte e inevitabilmente produce conflitti con diverse norme comunitarie. Tra queste: il trattenimento come extrema ratio; la necessità di alternative alla privazione della libertà personale dei richiedenti asilo; l’obbligo di liberare immediatamente i trattenuti quando non ricorrono più i presupposti della detenzione; la garanzia dei diritti di difesa, salute e visita da parte dei familiari. Ai giudici di Lussemburgo la Corte di Roma pone due quesiti. Se il Trattato sul funzionamento dell’Unione impedisca la “stipula da parte di uno Stato membro di un accordo internazionale con un paese extra Ue per la gestione dei flussi migratori”. E, in caso di risposta negativa, se le direttive comunitarie “ostino alla conduzione e alla permanenza del cittadino di paese terzo, anche richiedente asilo, in aree site all’esterno del territorio Ue”. nonostante sia stata richiesta la procedura d’urgenza, o in subordine quella accelerata, è probabile che la Corte europea tratterà la causa seguendo l’iter ordinario, che in genere richiede un paio d’anni. Durante i quali sul protocollo con Tirana penderà una spada di Damocle. Intanto per il cittadino marocchino il trattenimento non è stato convalidato. Tornerà in Italia come tutti quelli che chiedono asilo a Gjader, in un ping pong tra le due sponde dell’Adriatico utile solo a mascherare il fallimento del progetto meloniano. L’Italia tra coscienza giurico-civile e responsabilità internazionale di Maurizio Delli Santi* Avvenire, 7 novembre 2025 Il divieto di tortura è inderogabile: non esistono circostanze eccezionali che possano attenuarne l’applicazione. Adempiere ai mandati della Cpi non è un atto di cortesia diplomatica, ma un obbligo pieno. Si torna a parlare del caso Almasri dopo che le autorità libiche hanno emesso un mandato di arresto nei suoi confronti con le accuse di tortura e altri gravi crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una premessa qui è necessaria: non ci interessa alimentare polemiche nel dibattito politico, ma unicamente porre una riflessione giuridica, etica e civile. L’attenzione è dunque sui principi che hanno portato allo Statuto della Corte penale internazionale e, più in generale, sul sistema di tutela dei diritti umani a livello internazionale, cui finora l’Italia, con la sua cultura giuridica e civile, ha dato fondamentali contributi e si è sempre riconosciuta. Il tema non è astratto: la società civile e l’opinione pubblica hanno un ruolo essenziale nel sollecitare dibattito e consapevolezza sulle decisioni dello Stato, poiché la tutela dei diritti internazionali e il rispetto degli obblighi derivanti da norme di ius cogens non è responsabilità solo degli apparati governativi o giudiziari, ma patrimonio legittimo della comunità. C’è dunque da considerare una norma dirimente, finora trascurata nel dibattito: si tratta dell’articolo 2, paragrafo 2, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti del 1984. La norma stabilisce con chiarezza assoluta: “Nessuna circostanza eccezionale, che sia lo stato di guerra o la minaccia di guerra, l’instabilità politica interna o qualsiasi altra emergenza pubblica, può essere invocata come giustificazione della tortura”. La disposizione evidenzia due aspetti fondamentali. Primo, il divieto di tortura è assoluto e inderogabile; non esistono circostanze eccezionali, comprese emergenze pubbliche o esigenze di sicurezza nazionale, che possano attenuarne l’applicazione. Secondo, il principio si estende oltre la condotta materiale: obbliga gli Stati a prevenire e a non favorire, direttamente o indirettamente, l’impunità dei responsabili. Da questa norma discende un principio di legalità assoluta, che colloca gli obblighi internazionali al di sopra di qualsiasi logica di convenienza politica o “ragione