Carcere, le attività soffocate dalla burocrazia di Ilaria Dioguardi vita.it, 6 novembre 2025 Negli istituti di pena per poter svolgere attività educative, culturali e ricreative per i detenuti d’ora in avanti bisognerà presentare la domanda alla direzione del Dap e non più al direttore del carcere. I primi progetti sono già saltati. Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti: “Si sta burocratizzando la vita penitenziaria. Questa circolare rischia di far stare i detenuti chiusi 20 ore al giorno in celle strapiene”. E svela che, in un’altra circolare, si affronta il tema della salute attaccando i “pendolarismi ospedalieri” e ordinando ai medici penitenziari di chiamare il 118 solo in caso di pericolo di vita: “Un’invasione di campo, già oggi circa mille detenuti al giorno saltano visite ed esami in ospedale per mancanza di scorte”. Una circolare del 21 ottobre scorso firmata da Ernesto Napolillo, direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, subordina all’approvazione del Dap la realizzazione di ogni iniziativa negli istituti in cui è presente una sezione di alta sicurezza, anche se l’iniziativa non riguarda la stessa alta sicurezza. “Le procedure sono sempre più burocratizzate. Questa circolare coinvolge più della metà degli istituti di pena, e i detenuti di tutte le sezioni di quelle carceri”, dice Samuele Ciambriello, portavoce della Conferenza nazionale dei garanti e garante dei detenuti della Campania. “Ad esempio, a Poggioreale sono presenti 2.157 detenuti, c’è una sezione di alta sicurezza, quindi ogni attività che si fa in quest’istituto, da oggi in poi, deve essere autorizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Solo in piccole carceri, con 70-100 detenuti, ad esempio dove c’è solo la media sicurezza o in cui sono ristrette le persone tossicodipendenti, non occorre l’autorizzazione del Dap”. Ciambriello si chiede: “Se la magistratura di sorveglianza, su proposta della direzione, fa progetti di scrittura creativa, culturali, musicali, organizza i pranzi a Natale, perché poi bisogna attendere l’autorizzazione da Roma? Il direttore del carcere, il magistrato cosa diventano, amministratori di condominio? Si sta burocratizzando la vita penitenziaria”. “Tra i 2mila detenuti in Italia che sono studenti universitari, 800 sono nell’alta sicurezza. Le direzioni delle carceri autorizzano i detenuti a partecipare ad attività organizzate con le università, ci sono dei poli universitari: con questa circolare non è più possibile, si rallenta tutto, ogni decisione è in mano agli uffici di Roma”, continua Ciambriello. “Noi utilizziamo il Terzo settore, il volontariato per mantenere alto il livello di inclusione, con attività culturali e ricreative. Il rischio è di tornare indietro. Questa circolare rischia di far stare i detenuti chiusi 20 ore al giorno in celle strapiene, senza la possibilità di svolgere attività”. “Se il 75% delle persone in carcere ci ritorna è perché il carcere non ha rieducato, non ha portato all’inclusione sociale. Si limita la presenza di cooperative, associazioni, progettualità quando anche nell’alta sicurezza i detenuti hanno cambiato vita grazie al grande aiuto del teatro, delle attività culturali, scolastiche”, prosegue il portavoce della Conferenza dei garanti. “Vorrei che Napolillo si preoccupasse di far attuare il diritto all’affettività. Sono passati quasi due anni dalla sentenza della Corte costituzionale, i colloqui in intimità sono permessi solo in tre istituti di pena, Padova, Terni e Perugia, e solo perché è intervenuto il magistrato di sorveglianza”. Non arrendiamoci all’ultima Circolare del Dap che chiude il carcere su se stesso di Emilia Rossi* Il Dubbio, 6 novembre 2025 In carcere le prassi si consolidano nel tempo fino a farsi legge: pratiche che si affermano in via di fatto e si perpetuano, circolari silenziose che le traducono in regole, di cui si perde traccia nella massa tentacolare della burocrazia penitenziaria, che si insinuano nelle norme dell’ordinamento penitenziario fino a snaturarle. È esattamente in questo sistema “legiferativo” che si inserisce la circolare del 21 ottobre scorso, emanata dal Direttore generale dei detenuti e del trattamento del DAP, Ernesto Napolillo, che accentra sul suo Ufficio l’autorizzazione di tutti gli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo che si vogliano realizzare negli Istituti con circuiti di Alta sicurezza, anche se rivolti esclusivamente ai detenuti comuni, di media sicurezza. La circolare ha già dato efficace prova di sé in poco più di dieci giorni: nel carcere di Padova, da un giorno all’altro, è stato annullato un evento del progetto Kutub Hurra (libri liberi), attivo da più di due anni, che sarebbe consistito nella consegna alla biblioteca di un centinaio di libri in arabo. Le ragioni delle autorizzazioni e dei dinieghi sono rimesse all’ampia discrezionalità dell’amministrazione che non subisce controlli o reclami di alcun genere. L’orientamento che le tiene insieme, però, è uno ed è chiarissimo: la chiusura del carcere su sé stesso, la dissuasione dell’integrazione del carcere con la società che lo circonda, espressa chiaramente con l’invito, che chiude la circolare, a non “esternalizzare” l’organizzazione e la gestione delle attività. Insomma, in un momento in cui la ricchezza delle attività all’interno del carcere costituisce l’unica ancora di salvezza da giornate vuote al chiuso di una cella sovraffollata, e una delle poche risorse disponibili per mantenere l’equilibrio in Istituti che hanno superato il limite del decoro e del rispetto della dignità umana, il DAP che fa? La ostacola e depaupera. Poco male, si potrebbe pensare, se l’Amministrazione la fornisse lei, questa ricchezza. E invece no: la chiusura alla partecipazione della comunità esterna all’opera di risocializzazione si accompagna alla cronica povertà delle risorse dell’Amministrazione penitenziaria per realizzare un’offerta minimamente congrua a chi ne ha diritto. L’effetto autentico di questo provvedimento si risolve, quindi, nel configurare il carcere come luogo di sola restrizione, di contenimento, dove la pena trova il suo valore nell’afflittività della deprivazione. Peraltro, questa circolare è solo il punto di arrivo di una serie di altre, che partono da quella del 1997, richiamata in una nota della stessa Direzione del 15 aprile scorso (una specie di preavviso di quello che era in preparazione), e che hanno sempre più moltiplicato i centri decisionali per l’autorizzazione delle attività in carcere. In sostanza, il parere del direttore alla richiesta di svolgere un evento o un’attività, è sempre passato dalla preventiva autorizzazione del Provveditorato prima di essere inviato all’unica autorità titolare del potere di autorizzare: quella del magistrato di sorveglianza. E questo è accaduto ritagliando all’interno della norma di riferimento, l’art. 17 o. p., un meccanismo di passaggi interni che, tuttavia, lasciavano intatta la titolarità della decisione finale. La circolare del 21 ottobre ha un cambio di passo: l’autorizzazione espressa direttamente dalla Direzione generale del DAP esautora il potere decisionale del Giudice di sorveglianza e, di fatto, si pone in deroga alla norma dell’ordinamento penitenziario. Perché è chiaro che la richiesta di attività rivolta al DAP e non accolta, non ci arriva nemmeno davanti al magistrato di sorveglianza. Ma la circolare è un atto amministrativo che non rientra tra le fonti normative primarie, non può derogare a una norma di legge. Allora, prima di arrendersi all’ultimo prodotto di prassi restrittive, vale la pena interrogarsi sugli strumenti giurisdizionali che si possono attivare per ripristinare l’ordine corretto delle regole e restituire al Giudice quello che un dipartimento ministeriale gli ha tolto. Altrimenti, nel silenzio del carcere e nel disinteresse generale anche della magistratura, fatta eccezione solo per la componente di Area Democratica per la Giustizia, va a finire che si realizza sul serio il potere dell’esecutivo sulla giurisdizione, fuori del rispetto dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura che l’articolo 104 della Costituzione di oggi e, magari, di domani, assicura. *Avvocato Minorenni in manette. La fabbrica dei ragazzini estremisti di Federica Olivo huffingtonpost.it, 6 novembre 2025 Figli di immigrati in cella perché inneggiavano al terrorismo e ne leggevano i manuali. Cioè, per non aver fatto nulla. Un direttore di carcere minorile e un sociologo del diritto ci spiegano che così si alimenta l’integralismo: in carcere è più facile che diventi criminale anche chi non lo è. L’ultimo caso è accaduto il 4 novembre, in provincia di Pavia. Un minorenne di origini tunisine, è stato arrestato per partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo e istigazione a delinquere. “Si è auto-radicalizzato - si legge nel comunicato dei Carabinieri - aderendo ad un circuito telematico internazionale strutturato, dedito alla propaganda della jihad e del martirio”. Insomma, il ragazzino interagiva in rete con altri soggetti che inneggiavano all’estremismo islamico. Molti di questi, ragazzini come lui. “Si era procurato diversi manuali per la costruzione e l’assemblaggio di ordigni esplosivi e incendiari con sostanze di facile reperibilità, manifestando la volontà di andare a combattere in area di conflitto”, si legge ancora. Non fabbricava bombe, ma aveva consultato materiale su come si creano gli ordigni. Non aveva compiuto atti terroristici, ma diceva di volerne fare. Tanto è bastato per far scattare le manette. Si tratta di un caso isolato? No. Pochi mesi fa era accaduto un episodio simile. Il soggetto era sempre minorenne, 16 anni per l’esattezza, ma di origine iraniana. In quel caso era accusato di propaganda e apologia di terrorismo, aggravate dall’uso del mezzo telematico. Oltre ai proclami folli - si definiva, parlando con altri giovanissimi, “l’incubo dei grattacieli” - non era in procinto di organizzare un attentato. Eppure è stato arrestato. Casi come questi potrebbero moltiplicarsi, in futuro, perché il decreto sicurezza ha reso ancora più facile il carcere per chi “consapevolmente detiene o si procura materiale contenente istruzioni sulla preparazione o sull’uso di congegni bellici”. Tradotto: può accadere chi un semplice curioso di materiale bellico, che compra online qualche manuale su come si fanno le bombe, per pura curiosità, potrà essere arrestato. Maggiorenne o minorenne che sia. Fatta questa lunga premessa, sorge una domanda. Ha senso mandare in carcere un minorenne che si mostra attratto dal terrorismo online? Davvero la prigione a 16 anni, in casi del genere, può sconfiggere preventivamente mali futuri? La risposta è no. E ce la danno due esperti: “Il carcere è uno dei luoghi dove il rischio radicalizzazione è maggiore, per varie ragioni. Una di queste è che i detenuti si aggregano in base all’appartenenza. All’origine. Ed è un luogo dove i conflitti si acuiscono, non si smorzano”, spiega a HuffPost Girolamo Monaco, direttore del carcere minorile di Acireale, in passato in servizio a Treviso. Monaco parla con l’esperienza di chi con i minori detenuti vive tutti i giorni. Ma questa tesi è condivisa anche dagli studiosi: “Non è quasi mai una buona idea mandare in carcere persone che sono in età di sviluppo”, premette, ragionando con HuffPost, Alvise Sbraccia, sociologo del diritto e della devianza. “Ci sono studi internazionali che dimostrano, da decenni, quanto il carcere possa essere un luogo di sviluppo e di moltiplicazione di ideologie radicali, dal terrorismo politico a quello religioso. E se ciò vale per il carcere per gli adulti, vale a maggior ragione per i minori”. Anche perché, aggiunge il docente - che si è occupato della materia anche per l’associazione Antigone - “più le persone sono giovani e più possono sentirsi attratte da ideologie radicali”. Secondo Monaco, però, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, nelle carceri minorili il rischio radicalizzazione può essere più facilmente contenuto rispetto a ciò che accade nelle carceri per adulti: “Perché - spiega - l’osservazione dei ragazzi, da parte del personale, è costante. Nell’Ipm che dirigo, quello di Acireale, ad esempio, tutti i 20 ragazzi vanno a scuola, ci sono quattro educatori. Se il tempo viene riempito di contenuti, il percorso è più semplice. L’unico modo per praticare la sicurezza in un carcere è il trattamento dei detenuti, non l’uso della violenza”. Nonostante gli accorgimenti, il rischio che un sedicenne che è attratto da contenuti online che inneggiano al terrorismo, in carcere si radicalizzi ulteriormente rimane. Per le condizioni stesse del carcere. Per la natura dell’istituzione: “L’esperienza afflittiva e deprivante - aggiunge Sbraccia - può essere di per sé un elemento che orienta alla radicalizzazione. Un soggetto che viene da una condizione di marginalità sociale, in carcere trova conferma del processo di esclusione che la società sta compiendo nei suoi confronti”. E può, quindi, maturare sentimenti di odio nei confronti di quella società. L’odio, è fin troppo banale dirlo, è l’anticamera di tutti i tipi di radicalizzazione. Il carcere, insomma, in questi casi sarebbe da evitare. Almeno per i minorenni. Per evitare un risultato paradossale: che chi criminale non è, lo diventi perché lo Stato lo ha imprigionato. “Serve - chiosa Monaco - la prevenzione. Che si fa attraverso le istituzioni, la scuola, la famiglia. Se un ragazzo è a rischio radicalizzazione e si sente un martire, all’interno della cella questo proposito non farà altro che rinforzarsi”. Non c’è nulla di arbitrario nei casi che abbiamo raccontato: se i ragazzini sono stati messi in carcere è perché una legge lo ha consentito. Una legge che, però, rischia di essere ben poco lungimirante. L’altra legge, quella che puntava alla prevenzione contro il radicalismo islamico con strumenti educativi ben diversi dal carcere e che avevano scritto Andrea Manciulli ed Emanuele Fiano nella scorsa legislatura, non è mai stata approvata. E giace nelle stanze del Parlamento come lettera morta, mentre lo Stato continua a riempire le carceri, anche quelle minorili, di persone che, prima di essere imprigionate, andrebbero sostenute in un percorso di rieducazione. Detenuti, salute mentale e suicidi in carcere: il ruolo del giornalismo di Valentina Vergani Gavoni sospsiche.it, 6 novembre 2025 La salute mentale è ancora troppo sottovalutata in Italia. I fatti di cronaca vengono spesso decontestualizzati a favore della spettacolarizzazione. E un’informazione incompleta genera emulazioni pericolose. La detenzione di soggetti vulnerabili è un tema che prende in considerazione più articoli del Codice deontologico. Ogni caso specifico merita quindi una contestualizzazione approfondita. In ricorrenza della morte di Ben Mahmoud Moussa - un migrante di 28 anni arrestato in stato confusionale - l’associazione Connect, composta da giornalisti e comunicatori, ha condotto un’inchiesta per portare alla luce gli errori della giustizia e dell’informazione. Moussa era entrato nel carcere Marassi, a Genova, il 26 ottobre 2024. Aveva una diagnosi di disturbo schizotipico/psichiatrico ed era in cura con il servizio di salute mentale dell’ASL territoriale. Il 12 novembre 2024 ha tentato il suicidio. Ricoverato all’ospedale San Martino, è morto alcuni giorni dopo. Raccontare la salute mentale - L’inchiesta riporta che il protocollo regionale per la prevenzione del suicidio in carcere non è mai stato attivato. Non è stata prevista una sorveglianza speciale, e