Perché rendere difficile il lavoro di Terzo settore, scuola e università nelle carceri italiane? di Nicola Boscoletto vita.it, 4 novembre 2025 Da luglio un crescendo di circolari del Dap sta complicando burocraticamente la vita alle realtà sociali impegnate nei trattamenti, ossia nelle attività volte al recupero dei detenuti, come la Costituzione prevede. Nei giorni scorsi, un’irrealistica centralizzazione su Roma di tutte le autorizzazioni, mette a rischio tutte le iniziative. Un intervento del fondatore della Cooperativa Giotto di Padova. Faccio fatica a commentare le circolari emanate in questi ultimi mesi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap (l’ultima del 21 ottobre 2025 a firma Ernesto Napolillo, responsabile della Direzione generale Detenuti in trattamento) in merito alle attività trattamentali svolte per la quasi totalità dal Terzo settore, dalle Università e dalle scuole. Si tratta, in buona sostanza, di un provvedimento che centralizza sul Dap l’autorizzazione di tutte queste attività per la quasi totalità delle carceri italiane, svuotando dei loro compiti direzioni degli istituti, provveditorati e magistratura di sorveglianza. Pensiamo che, mediamente, ogni giorno, negli istituti penitenziari si svolge un’attività: ne deriverà, inevitabilmente, il rallentamento, se non il blocco, di molte attività. Faccio fatica a commentarle perché faccio fatica a capirle e a capirne il senso e il fondamento giuridico. Concentrarsi sulle poche cose che funzionano, che hanno sempre funzionato e che aiutano a rendere un pochino più umano il carcere e la vita delle persone detenute, credo non sia la scelta giusta, soprattutto perché ancora una volta calata dall’alto senza alcun approfondimento e confronto (per la prima volta in 15 anni forse non si riuscirà a fare la Colletta Alimentare in 40 istituti). Credo che la poca conoscenza di un sistema a dir poco complesso (anche per chi ci lavora da decenni) e timori infondati possano essere la causa di decisioni frettolose che causeranno grossi danni, e non in primis a chi porta avanti in Italia una miriade di iniziative, ma alle persone detenute oltre che soprattutto a tutto il personale dell’amministrazione penitenziaria, in testa i direttori, gli agenti e gli educatoti, il personale sanitario e delle scuole che si trovano tutti i giorni in trincea. Non è da trascurare la ricaduta negativa su tutta la società civile in ordine a sicurezza sociale e aggravio della spesa (credo che la recidiva reale ormai superi il 90%, ma qui credo dovrebbe intervenire la Corte dei conti a tutela dei cittadini). Se oggi nelle carceri qualcosa funziona sono proprio le iniziative del Terzo Settore e della società civile che riempiono vuoti e carenze strutturali che si sono creati in questi decenni. Nessuno può dire io non c’entro. Quando dico questo spero che nessuno si offenda e si senta chiamato in causa anche perché lo siamo tutti. Chi oggi si ritrova a gestire il sistema penitenziario italiano si deve considerare un curatore fallimentare, non si deve sentire da una parte il colpevole né pensare dall’altra di avere la bacchetta magica. Si può diventare colpevoli solo se “si fa finta di conoscere” e non si collabora. Invece occorre confrontarsi in maniera sincera e trasparente con tutti i soggetti a vario titolo coinvolti. C’è bisogno di ascoltare tutti (non solo i propri “tifosi”, lo Stato non è una squadra di calcio ed il welfare non è uno scudetto di una “società calcistica” ma di tutta la società), cercando soluzioni a problemi a cui non basteranno alcuni decenni per invertire e migliorare un pochino il sistema penitenziario. La non collaborazione può solo inevitabilmente peggiorare la situazione e allontanare sempre di più le soluzioni tese a migliorare le condizioni delle carceri o meglio la dignità delle persone detenute, perché della vita delle persone stiamo parlando. Si invoca spesso il concetto di trasparenza, ma mi chiedo: come si può chiedere trasparenza se non si è serenamente e sinceramente trasparenti e non si lavora assieme? Il Codice del Terzo settore