di Stato”. Questo percorso porta ad argomentare su un altro profilo ora costantemente evocato: la decisione di non adempiere al mandato sarebbe stata giustificata da motivi di sicurezza nazionale e stabilità dei rapporti con la Libia, riferiti al rischio di sequestri di cittadini italiani e di ondate migratorie. Qui ancora il diritto internazionale indica la strada: il richiamo alla “ragione di Stato” si qualificherebbe in termini giuridici come “stato di necessità”, un’esimente generale effettivamente prevista negli ordinamenti giuridici ma strettamente vincolata ai principi di attualità, necessità e proporzionalità, oltre che di rigorosa legalità. Sul punto, vale l’articolo 25 della Convenzione di Vienna sulla responsabilità degli Stati: una eventuale eccezione dello “stato di necessità” è ammessa solo se l’azione contestata costituisce l’unico mezzo per proteggere un interesse essenziale da un pericolo grave e imminente, e non può comunque essere invocata quando l’obbligo violato deriva da una norma di ius cogens. Il divieto di tortura, dunque, esclude qualsiasi ricorso legittimo a tale scriminante. L’Italia, erede di una tradizione fondata sul coraggio civile di uomini come Aldo Moro, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, può giustificare il ricatto di non perseguire un torturatore? Queste riflessioni portano a considerare il motivo per cui fu scelto il modello dalla “cooperazione rafforzata” con la Corte penale internazionale: adempiere ai mandati della Corte non è un atto di cortesia diplomatica, ma un obbligo giuridico pieno, analogo - nella sua struttura e nella sua immediata esecutività - al modello del mandato d’arresto europeo. Riconosciuta a monte la valenza giuridica dello Statuto di Roma, gli Stati hanno scelto di non applicare il modello estradizionale - che comporta una valutazione “politica” discrezionale dei governi - ma di attuare la misura denominata surrender, la “consegna diretta”, un adempimento automatico dove ogni problema di attuazione va risolto esclusivamente con l’interlocuzione sollecita con la Corte, cui è comunque subordinata ogni decisione. Oggi si vuole rimettere in discussione il principio di “complementarietà”, che effettivamente prevede l’intervento della Corte solo se non c’è un contestuale procedimento davanti allo Stato nazionale. Ma qui valgono inequivocabili eccezioni. Quando è stato emesso il mandato della Corte dell’Aja non c’era alcun riscontro o richiesta formale di imputazione da parte della autorità libiche. Inoltre, il fatto che sia stato emesso ora non assicura che la Libia - ancora interessata da lotte fratricide interne e a un difficile processo di transizione - sia nelle condizioni di condurre un processo “equo e giusto” non condizionato da pressioni esterne. In conclusione, nella vicenda andrebbe messo da parte l’agone politico. Piuttosto va promosso un dibattito serio e costruttivo nel mondo accademico e nella società civile. Discutere della coerenza con le norme internazionali, del ruolo dell’Italia nella tutela dei diritti degli Stati e dei popoli, e della responsabilità etico-civile dello Stato significa interrogarsi profondamente sulle scelte che il Paese deve compiere in una realtà purtroppo sempre di più segnata da guerre, logiche di potenza, e sfide alla democrazia. *Membro dell’International Law Association Stati Uniti. Record di detenuti dall’Ice, oltre 66 mila nell’ultima settimana agenzianova.com, 7 novembre 2025 La popolazione detenuta dall’Agenzia statunitense per l’immigrazione e le dogane è aumentata di quasi il 70 per cento da quando Trump ha iniziato il suo secondo mandato. Il numero di detenuti sotto la custodia dell’Agenzia statunitense per l’immigrazione e le dogane (Ice) è salito questa settimana a 66 mila, stabilendo