5.837 denunce di trattamenti inumani in un anno: i clamorosi numeri delle carceri italiane di Stefano Baudino L’Indipendente, 5 novembre 2025 Il sistema penitenziario italiano continua a mostrare crepe profonde. Con un tasso di sovraffollamento che ha superato il 135%, oltre 63.000 persone sono detenute in spazi concepiti per meno di 47.000. In un solo anno, la popolazione detenuta è cresciuta di 1.336 unità. È in questo scenario che l’associazione Antigone lancia una campagna e una petizione per riportare la detenzione “entro i confini della Costituzione”. Il dato più eclatante arriva dagli Uffici di Sorveglianza: nel 2024 sono state accolte 5.837 denunce per trattamenti inumani o degradanti, il 23,4% in più rispetto all’anno precedente. Un numero che supera persino quello della condanna europea del 2013, la sentenza Torreggiani, che vedeva circa 4mila ricorsi pendenti. I ricorsi presentati ai Tribunali di sorveglianza dipingono un quadro desolante e uniforme da nord a sud del Paese. Si parla di “celle da quattro dove viviamo in sette”, di “finestre senza vetri”, di un’”invasione di ratti in tutti i locali e infestazione di insetti vari”. I detenuti denunciano “vitto insufficiente e scadente”, “mancanza di acqua calda”, “file mostruose per andare in bagno” e un “clima di paura”. Come se non bastasse, emerge una constatazione amara: “Non tutti si possono permettere di avere una vita da detenuto. È come essere un senza tetto”. Queste condizioni, giudicate in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, hanno portato a 10.097 istanze solo nel 2024, di cui ì5.837 accolte, concedendo ai ricorrenti uno sconto di pena o un risarcimento di 8 euro per ogni giorno di detenzione in condizioni illegittime. “Oggi assistiamo a quelle stesse violazioni, e in misura ancora maggiore, ma nella generale indifferenza - ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - guai se a condannarci è l’Europa, poco male se a farlo sono i nostri stessi giudici. Eppure, ogni condanna per trattamenti inumani è un richiamo alla nostra legalità costituzionale”. Il meccanismo risarcitorio è stato introdotto nel 2014 come rimedio al sovraffollamento in seguito alla condanna di Strasburgo, tuttavia sono tanti coloro che non chiedono il risarcimento, spesso a causa della “estrema fragilità di molti, in particolare stranieri”. Inoltre, Antigone denuncia una “enorme disomogeneità” nei tassi di accoglimento: si va dall’86,7% di Salerno al 27,8% di Catanzaro, a testimonianza di un’applicazione frammentaria e arbitraria del diritto. Di fronte a questa emergenza, la campagna “Inumane e degradanti. Il carcere italiano è fuori dalla legalità costituzionale” avanza una serie di proposte. Si chiedono misure deflattive immediate, come clemenza e un ampliamento significativo delle misure alternative, per raggiungere l’obiettivo “zero sovraffollamento”. Si propone di consentire telefonate quotidiane e di dare piena attuazione al diritto all’affettività. Secondo Antigone, è necessario un cambio di passo verso la modernizzazione: approvando un nuovo regolamento, installando telecamere negli spazi comuni e garantendo trasparenza su morti e suicidi. Altri pilastri sono il ritorno al sistema delle celle aperte per almeno otto ore al giorno, l’abolizione dell’isolamento disciplinare per i minori e la sua drastica riduzione per gli adulti, e un piano straordinario di assunzioni di personale qualificato. Non mancano le richieste di abrogazione di norme ritenute dannose, come il reato di “rivolta penitenziaria” e il cosiddetto “decreto Caivano”, accusato di aver “distrutto il sistema della giustizia minorile”. L’appello è anche a Regioni, ASL e Scuole per un coinvolgimento attivo. Già alcuni mesi fa, i garanti dei detenuti avevano inoltrato diverse richieste al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per cambiare il modo in cui vengono trattati i carcerati e migliorarne le condizioni di detenzione. Le istanze sono sfociate dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale, tenutasi a Roma lo scorso 18 giugno. Nello specifico, i garanti hanno chiesto che venga assicurato ai detenuti il diritto ad accedere ai colloqui intimi, che le celle vengano lasciate aperte durante il giorno, che in estate venga garantita l’ora d’aria tutti i giorni evitando le ore di caldo cocente (tra le 13 e le 15), nonché l’indulto per 16mila persone attualmente ristrette in carcere per reati minori. Comunicato CO.NA.M.S. “Grande preoccupazione per Circolare DAP su eventi nelle carceri” Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2025 Rischia di compromettere molti dei progetti faticosamente portati avanti da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e di tutto il Terzo settore. Con la Circolare n. 454011 del 21.10.2025 a firma del DAP- Direttore Generale dei detenuti e del trattamento, si è previsto che l’autorizzazione per gli eventi da svolgersi presso gli istituti ricomprendenti circuiti a gestione dipartimentale (ossia Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia, 41 bis) debba sempre essere richiesta alla sopra citata Direzione Generale, anche se previsti per soli detenuti del circuito di media sicurezza presenti nel medesimo Istituto. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza esprime a riguardo grande preoccupazione, atteso che la nuova modalità individuata, imponendo un forte livello di centralizzazione, rischia di compromettere molti dei progetti faticosamente portati avanti da cooperative, associazioni, mondo dell’educazione e di tutto il Terzo settore. Considerata la presenza di 8.800 detenuti di Alta Sicurezza distribuiti in molteplici carceri su tutto il territorio nazionale, tra i quali anche svariati istituti c.d. a ‘vocazione trattamentale’ (con percentuali di detenuti di AS estremamente basse, rispetto al complessivo numero di soggetti in media sicurezza), la centralizzazione della procedura autorizzatoria riguarderà la maggioranza degli istituti penitenziari del Paese, con un aggravio notevolissimo circa i tempi di definizione delle autorizzazioni e la conseguente inevitabile riduzione delle attività trattamentali, che dovrebbero invece rappresentare l’asse portante di una reclusione volta alla risocializzazione. Vista la drammatica situazione in cui versano gli Istituti penitenziari, ove il sovraffollamento non accenna a diminuire e la strutturale carenza di attività trattamentali rende più penosa e isolante la carcerazione, la scelta adottata dal Dipartimento rischia di consegnarci un carcere dove le occasioni di confronto con l’esterno, le opportunità di formazione e le possibilità di crescita culturale in favore dei detenuti saranno sempre meno. Viene peraltro svilito il ruolo dei Direttori d’Istituto, per i quali sarà ancor più complesso riuscire a realizzare le attività previste dalla programmazione annuale, frutto della loro diretta conoscenza dei singoli istituti e del territorio su cui insistono, nonché di uno stretto lavoro di collaborazione con il Terzo settore. Tutto ciò ci consegna un deciso arretramento rispetto al modello di esecuzione penale che l’ordinamento penitenziario, proprio nell’anno del suo cinquantenario, aveva immaginato e previsto. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza auspica, pertanto, un’interlocuzione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che possa riportare nell’alveo del ragionevole bilanciamento tra sicurezza e risocializzazione lo svolgimento delle attività trattamentali negli istituti di pena. Conferenza Volontariato Giustizia FVG: “Grave preoccupazione per la nuova Circolare del Dap” teleantenna.it, 5 novembre 2025 La Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Friuli Venezia Giulia esprime forte allarme per la circolare n. 454011 del 21 ottobre 2025, firmata dal Direttore Generale dei detenuti e del trattamento Ernesto Napollilo, che introduce nuove restrizioni sulle autorizzazioni per le attività di reinserimento sociale nei penitenziari. Il provvedimento accentra al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) la competenza a concedere autorizzazioni per tutti gli eventi trattamentali negli istituti con circuiti ad alta sicurezza, anche se destinati a detenuti di media sicurezza. Inoltre, impone richieste dettagliate con largo anticipo, senza tempi certi di risposta. La Crvg denuncia che tali disposizioni rischiano di bloccare molti progetti di reinserimento già avviati o in programma, aggravando le difficoltà organizzative dovute a sovraffollamento e carenza di personale. La circolare - si sottolinea - “lede il ruolo dei Direttori e dei Magistrati di Sorveglianza”, violando il principio costituzionale di rieducazione sancito dall’art. 27 della Costituzione. Per approfondimenti: info.crvg.fvg@gmail.com. Carceri: centralizzare o valorizzare la collaborazione? di un Volontario in una Casa circondariale di Tolmezzo (Ud) Avvenire, 5 novembre 2025 Desidero offrire una riflessione - con rispetto e spirito di collaborazione - sul tema delicato della realtà carceraria, in particolare riguardo al recente provvedimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che accentra a livello centrale le autorizzazioni per le attività culturali, ricreative e sportive destinate ai detenuti nei reparti di Alta Sicurezza e in quelli sottoposti al regime del 41 bis. Sono un volontario che da oltre trent’anni opera in un istituto penitenziario di Alta Sicurezza. Al momento, fortunatamente, non si registrano particolari difficoltà nel proseguire le attività ricreative e culturali. Tuttavia, mi domando se un accentramento così marcato non rischi di rallentare i tempi di risposta alle iniziative, rendendo più complesso l’avvio di nuove proposte da parte del mondo del volontariato. Le Direzioni degli istituti e la Magistratura di sorveglianza, che vivono da vicino le dinamiche quotidiane e conoscono le specificità locali, sembrano infatti le più adeguate a valutare la bontà e la sicurezza dei progetti proposti. Una gestione eccessivamente centralizzata, pur alleggerendo forse il carico burocratico, potrebbe indebolire la collaborazione virtuosa tra Amministrazione Penitenziaria e società civile che da sempre arricchisce il mondo delle carceri. Non intendo mettere in discussione l’operato del Dipartimento, ma semplicemente esprimere - come altri operatori e realtà associative hanno già fatto - un interrogativo costruttivo su un provvedimento che, per molti, resta difficile da comprendere. In conclusione, credo che favorire le iniziative culturali, ricreative e sportive renda la vita carceraria più umana, più vivibile e più orientata al reinserimento, contribuendo al tempo stesso a ridurre le tensioni e a restituire fiducia nelle possibilità di cambiamento. “Sorvegliare e punire”. Nel vocabolario del carcere due sole parole di Fabio Falbo L’Unità, 5 novembre 2025 Mi è stata ritirata una maglietta con la scritta “I detenuti sono persone” con questa motivazione: “Le frasi scritte non sono idonee al luogo di detenzione”. Il tono burocratico, quasi militaresco della relazione trattamentale che ho ricevuto richiama a una logica di controllo più che di rieducazione. Riduce l’intera esperienza della persona detenuta a una dimensione normativa, ignorando aspetti relazionali, emotivi ed evolutivi. E la nota psicologica? Scritta dopo un incontro di 10 minuti con chi vive in prigione da 20 anni. Sono Fabio Falbo lo “scrivano di Rebibbia”, sono detenuto da circa vent’anni su una pena di anni 22 e mesi 9, potevo accedere al beneficio del permesso premio almeno 10 anni fa se si pensa che l’ergastolano può accedervi a 8 anni di pena in aggiunta alla liberazione anticipata di anni due. Sono laureato in giurisprudenza, per la seconda laurea in scienze politiche ho abbandonato gli studi a pochi esami dalla fine per protesta non violenta. Attualmente sono iscritto a scienze della comunicazione e mi occupo di diritti umani. Ho sempre rispettato la Costituzione anche quando chi la rappresenta ha smesso di farlo. Ho seguito ogni indicazione dello Stato, studio, lavoro, rispetto delle regole, legami familiari solidi, eppure, ciò che ricevo in cambio non è riconoscimento, ma sospetto, non è valorizzazione, ma delegittimazione. La prima relazione di sintesi trattamentale l’ho avuta dopo circa 13 anni, anche quando l’ordinamento penitenziario prescrive che la relazione deve essere fatta nei primi 9 mesi e i vari aggiornamenti ogni sei mesi. La recente nota psicologica di settembre 2025 scritta da una psicologa che ho visto per soli 10 minuti circa, ha cambiato valore dalla precedente scritta a giugno 2025 da altro psicologo. Come si può scrivere una relazione con solo 10 minuti di conoscenza per una persona che vive da 20 anni in carcere? E come ci si può soffermare solo sulla professata innocenza senza spiegarne il motivo? Stessa cosa accade per la recente relazione dell’area trattamentale, con la differenza che la precedente scritta dalla stessa educatrice a giugno 2025 cambia a distanza di pochi mesi mostrando più il tono del comando che quello dell’osservazione. Il linguaggio usato: “il comportamento intramurario serbato dal detenuto continua ad essere caratterizzato dalla regolarità della condotta dal punto di vista disciplinare”. Come si evince ha un tono burocratico, quasi militaresco, richiama più una logica di controllo che di rieducazione, riduce l’intera esperienza della persona detenuta a una dimensione normativa, ignorando aspetti relazionali, emotivi, progettuali, evolutivi. “Serbato” è un termine arcaico e impersonale che suggerisce un comportamento trattenuto, imposto, non vissuto. Nel documento, inoltre, si legge che: “il Falbo sta assumendo un atteggiamento che appare sempre più finalizzato unicamente su questioni di attualità penitenziaria e su vicende personali inerenti ai compagni di detenzione, rendendosi rappresentante delle loro necessità, più che sul proprio percorso detentivo”. Come se occuparsi degli altri fosse una colpa, come se la coscienza civica fosse una deviazione dal trattamento. “Tanto si sta traducendo nell’assunzione e nel sostenimento di posizioni (…) particolarmente orientate all’ottenimento di una certa visibilità, esacerbate dall’idea interiorizzata dal Falbo di essere vittima di un accanimento/ complotto da parte degli organi preposti”. Si ricorda che “l’idea interiorizzata” è una formula che patologizza la denuncia. Non si confuta la mia posizione, la si traduce in sintomo. L’accanimento/complotto è un dato certo visto che senza spiegazione alcuna non sono potuto uscire dal reparto per circa quattro mesi, non posso più frequentare il corso sul programma radiofonico, mi è stata ritirata una maglietta con le scritte “i detenuti sono persone” e nel retro “lo scrivano di Rebibbia” senza ricevere il verbale attestante il ritiro e con questa motivazione: “le frasi scritte non sono idonee al luogo di detenzione”. “L’uso della negazione totale degli agiti devianti