inapplicato. Arbitrariamente - Il Codice del Terzo settore, che nulla ha a che fare con il codice degli appalti, è arbitrariamente non applicato. Lo strumento dell’amministrazione condivisa, della coprogrammazione e della coprogettazione, oggetto tra l’altro di sentenze della Corte costituzionale, vengono trattati come leggi di serie “Z”, quando addirittura non applicate. Il mio caro papà mi ripeteva spesso “male non fare paura non avere, devi poter camminare per strada sempre a testa alta. Non sarà facile ma è l’unico modo per poter al mattino guardarsi allo specchio senza vergognarsi”. La domanda che mi sorge è: ma stiamo veramente, pur nella diversità di pensiero, compiti e responsabilità, tutti lavorando per una applicazione corretta e coerente della nostra Costituzione? E non penso solo al più conosciuto e straripetuto art. 27. Ripeto quanto ho detto alcuni giorni fa: ciò che più in assoluto mi addolora è constatare che non ci si ascolta, non ci si guarda, non ci si tende la mano, non si affronta insieme un problema che riguarda tutti, … la cosa più triste è che ogni episodio, ogni circostanza viene usata per rafforzare la propria parte (i propri tifosi, ultras compresi), modalità che non fa altro che incentivare e incrementare l’odio e la contrapposizione … a mancare non è principalmente il personale ma soprattutto la qualità, la motivazione, il senso e la responsabilità, diciamolo senza vergognarci: un po’ di amore … per un vero cambiamento è essenziale una collaborazione sincera tra tutti gli operatori coinvolti nel sistema carcerario. Serve un cambio di mentalità, dove l’ascolto reciproco, la condivisione e la valorizzazione delle competenze siano al centro. Il carcere non sia una discarica umana - “Non ci si salva da soli, bisogna costruire ponti, non muri, bisogna essere generatori di processi e non occupare semplicemente spazi” (Papa Francesco). La dignità di una persona non dipende dal ruolo o dallo stipendio, tutti possono e devono contribuire al cambiamento. Tutti sono preziosi. Ciò che serve è un po’ più di amore per il proprio lavoro, per le varie figure che operano e per le persone detenute … il messaggio del giovane don Bosco, che non mi stancherò mai di ricordare fino allo sfinimento, rimane un faro: prendersi “amorevole cura” di chi ci viene affidato, soprattutto di chi ha bisogno di essere accompagnato in un percorso di reinserimento, integrazione e responsabilizzazione. Il carcere deve essere un luogo di cura e di recupero, non una discarica umana né un’istituzione vuota e chiusa, punitiva, violenta e perciò disumanizzante. Questo don Bosco lo testimoniava con la sua vita, (non a parole) ai suoi direttori, educatori, operatori e responsabili”. Occorre che tutti i soggetti siano coinvolti, occorre parlarsi e confrontarsi serenamente per capire se le decisioni che si vanno a prendere aiutano o creano più difficoltà. Tutte le decisioni che ognuno di noi prende, tutte le attività che ognuno di noi con grande fatica e sacrifici cerca di fare sono tutte dei tentativi ironici, siamo tutti consapevoli che la soluzione perfetta non la possiede nessuno. Ogni volta che prendiamo una decisione scontentiamo qualcuno. Tutti abbiamo bisogno di tutti, soprattutto quando si parla di un bene che poco o tanto riguarda tutti, dobbiamo servire e non servirsene. Ritirate quelle circolari, sarebbe segno di spessore umano e professionale - Dialoghiamo, ascoltiamoci, confrontiamoci e costruiamo pezzi di bene con grande disinteresse, cioè con nel cuore il solo desiderio di lasciare ai nostri figli, alle nuove generazioni un po’ più di speranza e un po’ meno di macerie. Questa è la vera responsabilità a cui tutti prima o poi dovremmo rendere conto a qualcuno. Concludo con un appello chiedendo di ritirare le circolari di questi ultimi mesi che riguardano il trattamento e di avviare un lavoro di confronto condiviso. Cambiare idea o semplicemente sospendere un giudizio, una decisione non è un segno di debolezza anzi è un segno di un grande spessore umano e professionale. Il grande Albert Einstein diceva: “La misura