nemmeno una visita psichiatrica. Alcune testate hanno però enfatizzato il fatto che fosse “tunisino”, “straniero” e “detenuto” senza approfondire le circostanze della sua fragilità psichica, della cura in atto e della responsabilità istituzionale. Alimentando, così, stereotipi e pregiudizi. Quello di Moussa, in molti casi, è stata presentato come una tragedia individuale. Molti articoli non approfondiscono le dimensioni sistemiche come la normativa applicabile, i protocolli regionali o i doveri dell’amministrazione penitenziaria. Deontologicamente, invece, l’informazione dovrebbe aiutare il pubblico a comprendere non solo “cosa è successo” ma “perché è successo” e “qual è il significato”. In casi di suicidio o tentato suicidio, viene richiesto esplicitamente di evitare dettagli che possano essere percepiti come “sensazionali”. Le giornaliste e i giornalisti hanno un ruolo fondamentale nella rappresentazione della realtà. E troppo spesso, ancora, la diffusione di narrazioni sbagliate può avere conseguenze dirette sui protagonisti. Per analizzare il caso di Ben Mahmoud Moussa (detenuto, straniero, con disturbo mentale, morto in carcere), è quindi necessario analizzare il nuovo Codice deontologico in vigore dal 1°giugno 2025. Le regole della deontologia professionale - Molti giornali hanno riportato la notizia senza contestualizzare le condizioni di salute mentale della vittima e le responsabilità istituzionali. L’omissione di questi elementi non solo è contraria all’articolo 5 del Titolo I, il quale impone il dovere di completezza dell’informazione, ma rischia anche di generare stigmatizzazioni superficiali. Nuovo codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti - “La/il giornalista ricerca, raccoglie, elabora e diffonde con la maggiore accuratezza possibile ogni elemento di pubblico interesse nel rispetto della dignità delle persone e del principio di essenzialità dell’informazione”, recita il Codice. Il diritto all’informazione (Art. 2, Titolo I), che rispetta i principi dell’interesse pubblico, non deve entrare in contrasto con i diritti delle persone fragili e vulnerabili (Art. 11, Titolo III) e quelli delle persone migranti e rifugiate (Art.14, Titolo III). Insistere sulla nazionalità quando non è rilevante, oppure rappresentare il soggetto come “detenuto problematico” decontestualizzando il fatto di cronaca, viola il principio di non discriminazione. “La/il giornalista rispetta la dignità delle persone malate, con disabilità, o comunque vulnerabili, con qualsiasi fragilità fisica e/o cognitiva e/o legata a problematiche sociali e familiari. Evita sensazionalismi tutelando l’identità della persona che può essere resa nota solo nei casi di interesse pubblico e rilevanza sociale, oppure per dare risalto a eventi positivi”, si legge nell’articolo 11 del Titolo III. “Nel caso delle persone migranti, rifugiate, richiedenti asilo e vittime della tratta, la/il giornalista usa termini rispettosi e appropriati ed evita le informazioni imprecise, sommarie o distorte”, afferma il Codice. Riportando la morte di Moussa, alcune testate hanno anche rivelato il metodo del suicidio usando un tono sensazionalistico: “La/il giornalista evita di descrivere in modo dettagliato i luoghi e le modalità dell’evento e ogni particolare che potrebbe determinare comportamenti emulativi. E favorisce la diffusione di informazioni sulla prevenzione dei suicidi e sull’attività dei centri di aiuto”, riporta l’articolo 15 del Titolo III. Differenza tra cronaca e sensazionalismo - Sia nel bene che nel male l’identificazione etnica di un soggetto vulnerabile non è deontologicamente corretta quando non costituisce l’elemento primario della notizia. Il tema del suicidio e della salute mentale nelle carceri, infatti, riguarda tutti. Non solo i migranti. E sottolineare sistematicamente questo dato personale della vittima non favorisce la diffusione di una narrazione corretta. Al contrario, la distorce. In casi come questo, il dovere non è solo “raccontare” ma anche non contribuire alla discriminazione di categorie già marginalizzate (detenuti, stranieri, malati psichici). La questione è la salute mentale della vittima. E non la sua nazionalità. Questa è la notizia. Tutto il resto si trasforma in strumentalizzazione. Salute mentale e informazione - Anche l’uso delle fotografie/video segue i criteri della deontologia professionale. “La/il giornalista si attiene dalla diffusione di immagini che possano portare a forme di spettacolarizzazione della violenza, evita stereotipi nella rappresentazione sia degli individui, sia dei gruppi. E si assicura che siano rispettose dei diritti, della personalità e della dignità degli interessati” (Art, 20, Titolo IV). Garantire il diritto all’informazione del pubblico con chiarezza, onestà e trasparenza serve a salvaguardare le persone coinvolte - in questo caso un detenuto vulnerabile, la sua famiglia e il personale penitenziario - evitando stigmatizzazioni. L’attività giornalistica deve perciò favorire il dibattito pubblico su questioni istituzionali come la salute mentale fuori e dentro le carceri, le condizioni detentive e il trattamento dei detenuti, senza strumentalizzare i fatti di cronaca nera. Prevenendo, quindi, che le vittime diventino strumenti per diffondere panico sociale, pregiudizi e distorsioni della realtà. Carceri, Nordio: “Italia all’avanguardia nella lotta alle mafie” di Marco Belli gnewsonline.it, 6 novembre 2025 “Gli istituti penitenziari rappresentano il luogo primario nel quale le esigenze relative alla repressione del crimine si devono espletare. La normativa antimafia e quella penitenziaria sono due fiori all’occhiello della legislazione italiana. In questo settore, l’expertise italiano è all’avanguardia: siamo stati i primi a subire l’influenza della criminalità organizzata, ma proprio per questo siamo stati i primi a predisporre gli strumenti normativi e investigativi per porvi contrasto”. Così il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel saluto di apertura alla Conferenza sulla criminalità organizzata nelle carceri 2025 - Innovazione, intelligence e collaborazione internazionale, in corso a Roma. Nel suo intervento, il Guardasigilli ha ricordato come “nel contrasto al crimine organizzato siano coinvolti il governo e la magistratura italiana” e ha ripercorso le tappe fondamentali che hanno permesso la messa a punto di importanti strumenti di contrasto alle mafie: la legge Rognoni-La Torre del 1982 che definisce l’associazione mafiosa; la creazione della Direzione Nazionale Antimafia; l’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, il regime carcerario speciale introdotto nel 1992 “per tagliare la connivenza tra mafiosi detenuti e mafiosi compartecipi esterni”, reso permanente nel 2002 e, infine, il Codice delle leggi antimafia nel 2011, “stella polare della nostra legislazione contro la criminalità organizzata”. “Le stragi di Capaci e via d’Amelio - ha sottolineato il Ministro - spinsero il governo a introdurre un regime speciale per i detenuti per reati di mafia, finalizzato a recidere i collegamenti con l’esterno. Un istituto estremamente rigoroso, che è diventato fonte di studio e d’ispirazione per molti altri Stati. Di recente colleghi francesi sono venuti in Italia per imparare e hanno ammesso che il nostro sistema funziona. Fruttuose collaborazioni sono in essere per questo anche con Brasile e Venezuela. Tutto il mondo - ha concluso Nordio - riconosce che siamo all’avanguardia nella lotta alla criminalità organizzata”. La Conferenza, che si concluderà domani, è organizzata congiuntamente dal ministero della Giustizia - dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dal ministero della Giustizia e della Sicurezza olandese e da EuroPris, l’organizzazione dei servizi penitenziari fondata nel 2011 che mette in contatto i professionisti del settore in tutta Europa. L’incontro riunisce esperti e politici sul tema della lotta alla criminalità organizzata nelle carceri, un problema che continua a minare l’integrità dei sistemi penitenziari in tutta Europa e che occorre affrontare rafforzando la cooperazione internazionale e lo scambio di pratiche, informazioni e intelligence. Per il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria intervengono il direttore generale dei Detenuti e del Trattamento Ernesto Napolillo, il direttore del Nucleo investigativo centrale (Nic) Ezio Giacalone, il vicedirettore generale del Personale Augusto Zaccariello e il direttore della Divisione impianti di sicurezza, sistemi antidrone e innovazione tecnologica Antimo Cicala. Fra i temi oggetto di approfondimento, gli effetti della criminalità organizzata sulle operazioni carcerarie, sulla sicurezza dei detenuti e sul benessere del personale; la valutazione di infrastrutture specializzate; le strategie di gestione e i protocolli di sicurezza progettati per contenere i detenuti ad alto rischio e prevenire il coordinamento di attività criminali all’interno delle carceri. Uno sguardo importante sarà dedicato inoltre agli strumenti digitali, ai sistemi di sorveglianza e alle innovazioni tecnologiche che supportano il rilevamento di droni, il monitoraggio, il jamming dei telefoni e l’interruzione di attività illecite. La Conferenza italiana, che segue il successo dell’edizione ospitata da Spagna e Paesi Bassi nel 2023, servirà infine a migliorare la raccolta e l’analisi di informazioni di intelligence penitenziaria nonché a rafforzare la collaborazione transfrontaliera, lo scambio di informazioni e l’allineamento delle politiche tra le istituzioni giudiziarie europee per affrontare più efficacemente la criminalità organizzata nelle carceri. La giustizia e le tre domande di Sabino Cassese Corriere della Sera, 6 novembre 2025 Cosa decidiamo con il referendum. Non dobbiamo dare un voto a questo o a quel governo, e neppure alla magistratura. La divisione tra sostenitori e oppositori finisce per caricare il referendum di significati ulteriori, che non vi sono. “Approvate il testo della legge costituzionale “norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”, approvato dal Parlamento in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore a due terzi dei membri, e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 30 ottobre 2025?”. Questo è il quesito referendario a cui saremo chiamati a dare una risposta nella primavera prossima. Non dobbiamo dare un voto a questo o a quel governo, e neppure alla magistratura. Quindi, non ha ragion d’essere il clamore di alcuni magistrati militanti e di una parte del corpo politico: la divisione tra sostenitori e oppositori finisce per caricare il referendum di significati ulteriori, che non vi sono. Dobbiamo, per decidere, provare a rispondere a tre domande. La prima: se sia legittimo e opportuno separare le carriere di chi accusa e di chi giudica nei processi. I critici dicono che già oggi è così, e che, separando le carriere, si corre il rischio che gli organi dell’accusa siano assoggettati al potere esecutivo o che diventino veri e propri super poliziotti-inquisitori. I sostenitori del sì affermano che non può essere interamente terzo e imparziale un giudice che appartiene allo stesso corpo dell’accusatore, per cui selezione e carriera dell’uno e dell’altro vanno gestite da organi diversi. E che la separazione delle funzioni (quella inquirente e quella giudicante), già decisa quarant’anni fa con la riforma del codice di procedura penale e consacrata dall’articolo 111 della Costituzione come modificato nel 1999, va completata, assicurando che le due categorie facciano capo a due diversi Consigli Superiori, non diversi dall’attuale Consiglio Superiore della Magistratura, per cui l’indipendenza è anche maggiore di quella prevista dalla vigente Costituzione, che rimette alla legge ordinaria di assicurare le garanzie per i pubblici ministeri. La seconda domanda: è legittimo e opportuno che i magistrati che comporrebbero (in netta maggioranza) i due Consigli Superiori siano sorteggiati, invece che essere eletti? I critici dicono che nessuno sceglierebbe per sorteggio il suo medico o l’amministratore del condominio e che la scelta casuale non rispecchierebbe il pluralismo culturale dei corpi rappresentati. I sostenitori del sì replicano che in questo modo si dimostra di avere ben poca fiducia negli attuali magistrati: possono dare anche il carcere a vita, ma non sarebbero in grado di valutare, assegnare alle sedi, promuovere i propri colleghi. Aggiungono che, essendo il Consiglio Superiore organo di garanzia di autonomia e indipendenza e non di autogoverno o rappresentanza, il sorteggio è strumento più idoneo dell’elezione per la scelta dei suoi membri, anche perché il sorteggio è stato sempre ritenuto lo strumento più democratico, dall’antica Grecia alla Repubblica di Venezia, tanto che, nella maggior parte dei Paesi democratici, si sorteggiano i membri delle giurie popolari. Infine, soltanto il sorteggio può rompere la politicizzazione endogena di pubblici ministeri e giudici e la lottizzazione degli incarichi. Un problema, questo, con cui si stanno misurando anche altri ordinamenti, come evidenzia il parere della Commissione di Venezia sulla proposta di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura spagnolo. La terza domanda: è legittimo e opportuno creare una Corte disciplinare con una composizione simile a quella del Corte costituzionale, con tre membri nominati dal presidente della Repubblica, tre dal Parlamento e nove dai magistrati, quindi con una larga prevalenza dei magistrati? I critici sostengono che non c’è bisogno di costituire una Corte e la materia della disciplina può essere trattata e decisa dallo stesso organo che provvede alle assunzioni, alle assegnazioni, ai trasferimenti, alle valutazioni, ai conferimenti di funzioni, come è stato finora. I sostenitori del sì ritengono che le giurisdizioni domestiche non presentano caratteristiche di terzietà e che un organo amministrativo non può avere anche compiti giurisdizionali e garantire un imparziale controllo della disciplina. Ci avviamo al quinto referendum costituzionale della storia repubblicana (gli altri sono stati nel 2001, nel 2006, nel 2016 e nel 2020 e si sono conclusi con due no e due sì) nella più grande confusione. Tradisce la Costituzione chi ritiene che con un sì o un no a questo referendum siamo chiamati a dare un voto di fiducia alla maggioranza o all’opposizione attuali. La Costituzione ha separato la democrazia rappresentativa, quella che si svolge mediante l’elezione, dalla democrazia diretta o deliberativa, quella che si svolge lasciando la parola direttamente al popolo, mediante i referendum sulle leggi. Utilizzare il referendum per dare o togliere una legittimazione a chi sta all’opposizione o a chi sta al governo priva i cittadini della possibilità di esprimersi su un singolo atto legislativo. Finisce, quindi, per depauperare la democrazia italiana. Infine, questo referendum non deve stabilire la linea di demarcazione tra politica e giustizia, deve solo assicurare agli italiani una giustizia più giusta, perché terza e imparziale. Ed è quindi consigliabile che le fazioni che si stanno organizzando, a cominciare da quella dei magistrati militanti, si guardino, proprio per rispetto dei loro colleghi e dell’intero ordine giudiziario, dal farlo percepire come un appello al popolo a difesa della giustizia. Pensino a quale sarebbero le conseguenze di una interpretazione di questo tipo, in caso di una prevalenza del sì. Al via la sfida dei comitati sul referendum, FdI frena di Giampaolo Grassi ansa.it, 