un nuovo record. Lo rivela l’emittente statunitense “Cbs News”. La popolazione detenuta dall’Ice è aumentata di quasi il 70 per cento da quando Donald Trump ha iniziato il suo secondo mandato, a gennaio, quando l’agenzia tratteneva circa 39 mila persone. Il precedente record risaliva al 2019, durante il primo mandato di Trump, quando l’Ice aveva detenuto circa 56 mila persone in un determinato momento, secondo dati governativi raccolti da ricercatori della Syracuse University. I dati interni del dipartimento della Sicurezza interna mostrano che poco più della metà - circa 33 mila persone - dei detenuti dell’Ice al mattino di giovedì non aveva accuse o condanne penali ed era trattenuta solo per violazioni civili delle leggi sull’immigrazione. Dati del dipartimento della Sicurezza interna indicano che l’Ice ha effettuato circa 278 mila arresti dall’inizio del secondo mandato di Trump, con una media di 965 al giorno. Includendo anche gli arresti dell’Agenzia per le dogane e la protezione delle frontiere (Cbp), il totale supera i 520 mila, circa 1.800 al giorno, includendo però anche gli arresti ai confini con Messico e Canada. Le deportazioni effettuate dall’Ice sotto la seconda amministrazione Trump ammontano a circa 380 mila, secondo i dati del dipartimento della Sicurezza interna. Includendo le partenze volontarie e i rimpatri gestiti dal Cbp, che comprendono anche migranti mai stabilitisi negli Stati Uniti, il totale delle rimozioni supera le 570 mila. In una dichiarazione a “Cbs News”, la portavoce del dipartimento della Sicurezza interna, Tricia McLaughlin, ha affermato che, per comprendere meglio la situazione, si dovrebbe guardare non ai detenuti attuali, ma a tutti coloro che l’Ice ha arrestato da quando Trump è entrato in carica. “Il 70 per cento degli immigrati illegali arrestati dall’Ice ha condanne penali o accuse pendenti negli Stati Uniti”, ha detto McLaughlin. “E questa statistica non include coloro che sono ricercati per crimini violenti nei loro Paesi d’origine o altrove, persone segnalate da Interpol, violatori dei diritti umani, membri di gang o terroristi.” I funzionari del dipartimento della Sicurezza interna hanno più volte negato le accuse di condizioni inadeguate nei centri Ice. “Mentre arrestiamo ed espelliamo immigrati illegali criminali e minacce alla sicurezza pubblica, l’Ice ha lavorato diligentemente per ottenere nuovi spazi di detenzione, evitando sovraffollamenti”, ha dichiarato McLaughlin. Stati Uniti. “I migranti accerchiati”: lo spettro di un nuovo razzismo di Francesco Castagna Avvenire, 7 novembre 2025 Con l’approvazione del Laken Riley Act, che prevede la detenzione o la deportazione, chi non possiede documenti è ancora più in difficoltà. Bailey è un’assistente sociale in prima linea: “Dobbiamo vincere la sfiducia”. Negli Stati Uniti di Trump è una corsa a salvare il salvabile sui temi sociali. Dopo l’approvazione del Laken Riley Act, che prevede la detenzione o la deportazione dei migranti, chi entra fuori dai canali ufficiali è ancora più in difficoltà. È un sistema sbagliato a monte che gli americani difficilmente comprendono, spiega Bailey, un’assistente sociale di una scuola del Mississippi. Lo dimostra la risposta che danno: “Capiamo che sono dovuti partire, ma non possono venire qui illegalmente, devono tornare indietro e farlo nel modo giusto”. Per lei è ridicolo: “Le modalità sono ingiuste: richiedono anni e denaro”. Si respira una profonda sfiducia: i migranti si chiudono e gli americani percepiscono le barriere culturali e linguistiche come minaccia. Ogni giorno Bailey prova ad avvicinare mondi troppo distanti, in uno scenario che è un mix di povertà, razzismo sistemico e disconnessione tra scuola e comunità. “La scuola è composta per quasi un quinto da