dell’intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario”. Riteneva che cambiare idea fosse un segno di intelligenza, e che la follia consistesse nel continuare a fare le stesse cose sperando in risultati diversi. Sottolineava come il cambiamento sia necessario per il progresso e la creatività, spesso nascendo dalla crisi. Le Circolari che cambiano la vita ai detenuti (in peggio) di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 4 novembre 2025 Una circolare del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, può cambiare la vita ai detenuti, anche se fuori nessuno se ne accorge. In questo caso, niente proclami, battaglie parlamentari, grisaglie ministeriali in subbuglio, opposizioni inferocite, media mobilitati. Nulla, solo poche righe confinate in un testo anonimo, burocratico, poco comprensibile, che piombano in un silenzio di tomba e filtrano nelle celle dei detenuti dalle minuscole bocche di lupo, i lucernari che sempre più spesso sono l’unica interfaccia che hanno con la realtà esterna. Ce ne sono due, di circolari, a far discutere. Il caso più noto è quella che negli ambienti che si occupano di questi temi viene chiamata “circolare Napolillo”, dal nome del Direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento amministrazione parlamentare, qualifica pomposa rivestita, appunto, da Ernesto Napolillo. Questo testo del 21 ottobre - vi risparmiamo il burocratese - di fatto toglie ai direttori delle carceri il potere di autorizzare attività esterne, educative e di reinserimento sociale, nei penitenziari che hanno anche sezioni di Alta sicurezza o di 41 bis. Questo potere viene centralizzato e avocato al suddetto Dap, il dipartimento centrale del ministero della Giustizia. Sembra un cavillo, ma non è così. Le richieste dovranno arrivare con “congruo anticipo” (una settimana, un mese, un anno?) ma contenere anche l’indicazione esatta degli spazi utilizzati, la durata dell’iniziativa, la lista dei detenuti da coinvolgere, i nomi dei partecipanti esterni con i loro titoli, e il parere del direttore. La questione è questa. La Costituzione dice che lo scopo della pena è la rieducazione. Ora parliamo più frequentemente di reinserimento sociale, sottraendo il nobile scopo costituzionale al rischio di moralismo etico. Comunque sia, questo sarebbe l’obiettivo. Come si raggiunge? Provando a far svolgere ai detenuti attività lavorative, sportive, ricreative, culturali. Dentro e fuori dalle carceri. Qui ci occupiamo di quelle dentro. Quanti sono i detenuti che fanno qualcosa in carcere, a parte deprimersi, imbottirsi di psicofarmaci e tentare atti autolesionistici? Ce lo dice Antigone: nel 2023 erano circa 6.100 su 61 mila. Uno su dieci. Pochi, che ora rischiano di essere ancor meno. Finora era il magistrato di sorveglianza, su proposta e parere del direttore del carcere, ad autorizzare gli esterni a entrare, secondo l’articolo 17 del regolamento penitenziario. A Rebibbia, per prassi, i magistrati di Roma delegano il direttore anche all’autorizzazione all’ingresso. Ora deciderà tutto Roma. Le reazioni degli addetti ai lavori non sono mancate. Francesco Maisto, ex garante di Milano: “La circolare rinnega il primo ordinamento democratico dopo 50 anni”. Il garante campano Samuele Ciambriello: “Trasforma le autorizzazioni della magistratura di sorveglianza in orpelli, elementi ancillari”. Francesco Petrelli, presidente delle Camere penali: “Prevale una idea dell’istituzione carceraria come luogo della segregazione e della privazione sempre più impermeabile e ostile”. Interessanti anche le opinioni degli ospiti di Riccardo Arena a Radio Carcere, su Radio Radicale. Ornella Favero, Ristretti orizzonti: “Questa circolare renderà ancora più insopportabile una burocrazia inutile. È un paradosso: si riesce a rovinare quel poco che funziona”. Chiara Gallo, giudice al Tribunale di sorveglianza di Roma: “Si introduce un controllo a monte che renderà tutto più difficile, tra l’altro con una normativa secondaria, rispetto al regolamento penitenziario”. Luigi Pagano, ex direttore di San Vittore e di molti altri e attuale