6 novembre 2025 Nuove firme in Cassazione. Penalisti, pronti al confronto con l’Anm. Alla spicciolata, prima deputati e senatori di centrodestra e poi i colleghi di centrosinistra si presentano alla Corte di Cassazione a depositare le firme per chiedere il referendum sulla riforma della giustizia, che prevede la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Le delegazioni dei parlamentari di maggioranza hanno già portato a termine il compito. Fra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima lo faranno quelle del campo largo. E’ l’avvio della campagna elettorale. Sarà lunga. “Penso che per la consultazione si arriverà a marzo, in primavera”, ha spiegato il senatore di Fratelli d’Italia Marcello Pera, uscendo dalla Cassazione. Preparano il terreno i comitati. Non ancora quelli di partito. Il centrosinistra ci sta lavorando, nel centrodestra Fdi frena. Ne nascono comunque ogni giorno. Uno dei primi, per sostenere la bocciatura della riforma, è stato battezzato la scorsa settimana nella sede dell’Associazione nazionale magistrati. L’ultimo in ordine di tempo, che sosterrà invece il “Sì”, è promosso dagli avocati dell’Unione delle camere penali, con l’adesione anche della Fondazione Enzo Tortora. A livello di partiti, nel centrosinistra Pd, M5s e Avs stanno studiando per farne uno solo, ovviamente per spingere il “No”. Per il momento, Iv resta defilata. Matteo Renzi è favorevole alla separazione delle carriere ma non condivide questa riforma. Mentre Azione l’ha votata. Il centrodestra procede coi piedi di piombo. L’obiettivo è quello di tenere l’esito del referendum distinto dalle sorti del governo. “Non mi appassiona il tema dei comitati di partito - ha detto il deputato di Fdi Giovanni Donzelli - Non vedo la necessità di schierare in prima fila i partiti. Noi abbiamo votato in Parlamento, abbiamo raccolto le firme per fare il referendum. C’è così tanta società civile pronta a sostenere le nostre stesse ragioni che non vedo perché correre a mettere le bandiere di partito su una battaglia molto più ampia del consenso stesso del centrodestra”. I motori intanto si stanno scaldando fra gli addetti ai lavori. “Siamo pronti al confronto con l’Anm e con chiunque sostenga le ragioni del No - ha detto il presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Francesco Petrelli, presentando a Roma il Comitato per il Sì - Questa riforma è l’unica condizione per il funzionamento del nostro sistema”. Le opposizioni auspicano una bocciatura del referendum: sarebbe un duro colpo al governo. Le elezioni politiche ci saranno un anno dopo la consultazione. “La verità - ha detto il presidente del M5s, Giuseppe Conte - è che vogliono i politici intoccabili. Si ritorna alla casta per mettere il controllo dei pubblici ministeri sotto il governo di turno. L’ha detto Nordio: non vi preoccupate, voi dell’opposizione potreste andare al governo e beneficiare voi di questa riforma. Bisogna fargli un applauso almeno per l’autenticità”. A sostegno del “Sì” ha parlato Pera: “Si crea un triangolo isoscele con due lati uguali equidistanti e il giudice in alto. Così chiunque vada in tribunale si può sentire più garantito da un giudice”. FdI torna alla carica con lo scudo penale per le forze dell’ordine (ma in versione soft) di Paolo Delgado Il Dubbio, 6 novembre 2025 Ci sono leggi che vengono fatte molto più nella speranza di un ritorno d’immagine mediatico che non in quella di reale efficacia. Nella tradizione politica italiana non sono poche e in nessun campo abbondano come in quello che va sotto il nome ‘ sicurezza’. Difficile spiegarsi altrimenti la proposta di legge presentata dal capogruppo alla Camera di FdI Bignami, con in calce firme pesanti come quella di Fabio Rampelli e del sottosegretario alla Giustizia Delmastro. È appena il caso di segnalare che il primo firmatario e il potente sottosegretario sono ragazzi di fiducia della premier: nemmeno immaginabile che abbiano deciso senza consultarsi prima con la leader assoluta. La proposta si compone di un solo articolo che andrebbe a modificare l’art. 335 del Codice Penale. Delega al pm, in caso di notitia criminis nella quale si possano ravvisare gli estremi della giustificazione legale come ad esempio la legittima difesa, il compito di accertare l’esistenza di quella giustificazione e nel caso evitare l’iscrizione nel registro degli indagati. È vero infatti che l’iscrizione non implica affatto che poi si proceda con rinvio a giudizio ma l’indagato, argomenta Bignami nel testo, viene comunque esposto “a una vera e propria gogna mediatica” e a “un ingiustificato calvario giudiziario”. Ciò è tanto più vero, ci tiene a specificare la proposta di legge, quando l’indagato appartiene alle forze dell’ordine, dal momento che in questo caso l’iscrizione è “un atto dovuto anche in relazione a fatti commessi nell’esercizio delle funzioni”. La specifica chiarisce la ratio del ddl, che ha valore generale ma mira in realtà a offrire uno scudo agli agenti che finiscono sotto indagine per possibili crimini commessi in servizio ma giustificati in termini di legge dalle circostanze. Era un passaggio che il governo aveva pensato di inserire nel decreto Sicurezza nello scorso aprile, salvo poi desistere di fronte ai dubbi del capo dello Stato. Ora la destra torna alla carica, sperando di aver depotenziato gli appunti del Colle assegnando alla legge valore generale, anche se in concreto finirà per riguardare solo gli agenti di polizia. In tutti gli altri casi, infatti, il pm preferirà comunque accertare le circostanze dell’eventuale crimine. In realtà, però, nella stragrande maggioranza dei casi l’indagine andrà avanti anche se sarà coinvolto il personale delle forze dell’ordine. È’ infatti molto raro che un caso sia tanto lampante da non richiedere approfondimenti più corposi di quelli possibili in una settimana, il termine entro il quale secondo la proposta il pm deve decidere se procedere o meno all’iscrizione nel registro degli indagati. Se ci si limita all’impatto concreto della legge, di conseguenza, diventa difficile spiegarsi perché FdI voglia andare avanti nonostante il parere di Mattarella per un provvedimento che riguarderà nella migliore delle ipotesi pochissimi casi. “L’agente sparò per difendersi”. La procura di Verona chiude il caso Moussa di Beatrice Branca Corriere del Veneto, 6 novembre 2025 Chiesta l’archiviazione: “Azione proporzionata”. I sindacati di polizia: non andava indagato. È passato più di un anno da quando il cuore del 26enne maliano Moussa Diarra ha smesso di battere. A fermarlo è stato un colpo di pistola, sparato dall’assistente capo della polizia di Stato A.F. fuori dalla stazione di Verona Porta Nuova il 20 ottobre 2024. Prima l’agente era stato aggredito dal giovane con un coltello da cucina con lama seghettata lunga 11 centimetri. Ieri la Procura ha annunciato la chiusura delle indagini preliminari e chiesto l’archiviazione del procedimento per omicidio colposo dell’agente della Polfer. “Si ritiene che l’indagato non sia punibile - spiega il procuratore capo Raffaele Tito in un comunicato stampa - ponendo in essere una difesa senza alcun dubbio proporzionata all’offesa. Resta inalterato per noi il senso del dolore per la morte così drammatica di un giovane di 26 anni”. Quella mattina Moussa si era avvicinato al poliziotto e al suo collega impugnando l’arma con la mano destra con “un’aggressività ingiustificata”, riferisce il pm Tito, aggiungendo che il giovane maliano “andava incontro ad A.F., tenendosi sempre a una distanza molto ravvicinata e non ponendosi alla fuga”. La procura ha sottolineato come il coltello non sia “meno letale della pistola perché un’arma da fuoco richiede tempo di estrazione e mira” e come l’agente non si sia “volontariamente posto in una situazione di pericolo”. “Siamo soddisfatti della decisione della procura e sollevati, ma rimane il dispiacere per quanto è accaduto, che è stato inevitabile - dice Matteo Fiorio, difensore del poliziotto. Fin dall’inizio il mio assistito aveva spiegato che non aveva avuto scelta per difendere se stesso e chi lo circondava. Moussa aveva più volte cercato di colpire i due agenti col coltello prima dentro la stazione e poi fuori. All’inizio gli era stato detto numerose volte di fermarsi e di buttare giù l’arma, ma il giovane non ha desistito”. A quel punto il poliziotto ha tirato fuori la pistola e ha sparato tre colpi. “Uno in aria, uno ha sfiorato Moussa ed è andato a finire contro il vetro dell’ascensore del parcheggio, il terzo al petto - aggiunge l’avvocato -. Nella perizia balistica viene poi spiegato come per l’agente non fosse tecnicamente possibile colpire una gamba come è stato ipotizzato all’inizio. La distanza era troppo ravvicinata, parliamo di due-tre metri ed è successo tutto nel giro di pochi istanti”. È amareggiato invece il pool di avvocati della famiglia di Moussa Diarra - Fabio Anselmo, Paola Malavolta, Silvia Galeone e Francesca Campostrini - per le modalità con cui è stata comunicata la chiusura delle indagini. “Siamo sinceramente sconcertati dall’atteggiamento della procura che, mentre richiede alla famiglia del povero Moussa, ferito a morte da un agente di polizia, 8 euro per poterli mettere a conoscenza delle motivazioni che hanno fondato la richiesta di archiviazione, ritiene di poterle compendiare in un comunicato stampa da fornire ai giornalisti - dicono i legali -. Ancora una volta la famiglia e gli affetti della vittima, la dignità degli stessi e il necessario rispetto verso il loro bisogno di conoscere le cause e le condizioni della tragica morte di Moussa, oltreché i loro diritti di difesa, passano in secondo piano”. La morte del 26enne aveva convinto alcune associazioni locali e la comunità maliana a stringersi al dolore della famiglia. Pochi giorni dopo è nato il “Comitato Verità e Giustizia per Moussa Diarra” ed è stato allestito un altarino in stazione per ricordarlo con foto, fiori e messaggi. Il comitato ha definito la richiesta di archiviazione “un quarto colpo”, sottolineando come “i legali della famiglia non hanno ancora potuto vedere la perizia balistica” e altri atti, tornando a parlare del primo comunicato stampa della Procura, che “si affrettava ad assolvere l’assistente capo” già il 20 ottobre 2024, e la poca chiarezza sulle “telecamere accese o spente”. Oltre a criticare un mancato “intervento nelle due ore precedenti all’uccisione”. Nella notte tra il 19 e il 20 ottobre Moussa aveva vagato per la città in stato di agitazione. Prima di arrivare in piazzale XXV Aprile aveva incrociato in via Pallone una pattuglia della polizia locale. Le telecamere lo avevano ripreso mentre si avvicinava con un coltello a due agenti che, spaventati, sono scappati allertando le forze dell’ordine. Moussa ha poi raggiunto la stazione dove ha sfondato la vetrata della biglietteria. È poi tornato due ore dopo aggredendo l’agente della Polfer, che gli ha sparato. Appoggiano invece la decisione della procura i sindacati di polizia. “Il comunicato diffuso dagli organi inquirenti offre un’oggettiva rappresentazione della realtà come fedelmente ricostruita attraverso certosine attività di indagine che sembrano non consentire margini ad ulteriori strumentali prese di posizione”, commenta il Siulp. “Quando ci sono cause di giustificazione come la legittima difesa, l’uso legittimo delle armi o l’adempimento del dovere non si dovrebbe procedere automaticamente con l’avviso di garanzia”, dice Stefano Paoloni del Sap. Trieste. L’iter per le autorizzazioni si complica, detenuti al Coroneo sempre più isolati di Nicolò Girardi triesteprima.it, 6 novembre 2025 La denuncia arriva dal garante dei detenuti, l’avvocato Elisabetta Burla. Gli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo saranno al vaglio, oltre che del direttore dell’istituto e del magistrato di sorveglianza, anche del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Con tempi aleatori e indeterminati”. Alle ormai croniche criticità che attanagliano la vita all’interno del Coroneo si aggiunge l’ennesima denuncia da parte del garante dei detenuti, l’avvocato Elisabetta Burla. La notizia della riduzione degli spazi dedicati alla rieducazione, con la conseguenza di un iter sempre più “farraginoso” rispetto alle autorizzazioni per lavorare assieme ai detenuti, sta complicando “l’opera di risocializzazione”, oltre allo “sviluppo dei contatti con la comunità carceraria e la società libera”. La questione - Il punto in questione è la scelta, da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di avocare a sé, dopo i pareri del direttore dell’istituto carcerario e del magistrato di sorveglianza del tribunale, la decisione rispetto alle sopra menzionate autorizzazioni “per poter svolgere eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo”. Insomma, altro che garantismo e rieducazione, bensì un’altra “mazzata” per i diritti delle persone detenute. Tra i dettagli denunciati dalla Burla c’è anche la questione dei tempi: l’autorizzazione, dopo i diversi passaggi, andrebbe incontro a tempistiche “assolutamente aleatorie” e “indeterminate”. Un dato, quest’ultimo, che contrasta con quanto sancito dall’articolo 17 della legge 354 del 1975, sottolinea la garante dei detenuti. La legge, infatti, afferma che “sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti con la comunità carceraria e la società libera. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore”. La possibile regressione - La modifica rispetto alle autorizzazioni non rappresenta, secondo la Burla, “solo una regressione” in merito al percorso di rieducazione, ma nasconde “una serie di ostacoli volti a rendere sempre più complesso quel percorso, dimostrando - ad alti livelli - una sfiducia, neppure mal celata, verso i direttori degli istituti, e in generale degli operatori penitenziari che, con estrema difficoltà, si trovano a lavorare in luoghi sempre più sovraffollati”. In luoghi dove fragilità e marginalità sono ormai regola, e dove c’è enorme bisogno di “interpreti e mediatori culturali” (questo a causa delle barriere linguistiche che ogni giorno emergono) si manifestano “sfiducia e delegittimazione anche nei confronti della magistratura di sorveglianza, anch’essa lasciata a operare “in trincea” a causa dell’assenza importante di personale, anche amministrativo”. Il tutto striderebbe se confrontato con le dichiarazioni del governo “a favore di telecamera” in relazione alla situazione delle carceri. Di recente il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ha visitato la casa circondariale triestina. “Pur apprezzando lo sforzo titanico degli operatori” conclude la Burla, Sisto ha affermato come il vero problema stia nel sovraffollamento. A tutto ciò si era aggiunto il commento sui due fenomeni da evitare. “Lo sdegno e la depressione”. I detenuti che vivono male, in assenza di condizioni igieniche “soddisfacenti” e alle prese con una “brutta sanità” rischiano di venire travolti dallo sdegno. “Le rivolte diventano una sorta di protesta contro il luogo in cui vivi”. Per il garante dei detenuti, la depressione “ti prende quando non hai prospettive, se non c’è un percorso trattamentale che ti dà l’idea che al di fuori c’è qualcosa da fare, che puoi fare; la depressione può comportare anche gesti di autolesionismo”. L’aumento dei suicidi nelle carceri, ormai, “non fa neanche più notizia”. Genova. Nasce la Consulta Carcere-Città: “Portare i diritti dentro il carcere e il carcere dentro la città” agi.it, 6 novembre 2025 L’organismo multidisciplinare mette al centro la realtà carceraria “come parte integrante della città”. L’istituto penitenziario di Marassi - uno dei due grandi carceri di Genova, insieme a Pontedecimo - si trova nel cuore della città, in uno dei suoi quartieri più popolosi, la Valbisagno, a due passi dallo stadio Luigi Ferraris. Eppure il carcere è una città dentro la città, separata da un muro spesso di indifferenza che ne acuisce le problematiche. Ecco perché il Comune, primo in Italia, ha deciso di istituzionalizzare una Consulta carcere-città. “Si tratta di un lavoro di squadra che coinvolge gli assessorati a Welfare, Sicurezza urbana, Partecipazione dei cittadini alle scelte dell’Amministrazione, Pari opportunità e Diritto alla cittadinanza, proprio perché la realtà detentiva e tutto quello che gli ruota attorno coinvolge diversi ambiti di intervento”, spiega l’assessora al Welfare, Cristina Lodi, presentando l’iniziativa stamane a Palazzo Tursi con i colleghi Emilio Robotti, Rita Bruzzone, Davide Patrone e Arianna Viscogliosi. Si tratta dell’attuazione di uno dei punti del programma indicati dalla sindaca Silvia Salis sin dal suo insediamento. La Consulta mette al centro la realtà carceraria “come parte integrante della città”, sottolinea Lodi. Tra i temi che si tratteranno la promozione della giustizia riparativa, della responsabilità collettiva sul tema dell’accoglienza e dell’inclusione come risorsa per il funzionamento dei percorsi di reinserimento, con agevolazione della fruizione di misure alternative alla detenzione. “Garantire i diritti dei detenuti - dice Robotti - è garantire i diritti di tutti. Con questo strumento non facciamo altro che garantire il rispetto dei principi costituzionali”. La Consulta è uno strumento attraverso il quale il Comune e tutte le realtà che aderiranno puntano ad accendere i riflettori sulla realtà carceraria, le sue criticità e le opportunità. La prima riunione è attesa tra fine mese e i primi di dicembre: l’obiettivo è organizzare incontri mensili e tematici. “Noi ci siamo sempre sentiti parte della città - dice la direttrice di Marassi, Tullia Ardito - Abbiamo tantissime attività nella casa circondariale, a partire dal teatro. Un tavolo con una regia, in cui tutte le istituzioni pubbliche e le realtà del terzo settore parlano di progetti e delle cose che servono all’istituto è fondamentale”. Brescia. Lavoro e inclusione: l’alternativa al carcere di Monica Rossi Il Giorno, 6 novembre 2025 Può esistere un’alternativa valida alla detenzione in carcere per mezzo dell’accoglienza abitativa temporanea o housing sociale in modo tale da garantire ai detenuti una vera inclusione sociale? Il progetto “Vale la pena - dalla reclusione all’inclusione”, realizzato in Lombardia e precisamente nel Comune di Brescia, utilizzando il Fondo Sociale Europeo (Fse) e il Programma Operativo Regionale (Por Fse Lombardia), si pone come primo obiettivo l’incremento dell’occupabilità e della partecipazione al mercato del lavoro delle persone maggiormente vulnerabili favorendo l’inclusione socio-lavorativa delle persone sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria. In un contesto nel quale le carceri sono in stato di sovraffollamento e il tasso di recidiva in regime ordinario è elevato, i detenuti (esclusi dal 41 bis e 4 bis) nei due istituti penitenziari di Brescia, Nerio Fischione e Verziano, sia nell’Ufficio di Esecuzione Penale esterna possono usufruire di una detenzione alternativa e di un orientamento al lavoro. Il coordinamento dell’azione Housing è stato affidato a un Agente di Rete e ogni persona accolta ha usufruito, oltre dell’ospitalità (posto letto in appartamento condiviso), anche di un supporto educativo sulla base delle necessità individuali e degli obiettivi specificati nel progetto. Il progetto ha concluso la sua terza edizione ed è in procinto di iniziare la quarta e i risultati sembrano confermare le attese, permettendo il reinserimento nella società attraverso il progetto di Housing Sociale e l’inserimento lavorativo che permettono loro nel corso del tempo di sviluppare una vera e propria autonomia e indipendenza economica. Un altro risultato dell’iniziativa è l’abbattimento del tasso di recidiva che crolla dal 60% al 6% poiché i detenuti coinvolti sono in grado di reinserirsi, con il sostegno del progetto, nella società e non devono ricorrere ad ulteriori reati. “Per Regione Lombardia - ha affermato l’assessora Elena Lucchini - promuovere l’inclusione sociale è una priorità di mandato, così come garantire il fine rieducativo della pena e la prevenzione della recidiva. Grazie alle risorse che metteremo a disposizione e alla consueta collaborazione del Terzo Settore possiamo superare le logiche settoriali per la definizione di processi di inclusione attiva. Lo faremo attraverso l’integrazione tra le diverse aree di intervento, ovvero l’inclusione sociale, l’istruzione, la formazione e il lavoro”. A ciò si aggiunge la ricaduta positiva per l’intera comunità e il contributo al bene comune non solo grazie alla riduzione del tasso di criminalità, ma anche e soprattutto per il contributo nel superamento dei pregiudizi che spesso etichettano le persone che si trovano in regime di detenzione. ‘Vale la pena’ è un esempio di inclusione che il terzo settore, le istituzioni e la cittadinanza rendono concreta attraverso la costruzione di una solida rete di supporto alle persone svantaggiate. Un altro importante progetto è stato portato avanti nel campo della medicina. A Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, il dispositivo Cicogna monitora a distanza le gestanti nel periodo finale della gravidanza. Basato su tecnologie indossabili e sulla trasmissione da remoto dei parametri rilevati, ha coinvolto aziende private e la Fondazione Irccs San Gerardo. Il dispositivo è costituito da una panciera molto leggera, facile da indossare, con una schiera di fonendoscopi che ascoltano l’addome della madre e che, attraverso l’analisi dei suoni, permette di identificare diversi parametri, dal battito cardiaco alle pulsazioni, fino ai movimenti del feto, come i colpetti e i pugnetti. Grosseto. Reinserimento con il lavoro. Competenze e un futuro per i detenuti di Nicola Ciuffoletti La Nazione, 6 novembre 2025 Diciotto detenuti delle case circondariali di Grosseto e Massa Marittima hanno ottenuto la certificazione di competenze professionali grazie ai corsi promossi da Cna Servizi, l’agenzia formativa dell’associazione degli artigiani, e finanziati dalla Regione Toscana. Un risultato importante, frutto di due progetti nati con l’obiettivo di favorire il reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, fornendo loro strumenti concreti e spendibili nel mondo del lavoro. I risultati sono stati presentati durante l’incontro conclusivo, che ha visto la partecipazione della Regione Toscana, dei partner di progetto e del Garante dei diritti dei detenuti, Giuseppe Fanfani. “È stata un’esperienza di grande valore - sottolinea Anna Rita Bramerini, direttrice di Cna Grosseto - perché per la prima volta la nostra agenzia formativa ha lavorato dentro le case circondariali. Questo ci ha permesso di confrontarci direttamente con le difficoltà che i detenuti incontrano una volta usciti e di riflettere su come ridurre gli ostacoli al reinserimento, promuovendo politiche di inclusione e contrastando i pregiudizi”. La formazione, spiega Elena Dolci, responsabile dell’agenzia formativa di Cna Grosseto, è stata pensata per rispondere alle esigenze reali del mercato: “Il nostro tessuto economico - dice - chiede personale con competenze certificate. Abbiamo progettato percorsi adatti anche al contesto detentivo, pur con le difficoltà legate alle attività pratiche e di laboratorio. Siamo soddisfatti del risultato: 18 persone hanno ottenuto nuove competenze, ma soprattutto si è creata una rete di collaborazione solida sul territorio”. I quattro corsi di oltre 250 ore ciascuno, articolati tra lezioni teoriche e laboratori, hanno formato figure professionali oggi richieste dal mercato. Nella casa circondariale di Grosseto sono stati qualificati sei potatori e curatori di aree verdi e tre operatori di prodotti panari, dolciari e da forno; a Massa Marittima altri sei detenuti hanno completato il corso di potatura e lavorazioni del terreno, mentre tre hanno ottenuto la certificazione per l’installazione e manutenzione di impianti termoidraulici. Il progetto ha potuto contare sul supporto delle due case circondariali e sulla collaborazione di numerosi partner: la cooperativa Il Melograno, Heimat, Comit, Termobenessere, Toscana Food, Panificio Falorni e Macii, Le Micro Atelyer, Favilli Rinaldo e l’Istituto tecnico agrario di Grosseto. Un lavoro corale che, sottolineano da Cna, rappresenta un modello di sinergia tra istituzioni, mondo del lavoro e realtà sociali. L’iniziativa ha inoltre aperto una riflessione più ampia sul valore della formazione come strumento di riscatto e inclusione. “Acquisire una competenza - conclude Bramerini - significa avere una possibilità in più per ricostruire la propria vita, ma anche per contribuire positivamente alla comunità. È questo il significato più profondo del nostro impegno”. L’esperienza dei corsi di formazione promossi da Cna Servizi nelle carceri di Grosseto e Massa Marittima offre uno spunto prezioso per riflettere su quanto il lavoro e la formazione possano incidere nel percorso di reinserimento sociale. In un momento storico in cui la mancanza di manodopera qualificata è uno dei principali freni all’economia locale, iniziative come questa rappresentano una risposta intelligente e concreta: da un lato danno una seconda possibilità a chi ha sbagliato, dall’altro forniscono nuove risorse a un territorio che ha bisogno di competenze. Arezzo. “Apriamo il carcere alla città”. Garante comunale in visita all’istituto di Gaia Papi La Nazione, 6 novembre 2025 I detenuti sono ridotti a 41, metà dei quali sono seguiti dal punto di vista sanitario 35 agenti. Rogialli: “Realtà complessa ma ricca di potenzialità”. Parla il sindaco. “Un contesto umano e operativo complesso ma ricco di potenzialità”. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune, Sandra Rogialli, ha stilato il primo bilancio annuale. Dai dati illustrati emerge un quadro complessivamente positivo sotto il profilo delle relazioni interne e della collaborazione tra istituzioni, operatori sanitari, Polizia Penitenziaria e associazioni di volontariato. Al 10 settembre, sono 41 le persone recluse, di cui 9 semiliberi, con una prevalenza di detenuti italiani e una significativa presenza di cittadini stranieri provenienti da diversi Paesi. L’età media si colloca tra i 30 e i 50 anni. Sul fronte sanitario, 10 persone sono in terapia psichiatrica e 10 seguite dal SerD, mentre si registra un uso controllato di farmaci come le benzodiazepine. La struttura, pur con un organico di 35 agenti (34 effettivi), riesce a mantenere una buona organizzazione dei turni, anche se il personale resta sotto la soglia necessaria, rileva il report del Garante. Sottolineata anche la presenza costante di personale sanitario, figure educative e religiose, nonché il contributo attivo delle associazioni di volontariato. “Ho raccolto dieci richieste da parte di persone recluse, spesso relative a questioni organizzative e di vita quotidiana, e molte proposte di formazione e lavoro. È in corso la costruzione di un progetto con la Diocesi e la Caritas diocesana per favorire misure alternative alla detenzione” ha spiegato Rogialli. “Lavorare per aprire il carcere alla città, promuovere formazione professionale e migliorare le condizioni strutturali resta la nostra priorità per il 2026. È necessario proseguire nella direzione di una maggiore integrazione tra istituzioni, volontariato e comunità locale, per rendere la Casa Circondariale un luogo sempre più orientato alla dignità, sicurezza e rieducazione delle persone detenute”. “Arezzo dimostra ancora una volta la propria capacità di fare rete anche nei contesti più complessi come quello penitenziario oltre ad essere la prima città in Italia che ha dato un ruolo diverso al Garante, attribuendo alla figura una doppia funzione. - ha dichiarato il sindaco Ghinelli. - Il lavoro del Garante e della direzione del carcere, sostenuto dalle istituzioni e dal volontariato, è un esempio di come la dignità della persona possa e debba restare centrale anche nei luoghi di restrizione”. E la vicesindaco Lucia Tanti ha aggiunto: “Questo primo anno di attività del Garante conferma la bontà della scelta di dotare la nostra città di una figura che ascolta, media e costruisce ponti. I dati ci dicono che, pur con le criticità legate al personale e alle strutture, esiste un clima relazionale positivo e collaborativo. Siamo convinti nel sostenere i percorsi che avvicinano carcere e città, valorizzando il ruolo delle associazioni e delle realtà sociali aretine per creare opportunità concrete di reinserimento. Il reinserimento è parte delle politiche della sicurezza che per noi sono e restano la priorità”. Siracusa. Carcere e lavoro, obiettivo recidiva zero. Il protocollo Ministero-Federsolidarietà siracusaoggi.it, 6 novembre 2025 Per i detenuti che lavorano con le cooperative sociali in carcere, il rischio di recidiva si abbassa dal 70-80% a meno del 10%. Il dato parla chiaro e indica che la strada intrapresa in questa direzione dal Ministero della Giustizia e da Confcooperative Federsolidarietà è quella giusta ma va percorsa molto di più. In Sicilia esistono esempi virtuosi. Non è un caso se il tema sarà affrontato a Siracusa, nel corso di un convegno organizzato da Confcooperative Federsolidarietà Sicilia - con il sostegno della sede territoriale di Confcooperative Sicilia di Siracusa - e dalla Cooperativa Sociale L’Arcolaio sul tema “Carcere e Lavoro: gli strumenti disponibili”. L’appuntamento è fissato per mercoledì 12 novembre 2025 alle ore 9:30 presso la Sala Conferenze dell’Urban Center di via Nino Bixio 1/A. Nel corso dell’incontro sarà presentato il Protocollo d’Intesa sottoscritto dal Ministero della Giustizia- Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Confcooperative- Federsolidarietà e rinnovato lo scorso novembre. Il Protocollo ha lo scopo di promuovere lo sviluppo di opportunità lavorative, di formazione e di inclusione sociale a favore della popolazione detenuta negli istituti penitenziari e di valorizzare le misure alternative. Prevede l’istituzione di un tavolo tecnico nazionale che, tra le attività condotte, elabora modelli di convenzioni da mettere a disposizione dei territori, per l’avvio di attività di recupero sociale e inserimento lavorativo. Con altri soggetti, pubblici e privati, si promuovono iniziative, nelle carceri, per favorire l’acquisizione di esperienze e competenze da parte dell’utenza penitenziaria e agevolare il concreto inserimento in contesti lavorativi rispondenti ai criteri d’impresa, con l’obiettivo di potersi muovere, dunque, al di fuori di forme assistenziali. L’appuntamento di Siracusa consentirà di approfondire una serie di tematiche legate proprio alla possibilità, attraverso il lavoro, di riabilitare i detenuti e allontanarli definitivamente dal reato. Emblematica l’esperienza della cooperativa L’Arcolaio, che sarà illustrata dalla responsabile dell’Area Sociale, Giovanna Di Girolamo Dopo i saluti istituzionali del presidente di Confcooperative Sicilia, Gaetano Mancini, del sindaco di Siracusa, Francesco Italia, del presidente del Libero Consorzio Comunale, Michelangelo Giansiracusa e dell’Arcivescovo di Siracusa. Mons. Francesco Lomanto, introdurrà i lavori il presidente di Confcooperative Federsolidarietà