immigrati, molti sono privi di documenti”, spiega, e aggiunge: “Costruire un rapporto con le famiglie che non parlano inglese è impegnativo. C’è diffidenza verso di noi, perché non si sa mai chi potrebbe chiamare l’Immigrazione (Ice)”. Così, come assistente sociale, si impegna nel creare legami profondi con genitori e studenti: lo sviluppo di gruppi simili a quelli di auto-mutuo aiuto contribuisce alla sensibilizzazione sul tema e al coinvolgimento della cittadinanza. Tutto sommato, il suo distretto è tra i più “fortunati”: è previsto un assistente sociale per ogni scuola elementare e consulenti per le classi superiori. “Ho tre figli, due frequentano l’università e dipendono dagli aiuti federali per pagare le rette. Senza fondi non potrebbero frequentare”, ammette. Il terzo riceve un sostegno per le difficoltà di apprendimento diagnosticate e rischia di perderlo a causa della chiusura del Dipartimento”, spiega Bailey. Ora lavora con una mamma immigrata senza documenti. O meglio, quelli per l’immigrazione temporanea li aveva, ma l’amministrazione li ha annullati. Isabela (nome di fantasia a tutela) viene dall’Honduras. Ha deciso di emigrare per due ragioni: la sua salute fisica è a rischio e il suo Paese è in preda al dominio delle gang. “Non è una criminale e non è in cerca di carità”. Prima di arrivare era un’insegnante in cerca di un futuro migliore per la sua famiglia. “Vorrei che più persone vedessero il suo volto e sentissero la storia di chi vuole e merita un futuro migliore”. Quando è arrivata in Mississippi, è stata accolta da un’amica. Le spese sono molte, ma nessuno le dà né fiducia né un impiego. “Sono scettici. Io mi presento di persona, un volto e un sorriso fanno molto più di un titolo di assistente sociale”, spiega Bailey, che si è persino organizzata per assistere alle partite di calcio o ai saggi dei suoi studenti. Ha anche creato un gruppo a scuola in cui i bambini parlano delle loro famiglie. Tempo e pazienza sono la chiave: va nei quartieri in cui vivono, fa spesa per loro, parla la loro lingua. Lì incontra Isabela, che vive impaurita sempre in casa. “Abbiamo paura di uscire per fare ogni cosa. Il rischio è che ci rimandino a casa”. Con un figlio di dieci anni, senza formazione per diventare un futuro professionista, dice che tutto avrebbe voluto, tranne che emigrare. “Nel mio Paese mancano molte cose, soprattutto la sicurezza. Sono una persona onesta a cui è sempre piaciuto lavorare. Non voglio dire che non esistano persone cattive, ma non siamo tutti malintenzionati o criminali”. Quindi, il Paese che fonda la sua storia sull’immigrazione di cosa ha paura? “È la domanda del secolo”, dice Bailey, che prova a rispondere: “La mia conclusione è che gli americani sono stati a lungo etnocentrici con un patriottismo smisurato. La prima potenza mondiale, la nazione guidata da Dio. Ma il mondo si è evoluto, altri Paesi ci hanno raggiunto. Ora che siamo connessi digitalmente, la paura delle vecchie generazioni di essere lasciate indietro provoca rabbia e sfiducia e, beh, eccoci qui”. Abu Mazen: “Disarmare Hamas serve ai palestinesi. Ora Israele abbandoni l’apartheid” di Francesca Paci La Stampa, 7 novembre 2025 Il presidente dell’Anp: “Il nostro impegno per la fine della guerra non cambia, ma bisogna essere in due”. Il presidente palestinese Abu Mazen parla con La Stampa durante una parentesi del viaggio a Roma, dove ha incontrato il Papa, condividendone l’impegno a “consolidare il cessate il fuoco e costruire una pace duratura” e dove oggi vedrà il presidente Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni. A trent’anni dall’assassinio di Ytzak Rabin e due dalla guerra più lunga di Gaza, cosa resta della prospettiva due popoli e due Stati per cui l’Autorità Nazionale Palestinese si è spesa, pagando