in espiazione continua (…) evidenzia la non accessibilità al possibile percorso di autoanalisi (…) in presenza invece di un’assunzione di responsabilità circoscritta a dei trascorsi criminosi altri rispetto a quelli per i quali si trova in stato detentivo”. Qui si compie il salto logico più grave, si confonde la revisione critica con la confessione, in barba a quello che ha scritto la Corte costituzionale con la sentenza numero n. 253/2019, visto che né la collaborazione è elemento indispensabile, né l’ammissione di colpa lo deve essere per accedere al beneficio del permesso premio. La revisione critica è riflessione, non abiura. Nonostante tutto, la relazione riconosce la mia condotta regolare, la partecipazione attiva al trattamento, il lavoro come scrivano, il percorso universitario, i legami familiari e l’impegno civico. Ma tutto questo viene oscurato da un linguaggio che non rieduca, ma sorveglia, che non accompagna ma giudica, che non valorizza ma che punisce chi pensa. La chiusura del programma di trattamento è emblematica: “Si desume allo stato una sostanziale incapacità del detenuto di affrontare criticamente le condotte devianti (…) necessario (…) incoraggiare un percorso responsabile di messa in discussione del vissuto antigiuridico (…) anche attraverso la possibilità di sperimentare il detenuto all’esterno per il tramite dell’ammissione al beneficio premiale ex articolo 30 ter O.P.” Si propone un beneficio, ma lo si condiziona a una “messa in discussione” che non può avvenire se si continua a negare la mia posizione di innocente, è una contraddizione che mina la credibilità dell’intero sistema. Una proposta di linguaggio alternativo potrebbe essere stata: “La persona detenuta ha mantenuto una condotta rispettosa delle regole dell’istituto, dimostrando continuità nel percorso di responsabilizzazione e di apertura al dialogo con l’equipe trattamentale. Si evidenzia una partecipazione attiva alle attività proposte e una disponibilità al confronto costruttivo”. Questo tipo di linguaggio umanizza la persona detenuta, riconosce il valore del percorso, favorisce una lettura evolutiva e non statica della condotta. Ma nel sistema attuale, chi mantiene una posizione di innocenza viene penalizzato, mentre a volte chi si piega viene premiato. E ‘il rovesciamento della logica costituzionale. Chi scrive queste relazioni non si rende conto che le parole sono pietre, le stesse che colpiscono chi ha scelto la via della legalità, della cultura, della non violenza. Pietre che non rispettano il dettato costituzionale e che costruiscono muri, non ponti. Io non ho il potere delle istituzioni, ma ho il potere della cultura, la stessa che metto a disposizione per i tanti che nonostante ricevano queste relazioni di sintesi non hanno gli strumenti per difendersi. E anche questo articolo, oltre ad essere la prova di ciò che succede in carcere, vi farà capire le angherie gratuite che diverse persone detenute devono subire nell’indifferenza totale. Salvis Iuribus. Detenuti psichici, il buco nero Rems e il “rimpallo” tra servizi sanitari di Maria Sorbi Il Giornale, 5 novembre 2025 Nelle strutture pochi posti e tante richieste Piantedosi: “Il sistema è da rivedere”. La storia di Vincenzo Lanni è (anche) la storia di una coperta troppo corta e di un sistema, sanitario e giudiziario, che sembra non essere mai sufficiente a risolvere le cose. Lanni è entrato in carcere per un accoltellamento e, dopo anni di Rems e di reinserimento sociale, ha ri-commesso lo stesso crimine, mandando all’aria tutto il percorso di rieducazione fatto. Eppure dalla fine del 2024 non era più considerato “socialmente pericoloso”. Ma gli educatori 4Exodus di Villadosia, la comunità in cui era ospite dal 2020, negli ultimi tempi avevano notato alcuni atteggiamenti che li avevano spinti a rivolgersi ai “servizi specialistici” che potessero supportare meglio Lanni. Un addio concordato quello dalla comunità, senza particolari strappi. Lo hanno accompagnato, o meglio, ci hanno provato: a metà tragitto Lanni ha chiesto all’educatore di scendere dall’auto (da uomo libero, ne aveva facoltà). E se ne è andato. Dopo poco era nell’hotel di Via Vitruvio di Milano e il resto è cronaca. Il caso riaccende una polemica che da tempo circola sottopelle: quella sui percorsi di recupero e sulle Rems, le strutture sanitarie che (nell’era post Basaglia) accolgono gli autori di un reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Di Rems in Italia ce ne sono una trentina, con circa 680 posti a disposizione e oltre 700 persone in attesa di essere accolte. Persone che, per decisione del giudice, non possono tornare in libertà ma neppure restare in carcere, perché il loro reato è stato commesso in stato di incapacità di intendere e di volere. In teoria, dovrebbero essere curate. In pratica, molte restano per mesi - in alcuni casi oltre un anno - negli ospedali civili o nei penitenziari, in attesa che si liberi un posto. Succede ovunque, da nord a sud. “Dovremo forse riconsiderare anche una terza via tra il passaggio dalla pratica dei manicomi a quello che è avvenuto dopo. Tutte le variabili del voto al referendum sulla Giustizia di Antonio Polito Corriere della Sera, 5 novembre 2025 La campagna “contro”, i mediani e i populisti. Nello schema bipolare del referendum l’elettore non polarizzato può essere decisivo. Considerando le Politiche e il voto sul Jobs act, i due fronti di centrodestra e centrosinistra partono alla pari. Chi vincerà il referendum sulla Giustizia? Qualche semplice calcolo può aiutarci a capirlo. Partiamo dagli schieramenti elettorali. Al massimo del suo successo, e cioè alle elezioni politiche del 2022, il centrodestra ha ottenuto 12.305.000 voti. Mentre l’elettorato di sinistra-5 Stelle, al punto più alto della sua mobilitazione contro il governo, ha raggiunto 12.250.000 voti nel Sì al referendum sul Jobs Act. Praticamente alla pari. Se dovessimo dunque fare previsioni fondate sulle preferenze politiche degli elettori, se ne potrebbe dedurre che vincerà lo schieramento capace di fare il pieno, di portare alle urne tutta la propria gente. Conterà, in altri termini, l’affluenza. E qui, nonostante una piccola “fronda riformista” nel Pd, è il centrodestra a partire in leggero svantaggio. Non solo perché il suo elettorato è di solito meno attivo e più pigro. Ma anche perché è molto più facile mobilitare “contro” qualcosa, piuttosto che “per” qualcosa. È la ragione per cui i referendum senza quorum, come sarà questo sulla Giustizia, sono delle trappole per i governi: consentono ai nemici il gioco del “tutti contro uno” (una, in questo caso). La coalizione guidata da Giorgia Meloni dovrà dunque trovare un modo per convincere i propri elettori che c’è in gioco qualcosa di molto grosso, che va oltre la riforma della Giustizia e riguarda l’allineamento politico dei prossimi anni. Ma, naturalmente, più politicizzerà la consultazione e più galvanizzerà anche i suoi avversari, con il rischio che una eventuale sconfitta abbia poi conseguenze politiche sul governo: non basta infatti dichiarare che non le avrà, per scongiurarle davvero. Vediamo ora il secondo livello di questa specie di gioco delle matrioske: l’elettorato “mediano” non polarizzato, che non vota cioè per appartenenza a uno dei due poli. Si dice da tempo che il centro non c’è più, o almeno che non si vincono più le elezioni al centro, perché l’elettorato si è polarizzato su un gran numero di questioni, ed è sempre meno disposto a traversare di volta in volta, scegliendo laicamente, la linea che divide i due schieramenti. Ma in realtà nel caso del referendum, come in qualsiasi consultazione a tendenza bipolare (per esempio i collegi uninominali), l’elettorato “mediano” può essere decisivo proprio perché marginale. Alle passate elezioni politiche Azione più Italia viva hanno ottenuto 2.200.000 voti. È difficile dire di quale schieramento si sentano oggi parte quegli elettori (lasciamo stare i leader). Ma, in ogni caso, anche tra coloro che non sono di centrodestra ci saranno molti favorevoli alla riforma della Giustizia del centrodestra, a causa delle origini (liberali e garantiste) dei due partiti. Un caso ancor più interessante sono i quasi 800.000 voti ottenuti alle elezioni politiche da +Europa. Nella discendenza radicale la separazione delle carriere tra pm e giudicanti dovrebbe essere un valore assoluto, anche se oggi quel partitino è schierato nettamente all’opposizione del governo Meloni. Dunque si può dire che, nel complesso, c’è una massa di quasi 3 milioni di elettori “mediani/razionali”, che potrebbero davvero decidere l’esito della consultazione referendaria. Infine, l’ultimo livello della matrioska: gli elettori “populisti/arrabbiati”. La questione Giustizia (o, meglio, la questione Procure) è stata in Italia l’innesco della grande onda populista che per un paio di legislature ha sconvolto il panorama politico nazionale. Ma la lunga guerra combattuta in Italia tra “giustizialisti” e “garantisti” ha diviso anche quel fronte. Nell’elettorato “arrabbiato” che stava con Grillo molti considerano i giudici la migliore, se non l’unica garanzia dei loro diritti, mentre disprezzano la politica. Ma in quella parte che è passata prima con Salvini e poi con Meloni ci sono invece anche quelli che ce l’hanno con le Procure “rosse”, la Corte dei conti, la Corte costituzionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo, e chi più ne ha più ne metta. Come sono orientati in materia di giustizia, per esempio, i 500 mila e passa elettori di Italexit delle ultime elezioni politiche, una specie “orbaniana” indigena? E come sono orientati, dall’altro lato, gli elettori dell’estrema sinistra, da Potere al popolo ai centri sociali, non esattamente dei “legalitari”? Dunque l’esito del referendum, per la prima volta dopo molto tempo, è un rebus avvolto in un mistero dentro un enigma. Nessuna delle tre matrioske ci dà una risposta sicura. Saranno forse più importanti ai fini del risultato finale gli eventi che si svolgeranno da qui al giorno del voto. E sospetto che a questo stiano pensando i leader del Sì e del No, più che alla pantomima dei comitati e dei testimonial: ognuno si interroga se può accadere qualcosa che influenzi gli elettori molto più della disanima tecnica sui dettagli della riforma. Facciamo un esempio: Garlasco. Vicenda ormai seguita dall’opinione pubblica italiana con un’attenzione superiore (ahinoi) a quella dedicata alla guerra in Ucraina. Uno sviluppo pro o contro i pm della saga potrebbe avere la stessa forza mediatica che la vicenda di Enzo Tortora ebbe nel far vincere il sì nel referendum sulla responsabilità civile dei magistrati del 1987 (d’altra parte di “cold case” che possono essere riaperti con un colpo di scena giudiziario ce ne sono parecchi). Effetti rilevanti, nonostante una certa assuefazione, potrebbe avere una nuova inchiesta su politici di primo piano. Da qui alla primavera, tutto ancora può cambiare. Ne vedremo delle belle. Giustizia, al via l’impar condicio referendaria di Vincenzo Vita Il Manifesto, 5 novembre 2025 È partita la campagna referendaria sulla giustizia. Com’è noto, la modifica costituzionale su cui si basa il referendum confermativo ha poco a che fare con la separazione delle carriere tra l’attività requirente e quella giudicante, mentre si tratta di un esplicito tentativo di mettere sotto il controllo del governo i pubblici ministeri. Del resto, essendosi già realizzato di fatto l’obiettivo della separazione con il decreto dell’ex ministra Cartabia, l’unico sbocco di qualche logicità dell’odierna forzatura è proprio la cavalcata nera (anche) sulla magistratura. Nella costruzione (non solo italiana, ovviamente) della “democratura”, parola poco bella sul piano fonetica ma efficace crasi tra democrazia e dittatura, l’attacco repressivo ai contropoteri delle toghe e dell’informazione è essenziale. E suppone che nessuna istituzione possa svolgere indagini sulla legittimità dei ceti dirigenti allargati. Dovranno essere redatti a breve i regolamenti attuativi della legge sulla par condicio (l. 28 del 2000) da parte dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e della Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi. Così recitano le norme, che naturalmente chiedono pari opportunità tra il SI e il NO. L’astensione in questo caso non ha cittadinanza su tempi e spazi. Va sottolineato, però, che la campagna è in corso da mesi senza alcun equilibrio e attraverso una imbarazzante quantità di programmi televisivi non ricondotti alle testate, in cui la magistratura sembra una sorta di pungiball senza reale contraddittorio. La crescita fortunata del crime come formato dei palinsesti ha lavorato in profondità, con il pendant del rilancio sui social. L’ossessivo martellamento sul caso di Garlasco è un esempio di scuola, che farà da cesura rispetto alla classica suddivisione delle modalità di esposizione mediale delle differenti posizioni. Con il tragico evento del 2007 - con la morte della povera Chiara Poggi- si è costruita una fiction quotidiana, popolata da persone svariate (chissà come scelte) e con i giudici brutti e cattivi a mo’ di convitati di pietra. Intendiamoci. Che vi siano stati plateali errori nell’inchiesta è assai probabile, Tuttavia, se il mezzo è il messaggio, ecco che siamo al cospetto di una struttura scenica e di un’apparecchiatura discorsiva più o meno a senso unico. La vicenda del comune della provincia di Pavia si unisce alla ripresa con tinte di spettacolarizzazione e con il contorno cospirativo dell’omicidio di Simonetta Cesaroni del 1990, o dell’assassinio avvenuto nel 2010/2011 della tredicenne Yara Gambirasio. Ci fu il precedente di Sarah Scazzi ad Avetrana, ma allora non si votava. Ciò significa che simili trasmissioni vanno sospese nel periodo referendario? Sarebbe un precedente, ma forse si rende doveroso, restituendo il racconto su simili crimini alle strette esigenze della notiziabilità. Il discorso è molto serio e ne ha scritto recentemente anche Carlo Freccero. Ci si aspetta, comunque, un indirizzo al riguardo della campagna (già in atto) da parte degli organismi competenti. I Regolamenti formali dovranno attendere la decisione della data della consultazione, che oscilla tra fine marzo e aprile del 2026, e che muterà a seconda che vi siano o meno raccolte di firme delle cittadine e dei cittadini, oltre a quelle parlamentari. Comunque, nella recente riunione della Via Maestra promossa dalla Cgil insieme a decine di associazioni si è cominciato a definire il quadro. Oltre ai canonici Comitati è indispensabile immaginare uno specifico gruppo di lavoro volto a informare e controinformare, vigilando sull’offerta comunicativa dei diversi media. Non solo i vecchi mezzi, però. Urge scandagliare la propaganda che corre sui e nei social, fuori da leggi e normative, salvo un’utile Linea guida varata dall’Agcom. PS: si è levato un coro vasto e forte contro i comportamenti