Sicilia, Salvo Litrico, a cui è stata affidata la presentazione del protocollo tra il Dap e Confcooperative Federsolidarietà. Interverranno, subito dopo: Filippo Giordano, componente del Segretariato CNEL Lavoro In Carcere e Docente dell’Università LUMSA, che affronterà il tema “Recidiva Zero: la sostenibilità delle imprese sociali dentro il carcere per abbattere la recidiva”, Elisabetta Zito, Dirigente del Penitenziario e Vicario del Provveditore (PRAP Palermo). Parlerà di Lavoro intra moenia: prospettive di sviluppo per le carceri siciliane. Seguirà un talk sul lavoro come possibilità per ripartire con Gabriella Picco, Direttrice ULEPE Siracusa, Giovanni Villari, Garante dei Diritti dei Detenuti del Comune di Siracusa, Giuseppe Pisano, Presidente della Cooperativa Sociale L’Arcolaio. Il convegno sarà anche un momento di approfondimento sulle buone pratiche in Sicilia, segnatamente quelle delle cooperative “L’Arcolaio” a Siracusa e “Sprigioniamo Sapori” a Ragusa. Le conclusioni saranno affidate al Presidente Nazionale di Confcooperative Federsolidarietà, Stefano Granata. “Confcooperative Federsolidarietà Sicilia - spiega il presidente Salvo Litrico- rilancia attraverso il convegno di Siracusa le attività legate al reinserimento lavorativo, grazie alle cooperative di tipo b, di persone svantaggiate. Un ambito che in Sicilia non si è mai sviluppato realmente. Ci sono, però, delle realtà consolidate, come quelle che esporranno le proprie esperienze. Sarà, dunque, l’occasione per fare cultura, per impiantare in Sicilia l’attività nazionale che attraverso il protocollo sottoscritto da Federsolidarietà e dal Ministero della Giustizia può essere proficuamente condotta. Partiamo dal focus sul tema dell’inserimento lavorativo e del lavoro nelle carceri ma estendiamo anche l’attenzione sull’economia civile più in generale, guardando alle cooperative sociali come strumento in grado anche di generare valore nel mercato, a partire dalle persone svantaggiate”. “Il lavoro durante la detenzione -ribadisce il presidente della Cooperativa L’Arcolaio, Giuseppe Pisano - è uno strumento formidabile per rafforzare il percorso di recupero del detenuto. Abbassare, attraverso il lavoro con le cooperative sociali in carcere il rischio di recidiva rappresenta un grande beneficio per la singola persona, per le istituzioni e per la comunità tutta. Purtroppo oggi i detenuti che lavorano sono ancora molto pochi e c’è molto da fare per moltiplicare le opportunità di inserimento al lavoro dentro le carceri italiane”. Civitavecchia (Rm). “Carcere, conoscere per cambiare”, convegno con Gherardo Colombo trcgiornale.it, 6 novembre 2025 Un momento di confronto e riflessione pubblica sul tema del sistema penitenziario e della sua funzione rieducativa. Questo l’obiettivo dell’incontro “Carcere: conoscere per cambiare”, che si terrà mercoledì 12 novembre alle ore 16:30 presso l’Aula Pucci. All’incontro interverranno il sindaco Marco Piendibene, Pietro Messina, Responsabile Osservatorio Carcere della Camera Penale di Civitavecchia, Leonardo Montini Paciotta, Direttore della Camera Penale di Civitavecchia, e Gherardo Colombo, già magistrato, giurista e scrittore. Introduce e modera Corrado Lancia, Delegato alle carceri di Civitavecchia. Durante l’incontro verranno affrontati temi centrali e di grande attualità: la crisi del sistema carcerario italiano e le ricadute sul Polo Penitenziario di Civitavecchia, la funzione rieducativa della pena tra principi costituzionali e profili operativi, e la giustizia riparativa come modello di riconoscimento della vittima e di ricostruzione del legame sociale. “La conoscenza è il primo passo verso il cambiamento”, dichiara l’Assessore ai Servizi Sociali Antonella Maucioni, “solo comprendendo la realtà del carcere, le difficoltà quotidiane di chi vi lavora e di chi vi vive, possiamo promuovere una comunità più consapevole e attenta. Il reinserimento sociale dei detenuti non è un tema distante, ma una responsabilità collettiva che riguarda ciascuno di noi”. Sulla stessa linea, Corrado Lancia, Delegato alle Carceri del Comune di Civitavecchia e moderatore dell’incontro, sottolinea: “Il nostro Polo Penitenziario rappresenta una realtà complessa e importante per il territorio. Con questo evento vogliamo creare uno spazio di dialogo tra istituzioni, operatori, cittadini e mondo della giustizia, per riflettere su come rendere il sistema penitenziario più umano, efficace e realmente orientato al recupero della persona”. L’iniziativa è aperta alla cittadinanza e intende promuovere una riflessione condivisa su un tema che tocca i valori fondamentali della società civile e della convivenza democratica. Parma. Il Belcanto rende “liberi”, Verdi e Rossini in carcere con il coro di detenuti di Tiziana Pisati Corriere della Sera, 6 novembre 2025 Gabriella Corsaro dirige il progetto avviato dal Teatro Regio nel penitenziario di Parma. Tecnica vocale e solfeggio, disciplina e rispetto delle regole: e anche una esibizione sul prestigioso palco. “Gabbaaaati...tutti gab-baaa-tiiii”. Arie del Falstaff riecheggiano nel carcere di via Burla a Parma. Canticchia pure un agente di custodia. È un giorno come tanti qui dove tutto è cominciato sei anni fa quando da un laboratorio dedicato al repertorio lirico è nato un coro di detenuti, una trentina di elementi, tutti uomini, la maggior parte dai 18 ai 50 anni, qualcuno anche oltre. Chi ama la musica etnica, chi neomelodica, i Pooh e i Ricchi e Poveri, ma anche Ultimo e i cantautori trappers. Volontarietà e condotta rispettosa delle regole i requisiti richiesti per essere ammessi. Pioggia di applausi dopo ogni esibizione e attestati “per aver salvato se stessi con la musica - dice Gabriella Corsaro che li dirige -, in carcere sei privato della libertà non della dignità. Sono fieri di mostrarsi capaci di creare bellezza, con ricadute positive una volta fuori, come riferiscono nelle aziende dove trovano lavoro”. Le sinergie - Il coro è frutto di un progetto - “Opera in carcere” - voluto dal Teatro Regio di Parma, diretto dal sovrintendente Luciano Messi, nell’ambito del Verdi Off in sinergia con Istituti Penitenziari, Polizia Penitenziaria, Magistratura e Comune di Parma. A dargli vita il soprano calabrese Gabriella Corsaro, che ha calcato scene prestigiose e che, quando si è esibita su quella parmigiana, ha scelto di restare a vivere nella città della Pilotta. Attiva nei progetti corali inclusivi di “Musica nello zaino” della Fondazione Toscanini, dirige oltre all’ensemble dei detenuti (ne ha formati una settantina), le Voci Bianche Chorus Cordis, i cori femminili “Renzo Pezzani” e “Dolci Armonie”. Nella sua giornata tipo: cinque ore al liceo - dove come docente di sostegno ha modo di tradurre in pratica la sua predisposizione a fare della musica strumento inclusivo - due ore di prove in carcere, poi call con la commissione bilancio (è consigliera comunale) e di corsa alle prove del “Pezzani”. “La coralità è una scelta di vita, c’è tutta la forza e la bellezza di un gruppo che coopera. È una vera alleanza dove ognuno è pronto ad aiutare l’altro perché nessuno rimanga indietro”. Liberare il cuore - Tecnica vocale e di respirazione, solfeggio, trama, stile, apprendimento imitativo, semplificazione dei linguaggi e strategie per consentire a tutti di superare le difficoltà musicali, vocali ed emotive (lo spartito ha parti colorate per facilitarne la lettura). E un ingrediente fondamentale: pazienza e flessibilità: “Racconto l’Opera, provo le voci per individuare i registri. È un fare insieme a loro”. Due ore a settimana. “Facciamo anche esercizi buffi, versi e linguacce: serve alla muscolatura del canto, aiuta a superare l’imbarazzo, scioglie la tensione. Seguendo la disciplina della musica liberi il cuore e la mente, nel rispetto delle regole ti armonizzi con gli altri”. Gabriella è parte di una squadra con Barbara Minghetti, curatrice del VerdiOff, e Lisabetta Bartella, “Crediamo nel progetto per cui ci spendiamo fino in fondo”. Ogni anno la Stagione Lirica e un titolo del Festival Verdi sono studiate e messe in scena nel teatro del carcere, con le quinte realizzate dai detenuti con le maestranze del Regio. In via Burla, grazie al Manifesto Etico del Regio, col coro si esibiscono artisti internazionali davanti ad un pubblico contingentato di 80 persone. Nel maggio scorso hanno potuto esibirsi, tra i primi al mondo, sul palco del Regio interpretando pagine di Verdi, Rossini, Donizetti, Puccini. Tra i riconoscimenti il Premio Abbiati della critica musicale “per aver fatto dell’Opera un veicolo di coinvolgimento civico ed emotivo, di incontro, riscatto, riscoperta di sé e del prossimo”. Accade a Parma, eletta città pilota del welfare culturale: cultura, salute, istruzione e coesione sociale si integrano. “Si trattava di costruire un ponte tra la città e il carcere, e Parma questo ponte lo percorre”. Torino. Dal Gruppo Editoriale San Paolo un progetto per i detenuti e famiglie Corriere Torino, 6 novembre 2025 Si potranno donare alle carceri libri e abbonamenti a riviste. Invitare i lettori e le lettrici a riflettere sulle condizioni di vita di chi vive la realtà del carcere. È obiettivo del Gruppo Editoriale San Paolo in preparazione al Giubileo dei detenuti del 14 dicembre. Il punto di partenza di questo percorso è la pubblicazione del volume “La rivoluzione normale” per le Edizioni San Paolo di Luigi Pagano, già direttore del carcere San Vittore, fondatore del carcere di Bollate e ora Garante dei detenuti di Milano. Nel libro Pagano racconta con passione quanto sarebbe necessaria una “rivoluzione” che, in realtà, non chiede nulla di straordinario: solo di applicare, fino in fondo, le leggi che già esistono e che regolano il sistema penitenziario. Quelle leggi che danno voce all’articolo 27 della Costituzione, dove si afferma che la pena deve tendere al recupero e al reinserimento della persona nella società. Un principio che troppo spesso resta lettera morta. Le presentazioni del libro di Luigi Pagano nelle Librerie San Paolo di venerdì 7 novembre a Torino, 18 novembre a Genova e 21 novembre a Milano (tutte alle 17.30) saranno occasioni per riflettere su tematiche urgenti della situazione carceraria insieme a garanti, cappellani, docenti ed educatori. Oltre alla riflessione, lettori e lettrici saranno invitati a compiere un gesto di solidarietà: acquistare un libro nelle Librerie San Paolo da donare ai detenuti. A Natale quei libri saranno distribuiti negli istituti penitenziari delle città dove sono presenti le quattordici Librerie San Paolo. Il progetto prevede anche la possibilità di sostenere un abbonamento solidale della durata di un anno a Famiglia Cristiana e al Giornalino, per le persone in detenzione e per le loro famiglie. Le riviste saranno successivamente donate dal Gruppo Editoriale San Paolo agli istituti penitenziari con la collaborazione di Bambini Senza Sbarre, associazione che da oltre vent’anni difende i diritti dei figli di persone detenute in nove regioni italiane. Da un libro a un progetto per i detenuti. L’idea è del Gruppo Editoriale San Paolo in preparazione al Giubileo dei detenuti, atteso il 14 dicembre, e tutto parte dalla pubblicazione del volume La rivoluzione normale di Luigi Pagano, già direttore del carcere di San Vittore, fondatore del carcere “aperto” di Bollate, ora Garante dei detenuti di Milano. L’opera sarà presentata domani alle 17.30 alla Libreria San Paolo di via della Consolata 1 bis, per poi andare a Genova (18 novembre) e a Milano (21 novembre). Le presentazioni saranno occasioni per riflettere su tematiche urgenti della situazione carceraria, ma lettrici e lettori saranno invitati anche ad acquistare un libro, nelle Librerie San Paolo, da donare ai detenuti. I volumi raccolti, a Natale saranno distribuiti nei penitenziari delle 14 città in cui sono presenti punti vendita del gruppo editoriale. C’è anche la possibilità di sostenere un abbonamento solidale (della durata di un anno) alla rivista Famiglia Cristiana. Le riviste saranno poi donate agli istituti in collaborazione con l’associazione Bambini Senza Sbarre. Milano. Parte dal carcere di Opera la Colletta Alimentare 2025 di Antonietta Nembri vita.it, 6 novembre 2025 È stata lanciata dalla Casa di reclusione milanese l’edizione numero 29 di questo gesto di solidarietà che il 15 novembre coinvolgerà oltre 12mila supermercati e che lo scorso anno ha visto indossare la pettorina arancione oltre 550mila volontari. Il presidente della Fondazione Banco Alimentare, Marco Piuri ha ricordato come “presentarla dentro queste mura rende evidente il senso di quello che facciamo e soprattutto che è possibile per tutti”. Da sempre, fin dalla sua primissima edizione è stato un gesto semplicissimo: invitare le persone a fare la spesa acquistando alcuni prodotti base da donare chi fa fatica a comprare per sé e la propria famiglia anche alimenti semplici come pasta, riso o gli alimenti per l’infanzia. Da 29 anni capace di coinvolgere - Sono 29 anni che la Giornata nazionale della Colletta Alimentare, promossa da Fondazione Banco Alimentare, è capace di coinvolgere milioni di persone in tutta Italia. Quest’anno per lanciare la Colletta in programma sabato 15 novembre, vigilia della IX GIornata mondiale dei Poveri, è stato scelto un luogo particolare: la Casa di Reclusione di Milano Opera. Un luogo scelto non a caso, come hanno ricordato sia il neo presidente della Fondazione Banco Alimentare, Marco Piuri “dimostra che non c’è condizione umana in cui non sia possibile la carità e il dono”, sia il presidente dell’associazione Incontro e Presenza Fabio Romani che ha ricordato come la giornata della Colletta Alimentare sia arrivata quindici anni fa dietro le mura del carcere. La Colletta alimentare in carcere - “Un giorno un detenuto ha chiesto a noi volontari “cosa è la carità?”