garante dei detenuti a Milano: “Andiamo avanti retrocedendo. È una circolare contro la ratio della legge, che mortifica anche la dirigenza e sovverte la Costituzione. Non dimentichiamoci che Giuliano Amato non fu autorizzato a entrare a San Vittore per presentare un suo libro, perché la domanda al Dap arrivò troppo tardi. E allora c’era solo l’obbligo di informazione”. Stefano Anastasia, garante laziale e docente di Filosofia del diritto: “Non si interviene solo sul circuito dell’alta sicurezza, che tra l’altro riguarda anche detenuti non pericolosi, ma su tutti gli istituti in cui c’è un reparto di alta sicurezza. A Rebibbia femminile, per esempio, ci sono 350 detenute, di cui 15 in alta sicurezza: in questo caso se si vorrà organizzare un incontro, una proiezione di film, un concerto, si dovrà passare per gli uffici romani. Faccio un altro esempio. Ho sentito Giorgio Flamini che ogni anno organizza uno spettacolo in carcere della compagnia di Spoleto nell’ambito del Festival dei due mondi: in questo caso, entrano centinaia di persone, utenti e spettatori del festival. Bisognerà prenotarsi mesi prima? Fornire nomi e titoli di tutti gli spettatori? È chiaro che molte attività semplicemente non si potranno più fare”. Nel frattempo, a Spoleto, tre aggressioni in dieci giorni contro gli agenti della penitenziaria. La seconda circolare è del 10 ottobre, firmata dal capo del Dap Stefano Carmine De Michele. Tra le varie cose, dice: “Troppo frequenti risultano i cosiddetti ‘pendolarismi ospedalieri’ per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza. Occorre valorizzare le risorse interne, garantendo continuità delle cure e tempestività delle risposte. Il medico penitenziario deve assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita”. Samuele Ciambriello: “Pendolarismo ospedaliero? È un linguaggio offensivo della dignità delle persone detenute e degli operatori sanitari”. Insomma, se state male, e non state morendo, sarete curati dall’infermeria del carcere, a prescindere dalla malattia. Non un gran messaggio a tutela della salute dei detenuti. *Diari dal carcere Bisognerebbe fossero letti in Parlamento i Diari dal carcere di Gianni Alemanno. L’ultimo, il 29 settembre, parla di Zoran, “un rom con cittadinanza italiana che si dichiara gay, molto matto e incontrollabile”. Arriva il 30 agosto e viene messo in una cella singola, dove distrugge il lavandino e tenta il suicidio. Il 17 ottobre arriva Joao Victor, “un brasiliano immigrato che si dichiara gay e per questo motivo viene recluso in una cella singola del reparto dei trans”. Ma la cella non ha i servizi igienici, né lavandino, né wc. Fa i bisogni in un secchio. Bisogna trasferirlo. Dove? Ideona: nella cella di Zoran. Si approntano letti a castello, un metro quadro per uno (Sarkozy ne ha undici tutti per lui), senza lavandino, con un unico cesso, a vista. Essendo gay, scrive Alemanno, non possono andare all’ora d’aria, dove ci sono i detenuti dei reparti comuni. Possono solo convivere, scrive l’ex sindaco di Roma, in questa specie di “matrimonio combinato”. **Identità Il 7 settembre, a Sollicciano, Firenze, si è suicidata una ragazza di 26 anni. Nessun’altra notizia, nessun nome, come spesso succede nelle comunicazioni ufficiali. Il suo, però, l’aveva lasciato scritto sulle pareti della cella, prima di impiccarsi. Un messaggio semplice, definitivo: “Elena vi saluta”. Le persone detenute e il reinserimento di Area Democratica per la Giustizia* areadg.it, 4 novembre 2025 La nota del 21.10.2025 con cui il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) obbliga le Direzioni degli istituti penitenziari in cui siano presenti detenuti allocati in reparti di Alta Sicurezza o in regime ex art. 41 bis OP a sottoporre a preventiva approvazione della Direzione Generale Detenuti e trattamento ogni evento di carattere trattamentale che coinvolga la comunità esterna al carcere, appare gravemente distonica con i principi costituzionali della finalità rieducativa della pena e con le norme dell’ordinamento penitenziario in materia di trattamento penitenziario. Il