dell’Autorità Garante dei dati personali dopo la multa comminata a Report e gli intrecci non commendevoli con Fratelli d’Italia e non solo. Nella pur discutibile Prima Repubblica le lettere di dimissioni sarebbero state vergate senza se e senza ma. Il pm “pilotato” dall’Esecutivo? Questa riforma dice il contrario di Oliviero Mazza Il Dubbio, 5 novembre 2025 Nel dibattito sulla separazione delle carriere sono intervenuti ieri due autorevoli esponenti della sinistra, Augusto Barbera e Luciano Violante, il primo favorevole e il secondo contrario. Il pluralismo di idee all’interno della sinistra è la miglior riprova di quanto sosteniamo da tempo e cioè che questa non è una riforma che può essere incasellata nelle categorie dell’appartenenza partitica, ma che va valutata semplicemente sul piano delle garanzie. Dunque, anche nella sinistra, come del resto in ogni altro schieramento politico, vi sono diverse sensibilità per il garantismo e questo è un dato certamente positivo che va sottolineato. Luciano Violante è preoccupato per la creazione della “casta dei pubblici ministeri”, così allineandosi all’argomento principale del fronte del no. La sua riflessione presenta però anche un elemento di novità fondato sulla comparazione: in ogni altro Paese in cui vige la separazione e un processo di ispirazione accusatoria l’azione penale è discrezionale e i pm sono sottoposti all’Esecutivo. Il pm separato e indipendente sarebbe un’anomalia tutta italiana destinata a durare poco, al punto che Violante pronostica due possibili esiti: o si introduce il controllo politico sui pm oppure si riforma la riforma. La conclusione è palesemente errata e svela il difetto di tutto il ragionamento. I due possibili esiti non sono alternativi, ma finiscono per sovrapporsi. Se si volesse sottoporre il pm all’Esecutivo bisognerebbe cancellare la riforma appena approvata e scriverne un’altra di segno opposto. Quello che certamente non sfugge a Violante, ma che viene intenzionalmente nascosto da tutto il fronte del no, è che la riforma introduce, per la prima volta, una precisa garanzia costituzionale di indipendenza del pm, garanzia che fino ad oggi non era così precisamente costituzionalizzata. Il nuovo art. 104 Cost. afferma, senza alcuna ambiguità, che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. A fronte di questa perentoria asserzione, che assicura una precisa guarentigia di indipendenza anche al pm, al quale non è più riservata la sola previsione “estensiva” dell’art. 107 comma 4 Cost., il “processo alle intenzioni” appare del tutto fuori luogo, a meno che non si voglia inquinare la discussione accreditando per verità fattuali quelle che in realtà sono semplicemente illazioni senza fondamento, provenienti da una parte direttamente interessata dalla modifica del suo stato giuridico. Non è buon metodo quello di giudicare i contenuti della riforma astraendo dal nuovo testo e facendo riferimento alla presunta e recondita volontà del legislatore storico, peraltro da attuarsi in totale difformità dai nuovi assetti costituzionali. Sarebbe davvero stravagante, ai limiti della pura follia politica, se l’attuale maggioranza, appoggiata da una parte della minoranza, volesse perseguire il controllo della magistratura inquirente, rafforzandone l’indipendenza. Sarebbe come dire che, una volta approvata la separazione delle carriere, bisognerà portare a termine il callido disegno egemonico attraverso una nuova riforma costituzionale che abroghi l’art. 104 Cost. appena novellato. Siamo ben oltre un’ipotesi del tutto irrealistica, si accreditano come dati oggettivi quelli che sono, a ben vedere, solo presagi di sventura che i novelli aruspici traggono dalle viscere del presunto retropensiero legislativo. Non si può condurre l’analisi del testo costituzionale con la tecnica dell’extispicio. La riforma è chiara e i cittadini hanno il diritto di essere correttamente informati: si prevede un pm indipendente e separato dal giudice, piaccia o non piaccia ai cultori del sospetto occultato dalla presunta incoerenza del modello. L’indipendenza, del resto, è il comune denominatore dell’intera riforma: non solo un pm indipendente dal potere politico, ma anche un giudice indipendente dal pm e una magistratura, nel suo insieme, indipendente dalle lobby delle correnti. Lo spettro del controllo politico sulla magistratura, il kraken incarnato dal pubblico ministero superpoliziotto, è solo una fallacia retorica che consiste nel distrarre l’interlocutore da un punto chiave, introducendo un argomento falso e irrilevante. L’inconfessabile ragione dell’avversione ideologica alla riforma risiede altrove e va individuata in una questione di potere autoreferenziale che certamente, se fosse dichiarata, non troverebbe l’appoggio popolare: il rifiuto del sorteggio per i componenti togati dei futuri Csm e dell’Alta Corte disciplinare. Il sorteggio, però, è la risposta al quadro “sconcertante e inaccettabile” denunciato dal Presidente Mattarella all’indomani dello scandalo Palamara. Solo un magistrato libero da vincoli di corrente, infatti, potrà decidere in scienza e coscienza chi siano i migliori colleghi da nominare agli incarichi direttivi. Il sorteggio è il rimedio estremo a un male estremo che ha “prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica”, citando ancora le parole Capo dello Stato. Queste sono le macerie lasciate dalla perversione del correntismo politico della magistratura, che non vanno mai dimenticate, e su di esse bisogna edificare un nuovo organo di governo autonomo che sia libero da ogni condizionamento e che faccia dei Csm, come dell’Alta Corte, organi tecnici e non più politici nel senso deteriore del termine. La nuova architettura costituzionale sottende precise scelte di valore in favore dell’indipendenza della magistratura. Chi si oppone al sorteggio dovrà prima o poi rispondere a una semplice domanda: perché un qualunque magistrato, una volta sorteggiato, non sarebbe in grado di ricoprire il ruolo di consigliere del Csm e di decidere le carriere e le promozioni dei colleghi, quando tutti i giorni, nelle aule di giustizia, assume decisioni ben più rilevanti sulla libertà, sui beni e sulla vita di qualunque cittadino? Il Csm, come detto, è un organo tecnico- amministrativo, non una terza camera politica, e le decisioni da assumere al suo interno non sono più rilevanti o più complesse o comunque diverse da quelle che un magistrato affronta nel suo quotidiano lavoro. Delle due l’una: o si ha il coraggio di dire che il magistrato di prima nomina di un remoto ufficio giudiziario non è in grado di incidere sulla vita professionale dei colleghi, e allora non dovrebbe nemmeno poter decidere della vita dei cittadini, oppure bisogna avere l’onestà intellettuale di rivendicare un ruolo politico per un Csm di eletti, proprio quello che ha portato al caso Palamara. Ragioni per contrastare la separazione delle carriere senza sposare le posizioni della magistratura di Giorgio Gori* Corriere della Sera, 5 novembre 2025 Nell’editoriale che ha dedicato al “dilemma dei riformisti del Pd” di fronte al referendum sulla separazione delle carriere, Angelo Panebianco li immagina tra l’incudine e il martello, schiacciati tra un “sì” che riaffermerebbe la loro identità ma che li esporrebbe a passare da traditori della “causa” - il tentativo di usare il referendum per dare una spallata al governo Meloni - e un “no” che li vedrebbe tradire le proprie idee, piegati al diktat della segreteria Pd. Non prende con ciò in considerazione che tra loro - oltre a molti riformisti che sosterranno la riforma senza alcun timore di passare da amici del giaguaro - vi sia chi intende votare “no” proprio in nome del garantismo, per ragioni quindi diverse da quelle imbracciate dalla magistratura e da buona parte della politica; che è invece precisamente la posizione che qui vorrei sostenere. Premessa: considero, da garantista, prioritario l’obiettivo di dare piena realizzazione all’articolo 111 della Costituzione, e so bene che il tema della separazione delle carriere ha storicamente rappresentato un “cavallo di battaglia” del mondo liberale. Tuttavia: - credo che, la riforma Cartabia abbia già fatto il grosso del lavoro limitando a uno i possibili passaggi da una funzione all’altra, purché all’inizio della carriera e prescrivendo il trasferimento in altra regione. Ne è prova che i passaggi sono già oggi rarissimi: negli ultimi cinque anni - quindi anche prima della legge Cartabia - solo lo 0,83% dei pm ha chiesto il passaggio a giudice e lo 0,33% da giudice a pm; - non penso che ciò che residua in termini di “non separazione” - la condivisione del percorso formativo e del Csm, oltre a quell’unico passaggio di funzione che la norma oggi consente - rappresenti un effettivo ostacolo al perseguimento dell’obiettivo costituzionale. Non credo cioè ponga davvero pubblici ministeri e giudici in una condizione di promiscuità tale da alterare le condizioni di parità tra accusa e difesa di fronte al giudice, a danno dell’imputato; perché, se fosse il contrario, il contrasto della “pericolosa contiguità” tra i due ruoli dovrebbe estendersi ben oltre le previsioni della riforma, a comprendere la separazione delle sedi di lavoro, degli esercizi pubblici frequentati dagli uni e dagli altri, ecc.; - in realtà, l’abnorme differenza tra le richieste delle procure e le decisioni dei giudici (64% di archiviazioni, 60% di assoluzioni per i casi che arrivano a processo) parrebbe segnalare una significativa indipendenza della funzione giudicante rispetto a quella inquirente, già oggi; - considero un fatto positivo - da non cancellare - che pm e giudici condividano la stessa cultura giuridica, e che i pm non si formino in una prospettiva esclusivamente accusatoria. Vedo infatti il rischio che la postura esclusivamente accusatoria delle procure possa essere rafforzata dalla “corporativizzazione” del ruolo, sottratto ad ogni controllo e sempre più saldato a quello della polizia giudiziaria; - è questo a mio avviso il profilo più critico della riforma. Molti paventano che la separazione sia un passo destinato a portare la funzione inquirente sotto il controllo del governo. È un timore che non condivido, a partire dal fatto che in molti Paesi le cose stanno così (separazione/dipendenza dei pm dal governo/discrezionalità dell’azione penale) e non per questo si tratta di Paesi meno democratici. Piuttosto, è la nascita di una “corporazione dei pm”, del tutto autoreferenziale, che dovrebbe preoccupare, per la totale discrezionalità che la saldatura con l’obbligatorietà dell’azione penale porrebbe nelle mani dei magistrati inquirenti. Se l’obiettivo della riforma è limitare il potere delle procure, a me pare invece che finisca per rafforzarlo; - non penso che la nascita di due distinti Csm e il meccanismo del sorteggio dei membri togati siano destinati a ridurre in modo significativo il peso delle correnti, se è vero che il 96% dei magistrati è iscritto all’Anm e appartiene ad una corrente; temo che queste potranno invece riorganizzarsi tra i sorteggiati e continuare a esercitare la loro influenza; - infine, non considero ininfluente come si è giunti all’approvazione della riforma: scritta dal governo, è passata attraverso quattro letture parlamentari senza che ne toccassero una virgola; e onestamente non s’è mai vista una riforma della Costituzione imposta in questo modo tanto alla maggioranza che all’opposizione. Non che in Italia manchino i problemi della giustizia - e non mi riferisco solo alla lentezza dei procedimenti, alla carenza di personale, al disastro delle carceri, ecc. -: eccesso di detenzione preventiva, panpenalismo - fortemente accentuato dal governo in carica -, rapporto tra polizia giudiziaria e pm, circuito perverso procure-giornali, intercettazioni pubblicate (e prima ancora a volte “interpretate” a vantaggio dell’accusa), impossibilità per l’imputato di poter minimamente contrastare tutto ciò: ce ne sarebbe da fare. Tra tanti guai, non mi pare sia però documentabile un reale difetto di terzietà del giudice. Questo penso, senza la pretesa di rappresentare altri che me stesso. Ritengo vi siano buoni argomenti per opporsi alla riforma senza per forza schiacciarsi sulle posizioni della magistratura, o adottare toni apocalittici, come se ci trovassimo di fronte ad un sovvertimento degli equilibri democratici: non credo sia così. Mi piacerebbe che la questione fosse dibattuta senza dare luogo ad uno scontro all’arma bianca tra una parte e l’altra. Temo non succederà, ma credo che a noi riformisti tocchi almeno l’onere di provarci. *Europarlamentare del Partito Democratico Separazione delle carriere: Falcone tradito dalle citazioni false di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2025 Un’intervista inesistente, una frase mai detta, un pensiero stravolto: come viene manipolato per difendere uno status quo che lui stesso criticava. Dopo un recente articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano, sui social è tornata a circolare un’immagine di Giovanni Falcone con una citazione in cui gli si attribuisce un monito contro la separazione delle carriere: “Una separazione delle carriere può andar bene se resta garantita l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. Ma temo che si voglia, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all’esecutivo. Questo è inaccettabile”. La frase sarebbe stata pronunciata in un’intervista a Repubblica del 25 gennaio 1992. C’è un solo problema: quella intervista non esiste. Chiunque abbia accesso all’archivio storico di Repubblica può verificarlo. Il 25 gennaio 1992 non c’è traccia di alcuna intervista a Falcone. La frase, peraltro, non è nemmeno nel suo stile. Giovanni Falcone non si esprimeva mai in slogan. Era un magistrato che ragionava in profondità, che pesava ogni parola, che non cedeva mai alla demagogia del momento. Nell’archivio di Repubblica ci sono invece tante altre sue interviste. Una in particolare merita di essere letta: quella del 26 settembre 1990, realizzata da Giuseppe D’Avanzo. Come questo passaggio che oggi riceverebbe linciaggi: “Sta sostenendo che il pm deve essere non più dipendente dal Giudiziario ma ricadere nella sfera dell’Esecutivo?” chiede D’Avanzo. Ecco cosa risponde Falcone: “So che questa è un’accusa. Bene, di per sé non mi scandalizzerebbe un pm dipendente dall’Esecutivo. Non stiamo discutendo di categorie immutabili, ma di scelte di politica legislativa. Ciò che va bene in un paese può non andare bene in un altro e l’Italia è uno dei pochissimi paesi dove la pubblica accusa non è dipendente dall’Esecutivo. Tuttavia, ciò non è servito un granché nella lotta contro la criminalità organizzata. Anch’io, comunque, sono convinto che, nell’attuale momento storico, l’indipendenza del pm vada salvaguardata e protetta. Ma l’indipendenza non è un privilegio di casta”. Proviamo a immaginare oggi un magistrato che dica pubblicamente “di per