. E così, facendo degli esempi concreti abbiamo raccontato la Colletta Alimentare, i volontari erano così gasati mentre raccontavano che è nato il desiderio di portare il gesto anche in carcere… i detenuti che partecipano donano quello che comprano con il sopravvitto… Il loro non è il dono del superfluo è un gesto davvero educativo”, ha raccontato Romani. Volontari della Colletta Alimentare nei corridoi durante il 2024 - Un gesto che, partito 15 anni fa è divenuto contagioso e, nel 2024, ha visto l’adesione di circa 40 carceri in tutta Italia, dove le persone detenute hanno potuto contribuire acquistando e donando alimenti, diventando parte attiva di una catena di bene che unisce chi dona e chi riceve. Perché questa iniziativa possa svolgersi anche all’interno del carcere è necessaria anche la collaborazione delle istituzioni penitenziarie, come ricordato da Incoronata Corfiati, Primo dirigente di polizia penitenziaria Provveditorato Regionale Lombardia. La dirigente ha voluto sottolineare come la Colletta Alimentare sia un’occasione preziosa per far conoscere la realtà penitenziaria al mondo esterno e offrire un esempio positivo di vicinanza verso chi vive situazioni di fragilità. Una possibilità di rinascita per tutti - Tra i presenti alla presentazione della Colletta anche monsignor Vincenzo Paglia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita. Monsignor Paglia ha ricordato che: “vedere nascere da un luogo complesso e doloroso come questo, un’opera di bene così concreta, dimostra che anche un gesto semplice può riaccendere legami umani e sociali, di cui le nostre città hanno oggi profondo bisogno”. La sala della biblioteca del carcere di Opera - Monsignor Paglia ha concluso il suo intervento con un augurio: “Vorrei che da qui partisse un messaggio per tutti: sconfiggiamo la tristezza di un mondo chiuso in se stesso. Nel cuore di ciascuno c’è una scintilla di bene, capace di riaccendere l’amore anche nei luoghi più oppressi. Da qui può ripartire la speranza: si può rinascere, tutti, nessuno escluso”. Il carcere non è un luogo da rimuovere - Al lancio all’interno del Carcere di Opera ha partecipato anche anche il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Fabio Pinelli che sottolinea la valenza rieducativa dell’iniziativa. “C’è una cattiva abitudine che serpeggia nella società: considerare la detenzione come qualcosa che non riguarda la società civile, come se il carcere fosse un luogo da rimuovere mentalmente, estraneo alla comunità. Invece il carcere ne è parte integrante”. “È un luogo dove i principi costituzionali devono trovare piena attuazione e dove la rieducazione può diventare concreta solo attraverso un rapporto virtuoso tra il “dentro” e il “fuori” ha detto Pinelli. “Iniziative come la Colletta Alimentare restituiscono valore a quel legame, coinvolgendo non solo i detenuti ma anche l’intero mondo carcerario - dalla polizia penitenziaria agli educatori - in un percorso comune”, continua Pinelli. “È un segnale importante: si può scontare una pena senza essere esclusi dalla società civile” conclude osservando come la Colletta sia un “modo concreto di declinare la speranza con i detenuti che che aiutano chi è fuori”. Il dono è contagioso - Quanto questo gesto sia capace di cambiamento lo dimostra anche un episodio riportato da Fabio Romano. “Il dono è contagioso, in pieno lockdown durante il Covid im un carcere milanese è stata fatta la Colletta Alimentare e ci hanno chiesto di venire a ritirare il cibo da donare. Quando si è potuto rientrare i volontari hanno chiesto ai carcerati perché lo avessero fatto è la risposta”, ha concluso Romano è stata che molti di loro “usufruivano del pacco quando erano fuori e che le loro famiglie in quei momenti stavano ricevendo aiuti dal Banco Alimentare”. Sensibilizzare verso la povertà alimentare - Marco Piuri ha infine sottolineato come la Colletta Alimentare sia da una parte un gesto che unisce tanti mondi, sia “un’iniziativa di sensibilizzazione contro la povertà alimentare e un gesto educativo semplice e accessibile a tutti”. Il presidente ha ricordato l’aumento della domanda di aiuto “i recenti dati Istat che ci dicono che nel nostro Paese 5,7 milioni di persone (9,8%) di cui 1,28 sono minori e 2,2 milioni famiglie (8,4%) vivono in povertà assoluta. La Colletta Alimentare diventa ancora più preziosa, perché permette a ciascuno di sentirsi utile per gli altri”. “Il silenzio dentro”. Un libro inchiesta sulla situazione delle carceri vocididentro.it, 6 novembre 2025 Ci sono anche i rumorosi silenzi di persone che fanno parte della nostra associazione tra i mille altri quesiti che hanno spinto Francesca Ghezzani, giornalista e conduttrice televisiva e radiofonica, a compiere attraverso le pagine di “Il silenzio dentro - Quando raccontare diventa un atto di giustizia” (Narrativa d’inchiesta - Swanbook Edizioni, in libreria dal 15 ottobre) un viaggio all’interno e intorno alle carceri italiane per raccontare, con sguardo costruttivo, le molteplici realtà che vivono dietro e oltre le sbarre e che ogni giorno lavorano per un sistema penitenziario che metta in pratica quanto previsto dall’Art. 27 della Costituzione. Il libro intreccia testimonianze, analisi e riflessioni raccolte intervistando persone carcerate, ex detenuti reinseriti nella società e figure autorevoli del panorama istituzionale e associativo: esperti di criminologia e psichiatria forense, giornalisti, operatori della comunicazione, esponenti del clero e sociologi, insieme a temi come finanza e imprenditoria sociale, economia carceraria e circolare, upcycling e il rapporto tra giustizia penale e intelligenza artificiale. Le voci raccolte sono quelle di Alessio Scandurra (Coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle carceri), Monica Bizaj (Presidente di Sbarre di Zucchero APS), Enrico Sbriglia (Penitenziarista - Former dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria Italiana), Antonella Cortese (Psicologa), Santino Mirabella (Magistrato), Anna Palermo (Criminologa), Rosa Francesca Capozza (Criminologa), Valentina Arcidiacono Criminologa), Alberto Arnaudo (Medico socio di Co.N.O.S.C.I), Paolo Siani (Pediatra), Candida Livatino (Perito grafologo), Carmela Pace (Presidente UNICEF Italia), Don Luigi Ciotti (Presbitero e attivista), Germana Cesarano (Psicoterapeuta), Andrea Cavaliere (Avvocato), Carmelo Sardo (Giornalista e scrittore), Francesco Pira (Professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e giornalista), Ruben Razzante (Giornalista e docente universitario), Oscar La Rosa (Cofondatore di Economia carceraria srl), Pino Cantatore (Cofondatore di bee.4), Paolo Rellini (Cofondatore di Recuperiamo Srl), Maria Paola Guarino (Ex docente in un carcere di massima sicurezza), Francesco Ciampa (Giornalista), Mirko Federico (Attivista), Kento (Rapper e scrittore), Ginevra Barboni (Regista), Antonella Iallorenzi (Direttrice artistica, attrice e formatrice teatrale), Valeria Corciolani (Scrittrice), Patrizia Rossetti (Presidente Associazione dEntrofUoriars), Paola Maria Bevilacqua (Giornalista e presidente APS ASD Dal Buio alla Luce), Maria Giovanna Santucci (Giornalista e docente), Cinzia Perrotta (Insegnante di YdR in carcere). E infine, tra le varie testimonianze, quella di Claudio Bottan, volontario e vicedirettore della rivista Voci di dentro, che ha risposto alle sollecitazioni della giornalista con un racconto intimo, senza filtri, ripercorrendo il doloroso cammino che l’ha portato dapprima all’inferno e poi a intravedere la luce accanto ad una persona speciale (ma non vogliamo spoilerare…). Nel racconto di Claudio emerge il ruolo fondamentale del volontariato in carcere: “Voglio restituire il bene che ho ricevuto mentre ero carcerato, perché nessuno si salva da solo. L’associazione ‘Voci di dentro’ è la mia casa, il mio porto sicuro, in cui non vengo giudicato per il mio passato”. Alla fine del suo viaggio Francesca Ghezzani forse non ha trovato le risposte che cercava, ma sicuramente si è trovata a porsi altre domande. È proprio questa la bellezza dell’editoria che si occupa di temi apparentemente scomodi ma che, in realtà, sono alla portata di chiunque abbia interesse e forza per immergersi nel dolore altrui. “L’idea di questo libro è nata tempo fa, ma ha trovato piena conferma dopo la mia visita, nel 2023, a una Casa di Reclusione nelle vesti di giornalista. Da allora mi sono chiesta, senza cedere alla retorica del buonismo e consapevole che non tutti sono pronti o disposti a cambiare, cosa serva davvero affinché la giustizia compia il suo corso, nel rispetto dei diritti umani, e chi ha commesso un reato, ma desidera ricominciare, possa contare su un reale reinserimento che lo tenga lontano dalla recidiva”. La questione che si è posta l’autrice non è banale. Ora una legge per il benessere psicologico di Paolo Tomasi L’Espresso, 6 novembre 2025 Sei italiani su dieci lo collocano in cima alle necessità sanitarie, secondo solo al cancro. Depositate in Cassazione le 50mila firme necessarie per un provvedimento. Più della metà delle persone che la mattina si stringono nel vagone della metropolitana ha problemi di insonnia. Il 70 per cento dei giovani fuori dalle università fra una lezione e l’altra o che hanno appena cominciato a lavorare convive con sbalzi d’umore o sintomi dello spettro depressivo. Una persona su cinque che si fa largo nella folla mentre attraversa la città ha assunto ansiolitici, antidepressivi, antipsicotici o stabilizzanti dell’umore. La salute mentale in Italia è una questione di ordini di grandezza. È difficile riassumere l’impatto dei diversi disturbi psichici in modo univoco attraverso dei dati - quelli citati finora si riferiscono al Rapporto Italia di Eurispes dello scorso anno - ma, per quanto empiriche o parziali, tutte le analisi raccontano che la cura del benessere psicologico è una priorità per un numero sempre più crescente di persone. Secondo l’ultimo Health Service Report di Ipsos, uscito a inizio ottobre, il 41 per cento degli italiani pensa che i disturbi psichici siano il problema di salute principale del Paese - secondo solo al cancro, indicato dal 60 per cento del campione - nel 2024 era il 35 per cento e nel 2018 solo il 18 per cento. “C’è bisogno di una rete psicologica nazionale. È necessario portare la psicoterapia all’interno delle scuole, delle classi, nei luoghi di lavoro, nelle università, nelle carceri”, commenta Francesco Maesano, uno dei fondatori dell’associazione Pubblica, che il 14 maggio ha depositato in Cassazione una proposta di legge di iniziativa popolare per istituire una rete di “servizi pubblici per il benessere psicologico”. Il progetto prevede l’assunzione di più di 40mila psicologi all’interno del Sistema sanitario nazionale per creare un sistema in grado di intervenire direttamente nelle comunità e nei contesti dove si generano i traumi offrendo una risposta calibrata sulle esigenze specifiche delle persone. Lo scorso 20 ottobre l’appello di Pubblica ha raggiunto le 50mila firme necessarie a portare il testo in Parlamento, fino al 10 dicembre ci sarà tempo per aggiornarne il numero: “Ogni firma in più aumenta il peso politico dell’iniziativa. Vogliamo creare un sistema pubblico e gratuito che superi la dinamica dello sportello. La psicologia non può più essere un lusso, deve diventare un diritto per tutte e per tutti”. L’accesso alle cure psicologiche è soprattutto un tema di giustizia sociale. L’edizione 2025 del rapporto Mental health promotion and prevention dell’Ocse evidenzia come in Italia non si arrivi a uno psicologo pubblico ogni 10mila abitanti. Per dare un termine di paragone in Austria sono dodici, in Spagna 5,5, in Canada e in Francia cinque e nel Regno Unito 3,6. Il numero di psicoterapeuti nel Sistema sanitario riflette la mancanza di fondi. Come riporta uno studio pubblicato a inizio anno da The European house Ambrosetti, i finanziamenti per il trattamento dei disturbi psichici ammontano al 3,4 per cento della spesa sanitaria nazionale, dato più basso fra i Paesi europei ad alto reddito. In Francia lo stesso rapporto è al 15 per cento, in Germania all’11,3 per cento, nel Regno Unito al 10,3 per cento e in Svezia al 9 per cento. “Non essendoci una risposta adeguata dal sistema pubblico, otto persone su dieci si rivolgono al privato e questo vuol dire che chi non se lo può permettere semplicemente non si cura”, spiega David Lazzari, membro del comitato scientifico che ha scritto la proposta di legge di Pubblica e dal 2020 al 2024 presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi. “In Italia ci sono più di 140mila professionisti iscritti all’albo. È un numero importante e potrebbe aiutare a spostare il focus sulla prevenzione, non possiamo aspettare che i problemi si aggravino per poi curarli solo quando sono in una fase più avanzata. Al momento una su cinque delle situazioni di disagio viene intercettata e solo una su 15 riceve un trattamento adeguato”. Tre quarti delle firme a sostegno dell’iniziativa di Pubblica sono di donne sotto i 27 anni. È un dato che non riflette uno squilibrio fra uomini e donne nell’accesso alle cure psicologiche - per l’esperienza di Lazzari, oggi circa il 40 per cento dei pazienti che scelgono di intraprendere un percorso di psicoterapia sono uomini - ma testimonia che rimane una forte resistenza da parte degli uomini a parlare di salute mentale. Secondo Maesano la sproporzione racconta anche che il ruolo sociale della psicoterapia viene percepito dalle donne come una possibilità per contrastare le dinamiche patriarcali: “Penso che le giovani vedano nella nostra proposta una protezione rispetto alla violenza, una forma di prevenzione rispetto alla possibilità di avere a che fare con un partner prevaricante. La presenza di uno psicologo nelle scuole obbliga a una vera educazione alle relazioni”. Tornando agli ordini di grandezza, la mancata gestione dei disturbi psichici comporta anche un costo economico che in Italia, secondo l’Ocse, arriva a 88 miliardi di euro, circa il 4 per cento del Pil del Paese. Oltre alle risorse spese direttamente dal Sistema sanitario per erogare le cure e i trattamenti, la stima comprende l’impatto sull’economia della minore produttività del lavoro, dell’assenteismo e della pressione sui servizi sociali. “Una volta a regime gli interventi che vogliamo mettere in campo costeranno 3,3 miliardi”, racconta Maesano: “È una cifra che alla luce dei dati non va considerata solo come un costo. Vogliamo che la politica si confronti con noi sull’importanza di finanziare la psicologia. L’investimento sulla salute mentale è quello più sottovalutato fra tutte le voci di spesa pubblica”. Altro che manicomi: Piantedosi parli degli scarsi investimenti in salute mentale di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2025 Dopo l’aggressione in centro a Milano, le critiche alla legge Basaglia sono infondate: i delitti sono diminuiti dopo la chiusura dei manicomi. Il tragico episodio di Milano che ha visto una donna accoltellata senza motivo nel pieno centro della città non può essere strumentalizzato. Vincenzo Lanni, l’uomo responsabile dell’assurdo gesto, aveva un precedente simile risalente al 2016, quando era stato dichiarato seminfermo di mente. Dopo il carcere era stato sottoposto a una misura di sicurezza. Ma se fosse possibile prevedere le azioni umane in maniera deterministica avremmo sconfitto da tempo ogni forma di criminalità. Non esiste società al mondo, neanche quella governata dal più rigido dei regimi, nella quale non accadano fatti che non vorremmo accadessero. Al ministro Piantedosi che invoca una ‘terza via’ tra i manicomi chiusi dalla legge Basaglia e la situazione attuale rispondo allora che oggi gli omicidi in Italia sono sei volte meno di quanti erano quando i manicomi erano aperti e sono la metà di quando esistevano ancora gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, l’ultimo residuo di istituzione manicomiale che ha resistito ben più a lungo. Ma non si utilizzi l’accaduto per sostenere la tesi che bisogna aumentare i posti delle Rems, perché nulla ha a che fare questo caso con le residenze a vocazione sanitaria destinate all’esecuzione delle misure di sicurezza che sono nate a seguito della chiusura degli Opg. La sola terza via che abbia senso è quella del welfare nella società libera. Depotenziare sempre di più i servizi psichiatrici territoriali e la presa in carico non può che avere un effetto anche in termini di sicurezza. L’Italia è il paese europeo che investe la percentuale minore del proprio Pil nella salute mentale. Questo dovrebbe raccontare il governo quando commenta un fatto drammatico come quello milanese, che accade nella regione italiana dove massima è la privatizzazione dei servizi sanitari. L’insinuazione di dover fare un passo indietro rispetto alla legge Basaglia è solamente una propaganda strumentale, priva di ogni argomentazione razionale, che si limita a far leva sulle paure più istintive che tali fatti di cronaca generano in tutti noi. Ogni delitto crea sofferenze. Ci sono tanti modi per rispettare questo dolore. La cosa peggiore che si possa fare è quella di strumentalizzarlo a biechi fini di raccolta di consenso, come fossimo in una pesca a strascico. Di fronte a quanto accaduto a Milano, chiunque metta in discussione le grandi conquiste di civiltà giuridica e sociale che hanno avuto origine nella rivoluzione basagliana è irriguardoso del dolore delle vittime. Nonché di quelle centinaia di migliaia di persone che nella de-istituzionalizzazione della malattia mentale hanno trovato felicità, inclusione, diritti. Nell’immediato seguito di ogni delitto non politico, i politici dovrebbero tacere, aprendo bocca solamente per esprimere le proprie condoglianze. Potremmo decidere di selezionare su questo parametro la prossima classe politica. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Don Mazzi: “Il disagio psichico? Sulle spalle del non profit, se ne parla solo quando c’è il dramma di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 6 novembre 2025 “Non possiamo fermarci al clamore del momento. Dobbiamo interrogarci per capire come rispondere alle sempre maggiori richieste di aiuto”. Così il fondatore di Exodus, dopo l’aggressione di piazza Gae Aulenti a Milano. Ha voluto essere informato già lunedì sera e ieri mattina ha riunito i suoi collaboratori più stretti per una riflessione. E “riflessione” è la parola che don Antonio Mazzi, 95enne fondatore di Exodus ha ripetuto più volte: “Perché non possiamo fermarci al caso e al clamore di qualche giorno. Dobbiamo interrogarci per capire come rispondere alle sempre maggiori richieste di aiuto in campo di disagio psichico e psicologico, visto che questa è una delle missioni che da sempre ci siamo dati”. Don Antonio, conosceva questa vicenda prima dell’altra? “Ovviamente no. Da noi in questi tantissimi anni di attività sono passati casi difficili e difficilissimi e abbiamo lavorato sempre a testa bassa per recuperare uomini e donne restituendoli ad una vita dignitosa e piena. Non conoscevo Vincenzo Lanni ma conosco bene gli educatori della cooperativa sociale che lo aveva seguito: una realtà oggi autonoma ma nata in seno a Fondazione Exodus”. La prima riflessione? “Noi abbiamo fatto il nostro dovere e credo che ogni istituzione, davanti a questa vicenda così grave, dovrebbe chiedersi se ha fatto il proprio”. Lei crede di no? “Io credo che troppo spesso temi così delicati e decisivi vengono affrontati soltanto quando c’è il dramma. Poi si smette di parlarne e si lascia tutto sulle spalle delle comunità e del non profit, che tra le altre cose devono affrontare continui tagli della spesa pubblica. Voglio dire che l’attenzione di chi dovrebbe prendere decisioni è in calo a fronte di un aggravarsi continuo e direi anche ad un radicalizzarsi delle situazioni che siamo chiamati a gestire”. Cosa ha detto ai suoi educatori dopo questa vicenda? “Che deve essere l’occasione per riflettere, appunto, e chiederci come possiamo essere ancora più presenti e incisivi”. L’insostenibile costo della violenza fisica ed emotiva sui minori di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 6 novembre 2025 Il Rapporto Where We Live and Learn: Violence Against Children in Europe and Central Asia dell’ottobre 2025, pubblicato dall’Unicef, ci riporta una serie di dati sulla violenza subita dai bambini. Una violenza verso i minori che può assumere diverse forme. Può essere, fisica, emotiva, sessuale e può comportare negligenza o privazione, dovute spesso da persone che dovrebbero piuttosto proteggerli e prendersi cura di loro. Ovviamente, si tratta di un rapporto che non tiene conto di quanto sta avvenendo in situazioni eccezionali (guerre e genocidi), ma vuole limitare la propria indagine alla vita di ogni giorno del minore in specie nei contesti familiari, scolastici, ambientali e sociali. Lo studio di quanto accade dimostra che la violenza può essere trasmessa da una generazione all’altra, con effetti duraturi sulla salute e sul benessere, soprattutto in assenza di un supporto adeguato. Per questo il Rapporto contiene dati e monitoraggio per guidare politiche efficaci, attraverso il sostegno di associazioni specializzate sui bambini, in particolare nel contesto delle violenze intrafamiliari. La violenza è un fenomeno strutturale delle nostre società: accade in ogni parte del mondo, attraverso classi sociali e generazioni e continua a manifestarsi nonostante gli sforzi compiuti per contrastarla. Un altro Rapporto sui minori perseguiti per violenza sessuale, presentato in Francia a settembre di questo anno dall’Alto Commissario per la Infanzia mostra un aspetto drammatico: il 72 per cento delle persone perseguite per violenza sessuale e stupro ne hanno subiti a loro volta. Peraltro, le equipe mediche coinvolte in queste vicende hanno evidenziato che i bambini che hanno vissuto in un ambiente abusante riportano conseguenze, oltre che sullo sviluppo emotivo su quello fisico e neurologico. Spesso sperimentano significative difficoltà di apprendimento, bassa autostima e depressione che possono portare all’autolesionismo, all’ansia, alla dissociazione, disturbi psichiatrici. Nella prima infanzia lo stress tossico associato alla violenza può compromettere permanentemente lo sviluppo celebrale e danneggiare altre parti del sistema nervoso. Ancora, l’UNICEF ha potuto certificare che molti tipi di violenza interpersonale rimangono nascosti alla vista del pubblico. Questo può accadere quando l’abuso è socialmente accettato o tacitamente tollerato, come le punizioni corporali. Le vittime possono anche essere troppo giovani per rivelare la propria esperienza o persino per comprenderla. I bambini che subiscono ripetuti episodi di abuso spesso crescono credendo che la colpa sia dei propri difetti. E questo può più facilmente accadere quando i bambini sono piccoli, creandosi situazioni nelle quali si trovano a maggior rischio di lesioni gravi a causa della violenza da parte di chi si prende cura di loro; mentre i bambini più grandi sono più inclini alla violenza da parte dei coetanei, inclusi partner o membri di gang. I bambini con disabilità possono essere particolarmente vulnerabili alla violenza perfino sotto forma di “trattamento”. Nel documento programmatico, l’UNICEF formula una serie di raccomandazioni chiave dato che nessuna di queste conseguenze è inevitabile: vietare tutte le forme di punizione corporale in ogni contesto; investire in programmi di sostegno alle famiglie; incrementare potenziali ambienti di apprendimento sicuri, liberi dalla violenza tra coetanei e insegnanti; ampliare l’accesso ai servizi sociali a misura di bambino; incoraggiare la formazione e la sensibilizzazione della società per riconoscere e prevenire gli abusi. “Siamo la prima generazione a comprendere appieno la prevalenza, le cause e i costi della violenza contro i bambini, e la prima a conoscere le soluzioni che funzionano”, ha dichiarato Sheema SenGupta, direttrice per la protezione dell’infanzia dell’UNICEF. “Investendo nella prevenzione, nell’istruzione e nei servizi di supporto possiamo spezzare il ciclo della violenza e costruire un mondo in cui i bambini siano al sicuro”. D’altronde, la violenza è un cancro strutturale delle nostre società: accade in ogni parte del mondo, attraverso classi sociali e generazioni, e continua a manifestarsi nonostante gli sforzi compiuti per contrastarla. Per questo dobbiamo combatterla, con associazioni sempre più agguerrite, con progetti sempre più mirati e differenziati, perché il manifestarsi della violenza ha molti volti. Via libera al trattato tra Italia e Libia per rimpatriare i detenuti di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 novembre 2025 Per chi ha ricevuto un decreto di espulsione non sarà necessario il consenso. La Camera ha approvato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione del Trattato sul trasferimento dei condannati definitivi tra Italia e Libia. 172 i voti favorevoli e 77 i voti contrari. Il testo aveva già ricevuto il via libera del Senato. Così - nel giorno in cui a Tripoli viene arrestato per omicidio e tortura il generale Almasri che a gennaio l’Italia aveva liberato e rimpatriato su un volo di Stato violando un mandato della Corte dell’Aja - diventa possibile spedire al di là del Mediterraneo, in un paese in mano alle milizie e preda di ogni violenza, chi è in carcere senza possibilità di appello. “Il ddl riporta sotto gli occhi di tutti il comportamento surreale del governo: prima libera il carceriere e torturatore Almasri in modo illegale, poi approva la legge che consente ai prigionieri libici di tornare nelle prigioni libiche”, ha dichiarato in aula Mauro Del Barba, deputato di Italia viva. “Avvicinare i detenuti ai loro familiari, nel paese di origine, è corretto. Ma questo non può valere per la Libia: nelle prigioni di quel paese si tortura, si violenta e si uccide. È vergognoso pensare di mandare lì delle persone”, attacca Marco Grimaldi, deputato di Alleanza verdi e sinistra. L’accordo internazionale era stato firmato a Palermo il 29 settembre 2023 tra il ministro della Giustizia Carlo Nordio e l’omologa libica del governo di unità nazionale, quello di Tripoli, Halima Ibrahim Abdel Rahman Elbousify. Prevede la possibilità di trasferire da uno Stato all’altro, se entrambi sono d’accordo, i cittadini che stanno scontando all’estero una condanna inappellabile e superiore a un anno. La persona deve acconsentire al rimpatrio, ma ci sono due eccezioni. L’articolo 16 esclude la necessità del consenso di chi è fuggito nel territorio dell’altro paese per sottrarsi a una sentenza passata in giudicato in quello di origine. L’articolo 17 fa altrettanto per chi insieme alla pena ha ricevuto un decreto di espulsione. Per esempio i cittadini libici che finiscono dietro le sbarre e poi sono ritenuti colpevoli di aver guidato una barca carica di migranti verso le coste italiane. Come Alà Faraj, rinchiuso all’Ucciardone da 10 anni perché giudicato, in un processo approssimativo e pieno di buchi, uno degli scafisti che conducevano un barcone su cui nel luglio 2015 persero la vita per asfissia 49 persone. Secondo la sua avvocata Cinzia Pecoraro: “Il trattato è stato scritto più da politici che da giuristi. Ha diversi punti problematici. Non ci sono garanzie per gli individui, né su dove saranno portati né in quali condizioni detentive. Per i condannati con una sentenza che prevede la misura accessoria dell’espulsione, come in tutti i casi analoghi a quelli del mio assistito, non è richiesto il consenso al trasferimento. E questo è molto grave perché rischia di ledere i diritti fondamentali della persona”. Con Faraj sono state condannate altre sette persone, tra cui i giovanissimi “calciatori di Bengasi”. Tutte venivano dalla Cirenaica controllata da Haftar. Con questo trattato potrebbero ritrovarsi nella Tripolitania di Dbeibeh. La firma della ministra dell’ovest è “per lo Stato della Libia”. Del resto a livello internazionale quello è un solo paese, anche se sul campo le cose cambiano e sono almeno due. Nessuno dei quali garantisce i diritti delle persone. Il vero significato del trattato, e il suo eventuale funzionamento, si capirà in futuro. I detenuti libici in Italia non sono così tanti. Quasi zero il contrario. Più che effetti di sistema, come la riduzione del sovraffollamento carcerario cui si potrebbe ambire per altre nazionalità, le ricadute del trattato saranno sui casi singoli. Persone che rischiano di diventare oggetto di ricatto, dietro lo spauracchio del rimpatrio, o merce di scambio nelle trame che legano i due lati del mare. Libia. Il generale Almasri arrestato con l’accusa di torture sui detenuti di Emilio Minervini Il Dubbio, 6 novembre 2025 La Procura libica ordina la custodia cautelare del generale. Schlein e Renzi attaccano il governo: “Una figura vergognosa per l’Italia”. La notizia è arrivata con un lancio dell’agenzia Lybia24 sui suoi canali social: “Il Procuratore generale ha ordinato l’arresto di Osama Almasri Anjim e il suo rinvio a processo per tortura di rifugiati e la morte di uno di loro sotto tortura”. Il Procuratore Generale libico, Al Siddiq Al Sour, ha scritto in una nota che: “Nell’ambito della giurisdizione nazionale, la procura ordina la detenzione del responsabile della gestione delle operazioni e della sicurezza giudiziaria. A seguito delle indagini sulle accuse rivolte all’agente di polizia Osama Almasri Anjim - prosegue la nota - il procuratore generale ha completato l’acquisizione di informazioni relative a violazioni dei diritti dei detenuti presso l’Istituto di Riforma e Riabilitazione di Tripoli, dopo che la Procura è stata informata di abusi che includevano torture e trattamenti crudeli e degradanti”. Gli inquirenti libici “hanno svolto un interrogatorio riguardante le circostanze che hanno portato alla violazione dei diritti di dieci detenuti e alla morte di uno di loro a causa di torture. Alla luce di prove sufficienti a supporto delle accuse, la procura ha indirizzato l’imputato, attualmente in custodia cautelare, al sistema giudiziario”. Su Almasri pende un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale Internazionale (CPI) lo scorso 18 gennaio in quanto ritenuto responsabile dei crimini di guerra di: oltraggi alla dignità personale; trattamento crudele; tortura; stupro e violenza sessuale; e omicidio, tutti commessi nel carcere di Mitiga dal febbraio 2015 in poi, oltre che dei crimini contro l’umanità di: reclusione; tortura; stupro e violenza sessuale; omicidio e persecuzione anch’essi commessi nel carcere di Mitiga. Lo scorso luglio invece il suo braccio destro, Khaled Mohamed El Hishri, è stato arrestato con l’accusa di aver commesso crimini contro l’umanità all’aeroporto di Berlino-Brandeburgo, mentre si stava imbarcando su un volo diretto a Tunisi. Almasri è balzato all’onore delle cronache italiane dopo il suo arresto, avvenuto il giorno seguente all’emissione del mandato di cattura fuori dallo Juventus Stadium di Torino, dove aveva assistito alla partita Juventus-Milan, la sua liberazione e il suo immediato rimpatrio in Libia con volo di Stato da parte del governo italiano, che ha scatenato un terremoto politico. Lo scorso 12 maggio il cancelliere della CPI, Osvaldo Zavala, ha ricevuto una dichiarazione presentata dal governo libico in cui si dichiara l’accettazione da parte della Libia della giurisdizione della CPI rispetto ai presunti crimini commessi all’interno sul suo territorio dal 2011 al 2027. La Libia non fa parte né dei Paesi firmatari né ha aderito ai Trattati di Roma, la decisione del governo presieduto dal primo ministro Abdul Hamid Ddeibah di riconoscere la giurisdizione della CPI potrebbe quindi essere una mossa per colpire ed eliminare Almasri, che fa parte delle milizie rivali a governo di Tripoli, soprattutto dopo che, sempre lo scorso maggio, le brigate fedeli a Ddeibah hanno ucciso in un’imboscata Abdel Ghani Al Kikli, capo delle SSA potenti alleate delle Radaa, e le milizie governative hanno ottenuto diverse vittorie a Tripoli. Dietro l’arresto di Almasri ci sarebbe anche l’accordo di cessate il fuoco, mediato dalla Turchia, siglato tra il Governo di Unità Nazionale (GNU) e le Radaa, le Forze speciali per il contrasto al terrorismo e al crimine organizzato nate nel corso della prima guerra civile araba di cui fa parte Almasri. L’accordo, secondo quanto riportato da Claudia Gazzini senior analyst per la Libia dell’International Crisis Group a Nigrizia, avrebbe previsto la destituzione di Almasri dal ruolo di capo della polizia giudiziaria e la sua sostituzione con una figura negoziata dal Consiglio presidenziale di Tripoli. La notizia ha provocato un domino di dichiarazioni nella politica italiana. “Non me ne sto occupando” ha dichiarato laconico il ministro degli Esteri Antonio Tajani, citato dall’Agi. “Le autorità