meccanismo individuato dalle nuove diposizioni introduce un controllo dall’alto, a monte, sulle iniziative trattamentali, privando i Direttori del compito di selezionare le iniziative più adeguate alla realtà concreta dei singoli Istituti, mortificandone il ruolo e le competenze, in evidente contrasto con il principio di individualizzazione del trattamento rieducativo, che si concretizza attraverso interventi che prendano in considerazione le specificità di ogni detenuto. Principio reso effettivo dall’art. 17 OP, che dispone che la finalità del reinserimento delle persone detenute deve essere perseguita anche attraverso la partecipazione di volontari, privati, istituzioni, enti e associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa, individuando nell’accesso della comunità esterna in carcere un momento essenziale di attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. Il sistema introdotto dalla circolare, riservando al DAP la preventiva autorizzazione di ogni attività ed evento organizzato con il contributo esterno, finisce con l’esautorare anche il Magistrato di Sorveglianza, chiamato ai sensi dello stesso art 17 O.p. a svolgere, attraverso l’autorizzazione, un fondamentale compito di verifica della coerenza dell’attività proposta con il concreto percorso rieducativo. La nuova disposizione, infatti, burocratizzando e centralizzando il sistema di accesso in carcere di enti associazioni e persone impegnate in attività rieducative culturali e ricreative, incide surrettiziamente sul sistema disegnato dall’ordinamento penitenziario che, all’art. 17, prevede che sia il magistrato di sorveglianza ad autorizzare, su parere favorevole del Direttore tutti coloro che, avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti, dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. La concreta applicazione di tale disposizione, mentre finora non ha mai recato alcun vulnus alla sicurezza negli istituti, ha consentito di realizzare numerosissime attività ed eventi indispensabili per un trattamento penitenziario orientato alla finalità rieducativa ed al reinserimento sociale. Il rischio concreto è che si determini un intollerabile rallentamento dei percorsi rieducativi già in essere e una drastica riduzione di nuove offerte trattamentali, con gravissimo danno per le persone detenute che saranno private di strumenti essenziali di risocializzazione, con conseguente pregiudizio anche per la sicurezza della collettività. Il Ministero della Giustizia, ormai totalmente inerte di fronte ad un sovraffollamento carcerario in costante e allarmante crescita ed a condizioni detentive sempre più insostenibili, continua ad adottare misure e provvedimenti che rispondono unicamente ad astratte finalità repressive e securitarie e che sacrificano ingiustificatamente le finalità del trattamento e della rieducazione e i diritti delle persone detenute. *Gruppo di lavoro su esecuzione penale e sorveglianza di Area Democratica per la Giustizia Ciambriello: “Il Dap vuole commissariare la sanità penitenziaria” garantedetenutilazio.it, 4 novembre 2025 Il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Ciambriello, interviene sulla nota del Dap in materia trasferimenti per le visite specialistiche all’esterno degli istituti penitenziari. Il 10 ottobre 2025 il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Stefano Carmine De Michele, ha inviato ai direttori delle carceri una nota sulle misure di coordinamento tra le aree per l’efficienza operativa, la prevenzione di eventi critici negli istituti penitenziari. “Questa nota - si legge in un comunicato del Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello nonché Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti - è arrivata dopo che migliaia di detenuti quotidianamente manifestano attraverso forme di autolesionismo, proteste, scioperi della fame, della sete, sia disfunzioni organizzative interne, sia problemi relativi alla mancanza di scorta per il trasferimento negli ospedali, nei centri clinici per visite specialistiche. “Non entro nel merito - commenta Ciambriello - di tutte le osservazioni, le proposte, le sollecitazioni o gli ammonimenti che il Capo del Dap fa con questa nota per prevenire gli eventi critici degli istituti penitenziari. Mi fa piacere che il Capo Dap, nella prima parte, fa riferimento al diritto del detenuto appena arrivato in carcere di ricevere “un’informativa chiara, completa e comprensibile sui propri diritti fondamentali: comunicazioni con i familiari, contatti con il difensore, accesso ai servizi sanitari e amministrativi”. In pratica riconosce che in nessuno dei 190 istituti italiani al detenuto viene consegnato un regolamento appena entra in carcere. Anche altri passaggi sono puntuali, efficaci rispetto anche all’impegno che le aree educative e la direzione del carcere devono mettere in campo, ma su un punto voglio subito stabilire la distanza e riguarda la gestione sanitaria”. “Il Capo Dap - prosegue Ciambriello - dice: “La gestione sanitaria è uno dei fronti più sensibili e delicati, spesso fonte di tensioni che sfociano in eventi critici. È indispensabile che il ricorso ai trasferimenti esterni venga circoscritto ai soli casi indifferibili e documentati da certificazioni puntuali. Troppo frequenti risultano i cosiddetti ‘pendolarismi ospedalieri’ per urgenze differibili, che generano disagio, costi e rischi di sicurezza. Occorre valorizzare le risorse interne, garantendo continuità delle cure e tempestività delle risposte. Il medico penitenziario deve assumersi la responsabilità di una valutazione rigorosa, contattando direttamente il 118 solo nei casi di effettivo pericolo di vita”. Credo che sia un’invasione di campo dell’amministrazione penitenziaria nei confronti della sanità locale e regionale: criteri di valutazione, di decisioni, prese di posizione che non appartengono all’amministrazione penitenziaria”. “Queste righe - prosegue Ciambriello -ledono i diritti delle persone detenute, il diritto fondamentale alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione. Ci lascia perplessi come Garanti questo progressivo accentramento del Dap anche nelle materie non proprie e denuncio pubblicamente che, quotidianamente, saltano, in tutti i 190 istituti italiani, le visite specialistiche e i ricoveri. Il Dott. De Michele lo chiama ‘pendolarismo ospedaliero’; un linguaggio offensivo della dignità delle persone, del lavoro degli operatori sanitari che alla pari della polizia penitenziaria sono in trincea quotidianamente”. Così conclude Samuele Ciambriello. Carcere, l’isolamento disciplinare non rieduca: “Così si moltiplicano dolore e suicidi” di Ivana Barberini trendsanita.it, 4 novembre 2025 Rachele Stroppa dell’Associazione Antigone a TrendSanità: “L’isolamento non apporta alcun beneficio rieducativo: produce sofferenza, acuisce il disagio psichico e spesso si traduce in violazioni dei diritti delle persone detenute”. Essere rinchiusi da soli in una cella per oltre 22 ore al giorno, senza contatti umani significativi: è questa la condizione che, secondo le Regole di Mandela delle Nazioni Unite e le Regole penitenziarie europee, definisce l’isolamento carcerario. Quando supera i 15 giorni consecutivi, diventa “isolamento prolungato” e dovrebbe essere vietato perché considerato un trattamento inumano o degradante. Eppure, in molti Paesi europei, inclusa l’Italia, si registrano casi di isolamento prolungato, talvolta reiterato o applicato senza un provvedimento formale. A evidenziarlo è il Manuale sul monitoraggio dell’isolamento penitenziario, realizzato nell’ambito del progetto europeo “Working towards harmonized detention standards in the EU - the role of National Preventive Mechanisms (NPM)”, promosso da quattro organizzazioni per i diritti umani: il Ludwig Boltzmann Institute (Austria), l’Hungarian Helsinki Committee (Ungheria), il Bulgarian Helsinki Committee (Bulgaria) e l’Associazione Antigone (Italia). L’obiettivo è fornire strumenti operativi e conoscenze agli organismi nazionali di prevenzione della tortura, rafforzandone il ruolo di monitoraggio. Negli ultimi anni, l’uso dell’isolamento è aumentato in molte carceri europee, nonostante