un prezzo politico alto in termini di consenso tra i palestinesi? “La soluzione a due Stati, in cui entrambi i popoli vivano fianco a fianco in pace e sicurezza, resta la pietra miliare del progetto nazionale palestinese e della legittimità internazionale. Abbiamo adottato questa visione oltre trent’anni fa, riconoscendo il diritto di Israele a esistere in base agli Accordi di Oslo del 1993 e accettando che lo Stato palestinese fosse istituito su tutti i territori occupati nel 1967: la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e Gaza. Nonostante l’occupazione, l’espansione degli insediamenti, l’oppressione e i ripetuti attacchi, il nostro impegno non è cambiato. Si è eroso invece quello israeliano. Dall’assassino di Rabin in poi, tutti i governi si sono allontanati dalla via della pace. Tuttavia, continuiamo a tendere la mano, convinti che la pace, non il dominio, debba prevalere, per il bene delle generazioni presenti e future”. Migliaia di israeliani manifestano da mesi per il rilascio degli ostaggi, per la pace e contro il governo. Israele è ancora un partner per l’Anp? “Israele è un bivio. Da un lato i cittadini coraggiosi che chiedono pace e la fine dell’occupazione, dall’altro un governo estremista e gruppi di coloni che spingono il Paese verso il razzismo e l’apartheid. Per collaborare servono due parti che rispettino il diritto internazionale. Quando Israele legalizza gli insediamenti, ruba la nostra terra, confisca i fondi, propone leggi sulla pena di morte e nega il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, non incoraggia i negoziati ma si isola. Non abbiamo abbandonato la pace né il dialogo, l’attuale governo israeliano preferisce però l’estremismo alla coesistenza”. La convince il piano Trump, nonostante il passaggio di Gaza all’Anp e la nascita di uno Stato palestinese siano previsti con tempistica assai vaga? “Abbiamo apprezzato gli sforzi del presidente Trump per garantire il cessate il fuoco e cercare una pace duratura. Parte del suo piano è già in atto. Ora è necessario consolidare la tregua, rilasciare tutti gli ostaggi e i prigionieri, fornire massicci aiuti umanitari attraverso le organizzazioni internazionali per risolvere la carestia causata dalla politica del governo israeliano. Le forze israeliane devono ritirarsi e il governo palestinese deve assumersi le proprie responsabilità a Gaza. Urge che tutte le fazioni consegnino le armi allo Stato palestinese, affinché Gaza abbia un’autorità, una legge e una polizia. Approviamo anche il dispiegamento di una forza internazionale di stabilizzazione incaricata dall’Onu di monitorare e sostenere la sicurezza palestinese nella transizione. Qualsiasi coinvolgimento internazionale deve rispettare la sovranità palestinese su Gaza e l’unità istituzionale con la Cisgiordania”. Avete già pensato a chi saranno i “tecnici” palestinesi? “A Gaza ci sono settantamila dipendenti del governo palestinese che hanno ricevuto lo stipendio senza interruzioni. Le nostre istituzioni esistono sul territorio, a mancare sono la fine dell’occupazione, la libertà e l’indipendenza. L’attuazione del piano Trump va calendarizzata in modo da assistere l’autorità palestinesi durante la transizione, garantire che abbia la sovranità su Gaza e supervisionare il collegamento con la Cisgiordania in un unico quadro giuridico e istituzionale, coerente con la soluzione dei due Stati”. Come si stanno muovendo i Paesi arabi che, pur avendone sempre sventolato la bandiera, non hanno mai davvero aiutato i palestinesi? “Il mondo arabo è oggi più unito che mai intorno alla causa palestinese. Il Comitato ministeriale arabo-islamico - presieduto dall’Arabia Saudita e sostenuto da Egitto, Giordania, Qatar, Emirati, Turchia, Indonesia, Nigeria, Pakistan e Algeria presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu - è stato decisivo, insieme all’Ue e altri Paesi, nel creare la coalizione internazionale per la soluzione dei due Stati e per il riconoscimento della Palestina. È d’intesa con i partner arabi e islamici che Donald Trump ha posto fine alla guerra. Di concerto con tutti questi attori lavoriamo ora agli accordi del “giorno dopo” per rafforzare le istituzioni palestinesi, preparare il ritorno del governo a Gaza, garantirne il controllo sulla sicurezza, la governance, le frontiere e la ricostruzione, nonché per riaffermare la sovranità palestinese su tutti i territori a Gaza e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est. La meta è quella dei due Stati entro un tempo dato e con misure irreversibili”. Secondo un recente sondaggio il 55% dei gazawi non vuole il disarmo di Hamas e la metà crede che il massacro del 7 ottobre fosse legittimo. Qual è l’umore in Cisgiordania, giacché il disarmo di Hamas è un pilastro del piano Trump? “Dal 1948 i palestinesi subiscono aggressioni sistematiche che hanno prodotto lo sfollamento di oltre metà della popolazione e decenni di oppressione, razzismo e pulizia etnica. La tragedia del 7 ottobre è stata un’altra catastrofe: abbiamo condannato Hamas per aver ucciso e rapito civili, come abbiamo condannato i crimini di Israele, dal genocidio alla fame imposta a Gaza fino alla Cisgiordania, dove si ripetono attacchi, violenze, oltraggio dei luoghi sacri cristiani e musulmani. Rispettiamo la libertà di opinione, ma nessuna fazione armata può essere al di sopra della legge. La tragedia di Gaza prova che le armi al di fuori della legittimità nazionale portano solo devastazione. Disarmare tutte le fazioni, compresa Hamas, non è una volontà straniera ma una necessità dei palestinesi per ricostruire la patria e garantire l’unità di Gaza e Cisgiordania sotto un solo governo, una sola legge e una sola autorità di sicurezza. Il ritiro completo di Israele, la fine dell’occupazione e l’indipendenza sono richieste sia palestinesi che internazionali”. Che ruolo gioca l’Italia che pure, a differenza di altri Paesi dell’Ue, non ha ancora riconosciuto lo Stato palestinese? “L’Italia è un amico storico della Palestina e una voce influente in Europa e nel Mediterraneo. Manteniamo un dialogo costante con il governo e ne apprezziamo profondamente l’aiuto umanitario e allo sviluppo, incluso il sostegno nell’addestramento della polizia palestinese e la partecipazione alla missione di monitoraggio dell’Ue al valico di Rafah. Auspichiamo che l’Italia contribuisca anche alla sicurezza, alla stabilità e alla ricostruzione così come che si unisca ai sempre più numerosi Paesi europei nel riconoscimento della Palestina. Riconoscimento che è un investimento sulla pace e la stabilità e per cui il peso morale e politico di Roma può fare la differenza”. La tregua, più male che bene, sembra reggere. Quando si terranno le prossime elezioni presidenziali palestinesi? “Così come continueremo ad attuare le riforme su cui ci siamo impegnati, abbiamo deciso di indire elezioni generali e presidenziali entro un anno dalla fine della guerra. I preparativi sono già in corso, compresa una Costituzione provvisoria e una nuova legge sui partiti che limiti la candidatura a chi è impegnato per la soluzione dei due Stati. Le istituzioni dello Stato palestinese saranno rinnovate su basi democratiche e attraverso un pacifico trasferimento di potere. Il voto si terrà sotto la piena supervisione internazionale, che include l’Ue e l’Onu”. Iran. Si chiama Goli Kouhkan e rischia di finire impiccata: la sua storia non è un’eccezione di Alberto Minnella Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2025 Data in sposa a 12 anni, Goli non ha avuto infanzia, né scuola, né