sé non mi scandalizzerebbe un pm dipendente dall’Esecutivo”. Sarebbe linciato in piazza. Falcone invece aveva il coraggio intellettuale di dire cose scomode, di ragionare fuori dagli schemi, di non rifugiarsi nelle frasi fatte. Il vero pensiero di Falcone - Alla fine degli anni Ottanta l’Italia ha cambiato il processo penale. Il nuovo codice - la riforma Vassalli - ha introdotto un modello accusatorio: il pubblico ministero diventa “parte” nel processo, come l’avvocato difensore, e il giudice deve restare neutrale. Falcone aveva le idee chiare su cosa significasse questo cambiamento. Nel 1991, in un’intervista a Repubblica (quella sì, autentica), spiegava: “Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice”. E ancora: “Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri”. Il ragionamento era semplice: se nel nuovo processo il pm è una “parte”, non può più essere intercambiabile con il giudice. Servono formazione diversa, carriera diversa, competenze diverse. Già nel 1988, appena varato il nuovo codice, Falcone aveva detto in un convegno: “In un codice che accentua vistosamente le caratteristiche di parte del pm, è impossibile pensare che le carriere dei magistrati del pubblico ministero e quelle dei giudici potranno rimanere ancora a lungo indifferenziate”. Gli argomenti tabù - In un intervento pubblico del 1990, Falcone aveva messo sul tavolo con franchezza tutti i temi spinosi: “Io credo che bisognerà ridiscutere ed approfondire tutti i vecchi problemi di sempre: i criteri di addestramento e aggiornamento professionale del pm, la stessa unicità delle carriere con quella dei giudici, i criteri di valutazione e di progressione in carriera, il conferimento degli incarichi direttivi, la eventuale temporaneità degli stessi; la personalizzazione o meno degli Uffici del pm; i controlli istituzionali e le correlative responsabilità dei magistrati. Non possono esistere argomenti-tabù e difese quasi sacrali di istituti, come ad esempio quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Falcone non voleva zone franche, non voleva che nulla fosse intoccabile per principio. Parlava di “unicità delle carriere” come di qualcosa da “ridiscutere ed approfondire”, non come di un totem da difendere a ogni costo. Metteva persino in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale - che oggi alcuni considerano quasi un dogma costituzionale. Falcone non stava facendo una battaglia ideologica. Stava dicendo una cosa pratica: se cambi il processo ma non differenzi le carriere, rischi di lasciare tutto com’era. Il pm resta una specie di “quasi-giudice”, il giudice perde neutralità percepita, le garanzie si indeboliscono. Con la separazione, inoltre, lo stesso pm potrà avere una formazione adeguata, aggiornata e specializzata, visto che oggi viene preparato per svolgere un mestiere molto diverso da quello che dovrà poi di fatto praticare. Sono passati più di trent’anni dal codice Vassalli. Il processo è cambiato, ma la discussione sulla separazione delle carriere è ancora aperta e divisiva. Viene da chiedersi: chi ci ha guadagnato da questa ambiguità? E perché è così difficile completare la riforma che Falcone già riteneva necessaria nel 1988? La mistificazione - La frase inventata che circola sui social è funzionale a una narrativa precisa: quella di un Falcone che sarebbe stato contrario alla separazione delle carriere per timore di subordinare la magistratura all’esecutivo. Ma è esattamente il contrario della verità. Falcone non aveva paura di mettere in discussione le sacralità corporative. Non aveva paura di dire che un pubblico ministero dipendente dall’Esecutivo “non lo scandalizzerebbe”, pur ritenendo che nel contesto italiano l’indipendenza andasse salvaguardata. Non aveva paura di affermare che l’indipendenza non è un “privilegio di casta”. Chi oggi inventa frasi che Falcone non ha mai pronunciato, chi gli mette in bocca timori che non aveva, chi lo trasforma in un difensore dello status quo che lui stesso criticava, sta compiendo una doppia operazione: mistifica il suo pensiero e, soprattutto, gli manca di rispetto. Falcone non è un totem da tirare per la giacchetta a seconda delle convenienze. Non lo voleva essere in vita, non dovrebbe esserlo da morto. Il minimo che gli dobbiamo è leggere quello che ha davvero scritto e detto, non quello che qualcuno vorrebbe che avesse detto. Le sue parole sono lì, negli archivi, nelle interviste autentiche, negli atti dei convegni. Basta avere l’onestà intellettuale di andarle a cercare. E il coraggio di accettare che magari non dicono quello che fa comodo alla propria parte. L’infinita emergenza sicurezza. “Scudo penale” agli agenti, FdI ci riprova di Giuliano Santoro Il Manifesto, 5 novembre 2025 Per il Viminale i reati sono in aumento: la maggioranza è impantanata nei suoi stessi allarmi. Anche la Lega chiede nuove misure su minori, “islamizzazione” e cittadinanza. Fratelli d’Italia ci riprova: dopo le incertezze del ministro della giustizia Carlo Nordio e soprattutto i dubbi del Colle, che avevano impedito che nel decreto sicurezza dello scorso aprile comparisse la norma che avrebbe attenuato la possibilità per gli agenti di polizia di essere iscritti nel registro degli indagati, questa mattina alla camera il capogruppo Galeazzo Bignami insieme al vice Fabio Rampelli e, tra gli altri, al sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro presentano la proposta di legge per rivedere l’articolo 335 del Codice di procedura penale. Quella che disciplina la procedura attraverso cui avviene l’iscrizione nel registro delle notizie di reato ad opera del pubblico ministero. Il testo, a prima firma Bignami, si compone di un solo articolo: prevede che il pm debba svolgere “accertamenti preliminari” nei casi in cui sia ravvisabile “una causa di giustificazione relativa alla notitia criminis”. Lo scopo è quello “di evitare, se non strettamente necessaria, l’iscrizione nel registro degli indagati”. Lo spirito originario della legge è contenuto nella parte introduttiva, dove si fa riferimento ai “recenti fatti di cronaca, ad esempio, relativi all’iscrizione nel registro degli indagati per ‘omicidio colposo a seguito di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi’ dei due agenti che hanno risposto al fuoco e neutralizzato l’aggressore del brigadiere Carlo Legrottaglie, rimasto ucciso, hanno evidenziato una falla nell’attuale sistema, come disciplinato dal codice di procedura penale”. Insomma, questa volta il testo non parla esplicitamente di agenti di polizia, ma lo scopo della norma è sempre quello. E in questo modo viene presentata dagli esponenti di Fdi. Pare invece che il decreto pensato per accelerare le procedure di sfratto annunciato nei giorni scorsi non sarà all’esame del consiglio dei ministri di domani. Tuttavia, il fatto che dopo aver approvato il parlamento quel decreto sicurezza che ha comportato diverse forzature sia procedurali che di merito, la destra e il partito di maggioranza relativa sentano il bisogno di tornare sul luogo del delitto solleva dei dubbi sull’efficacia dell’azione del governo e delle forze che lo sostengono. Tanto più che su sfratti e tutela delle forze dell’ordine, due voci che quel pacchetto affrontava con proclami sbrigativi e mascelle protese, si assicuravano misure decisive. È come se il governo fosse rimasto vittima di una profezia che si autoavvera, perché dopo allarmi e tossine iniettate nel corpo sociale e che hanno pagato sul piano elettorale, i dati diffusi dal Viminale dicono che soprattutto nelle grandi città i reati sarebbero in crescita. “Con lo scudo per le forze dell’ordine e la velocizzazione degli sfratti Meloni segue la linea di sempre” riflette Peppe De Cristofaro che ha condotto la battaglia degli emendamenti sul ddl sicurezza prima che l’esecutivo ricorresse alla scorciatoia del decreto. Per il capogruppo di Avs al senato “le politiche securitarie di Meloni sono sbagliate. Con una destra tutta legge e ordine al governo, il paese è più insicuro di prima. Il che dimostra che non si governa con la propaganda”. I Numeri, come sempre, vanno interpretati. I freddi grafici dicono che sono in crescita (di poco, più 1,7%) i reati della criminalità “di strada”. Ieri, nella stessa giornata in cui è stato ricevuto per fare il punto a Palazzo Chigi, il ministro Matteo Piantedosi ha fornito la sua versione: la tendenza, afferma, indicherebbe la diminuzione dei dati rispetto all’anno passato. Domani, per altro, cade il secondo anniversario della firma dalla firma del Protocollo tra Italia e Albania sui centri per migranti, altro capitolo che riguarda più la voce della propaganda che quella dei fatti concreti. C’è un’ulteriore voce che confermerebbe la linea dell’affannosa produzione di emergenze a mezzo di emergenze: la Lega sarebbe in pressing per arrivare a un nuovo decreto che prevedrebbe “misure contro l’islamizzazione”, sui borseggi da parte dei minorenni e sull’allargamento della platea dei reati gravi per togliere la cittadinanza a chi delinque. Cremona. Progetto “Restart”, obiettivo reinserimento lavorativo dei detenuti di Giovanni Palisto Cremona Oggi, 5 novembre 2025 Istituzioni impegnate per il recupero e il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e di chi deve scontare pene alternative. Se ne è parlato su CR1 nell’ultima puntata di “Punto e a capo”. Tra gli ospiti, la direttrice del carcere di Cremona Giualia Antonicelli, che ha confermato l’arrivo di 40 nuovi agenti di polizia penitenziaria, anche se a breve potrebbero andarsene altrettanti per aver maturato il diritto al trasferimento. Con il progetto “Restart” viene rilanciato il tavolo di lavoro permanente sull’esecuzione penale. Oltre ai detenuti, sono coinvolti anche i condannati alle misure alternative. Il tavolo è coordinato dall’assessore alle politiche sociali Marina Della Giovanna, ospite di “Punto e a capo”. L’obiettivo è quello di far incontrare domande e offerta, ma non solo. “Inserimento lavorativo in funzione anti recidiva e poi una serie di problematiche legate in particolare alla situazione della casa circondariale, rispetto alle quali il livello locale non è decisivo, ma può fare attività di sensibilizzazione” ha detto Della Giovanna. Sono coinvolte anche le associazioni di categoria. “Le abbiamo incontrate individualmente, poi le abbiamo invitate al tavolo e a luglio le abbiamo anche invitate in carcere insieme alla direzione” ha aggiunto Della Giovanna. Un obiettivo importante anche perché i numeri parlano chiaro, come dice il Presidente dell’Ordine degli Avvocati Alessio Romanelli: “Chi ha avuto la possibilità di essere inserito in un contesto lavorativo, 2% di recidiva. Chi non l’ha avuto, 70% di recidiva. Sono numeri che parlano da soli”. Fondamentale la collaborazione con il carcere. Giulia Antonicelli, direttrice del carcere di Cremona, ha detto: “Il lavoro che cerchiamo di fare è quello di garantire e di assicurare quanto più possibile un’occupazione lavorativa quando i detenuti sono all’interno della casa circondariale. Ma è chiaro che anche in un’ottica di prevenzione dalla recidiva, lo scopo è quello di assicurare la possibilità di accedere al mondo del lavoro una volta che si trovano all’esterno dell’Istituto”. Trovare un’occupazione esterna consente anche di affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri. “Una delle vie fondamentali per combattere il sovraffollamento è proprio quella che abbiamo individuato prima - ha spiegato Antonicelli -, quindi quella di trovare tutti quei sistemi che siano funzionali a garantire un’uscita del detenuto”. Tra le più recenti attività extra in carcere, la visita dei ragazzi della Primavera della Cremonese. “E’ stato un momento che ha arricchito moltissimo la popolazione detenuta - ha raccontato Antonicelli -, ma credo anche la Cremonese, la squadra, perché effettivamente sono ragazzi che comunque hanno la stessa età. Molti ovviamente che hanno giocato erano ragazzi particolarmente giovani, si sono trovati ad affrontare una squadra, la cui prima squadra al momento è in Serie A, quindi sicuramente è stato un momento importantissimo”. Intanto sono arrivati ben 40 nuovi agenti della Polizia Penitenziaria, ma il timore, tutt’altro che remoto, è che a breve se ne vadano altrettanti per aver maturato il diritto al trasferimento. “Sì è vero - ha detto Antonicelli -, sono arrivati da poco nuovi agenti, sono arrivati in 40. Abbiamo avuto un incremento di 40 agenti che sono arrivati dal 185° Corso e quindi, ovviamente, in questo momento abbiamo avuto un rinforzo. Speriamo rimangano”. Treviso. Il progetto “Voci di dentro, voci di fuori” coinvolge 90 studenti e giovani detenuti csvbltv.it, 5 novembre 2025 90 studenti della provincia di Treviso coinvolti per la ventitreesima edizione del progetto “Voci di dentro, voci di fuori”, percorso di educazione alla cittadinanza attiva e alla legalità promosso dal Csv Belluno Treviso, in partnership con l’Ufficio scolastico territoriale - ambito di Treviso, l’Istituto penale per i minorenni di Treviso e il Cpia di Treviso. Per un nuovo anno scolastico il progetto riesce a offrire a studenti e studentesse delle scuole secondarie di secondo grado della provincia di Treviso l’opportunità di confrontarsi con i ragazzi detenuti dell’Istituto penale minorile, in un percorso che si fonda sull’incontro faccia a faccia tra mondi di vita differenti. L’esperienza favorisce nei giovani coinvolti - “di dentro” e “di fuori”, appunto - una riflessione sul significato del vivere insieme agli altri e sul riconoscimento dell’alterità. Obiettivo è promuovere la cittadinanza attiva, l’educazione alla legalità e una cultura del rispetto reciproco, attraverso un dialogo diretto, accompagnato da educatori, insegnanti e volontari. Il tema scelto per questa edizione è “Mille Volti, Mille Voci”, che sarà declinato attraverso quattro sotto-tematiche collegate a ricorrenze significative dell’anno scolastico: la Giornata contro la violenza di genere, dedicata alla riflessione sulle differenze di genere e sulla disuguaglianza; la Giornata della Memoria, per promuovere il rispetto delle differenze etniche, religiose, culturali e ideologiche; la Giornata contro il bullismo, per contrastare ogni forma di esclusione, prevaricazione o discriminazione, con particolare attenzione alla disabilità; infine, la Giornata della Legalità, per valorizzare il rispetto delle regole della convivenza civile e la cultura della giustizia. Ogni classe svilupperà una delle tematiche nel corso dell’anno, attraverso letture, laboratori, cineforum, incontri con testimoni, fino alla realizzazione di una raccolta multimediale. Il progetto, a numero chiuso, coinvolge i ragazzi detenuti dell’Ipm di Treviso e ben 90 studenti e studentesse di quattro classi quarte degli istituti superiori della provincia che hanno aderito: Itt Mazzotti, Iiss Riccati-Luzzatti, Liceo Duca degli Abruzzi, Istituto Besta. Il percorso si svilupperà fino a