libiche hanno ordinato l’arresto di Almasri, per tortura e omicidio - ha detto la segretaria del PD Elly Schlein - Lo stesso criminale che Meloni, Nordio e Piantedosi hanno liberato e riaccompagnato a casa con un volo di Stato”. “La giustizia libica ha arrestato il generale Almasri per torture sui detenuti - ha dichiarato il presidente di Iv Matteo Renzi - Anche la polizia italiana lo aveva fatto, per lo stesso reato, quasi un anno fa. Ma Giorgia Meloni e Carlo Nordio hanno scelto di liberare Almasri e gli hanno pagato un volo di Stato con tutti gli onori”. “Che umiliazione per il governo Meloni - ha commentato Giuseppe Conte presidente del M5S - Alla fine Almasri, un torturatore con accuse anche per stupri su bambini, è stato arrestato in Libia”. Fonti di Palazzo Chigi hanno diffuso una velina nella quale si comunica che “l’esecutivo italiano era bene a conoscenza dell’esistenza di un mandato di cattura emesso dalla Procura Generale di Tripoli a carico di Almasri già dal 20 gennaio 2025” ciò “ha costituito una delle fondamentali ragioni per le quali il governo italiano ha giustificato alla CPI la mancata consegna di Almasri e la sua immediata espulsione proprio verso la Libia”. Tunisia. L’amministrazione penitenziaria smentisce deterioramento salute dei detenuti agenzianova.com, 6 novembre 2025 La Direzione generale delle carceri e della riabilitazione in Tunisia ha smentito oggi qualsiasi deterioramento delle condizioni di salute di alcuni detenuti, contrariamente a quanto diffuso sui social media riguardo a un presunto sciopero della fame in diversi istituti penitenziari. In un comunicato, l’amministrazione penitenziaria tunisina ha precisato che lo stato di salute dei detenuti interessati è “normale e stabile”, come risulta dagli esami medici e dal monitoraggio quotidiano effettuato dal personale sanitario e dagli agenti penitenziari. La stessa fonte ha aggiunto che le manifestazioni di sciopero della fame “non sono considerate serie”, poiché alcuni detenuti sarebbero stati visti consumare alimenti nonostante le voci di una “grève de la faim sauvage” (sciopero della fame ad oltranza). L’amministrazione penitenziaria ha ribadito il proprio impegno a garantire cure mediche e diritti legali a tutti i detenuti, in conformità con la legge e le procedure vigenti in Tunisia, annunciando inoltre l’avvio di azioni legali contro chiunque diffonda informazioni false o fuorvianti in merito alla situazione nelle carceri tunisine. Il collegio difensivo dei detenuti coinvolti nel caso di “cospirazione contro la sicurezza dello Stato” ha tuttavia contestato la versione ufficiale, affermando che le dichiarazioni della Direzione generale delle carceri “sono estranee alla realtà, almeno per quanto riguarda Jawhar Ben Mbarek, la cui condizione non è stata monitorata dalla sera del 28 ottobre 2025”. Il team legale ha dichiarato di “confermare l’esattezza di tutte le informazioni fornite dopo la visita presso il carcere di Belli”. Secondo la difesa dell’uomo accusato di voler cambiare la forma dello Stato in Tunisia insieme ad altri politici, giornalisti e oppositori politici, l’amministrazione penitenziaria “ha deliberatamente usato un linguaggio generico parlando di uno sciopero di alcuni prigionieri per eludere le proprie responsabilità legali, quando in realtà la questione riguarda un solo detenuto, Jawhar Ben Mbarek”. Gli avvocati hanno inoltre accusato l’autorità di “trascurare i propri doveri legali nel garantire la sicurezza dei detenuti, che restano presunti innocenti secondo la Costituzione, invece di attaccare chi denuncia gli abusi e chiede il rispetto della legge”. Nel frattempo, le autorità tunisine hanno sospeso le attività dell’Ufficio dell’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) in Tunisia, che ha annunciato in serata di aver ricevuto oggi la notifica di un’ordinanza che dispone la chiusura delle sue attività per un periodo di trenta giorni. In un comunicato diffuso sui propri canali social, l’organizzazione che si batte principalmente per l’abolizione della pena di morte in Tunisia e per i diritti dei detenuti, ha precisato che durante questo periodo non potrà garantire assistenza diretta alle vittime di tortura e ai loro familiari, né svolgere alcuna attività. L’Omct Tunisia ha espresso il suo rammarico per la misura, definendola parte di una serie di sospensioni che hanno preso di mira diverse componenti della società civile in Tunisia. Ribadendo il proprio impegno a favore dello Stato di diritto, l’organizzazione ha annunciato l’intenzione di intraprendere tutte le azioni legali necessarie per opporsi alla decisione. Su Attanasio, Jacovacci e Paciolla le famiglie chiedono un’unica Commissione d’inchiesta di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2025 In Senato i familiari delle vittime denunciano l’assenza del Governo e chiedono verità sui diplomatici e operatori italiani uccisi. In Senato oggi i famigliari di Mario Paciolla, Luca Attanasio, Vittorio Jacovacci, insieme a parlamentari, avvocati, giornalisti, attivisti, sono intervenuti per chiedere la istituzione urgente di una unica commissione di inchiesta su quelle tragiche vicende. Assente ingiustificato il Governo, come pure i parlamentari di maggioranza. Una vergogna che potrà essere scongiurata soltanto da fatti concludenti, altrimenti, come ha più volte ribadito il padre di Luca Attanasio, Salvatore: “Il silenzio equivarrà a complicità nelle morti dei nostri cari”. Eppure unanime era stato il voto dei parlamentari componenti della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato nel momento in cui c’era da approvare una risoluzione volta ad impegnare lo Stato italiano a fare ogni sforzo per accertare la verità. Come si spiega questo “voltafaccia”? Perché unanimi nell’esprimere cordoglio e buone intenzioni, ma divisi quando si tratta di passare alle decisioni conseguenti - ovvero far votare la proposta di legge di istituzione della Commissione di inchiesta? Una proposta di legge matura perché raccoglie la consapevolezza condivisa degli stessi parlamentari estensori, Marco Lombardo in Senato, Marco Sarracino alla Camera, che la Commissione dovrà appunto essere unica, proprio a sottolineare da un lato la responsabilità dello Stato nel tutelare la vita di propri concittadini impegnati all’estero e dall’altro l’opacità delle Nazioni Unite nel fornire pieno supporto alle indagini. Una opacità che rischia di trasformare, come ha sottolineato Anna Paciolla, mamma di Mario, l’immunità funzionale degli operatori Onu in radicale impunità anche in casi di crimini gravissimi. Se di fronte a queste tragiche morti, tutte ormai considerate assassini mirati con motivazioni politiche da parte di coloro che hanno lavorato ai casi, lo Stato e più precisamente ancora il Ministro degli Esteri Tajani, il ministro della Difesa Crosetto, si dovessero girare dall’altra parte allora, parole di Dario Jacovacci, “nessuno sarebbe più al sicuro”. Perché in queste storie in ballo c’è niente meno che la “dignità dello Stato”, come ha affermato la senatrice Susanna Camusso. Il silenzio di maggioranza e Governo è tanto più fragoroso se confrontato con le bordate retoriche di solo 24 ore fa: 4 novembre, giornata dell’unità nazionale e delle forze armate. Dove finiscono l’orgoglio nazionale, la fierezza di essere “costruttori di pace” all’estero? Sembrerebbero concetti buoni a condizione che non interferiscano con i grandi interessi economici che si stagliano come lugubri ombre sullo sfondo di queste vicende. Perché i soldi e il loro accumulo criminale da parte di organizzazioni corrotte o di singoli funzionari corrotti pare essere l’altro comun denominatore che attraversa le storie di chi invece, innamorato del diritto come forza di liberazione dalla paura e dal bisogno, non ha taciuto davanti al “puzzo del compromesso morale”, per dirla con quell’altro faro della destra di governo che è Paolo Borsellino. Faro tanto esibito, quanto tradito. Gli interventi composti, fermi, precisi di Anna Paciolla, Salvatore Attanasio, Dario Jacovacci andrebbero fatti ascoltare nelle scuole: là dove, nonostante la resistenza culturale opposta da una moltitudine di insegnanti valorosi, si insinua la rassegnazione davanti ad un mondo nel quale il diritto come regola di convivenza è sempre più disprezzato a favore della regola imposta con la violenza brutale, spesso istituzionale. Che il modo di guardare alla Repubblica dei famigliari di Paciolla, Attanasio, Jacovacci sia il modo con il quale cercare di salvare le istituzioni democratiche dal baratro della corruzione, che sempre passa dalla depredazione delle risorse pubbliche, lo dimostrano la cura con la quale tutti loro hanno ricordato il quarto assassinato, il più esposto all’oblio, e cioè l’autista di Attanasio, Mustapha Milambo e il richiamo al ruolo dello Stato al quale si continua a guardare anzi che no. Nonostante tutto, nonostante i silenzi, le assenze, i depistaggi che hanno sempre a che fare con chi gestisce il potere istituzionale (chi mai poteva cancellare le mail dal pc di Luca Attanasio subito dopo la sua morte?), i famigliari delle vittime continuano ad interpellare lo Stato perché il “tricolore avvolti nel quale sono tornati, ha detto Dario Jacovacci, che non li ha saputi difendere da vivi, possa almeno difenderne la dignità da morti”. Esattamente questo è ciò che vogliono i famigliari di Giulio Regeni e di Andy Rocchelli. Era ciò che volevano i famigliari di Ilaria Alpi. Ecco: ora tocca a noi, fare in modo che questa Commissione parlamentare di inchiesta ci sia e che non finisca come quella che fu istituita per la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, presieduta dall’on. Carlo Taormina. Di “rapine finite male” nessuno ci venga più a parlare. *Articolo21 Piemonte, Deputato Pd XVII Legislatura Tregua o no, Israele tiene i valichi chiusi: a Gaza gli aiuti non entrano di Eliana Riva Il Manifesto, 6 novembre 2025 In vista dell’inverno e con 1,5 milioni di palestinesi senza un riparo, milioni di kit termici, tende e coperte bloccati in Egitto e Giordania. In Cisgiordania la comunità di Umm al Kheir minacciata di demolizione: “È un atto di espulsione”. Israele non permette l’ingresso del materiale necessario ad affrontare l’inverno di Gaza. Il freddo e le piogge stanno arrivando ma gran parte della popolazione palestinese rimane senza un rifugio né una protezione che sia appena adeguata. Nove agenzie umanitarie internazionali si sono viste negare 23 richieste per quasi 4mila bancali. Milioni di kit termici, tende, biancheria, coperte sono bloccati in Egitto, in Israele e in Giordania mentre circa 260mila famiglie, quasi 1,5 milioni di persone, rimangono senza un riparo sicuro. “Abbiamo pochissime possibilità di proteggere le famiglie dalle piogge invernali e dal freddo - ha dichiarato ieri Angelita Caredda, direttrice del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) in Medio Oriente e Nord Africa - A più di tre settimane dall’inizio del cessate il fuoco, Gaza avrebbe dovuto ricevere un’ondata di materiali di rifugio, ma solo una frazione di ciò che è necessario è entrata. La comunità internazionale deve agire ora per garantire un accesso rapido e senza ostacoli”. L’Nrc guida, in Palestina, lo Shelter Cluster, un coordinamento di agenzie internazionali che provvede al rifugio delle popolazioni sfollate. In 21 casi su 23 Tel Aviv ha affermato che le organizzazioni non erano autorizzate a fornire aiuti umanitari, anche quando erano regolarmente registrate in Israele. Ma anche le associazioni a cui è “concessa” la consegna sono costrette ad attendere settimane, a volte mesi, sottoposte a meccanismi dalla gestione “opaca”, con fermi, ritardi e cambiamenti continui e immotivati. Una delle associazioni che fa parte dello Shelter Cluster, nonostante rispondesse a tutti i criteri unilateralmente stabiliti da Tel Aviv, è stata costretta ad attendere più di sette mesi per uno sdoganamento. “Nessuna famiglia dovrebbe affrontare l’inverno senza protezione - ha aggiunto Caredda - Ogni giorno di ritardo mette a rischio delle vite umane”. Vite che continuano a spegnersi sotto i bombardamenti israeliani a Gaza. Anche ieri l’esercito ha dichiarato di aver ucciso due persone nel centro della Striscia. La motivazione ufficiale è sempre la stessa: chi attraversa la “linea gialla” è considerato un pericolo per l’esercito. Ma il confine tra la metà (e più) occupata dai militari e il resto di Gaza non è altro che una linea tracciata su una mappa. Quella controllata dall’esercito è un’area da distruggere con le demolizioni, da cui partono droni e colpi di artiglieria. Dove in superficie i membri di Hamas hanno il permesso di cercare i corpi degli ostaggi israeliani, mentre sottoterra duecento combattenti provano a negoziare un ritiro sicuro. Li vorrebbe ammazzare tutti il ministro israeliano delle finanze Bezalel Smotrich. In un’intervista al Jerusalem Post ha dichiarato che è necessario “eliminarli” e che i militari “stanno per ucciderli nei tunnel”. Anche il ministro della difesa, Israel Katz, ha detto che “l’esercito sta lavorando per distruggere i tunnel ed eliminarli senza alcuna limitazione”. Tuttavia, il capo di stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, ha aperto a una possibilità. A quanto pare è proprio nei tunnel nei pressi di Rafah che si trova il corpo di Hadar Goldin, soldato israeliano ucciso e rapito da Hamas il primo agosto 2024. Nei quattro giorni successivi al rapimento, Israele lanciò una violenta azione militare su Rafah che portò alla morte di circa 150 persone, tra cui molti bambini. Zamir ha dichiarato ieri che rimane in vigore l’ordine di uccidere tutti i combattenti e di distruggere le infrastrutture, aggiungendo, però, secondo Ynet News, che un passaggio sicuro potrebbe essere garantito, senza armi, in cambio della consegna del corpo di Goldin. In seguito alla fuga di notizie, i vertici militari hanno precisato di non avere notizie certe in merito e che al momento si tratterebbe solo di voci non verificate. Intanto, nella Cisgiordania occupata non si fermano le violenze. Quotidianamente vengono registrate e diffuse decine di violazioni e soprusi compiuti dai coloni e dai militari israeliani a danno della popolazione palestinese. Ieri una coppia di anziani coniugi è stata ferita dai coloni a sud di Hebron. Nel villaggio di Umm al-Rihan, a ovest di Jenin, i soldati hanno attaccato una fattoria, uccidendo più di 7mila polli d’allevamento. Anche a Wadi Fukin, nei pressi di Betlemme, è stata distrutta una struttura agricola. L’esercito abbatte case ed edifici di proprietà palestinese in terra occupata, dichiarando che mancano di “permessi”. Eidu Suleman, abitante e fotoreporter di Umm al-Kheir, a Masafer Yatta, ci ha detto che “la storia della demolizione delle case rappresenta uno dei modi, eticamente mascherati, per rimuovere i palestinesi dalla società, dalla loro terra e poi darla ai coloni israeliani per espandere i loro insediamenti”. Proprio a Umm al-Kheir, ieri, si è tenuta una conferenza stampa dei residenti, in seguito all’ordine israeliano di demolizione per 14 abitazioni. Khalil Hathaleen, il fratello di Awdah Hathaleen, l’attivista pacifista ucciso da un colono israeliano (che rimane a piede libero), ha dichiarato: “Questa non è una demolizione, è un atto di espulsione”. Nel 1993 persino la sentenza di un tribunale israeliano confermò che i terreni sono appartengono ai residenti palestinesi. “Abbiamo tentato tutte le strade legali - ci spiega Suleman. I governi mondiali devono fare qualcosa per proteggere le nostre case”.