giochi, né quella libertà che da noi consideriamo un diritto naturale. Ha avuto invece un marito violento, crudele, padrone. C’è, in un angolo dimenticato dell’Iran, una ragazzina che oggi rischia di finire impiccata. Si chiama Goli Kouhkan, e già il nome pare un fiore calpestato. Quando le misero il velo bianco della sposa aveva dodici anni, e il mondo per lei finì ancor prima di cominciare. Lo sposo era un parente, scelto dalla famiglia, e il matrimonio fu celebrato come si fa con le capre, un contratto, una transazione tra poveri. Non c’è nulla di romantico in questa storia raccontata da The Guardian, solo miseria, superstizione e una donna bambina consegnata al suo destino come un oggetto di casa, con il silenzio delle madri e l’indifferenza dei padri. Goli non ebbe infanzia, né scuola, né giochi, né quella libertà che da noi consideriamo un diritto naturale. Ebbe invece un marito violento, crudele, padrone. Viveva tra le mura di fango di un villaggio sperduto, dove la parola “giustizia” non arriva e la legge si chiama paura. Ebbe anche un figlio, piccolo, di cinque anni, che un giorno vide picchiare con la stessa furia cieca che aveva devastato la madre. Fu allora che accadde il dramma. Nella colluttazione l’uomo morì. Un gesto, dicono, di autodifesa. Ma la giustizia iraniana non ama le sfumature e non conosce attenuanti quando la colpevole è donna. Oggi quella bambina, ormai adulta per sofferenza più che per età, aspetta la corda. Non è una storia eccezionale, purtroppo. È solo una delle tante che non dovrebbero più esistere e invece continuano a moltiplicarsi sotto il nostro naso occidentale e distratto. In Iran, Paese che produce più poetesse che rose del deserto, si continua a sposare le bambine e a giustiziare le donne, come se la modernità avesse deciso di fermarsi sulla soglia di certi villaggi. La legge prevede che la famiglia della vittima possa “perdonare” la colpevole dietro compenso. Nel caso di Goli si parla di dieci miliardi di toman, circa novantamila euro, una cifra impossibile per una famiglia che a stento possiede un tetto e un pezzo di pane. In pratica, la vita di una donna vale quanto un appartamento di periferia a Teheran, e l’ingiustizia diventa una partita doppia di contabilità morale e bancaria. Il tempo stringe. Entro dicembre bisogna pagare, altrimenti il cappio farà il suo lavoro. Intanto, nei tribunali, gli avvocati aspettano, i giudici tacciono e le madri pregano. E noi, dall’altra parte del mondo, contiamo like, firme, indignazioni momentanee. Scriviamo qualche parola, firmiamo una petizione, poi chiudiamo lo schermo e andiamo a dormire tranquilli, convinti di aver fatto la nostra parte. Forse è questo il nuovo lusso dell’Occidente: poter scegliere a chi dedicare cinque minuti di compassione. Io non mi scandalizzo facilmente, ma di fronte a certe notizie la penna si ferma da sola. Non per mancanza di parole, Dio sa che ne ho troppe, ma per vergogna. Perché in fondo Goli non è una storia iraniana. È una storia universale, una storia che parla di tutte le donne vendute, abusate, dimenticate. E l’umanità, si sa, è un’invenzione che spesso dimentichiamo di praticare, preferendo l’ipocrisia delle buone intenzioni alla fatica del cambiamento vero. Quando una bambina viene venduta, picchiata e poi condannata a morte per aver reagito, non è solo colpevole l’uomo che la picchiava, né il giudice che la condanna. Lo siamo anche noi, che continuiamo a leggere, scuotere il capo e voltare pagina. Lo siamo ogni volta che lasciamo che la disperazione di qualcun altro diventi solo una notizia di cronaca. E così Goli resta lì, prigioniera di un destino scritto da altri, in attesa che qualcuno, finalmente, le restituisca ciò che le è stato tolto: non la libertà, ma la dignità di essere viva.