giugno 2026 con tre uscite e quattro incontri in aula per classe. Tra le attività centrali anche il progetto “Illegal Rap”, che esplora le potenzialità educative del linguaggio musicale, e “L’Arte del fare”, un insieme di laboratori paralleli aperti alla partecipazione volontaria degli studenti e delle studentesse anche in orario extrascolastico. Il progetto vede anche la collaborazione delle associazioni NATs per… Odv, La Prima Pietra, Amnesty International, Cco - Crisi come opportunità, Mani Tese, Fondazione Caritas Treviso e il patrocinio della Città di Treviso. Per i giovani detenuti, il progetto rappresenta un’occasione per coltivare relazioni positive, interrompere la ripetitività della vita in istituto e valorizzare le proprie capacità; per gli studenti, un’esperienza di confronto diretto con la realtà penale minorile e un’occasione di educazione alla legalità; per le scuole e i docenti, uno spazio di approfondimento interdisciplinare e di innovazione didattica; per le associazioni, uno strumento per diffondere la cultura della solidarietà e della cittadinanza attiva, e per l’Istituto un’occasione per sensibilizzare intorno alla realtà detentiva”, hanno commentato i promotori al recente incontro di avvio progetto presso il “Mazzotti”, che ha visto la presenza, tra gli altri, di Giancarlo Cavallin, presidente del Csv Belluno Treviso, di Barbara Sardella, dirigente dell’Ufficio scolastico di Treviso, e di Anna Durigon, dirigente scolastica del “Mazzotti”. Spoleto (Pg). “L’ipocrisia del carcere, convention del Movimento No Prison Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2025 Il Movimento No Prison organizza, presso la Cittadella di Assisi (Pg), la convention “L’ipocrisia del carcere” che si terrà giovedì 13 novembre dalle 15,00 alle 19,00 e l’assemblea degli aderenti venerdì 14 novembre dalle 10,00 alle 13,00. “L’ipocrisia del carcere” sarà il tema della lectio magistralis che terrà Luciano Eusebi, ordinario di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano, preceduta dai saluti di don Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, il tutto coordinato da Livio Ferrari, giornalista, scrittore, cantautore e portavoce del Movimento No Prison. “In queste ultime settimane - afferma il portavoce Livio Ferrari - sono state prodotte delle circolari che rendono ancora di più le carceri dei luoghi isolati e violenti, attraverso poi dei dispositivi che violano sistematicamente quanto disposto dall’art. 17 della legge n. 354/1975, dando poteri smisurati ai direttori. La prima centralizza e mette i bastoni tra le ruote a chiunque intenda organizzare negli istituti delle iniziative di carattere culturale, educativo, ricreativo e sportivo. La seconda calpesta il diritto alla salute delle persone ristrette prendendo a pretesto i “pendolarismi ospedalieri”. “Il controllo sociale in fondo non si è mai liberato della necessità di punire mentre, per decongestionare l’universo carcerario, serve introdurre un concetto essenziale: nessuno deve essere carcerato e perdere la libertà, salvo casi di particolare pericolosità e urgenza”. “Con la perdita della libertà si determinano una serie di effetti negativi: stigmatizzazione, vittimismo, depressione, aggressività, senso di fallimento, perdita di fiducia in se stessi, e di responsabilità, alterazione delle relazioni sociali, assuefazione alla cultura del carcere, ulteriore emarginazione; insomma il contrario della idealizzata rieducazione. Questo, insieme all’evidente fallimento delle altre funzioni del carcere (proporzionalità della retribuzione penale, efficacia della deterrenza), rende evidente la negatività dello stesso come soluzione dei reati e della devianza. Invece il carcere continua ad essere celebrato e incrementato come la soluzione migliore nell’interesse della sicurezza e della civile convivenza. Questa ipocrisia nasconde ben altre funzioni: controllo della marginalità, copertura dei reali problemi sociali irrisolti e della criminalità dei potenti, consolidamento del consenso elettorale, e molto altro Non è certo una scoperta recente”. “Le patrie galere sono ritornate indietro, a prima della riforma del 1975 di cui proprio quest’anno ricorre il cinquantennale, questo rende sempre più evidente che la strada per la residualità di questi luoghi è sempre più impervia”. Milano. Cultura contro la violenza. Dal teatro del Beccaria l’appello alle istituzioni di Jessica Castagliuolo Il Giorno, 5 novembre 2025 Una cultura aperta e capillare che trasforma, rende più umani e può persino farsi salvezza, antidoto potente contro le tante facce della violenza. Questo il tema al centro dell’evento che inaugura il Forum Cultura 2025 a Milano, che si è tenuto ieri sera al Teatro Puntozero Beccaria. A condurre l’appuntamento la direttrice de Il Giorno, La Nazione, Il Resto del Carlino e Quotidiano Nazionale, Agnese Pini, che ha tenuto le fila di un dibattito fatto di parole e intervalli di teatro offerti dai ragazzi della compagnia residente, composta anche da giovani detenuti. Sul palco pure le voci della cantante Paola Turci e del rapper napoletano Lucariello. Ancora, gli interventi di Giulia Minoli, presidente di Una Nessuna e Centomila, della filosofa Florinda Cambria Mechrì, dell’attrice Lisa Mazoni e del regista Giuseppe Scutellà. L’assessore alla cultura del Comune di Milano, Tommaso Sacchi, ha sottolineato: “Puntozero non è solo un teatro dentro a un carcere, ma uno spazio aperto, un istituto culturale che coinvolge i ragazzi. Andare in questi luoghi significa accogliere la città, dialogare con tutte le sue parti sociali. Dobbiamo saper parlare con le nuove generazione senza preconcetti. La cultura è un diritto della comunità. Certo, non basta l’accessibilità a un museo per contrastare fenomeni complessi come la violenza minorile. Ma stasera cerchiamo di mettere in fila esperienze positive, e di avere una voce costruttiva, anche critica, nei confronti delle decisioni politiche”. “È un sentimento doloroso ma reale: nel contrasto alla violenza di genere si fanno due passi avanti e cinque indietro. I numeri non sono dalla nostra parte. Quando pensiamo di aver fatto dei progressi, arrivano notizie drammatiche con la stessa, identica, dolorosissima narrazione”, ha detto Paola Turci, da tempo impegnata con la Fondazione Uno Nessuno e Centomila, che ha anche ricordato l’importanza di prevenire, cambiare il modello culturale, partire proprio dalla scuola e dalle nuove generazioni: “La cultura è educazione, ed è importante anche quella sessuo-affettiva. È cruciale insegnare ai ragazzi l’importanza del rispetto reciproco, della parità di genere e del riconoscimento dei confini. La musica, in questo contesto, funge da potente collante: è un linguaggio universale che aiuta a unirsi e a comprendersi”. Comprendersi anche nei contesti più difficili, grazie a un’intercapedine di libertà, come sa essere ovunque un teatro, ancor più se adiacente a un carcere minorile: “Dietro a quel muro ci sono le celle. Di inverno non c’è riscaldamento. Non è sempre facile lavorare qui dentro. Però quello che ci dà il teatro è far sì che la parola non sia solo qualcosa che vola via, ma che rimane. Io vedo che i giovani hanno un gran bisogno di tornare alla loro età, di ricevere affetto, e credo che uno dei mezzi per farlo sia proprio questo spazio”, dice Scutellà. Comunità e salute mentale. Pochi soldi, poco personale: la prevenzione serve fuori di Paolo Foschini Corriere della Sera, 5 novembre 2025 “Meno del 3,5% della spesa sanitaria totale in Italia è dedicato alla salute mentale e la maggior parte viene usata per le comunità residenziali dove però finisce solo il 3% di quanti avrebbero bisogno di essere seguiti: la prevenzione va fatta fuori”. Così Davide Motto, referente del Coordinamento nazionale Comunità di accoglienza (Cnca). Pochi soldi ma soprattutto usati male, che è anche peggio dell’esser pochi. E poco personale. Con una rete di comunità a cui si chiederebbero i miracoli, salvo scordarsi che “nessuno può esservi rinchiuso se non vuole, al netto di casi estremi regolati dai Tso”, e che “la vera risposta al tema dilagante dei disturbi psichiatrici sta nella prevenzione, cioè in una rete di operatori che si occupi delle persone a casa loro: vale a dire prima, non quando arrivano in comunità”. La riflessione è di Davide Motto, referente della salute mentale per Cnca che a sua volta è il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza. E la sua analisi parte naturalmente dall’aggressione di Piazza Gae Aulenti, a Milano, dopo l’arresto del 59enne Vincenzo Lanni che si è confessato accoltellatore di una donna che lui “non conosceva” - ha detto in sintesi - ma sulla quale ha scaricato la sua rabbia contro la comunità da cui era stato cacciato dopo aver scontato una pena precedente per una aggressione analoga compiuta anni fa. E come sempre avviene in questi casi a finire nel tritacarne dei commenti è il “sistema” - di cui la maggior parte parla senza sapere come funziona - che a quell’uomo aveva consentito un percorso o almeno un tentativo di recupero: perché costui era in giro libero anziché rinchiuso? La premessa di Davide Motto è che sul tema “esiste un Piano nazionale di azioni per la salute mentale (Pans) per il periodo 2025-2030 e il testo della Legge di Bilancio vi si riferisce esplicitamente con uno stanziamento di 80 milioni di euro nel 2026 per la sua implementazione. Ma due questioni - dice il referente di Cnca - restano aperte. La prima è che l’Italia destina alla salute mentale meno del 3,5% della spesa sanitaria totale. L’obiettivo doveva essere il 5% a cui aggiungere un ulteriore 2% per la neuropsichiatria d’infanzia e adolescenza più un altro 1,5% per le dipendenze patologiche. La seconda è una carenza di personale stimabile almeno al 30%”. Questo per il quanto. Dopodiché ci sono il come e il cosa: “La fetta maggiore della spesa è destinata al mantenimento delle comunità residenziali. Quasi il 43% a livello nazionale, addirittura il 70% in regioni come la Lombardia. Peccato che in comunità poi finisce solo il 3% delle persone che avrebbero bisogno di essere seguite. Tutte le altre sono sparse sul territorio. E in molti casi neppure riconosciute, perché per farlo servirebbero operatori che entrino in contatto con le famiglie in modo regolare. Si chiama prevenzione”. E di quella finora ce n’è poca o zero. E così restano le comunità. Ma come si fa per accedervi e chi decide chi ci va? “Sono i Servizi di salute mentale e i Centri psicosociali a fare le valutazioni delle persone che hanno in carico. Che a loro volta possono essere inviate in una comunità solo esprimendo un consenso: nessuno può esservi costretto salvo i casi di Trattamento sanitario obbligatorio, che prevedono procedure molto precise”. Argomento di cui le pagine di Buone Notizie si sono peraltro occupate a più riprese. Il problema però, più che l’ingresso dei pazienti, è la difficoltà di seguirli dopo l’uscita: “Le comunità sono o almeno dovrebbero essere concepite come luoghi di passaggio. Con funzioni non di reclusione bensì di riabilitazione verso la riconquista di sistemazioni di vita indipendenti. Ma è proprio lì che viene il difficile: perché fuori le persone sono sole. E infatti dal 2015 al 2023 la durata media di permanenza nelle strutture è passata da 756 a 1097 giorni”. Salute mentale. Sulla contenzione solo buone intenzioni ma nessuna scelta politica di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 5 novembre 2025 La Conferenza Stato Regioni ha approvato il 23 ottobre le “Linee di indirizzo per il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale” in particolare i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc), le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza e i Reparti Ospedalieri di Neuropsichiatria Infanzia e Adolescenza. Il documento non parte da un’analisi delle cause e del numero delle contenzioni, considerate come l’extrema ratio. Solo alcune Regioni hanno un sistema di rilevazione delle contenzioni e il documento ne ribadisce l’obbligo. La finalità è di superarle in modo graduale, ma il testo è privo di quella determinazione radicale espressa nel manicomio di Gorizia da Franco Basaglia di fronte al registro delle contenzioni “Mi no firmo” e ripresa da Giovanna Del Giudice con “E Tu slegalo subito”. A 47 anni dalla l. 180/1978, oltre il 90% degli SPDC è di tipo restraint. Sembra ferma la ricerca di prassi terapeutiche che assicurino un più avanzato punto di incontro tra i diritti a salute, dignità e libertà. Nonostante i gravi incidenti mortali (Francesco Mastrogiovanni, Elena Casetto, Wissem Ben Abdelatif) e diverse condanne, non si avverte la spinta ad abbandonare la pratica ed anzi vi sono rischi di regressione. Infatti, pur con le esperienze ed evidenze di efficacia degli SPDC no restraint, sopravvive una cultura operativa conservativa e, nonostante le raccomandazioni, finché persistono la contenzione meccanica e le porte chiuse non si sviluppano altri approcci. Dopo il “mi no firmo”, medici e infermieri aprirono i reparti, organizzarono assemblee per rendere protagonisti i pazienti, riconoscere loro diritti. Marco Cavallo lo fa ancora dopo oltre 50 anni. Eugenio Borgna ha indicato la via di una “psichiatria gentile” in grado di superare le prassi coercitive e gli SPDC che rischiano di diventare un contenitore chiuso nell’ambito di una cultura securitaria. La contenzione meccanica viene attuata nelle REMS (alcuni anni fa nel 25%) ma non è consentita dall’Ordinamento Penitenziario (art. 41 della legge 354/1975). La contenzione viene attuata anche nella neuropsichiatria infantile e per superarla si prevedono “piani crisi” e il coinvolgimento dei genitori nei percorsi di cura sebbene, in caso di contenzione, il loro consenso non sia espressamente richiesto. Di fronte alla sofferenza degli adolescenti, la contenzione come viene vissuta da chi la subisce? Quali effetti ha sui percorsi di cura, sull’autostima e come può riverberare sulla relazione terapeutica? La contenzione è proibita in ogni altro contesto educativo, familiare, scolastico e sociale. Sono note le complicanze fisiche e i vissuti riportati dalle persone sottoposte a contenzione: umiliazione, disperazione, perdita di autostima, rabbia, pensieri suicidari. L’ascolto e la collaborazione degli Utenti Esperti e delle associazioni potrebbe essere molto importante per abolirla sia in salute mentale ma anche in tutta la sanità e l’assistenza. Le linee di indirizzo sono “senza nuovi e maggiori oneri”: non vi sono risorse per il personale, né per modificare organizzazione e strutture, fare governo clinico, attività, psicoterapie, sostenere i familiari, creare spazi verdi. Dedicare attenzione alle persone, per prevenire la contenzione e assicurare benessere e sicurezza di tutti, compresi gli operatori. Non bastano le formazioni nella de-escalation. Le linee sulla contenzione consentono ai sanitari una grave limitazione alle libertà personali, senza che nessun magistrato possa essere informato e intervenire. Al di là delle intenzioni, l’impressione che questo documento finisca con il legittimare lo status quo senza affrontare i problemi di fondo e il tema dei diritti e tutela delle persone. *Dipartimento di Salute Mentale Dipendenze Patologiche di Parma Fine vita. Il destino della legge sul suicidio assistito si decide (di nuovo) in Corte costituzionale di Francesca Spasiano Il Dubbio, 5 novembre 2025 Il nodo che la Corte Costituzionale scioglierà nei prossimi giorni sul fine vita è talmente importante che il Parlamento, di fatto, ha messo in pausa i lavori sul ddl della maggioranza in attesa di conoscere la decisione dei giudici. Lo stallo sul testo firmato da Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Ignazio Zullo (Fratelli d’Italia) dipende ufficialmente dai pareri della commissione Bilancio, che ancora mancano, e senza i quali non si può procedere all’esame degli emendamenti nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama. Ma prima di tutto c’è un “dilemma” politico e tecnico, su cui senatori e governo aspettano una risposta: a chi spetta la competenza in materia di fine vita, allo Stato o alle Regioni? La questione è arrivata ieri davanti alla Corte, dove si è svolta l’udienza pubblica sulla legge della Toscana. La prima Regione, in Italia, a dotarsi di una norma propria: la numero 16 del 14 marzo 2025, approvata lo scorso febbraio e impugnata poco dopo dal governo. Per Palazzo Chigi, infatti, la legge violerebbe l’articolo 117 della Costituzione, che riserva allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordinamento civile e penale. E inciderebbe su “diritti personalissimi come vita e integrità fisica”, che non rientrano nei poteri legislativi regionali. Da qui parte il ricorso dell’Avvocatura dello Stato, con la tesi sostenuta in udienza da Giancarlo Caselli, per il quale spetta esclusivamente al legislatore statale determinare il punto di equilibrio tra il dovere di tutelare la vita e il diritto all’autodeterminazione del singolo. Un bilanciamento necessario, quando si parla di suicidio assistito. Le cui regole di accesso sono state scritte dalla stessa Consulta con la sentenza 242 del 2019, la cosiddetta “Cappato/ Dj Fabo”. Una decisione storica, su cui si fonda da opposte prospettive sia la linea della presidenza del Consiglio dei ministri che la difesa della Regione Toscana, rappresentata dagli avvocati Barbara Mancino e Fabio Ciari. Per questi ultimi, infatti, è la Corte ad aver già operato quel bilanciamento di cui parla anche il governo. E dunque la legge toscana, nata sulla base del testo promosso dall’Associazione Luca Coscioni, si limita ad applicare regole già scritte, stabilendo tempi e procedure certe. Quella norma, ragiona la difesa, non “crea” un nuovo diritto: lo rende possibile. Senza aggiungere né togliere nulla ai principi fissati dai giudici nell’inerzia del legislatore, sollecitato già nel 2019 a colmare il vuoto normativo. Ora quel vuoto, di fatto, non esiste. Perché è stato “riempito” un pezzettino alla volta con le decisioni che negli anni hanno definito e chiarito i criteri di accesso alla morte medicalmente assistita. Da ultimo con la sentenza 135 del 2024 sui “trattamenti di sostegno vitale”, di cui si è estesa l’interpretazione. E ancora più di recente, la scorsa estate, con la decisione sul caso di “Libera”, 55enne toscana affetta da sclerosi e paralizzata dal collo in giù, che chiede l’intervento di un medico per la somministrazione del farmaco letale. Pronunciandosi sulla sua vicenda, la Corte ha ribadito il ruolo di garanzia del Servizio sanitario nazionale nei percorsi di fine vita. Secondo un modello che affida alle Asl, e dunque alle Regioni, le verifiche sulle singole richieste attraverso i pareri richiesti ai comitati etici territoriali. Che ci portano al secondo punto più dibattuto. Per l’avvocata dello Stato Gianna Galluzzo, l’esigenza di uniformare la disciplina del fine vita sul territorio nazionale può essere assicurata soltanto dal Parlamento. Ma è proprio l’inerzia del legislatore, sostiene il legale della difesa Ciari, ad aver determinato disparità di trattamento nelle diverse Regioni. Con il fioccare di ricorsi che riconducono puntualmente la questione alla Consulta. Dunque, conclude Ciari, “non c’è stata alcuna invasione della potestà esclusiva dello Stato” : la legge toscana si limita ad applicare le sentenza della Corte, di cui “l’avvocatura dello Stato dà una lettura riduttiva” ritenendole “circoscritte all’aspetto penalistico”, con l’esclusione della punibilità di fornisce l’aiuto al suicidio, mentre ci troviamo “nell’alveo del diritto alla salute”. Ovvero in una situazione giuridica tutelata dal nostro ordinamento, non solo con la rinuncia del paziente ai trattamenti, ma anche con l’autosomministrazione del farmaco letale. Sul quale occorre aprire un altro capitolo: a chi spetta fornirlo, insieme alla strumentazione necessaria? La legge in discussione al Senato esclude che possa essere la sanità pubblica, che a parere del centrodestra, e in particolare di FdI, non potrà mai “erogare morte”. Perché il suicidio assistito è una scelta, e non un diritto - ripete la maggioranza. Che ora si trova a un bivio. Non è un mistero, infatti, che il fronte più scettico all’interno del centrodestra, insieme a una parte del mondo cattolico, si sia convinto dell’esigenza di legiferare proprio per arginare quelle che definisce le “fughe in avanti” delle Regioni. La Toscana, poi la Sardegna, e tutte le altre che potranno seguire a ruota lo stesso modello se arrivasse il via libera della Consulta. Perché servirebbe un “whatever it takes” per gli adolescenti italiani di Angelo Rossano Corriere della Sera, 5 novembre 2025 Serve un nuovo “whatever it takes”, ma per i nostri adolescenti: non solo pene e decreti, ma una presa di coscienza collettiva. Come sta succedendo (faticosamente) per i femminicidi. Il prof Scalia: “È una generazione marginalizzata”. Se una volta, almeno una volta, sentissimo richiamare il motto draghiano “whatever it takes” non per parlare di mercati, Bce o spread, ma per riferirsi agli adolescenti del nostro Paese, ai loro problemi e alle loro devianze. Fare tutto ciò che è necessario per arginare il dramma delle baby gang, del bullismo reale e virtuale, della brutale cattiveria senza senso, della violenza dei giovani sui giovani. Il caso di Torino - “Whatever it takes” per andare oltre i tribunali, oltre la narrazione un po’ estetica dei maranza, oltre il rimpallo di responsabilità tra famiglie, scuole, assistenti sociali e psicologi. Fare in modo di determinare un’unanime reazione collettiva, una presa di coscienza nazionale - così come faticosamente sta accadendo per i femminicidi - per impedire che accada ancora che a tre ragazzini di 14, 15 e 16 anni possa venire in mente di rapire, seviziare e gettare nel fiume un coetaneo come accaduto a Torino. “Magari anche per andare oltre anche il Decreto Caivano”, dice il professore Vincenzo Scalia, sociologo all’Università di Firenze e studioso di devianza giovanile, che spiega al Corriere che “l’unica cosa a cui si pensa è al contenimento a mezzo penale che però finisce per riprodurre il circolo vizioso della devianza”. Il decreto Caivano - “È vero - dice Scalia - manca una presa di coscienza nazionale rispetto ai problemi dell’adolescenza”. Ma mancano anche gli strumenti adeguati: “Con il decreto Caivano non si risolve. Abbiamo riempito le carceri, ma con i tagli alla spesa pubblica la rete di supporto al sistema minorile viene smantellata”. Già, altro che “whatever it takes”. La fotografia del fenomeno - Il fenomeno è studiato, rappresentato in grafici e schede, compreso. Ma resta il dubbio: è affrontato? Secondo i dati di Asai, l’associazione torinese che si occupa del reinserimento di minori autori di reati, “i protagonisti di queste aggressioni - ha già rilevato il Corriere - sono sempre più giovani: se un tempo si registravano soprattutto alle scuole superiori, oggi avvengono anche alle medie, tra bambini di appena 12 o 13 anni, in prevalenza maschi. La maggior parte di loro è italiana (70%), seguiti da marocchini, romeni, egiziani e peruviani”. E quando non hanno la cittadinanza italiana, nella maggior parte dei casi parliamo comunque di persone nate in Italia. Marginali e minoritari - Si sa, come spiega anche il professor Scalia, che le gang non sono quasi mai baby, e si sa che il più delle volte sono aggregazioni spontanee e casuali. C’è, ovviamente, il tema della marginalità sociale, ma anche quello della marginalità generazionale: gli adolescenti sono un pezzo di società minoritario rispetto alla popolazione. “Siamo uno dei pochi Paesi d’Europa in cui gli over 65 sono più dei 14enni”, riferisce ancora Scalia. I precedenti - Ma leggere il fenomeno non basta. Le condanne, anche severe, non funzionano da deterrente. Solo in una città come Torino l’elenco di gravissimi precedenti compone un catalogo degli orrori che va dal caso della bici lanciata ai Murazzi e che ha ridotto sulla sedia a rotelle lo studente Mauro Glorioso, al maestro elementare minacciato dai maranza, fino alla tragedia di piazza San Carlo, dove agì una sorta di proto-baby gang dello spray al peperoncino che alla fine causò due morti e 1.672 feriti. In alcuni casi le condanne sono state pesanti. Ma il carcere non spaventa perché “con le condanne - dice Scalia - si costruiscono un’identità da duro”. Eppure, “la messa alla prova serve proprio per i reati più gravi. Se si manda in carcere un ragazzo che studia o lavora smetterà di farlo, si crea una cesura tra lui e il resto della società, lo stigmatizzi”. “Whatever it takes”, dunque, per l’adolescenza, così da rompere l’incantesimo mediatico dei social che la inganna e per uscire dalla propaganda. Droghe. SerD e comunità, il sistema dei servizi lancia l’allarme di Caterina Pozzi* Il Manifesto, 5 novembre 2025 Con meno personale e molti più utenti, definanziati e frammentati, dislocati solo in alcune aree, perdono efficienza. E l’obiettivo di ridurre il danno è azzerato. Anna è una donna con una pregressa dipendenza da eroina che, grazie alla terapia metadonica (la “droga di Stato”, come l’ha definita la nostra Presidente del Consiglio) somministrata dal Serd territoriale, riesce ad avere una vita “normale”: lavora come operatrice sociosanitaria in un ospedale, ha una casa e una vita sociale. Anna va con regolarità al Serd per colloqui con la psicologa e frequenta un gruppo di auto mutuo aiuto. Anna è in equilibrio, ha il controllo della propria dipendenza e della propria vita. Anna però, invece di ingerire il metadone se lo inietta e per paura di essere scoperta, le iniezioni se le fa nell’inguine. Pratica che ha con sé dei rischi per la salute. Anna ne parla nel gruppo di auto mutuo aiuto, tra pari dove non ha paura dello stigma e del giudizio. Ed il gruppo piano piano la convince a parlarne con la sua psicologa, confidando quantomeno nel segreto professionale; ma così non accade, la psicologa (per paura?) ne parla col medico del Serd che (per paura?) decide di interrompere la somministrazione del metadone in regime di affido domiciliare. Da qui inizia il tracollo di Anna, si scompensa, perde il lavoro e nel giro di poco tempo si ritrova per strada. Il percorso fatto con fatica da Anna e dagli stessi operatori del SerD in poco tempo è vanificato. Questa storia parla di stigma e di stigma interiorizzato, di paura, di rigidità dei servizi per dipendenze, di relazioni e di fiducia o di mancanza di fiducia. Negli ultimi decenni la società è cambiata, sono cambiate le sostanze in circolazione e le forme del consumo. A non essere cambiata è la legge (Testo unico sulle droghe 309/1990) insieme all’approccio culturale che l’ha ispirata. È necessario andare al superamento dell’impianto punitivo della legge, con l’obiettivo di perseguire la salute delle persone che fanno uso di sostanze psicoattive ed attuare più efficaci interventi di prevenzione. È necessario depenalizzare il consumo personale ed il possesso, la condivisione e la cessione senza fini di lucro. Inoltre rendere effettivamente praticabile l’accesso alle cure tramite la scelta di misure alternative al carcere per le persone tossicodipendenti che hanno commesso reati. Ma anche i servizi per le dipendenze, dai Serd alle comunità accreditate non versano in buone condizioni. Considerati da sempre il fanalino di coda del Sistema sanitario nazionale, vivono da più tempo e con maggiore intensità il processo di depauperamento del Ssn. L’accorpamento dei dipartimenti per le dipendenze a quello della salute mentale, avvenuto oramai in quasi tutte le regioni, ha reso più difficile l’accesso delle persone ai servizi stessi e non ha parallelamente aumentato l’auspicata collaborazione tra dipartimenti per le persone che oltre alle problematiche di dipendenza hanno una comorbilità psichiatrica. Tra il 2018 e il 2023 c’è stata una diminuzione del 6% del personale dei Serd (servono 1.900 operatori, secondo la stessa legge) a fronte di un aumento del 3% delle persone assistite (sono state 134.443 nel 2024). All’interno delle equipe multiprofessionali mancano in misura maggiore educatori e psicologi rispetto medici ed infermieri. Ciò significa che la continuità dei percorsi è spesso garantita solo per quanto riguarda le cure mediche, mentre l’accompagnamento psicologico ed educativo è offerto in maniera troppo saltuaria e per periodi insufficienti. Lo stesso, per quanto riguarda le comunità terapeutiche residenziali e semiresidenziali, con una diffusione molto diversa tra le regioni del nord e quelle del sud: se sei una mamma e decidi di entrare in un percorso di recupero residenziale con i tuoi figli sei obbligata a spostarti di centinaia di chilometri per trovare una comunità che accolga te ed i tuoi figli, cambiando completamente contesto. Anche per le comunità del privato sociale si sta scivolando verso una “sanitarizzazione” che rischia di cambiare profondamente la natura stessa del servizio. Il tema della dipendenza non è, infatti, solo un tema sanitario ma coinvolge il welfare territoriale, gli enti locali e tutte le realtà del terzo settore che concorrono a costruire una rete di governance efficace. Per aiutare persone come Anna sarebbe necessario dunque offrirle opportunità ulteriori oltre all’assistenza sanitaria. D’altra parte, le stesse neuroscienze ci indicano lo stretto rapporto tra biografia e biologia: le nostre esperienze rimangono tracciate nel nostro corpo, che si modifica in base agli apprendimenti che compie, in negativo e positivo. Per esempio, è dimostrato che non è troppo tardi neppure smettere di fumare (e anche questa è una dipendenza) a 60 anni. Quello che oggi manca di più, perciò, sono le opportunità di esperienze positive sia sul piano della realizzazione di sé che su quello dei rapporti interpersonali. E questo deve avvenire fin da subito, già mentre la persona con dipendenza è in trattamento in comunità o presso i Serd. Oggi le problematiche correlate alla droga sono molto cambiate. Non che le precedenti siano state sostituite dalle nuove: si sono affiancate. È un dato che i disturbi mentali investano sempre più giovani e sempre più in tenera età, ma analizzarne le cause sarebbe troppo elaborato in questo contesto. Fatto sta che la prevenzione è stata l’attività più falcidiata dai tagli alla spesa negli ultimi anni; la realizzazione di programmi di prevenzione è infatti estremamente frammentata e discontinua sul territorio italiano. E al contempo, milioni di euro spesi in campagne nazionali di spot in Tv, qualunquisti e anti scientifici, sono soldi spesi male. Non hanno alcun impatto sui giovani e semmai servono solo a creare consenso tra gli adulti. È necessario riprendere capillarmente interventi nelle scuole con diverse modalità e gradazioni nell’intero percorso scolastico adottando modelli basati sull’evidenza scientifica, coinvolgendo i ragazzi stessi attraverso percorsi di peer education (educazione tra pari). Nelle ultime relazioni al parlamento sulle droghe il termine Riduzione del Danno, per identificare servizi quali Unità mobili e drop in, è scomparso ma non sono scomparsi i pochi servizi presenti sul territorio nazionale (198 nel 2024) con una diffusione a macchia di leopardo e con regioni che ne sono completamente prive. Purtroppo per una certa parte della politica (le destre ma non solo) attuare i Lea dei servizi di Riduzione del danno significa attuare “politiche rinunciatarie” o addirittura indurre le persone a “drogarsi”. L’obiettivo generale della RdD è la limitazione dei rischi e il contenimento dei danni causati dalla droga, mentre i destinatari sono tanto i consumatori attivi di sostanze, quanto le loro famiglie, le reti di prossimità e la collettività nel suo complesso. Investire nel nostro sistema di servizi per le dipendenze - pubblici e del privato sociale, un sistema finora riconosciuto internazionalmente come uno dei migliori - avrebbe permesso ad Anna di vivere ancora bene e mantenere il proprio lavoro. Una perdita che è sua, ma anche di tutta la collettività. *Presidente nazionale Cnca Un piano sulle droghe per superare i disastri del Governo di Stefano Vecchio* L’Unità, 5 novembre 2025 Da domani a Roma la contro-conferenza parallela alla conferenza governativa (che ha escluso le voci critiche). Obiettivo: un cambio di passo radicale. Il Governo Meloni ha indetto per il 7 e 8 novembre una Conferenza Nazionale sulle Droghe che, come previsto dalla legge, dovrebbe valutare gli effetti delle politiche rispetto agli obiettivi posti. Non è un caso che sono state escluse le organizzazioni della società civile considerate scomode e non allineate. Per questo motivo la nostra Rete per un cambio radicale delle politiche sulle droghe ha organizzato una Contro-conferenza parallela a quella governativa nei giorni 6-7-8 novembre, a Roma alla Città dell’Altra Economia e in Campidoglio, dal titolo “Sulle droghe abbiamo un piano”. È evidente che il governo attuale intende seguire e potenziare la linea della war on drugs, cioè la guerra alle persone che usano droghe, che ha determinato danni enormi sul piano della salute e della giustizia sociale e ha riempito le carceri di “tossicodipendenti”. Non ha limitato l’uso di droghe, secondo gli obiettivi che si era posta, con un mercato illegale in continua espansione. Una politica aggravata da provvedimenti quali la modifica del codice della strada che sanziona anche chi non è alla guida alterato da sostanze, il decreto anti-rave che proprio in questi giorni è stato applicato con violenza contro il Witchtek a Modena e quello Caivano che ha riempito le carceri di minori. E ancora la riduzione drastica dell’accesso alle misure alternative al carcere, l’incostituzionale decreto sicurezza contro le libertà di critica, il decreto carceri che trasforma le comunità terapeutiche in carceri parallele stravolgendone la mission. Non è un caso che in questo contesto repressivo si è espressa una forte ostilità per la Riduzione del Danno che ha dimostrato che è possibile cambiare rotta nelle politiche e negli interventi in modo efficace. La Conferenza nazionale sulle droghe è, quindi, già stata scritta e, non è un caso che si è deciso di restringere la partecipazione e di escludere le voci critiche. Per questi motivi, abbiamo organizzato una Contro-conferenza alternativa e aperta alla partecipazione di organizzazioni internazionali, della pluralità dei soggetti politici, degli enti locali, dei movimenti sociali, degli studenti, della società civile, del mondo della giustizia, dei garanti dei detenuti, dei servizi pubblici e del terzo settore. A fianco a dibattiti e approfondimenti, ci saranno all’esterno il drug checking e la simulazione di una stanza del consumo e poi live podcast e la proiezione di un film al Cinema Troisi. Sabato 8 novembre alle 14 partiremo poi con la Million Marijuana March ballando per le strade di Roma. Abbiamo messo al centro il tema della Riduzione del Danno intesa come prospettiva ampia e trasversale per un cambio delle politiche e per la riorganizzazione dei servizi, promuovendo il confronto con i documenti e le indicazioni degli organismi internazionali e europei che saranno al centro dell’apertura il 6 novembre. La prospettiva della Riduzione della Danno (RdD) intesa quindi come una strategia di governo politico e regolazione sociale del fenomeno dei consumi e dei mercati delle droghe, alternativa alla logica repressiva. Nelle altre giornate approfondiremo il tema della via italiana alla RdD in tutte le sue declinazioni e intesa come prospettiva di diritto alla salute e di giustizia sociale. Su questa base proporremo una strategia per un cambio dell’organizzazione del sistema dei servizi pubblici integrati con il terzo settore, secondo una logica territoriale di cura ed emancipazione centrata sul riconoscimento del protagonismo delle persone che usano droghe e sul diritto alla salute. Presenteremo un piano per limitare sia l’accesso al carcere che il tempo della detenzione delle persone che usano droghe detenute, potenziando e facilitando l’accesso ad alternative territoriali di cura e di inclusione sociale. Approfondiremo il tema della regolazione legale della cannabis. Con la Rete ELIDE delle città, sabato al Campidoglio riproporremo l’impegno a realizzare politiche innovative sul piano locale volte a sostenere le azioni più generali rivolte a cambiare radicalmente le politiche sulle droghe. Ci confronteremo anche con il mondo della politica per rilanciare le iniziative ai vari livelli, in particolare riproponendo le proposte di legge sulla legalizzazione della cannabis e sulla depenalizzazione e decriminalizzazione dell’uso di droghe. Individueremo anche obiettivi intermedi con le Regioni disponibili per recepire i LEA della Riduzione del Danno e per spingere la Conferenza Stato-Regioni a elaborare un Atto di Indirizzo nazionale. La Contro-conferenza non sarà quindi un luogo di finta discussione e autocelebrazione, ma l’occasione per lanciare un Piano sulle droghe pragmatico, realizzabile ed efficace. Il programma su conferenzadroghe.it. Migranti. Variante italia di Pino Corrias Vanity Fair, 5 novembre 2025 Ogni tanto i numeri sorprendono le opinioni. Anche se difficilmente sconfiggono le ideologie. Nell’Italia dei sacri confini, dove si sequestrano le navi che recuperano uomini, donne, bambini in mare, e si puniscono con le multe le organizzazioni non governative che provano a salvarli, siamo ancora il Paese in Europa dove arrivano più immigrati: 31 mila nei primi sei mesi di quest’anno. E calcolando i tre anni di “guerra ai mercanti di schiavi” del Governo Meloni, da novembre 2022 a oggi, la media degli sbarchi è di 8.600 arrivi al mese. Il secondo, per numero, tra gli ultimi sette governi. Decisamente meno dei 14 mila sbarchi durante il governo Renzi. Ma più dei 7 mila arrivati durante il Governo Gentiloni dei 4,5 del governo Letta. Nella classifica elaborata da Pagella Politica, considerando gli anni 2013-2025, sono i due governi Conte ad avere avuto meno sbarchi di tutti - mille al mese nel primo, 2 mila nel secondo - ma solo perché era il periodo del Covid, con tutto il mondo congelato dalla pandemia. A dire che i flussi non li regola la faccia feroce degli Stati e dei governi, tantomeno il filo spinato delle leggi, specialmente quando si tratta di arginare il mare, ma i disastri del clima e della geopolitica, il fuoco delle guerre, la fame, le malattie. Negli ultimi due anni abbiamo speso 680 milioni di euro per costruire in Albania due gigantesche strutture di prefabbricati - grigie e spoglie, come cantieri in mezzo al nulla - pensate per imprigionare 800 migranti in attesa di rimpatrio. Infischiandocene delle leggi che ancora impediscono di spostare gli esseri umani come ingombri postali, ne abbiamo rinchiusi una ventina il primo anno, 43 nei primi mesi del 2025, un centinaio fino a oggi. Il costo calcolato per ogni recluso è folle. Il progetto un fallimento. La deterrenza nulla. Eppure non c’è modo di scalfire la strategia del pugno duro che funziona egregiamente in termini di propaganda, fa guadagnare voti in Italia, in Europa e nell’intera America, nata da tre secoli di migrazioni, dove le nuove polizie di Donald Trump rastrellano gli stranieri per strada, li rinchiudono nelle gabbie esibite in tv, in attesa di mandarli in qualunque carcere di un qualunque Paese li accolga, a pagamento. È lì che vuole arrivare il progetto Albania? È davvero una strada quella di sbarrarla agli stranieri? Per l’ennesima volta è stato il papa Leone XIV a indicarne un’altra. Non per nulla il primo papa nordamericano che oggi parla in perfetta sintonia con il suo predecessore argentino, Francesco, invitandoci a considerare i migranti come persone “e non come spazzatura”. Come risorsa e come speranza. “Gli Stati hanno il diritto e il dovere di difendere i propri confini”, ha detto nell’ultima omelia, “ma devono bilanciarli con l’obbligo morale di fornire rifugio”. E ancora: “L’abuso sui vulnerabili” non è un “legittimo atto di sovranità, ma un crimine commesso o tollerato dallo Stato”. Parla “delle barche che sperano di avvistare un porto sicuro”. Ma specialmente di noi, i titolari del porto. Migranti. Costosi e inutili, anche i Garanti bocciano il Cpr in Albania di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 5 novembre 2025 “Diritto alla difesa compromesso”. Da aprile 2025 sono transitati solo 140 persone nella struttura voluta dal Governo italiano. Secondo i Garanti di Roma e Lazio “non è giustificato il trasferimento in Albania di queste persone” dato che non ci sono condizioni di sovraffollamento nei Cpr italiani. “Il numero estremamente limitato delle persone presenti nel Cpr nel corso della visita, 28 il primo giorno 27 il secondo, insieme con la disponibilità di posti nei Centri collocati sul territorio nazionale rende, a parere di chi scrive, non giustificato il trasferimento in Albania di queste persone”. È quanto si legge nella relazione indirizzata il 3 ottobre scorso al prefetto di Roma Lamberto Giannini, alla capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno Rosanna Rabuano, dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone, sulla visita al Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) e alla sezione penitenziaria di Gjadër avvenuta il 29 e il 30 luglio. Entrambi i garanti hanno competenza territoriale essendo il Cpr - costruito dal governo Meloni dopo la firma del protocollo con il premier Edi Rama - sotto la responsabilità della Prefettura di Roma. Le raccomandazioni - I Garanti sottolineano le “difficoltà” nel garantire le giuste cure sanitarie alle persone trattenute nel cpr dove vi sono “potenziali rischi” laddove “non dovesse essere sufficiente” l’assistenza sanitaria “prestata all’interno del Centro e ci si dovesse rivolgere al Servizio sanitario albanese, che garantisce standard inferiori rispetto al Servizio sanitario nazionale italiano”. E inoltre raccomandano “di valutare l’inopportunità di trasferire nel Cpr di Gjadër persone provenienti dai Cpr italiani, Cpr che non soffrono di alcuna condizione di sovraffollamento. Questi trasferimenti, oltre a rappresentare un ingente costo per il bilancio pubblico, rendono ancora più complicate le comunicazioni tra i trattenuti e le loro reti sul territorio italiano, compromettendo in maniera rilevante anche il loro diritto alla difesa”. I dati - Secondo i dati forniti dall’Ente gestore, da quando il centro di Gjadër ha iniziato a essere utilizzato come Cpr, vale a dire da aprile di quest’anno, vi sono transitate 140 persone e ne sono uscite 113: 40 per mancata proroga del trattenimento, 37 perché rimpatriati, 15 per inidoneità sanitaria al trattenimento, sette per riconoscimento della protezione internazionale e altre per motivi diversi, come il trasferimento in altri Centri in Italia o la sospensiva del decreto di espulsione. Il Garante: “Il numero limitato delle persone nel Cpr di Gjadër non giustifica il trasferimento” di Valerio Cattano Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2025 Il sopralluogo si è svolto alla fine di luglio nel centro di Gjadër, che è sotto la responsabilità della prefettura di Roma. Gli “ospiti” erano 28: alcuni di loro hanno testimoniato sulle difficoltà di ricevere cure mediche adeguate e di presentare la domanda di protezione internazionale. “Il numero estremamente limitato delle persone presenti nel Cpr nel corso della visita, 28 il primo giorno 27 il secondo, insieme con la disponibilità di posti nei Centri collocati sul territorio nazionale rende, a parere di chi scrive, non giustificato il trasferimento in Albania di queste persone”. Così si esprime il Garante dei diritti dei detenuti, nella sua relazione che segue alla visita nel centro di Gjadër - che è sotto la responsabilità della prefettura di Roma - voluto dal governo Meloni. Ma vediamo nel dettaglio. La struttura - Il sopralluogo è avvenuto martedì 29 luglio. Il Cpr, come verificato sul posto, è formato da “144 posti regolamentari, con una capienza di 96 posti contestualmente disponibili. Nel momento della visita era inutilizzata la struttura destinata ai richiedenti asilo, che può ospitare fino a 880 persone. Il blocco destinato al Cpr è suddiviso in sei sezioni, ciascuna destinata a 24 ospiti. Al momento della visita erano in uso due sezioni. Ogni sezione è formata da sei stanze per quattro ospiti, collocate a corte con un’area comune dedicata alla socialità, secondo quanto riferito dall’ente gestore accessibile dalle stanze 24 ore su 24”. I numeri - “Al momento del primo ingresso dei Garanti, erano presenti 28 trattenuti nel Cpr. Il 30 luglio erano presenti in 27, in quanto un cittadino pakistano era stato trasferito in Italia nella mattina dello stesso giorno, prima dell’arrivo dei Garanti. I trattenuti presenti al momento della visita erano provenienti prevalentemente da Algeria, Senegal, Pakistan, India, Ghana. Secondo i dati forniti dall’Ente gestore, da quando il centro di Gjadër ha iniziato a essere utilizzato come Cpr, vale a dire da aprile di quest’anno, vi sono transitate 140 persone e ne sono uscite 113: 40 per mancata proroga del trattenimento, 37 perché rimpatriati, 15 per inidoneità sanitaria al trattenimento, sette per riconoscimento della protezione internazionale e altre per motivi diversi, come il trasferimento in altri Centri in Italia o la sospensiva del decreto di espulsione”. Le osservazioni critiche - Il Garante mette il dito nella piaga nel paragrafo che intitola “Osservazioni e criticità riscontrate”; è proprio qui che scrive: “Il numero estremamente limitato delle persone presenti nel Cpr nel corso della visita, 28 il primo giorno 27 il secondo, insieme con la disponibilità di posti nei Centri collocati sul territorio nazionale rende, a parere di chi scrive, non giustificato il trasferimento in Albania di queste persone. Anche se i Garanti hanno potuto verificare che le risorse umane, professionali e finanziarie a disposizione dell’ente gestore consentono un trattamento adeguato dei trattenuti, ciò nonostante non possono non rilevare le difficoltà per i rapporti con i familiari e i legali dei trattenuti, dovute alla collocazione del Centro in territorio albanese e i potenziali rischi per l’assistenza sanitaria, laddove non dovesse essere sufficiente quella prestata all’interno del Centro e ci si dovesse rivolgere al Servizio sanitario albanese, che garantisce standard inferiori rispetto al Servizio sanitario nazionale italiano”. Le testimonianze sulle cure ricevute - I rappresentanti del Garante scrivono: “Una persona trattenuta, in particolare, ci segnala una ridotta efficacia dei farmaci somministratigli in Albania a seguito di un intervento chirurgico al collo subito in Italia, farmaci che sarebbero diversi dalla terapia post intervento prescrittagli in Italia. Un’altra persona, con evidenti difficoltà di deambulazione, ci ha raccontato di usare da anni una stampella per camminare, presidio fondamentale, ma che gli è stato tolto all’ingresso del centro. I trasferimenti delle persone dai Cpr italiani a quello in Albania avviene nella maggior parte dei casi attraverso lunghi viaggi in pullman fino al porto di Bari, e successivamente in nave fino all’arrivo al porto di Shëngjin dove si trova l’hotspot, per poi essere trasferiti in pullman al Cpr di Gjadër. A nostra specifica domanda, tutte le persone interpellate hanno segnalato che nelle lunghe ore di viaggio in nave hanno avuto i polsi legati da fascette, che ne impedivano i movimenti”. Le difficoltà burocratiche per i detenuti - “Ci è poi stata segnalata, da più persone, la difficoltà a presentare domanda di protezione internazionale con ritardi anche di settimane, quando dalla richiesta alla formalizzazione del C3 non dovrebbero trascorrere più di 48 ore. Il basso numero di persone trattenute rende particolarmente ingiustificati questi ritardi. In alcuni casi, ci è stato segnalato un tentativo di disincentivare le persone alla presentazione della domanda da parte di operatori dell’ufficio immigrazione della Questura. Le persone trattenute non hanno la disponibilità di un telefono personale e nonostante l’ente gestore abbia dichiarato l’intenzione di fornire a tutti i trattenuti un cellulare personale, questo risulta particolarmente difficile per via delle difficoltà di fornire sim card albanesi e una connessione internet. Problemi di connessione alla rete e di blackout dell’impianto elettrico vengono segnalati come frequenti anche dall’ente gestore”. Il caso dei detenuti egiziani - Durante la visita i rappresentanti del Garante si sono informati anche sul caso, riportato dalla stampa, secondo cui il 9 maggio 2025 cinque egiziani erano stati rimpatriati direttamente dall’aeroporto di Tirana. “I nostri interlocutori non hanno smentito l’avvenuto rimpatrio nelle modalità descritte dagli organi di stampa, ma alle nostre ulteriori richieste di chiarimenti non hanno saputo fornirci alcun dettaglio”. La relazione può essere consultata per intero sul web, ed è stata inviata al prefetto di Roma, Lamberto Giannini, al capo Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno Rosanna Rabuano e, per conoscenza, al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e alla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone. I Garanti, alla fine della loro relazione, hanno stilato un elenco di otto raccomandazioni. La prima chiede di “valutare l’inopportunità di trasferire nel Cpr di Gjadër persone provenienti dai Cpr italiani, Cpr che non soffrono di alcuna condizione di sovraffollamento. Questi trasferimenti, oltre a rappresentare un ingente costo per il bilancio pubblico, rendono ancora più complicate le comunicazioni tra i trattenuti e le loro reti sul territorio italiano, compromettendo in maniera rilevante anche il loro diritto alla difesa”. Il lavoro per i migranti è aumentato, ma anche il loro sfruttamento di Gaetano De Monte Il Domani, 5 novembre 2025 I lavoratori non italiani sono due milioni e mezzo e sono aumentati nell’ultimo anno di 140mila unità. Ma secondo i dati del report di Idos: le retribuzioni dei cittadini stranieri sono più basse del 30 per cento di quelle degli italiani. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, l’occupazione in Italia nel 2024 è cresciuta dell’1,5 per cento, mentre quattro volte di più è aumentata la percentuale degli occupati tra i cittadini stranieri. Oggi i lavoratori non italiani sono 2 milioni e mezzo, il 10 per cento sul totale della popolazione occupata, e sono aumentati nell’ultimo anno di 140mila unità. Ma se le cifre dell’istituto di ricerca riflettono un andamento positivo, i dati contenuti nel Dossier Statistico Immigrazione redatto ogni anno dal Centro Studi Idos in collaborazione con la rivista Confronti e l’Università Pio V, raccontano un’altra storia. Separazione - L’inserimento lavorativo dei migranti si mantiene, come decenni fa, subalterno e separato. Il tasso di incidenza media, infatti, crolla nei settori della pubblica amministrazione, dell’istruzione, e in quelli di alta specializzazione, aumentando di molto, invece, nella logistica, nelle costruzioni, nell’agricoltura, e nei servizi di cura alle famiglie; in quest’ultimo settore quasi due terzi degli occupati sul totale hanno una cittadinanza straniera. Più in generale, soltanto un cittadino straniero ogni cinque svolge una professione qualificata, agli uomini sono riservati 15 settori lavorativi su 48 disponibili; alle donne, di contro, soltanto cinque: badanti, collaboratrici domestiche, addette alla pulizia di uffici ed esercizi commerciali, cameriere, operatrici socio-sanitarie, sono gli unici impieghi che le vengono riservati. Con i numeri, dunque, cresce la loro insoddisfazione, ma anche l’incidenza sugli infortuni. Basti pensare che gli incidenti sul lavoro - secondo i dati ufficiali Inail comunque sottostimati - sono stati l’anno scorso oltre mezzo milione, e più di 100mila hanno riguardato persone nate all’estero. Il “lavoro grigio”, poi, cioè le finte partite iva, il part-time volontario, e le altre qualificazioni che mascherano lo sfruttamento della manodopera, riguarda un lavoratore migrante ogni tre, la cui retribuzione media annue, infine, risulta essere del 30,4 per cento più bassa rispetto a quella degli italiani: 17mila euro contro 24.400. Vulnerabilità - In questa sorta di mercato del lavoro separato, una componente a parte riveste l’agricoltura, settore per eccellenza di sfruttamento della manodopera migrante. Qui, più in generale il 90 per cento delle persone addette ha un contratto a tempo determinato, e oltre un quarto delle persone sono impiegate soltanto 50 giornate all’anno. Il lavoro povero nel settore agricolo, nello specifico, tra gli stranieri, alimenta una sorta di pendolarismo stagionale verso altri settori ancor più svantaggiati dell’industria e dei servizi, creando quella che il sociologo Antonio Ciniero ha definito una vera e propria “filiera della vulnerabilità”. In tutti i casi, per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo in agricoltura, gli interventi istituzionali non sono mancati. Il Piano triennale di contrasto al caporalato 2020-2022 ha investito oltre 700 milioni di euro e nel 2022 ne sono stati stanziati altri 200 per il superamento dei ghetti agricoli, “eppure lo sfruttamento e la ghettizzazione abitativa dei lavoratori agricoli stranieri persistono”, fa notare Ciniero: “Il superamento dei ghetti agricoli è un processo che si sarebbe dovuto concludere entro marzo 2025, ma che ad oggi è ancora lontano dal realizzarsi”. Continua: “I ghetti continuano ad essere ancora in piedi e la quasi totalità delle progettualità non sono state nemmeno avviate, un fallimento dovuto a una serie di criticità, a iniziare dalle modalità con cui sono state individuate le aree in cui intervenire, passando per il mancato coinvolgimento dei destinatari finali nella definizione e programmazione degli interventi”, conclude il sociologo. Flussi - A complicare il quadro circa le ragioni dello sfruttamento del lavoro dei migranti è il sistema di ingressi per lavoro previsto dal governo, il così detto Decreto Flussi di cui questo giornale si è occupato più volte, dimostrando come il meccanismo stesso, per come è concepito, alimenta il lavoro irregolare. In un’analisi della Uil pubblicata all’interno del Dossier Statistico Immigrazione, Beppe Casucci e Francesca Cantini ribadiscono che “il sistema dei Decreti flussi si è rivelato incapace di rispondere in modo flessibile, tempestivo ed equo alla domanda di lavoro regolare dall’estero”. E ancora, dal sindacato riferiscono che “i numeri analizzati confermano che solo una minima parte delle domande presentate si conclude con un contratto di lavoro effettivo, le quote sono sottodimensionate rispetto ai fabbisogni e le procedure di ingresso sono talmente complesse da scoraggiare spesso i datori di lavoro onesti”. Sono ancora le cifre a confermare il fatto che il Decreto Flussi alimenta sia l’immigrazione che il lavoro non regolare. Nel 2024, infatti, meno dell’1 per cento delle domande presentate si è trasformato in un’assunzione reale, cioè sono stati firmati 5.161 contratti a fronte di 717mila domande presentate. Ed è proprio sul nesso tra il permesso di soggiorno a breve scadenza e l’aumento dello sfruttamento lavorativo che insiste il presidente di Idos, Luca Di Sciullo, affermando che “proprio in quanto periodicamente esposti a un simile rischio di irregolarità, i soggiornanti a termine rappresentano la categoria di non comunitari più vulnerabile, alla mercè di organizzazioni criminali o di datori di lavoro senza scrupoli, che, approfittando della loro invisibilità, spesso li reclutano come manovalanza a basso costo per attività illegali e lavori in condizioni di schiavitù”. Israele. Le torture somigliano molto alla regola. Il coraggio di Tomer-yerushalmi no di Adriano Sofri Il Foglio, 5 novembre 2025 Un prigioniero palestinese, militante di Hamas, viene torturato e umiliato da alcuni carcerieri israeliani, militari riservisti, mentre loro colleghi coprono parzialmente la vista con gli scudi antisommossa. L’accusa ricostruisce così il fatto: l’uomo è stato picchiato, trascinato sul pavimento, colpito dal taser. Uno dei custodi lo accoltella ai glutei e gli provoca una lesione al retto. Il prigioniero riporta la frattura di alcune costole, la perforazione di un polmone e del colon. Viene ricoverato in gravi condizioni in un ospedale. L’episodio è stato ripreso da un astante. Bisogna essere molto, molto ingenui per pensare che questo ripugnante avvenimento sia un’eccezione. Somiglia piuttosto alla regola, e se non altro a una notevole frequenza statistica. Nemmeno la sua ripresa filmata può essere più ritenuta un’eccezione. Era sembrato così ad Abu Ghraib, dove però era già stato chiaro che della voluttà di umiliare e torturare facesse parte la premura di filmare e fotografare e assicurarsene un souvenir da mostrare in famiglia al rientro. Ad Abu Ghraib il fondo sessuale di ogni tortura era stato esaltato dal ruolo entusiasticamente attivo di alcune donne militari, come la sciagurata Lynndie England che festeggiò così il suo ventunesimo compleanno. L’eccezione israeliana sta nel comportamento di un’altra donna, dall’altra parte della barricata, per dire così, Yifat Tomer-yerushalmi, 51 anni, tre figli, maggiore generale, la seconda con questo grado nella storia d’Israele, e dal 2021 avvocata generale militare dell’idf. A lei spettava il perseguimento di ipotesi di crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano, a Gaza o altrove, ma non aveva mai fatto ricorso alle prerogative del suo ufficio, facendo pensare di subire la pressione di superiori e dell’ambiente generale del paese in guerra. Finché, in occasione dell’episodio della base militare di Sde Teiman, decide di passare alla tv Channel 12 il video, che va in onda nell’agosto dell’anno scorso. Cinque sospetti responsabili vengono arrestati, e un manipolo di riservisti, squadristi e parlamentari dell’estrema destra israeliana fanno irruzione nella base arrivando a scontrarsi con la polizia e i militari. Lo scorso 13 ottobre il prigioniero palestinese, innominato, vittima delle presunte e accertate torture è stato rilasciato a Gaza senza che alcun inquirente lo abbia interrogato, e subito dopo è stata aperta un’inchiesta sui responsabili della consegna del video. Yerushalmi è stata sospesa dal servizio, e venerdì il ministro della Difesa, Katz, ha annunciato che non sarebbe stata reintegrata. Lei si è allora dimessa, e si è assunta l’intera responsabilità di aver trasmesso il video. “Ho approvato la diffusione di materiale ai media nel tentativo di contrastare la falsa propaganda contro le forze giudiziarie dell’esercito. È nostro dovere, anche in una guerra, indagare ogni volta che vi sia un ragionevole sospetto di atti di violenza contro un detenuto”. Dopo ha fatto perdere le sue tracce, sulla spiaggia di Tel Aviv, lasciando un messaggio che faceva temere un proposito suicida. È stata ritrovata salva e sana, arrestata e messa in isolamento; con lei, il colonnello procuratore militare Matan Solomesh. È accusata di abuso d’ufficio, ostruzione alla giustizia e simili porcherie. Si è insinuato, da parte dei bengviristi, che avesse voluto liberarsi in mare del telefono e delle prove che potesse contenere, capaci di compromettere la procuratrice generale israeliana, Gali Baharav Miara, la principale nemica di Netanyahu. Netanyahu ha dichiarato che l’azione di Yerushalmi è stata “forse il più grave attacco alla reputazione che lo stato di Israele abbia mai subito dalla sua fondazione”. Qualcuno ha obiettato che l’attacco al buon nome di Israele sta nel crimine contro un detenuto, e non nel darne notizia. Non ce n’era bisogno.