i suoi effetti negativi sulla salute fisica e mentale siano ampiamente documentati. Da qui la necessità di un’azione più incisiva e coordinata a livello europeo per limitarne l’abuso e garantire il rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà. Tra le criticità più gravi segnalate dal rapporto figurano anche gli effetti sulla salute mentale, riconosciuti da numerosi studi: insonnia, ansia, depressione, paranoia, automutilazione, fino a comportamenti suicidari. Dopo periodi prolungati di isolamento, molti detenuti sviluppano quella che viene definita “sociofobia”, una perdita della capacità di relazionarsi con gli altri. Si evidenzia anche il ruolo del personale medico, che dovrebbe visitare quotidianamente le persone isolate e verificare la compatibilità delle loro condizioni fisiche e psichiche con la misura imposta. Una pratica che, secondo Antigone, in molti istituti non viene rispettata. Per saperne di più, TrendSanità ha intervistato Rachele Stroppa, Ricercatrice dell’Associazione Antigone. L’isolamento nasce come strumento di disciplina e sicurezza, ma nei fatti produce sofferenza e regressione. Alla luce della vostra ricerca, funziona davvero come misura di gestione penitenziaria o finisce per aggravare i problemi che dovrebbe risolvere? “L’isolamento è sempre più utilizzato per gestire i soggetti più marginali della popolazione penitenziaria, che vengono etichettati come potenzialmente in grado di turbare l’ordine all’interno dell’istituto. Progressivamente, quindi, l’isolamento si è andato configurando come lo strumento principale attraverso il quale l’amministrazione penitenziaria intende mantenere la sicurezza, attraverso la neutralizzazione dei soggetti la cui gestione risulta maggiormente complessa. L’isolamento però non apporta nessun elemento positivo in termini rieducativi, anzi spesso produce violazioni dei diritti delle persone detenute, prestandosi ad offrire le condizioni ad abusi, e può causare sofferenza psicologica, su soggetti che già spesso presentano disagio psichico”. Nel rapporto emergono diverse tipologie di isolamento: disciplinare, giudiziario, amministrativo, protettivo. Quale di queste, oggi, rappresenta il nodo più critico in Italia e perché? “L’art. 33 dell’Ordinamento penitenziario prevede che l’isolamento possa essere imposto solo per ragioni sanitarie, giudiziarie o disciplinari. L’isolamento disciplinare è sicuramente la tipologia di isolamento maggiormente utilizzata; si tratta della più grave delle sanzioni disciplinari previste dal nostro ordinamento, conosciuta anche come “esclusione dalle attività in comune”. Per quanto riguarda l’isolamento con finalità di protezione, si tratta di un isolamento (o meglio di un effetto della separazione dal resto della popolazione penitenziaria per ragioni protettive) de facto, ovvero non previsto formalmente come tale sul piano legale. Dalla nostra attività di monitoraggio emerge come l’isolamento sia un dispositivo usato dall’amministrazione penitenziaria per gestire quelle soggettività che, per diverse ragioni, non aderiscono alla logica del penitenziario, causando alterazioni dell’ordine o problemi di convivenza all’interno della sezione ad esempio. Ciò spesso avviene anche in questo caso de facto, senza che vi sia un provvedimento esplicito. Molte persone in isolamento sviluppano gravi disturbi psicologici e fisici e una vera e propria sindrome da isolamento. Quali cambiamenti urgenti servirebbero anche per garantire un monitoraggio medico reale e quotidiano? “Per quanto riguarda la sanzione disciplinare di isolamento, l’art. 73.7 del Regolamento di esecuzione penitenziaria prevede che “la situazione di isolamento dei detenuti e degli internati deve essere oggetto di particolare attenzione, con adeguati controlli giornalieri nel luogo di isolamento, da parte sia di un medico, sia di un componente del gruppo di osservazione e trattamento, e con vigilanza continuativa ed adeguata da parte del personale del Corpo di polizia penitenziaria”. Basterebbe quindi dare reale attuazione alla normativa penitenziaria per assicurare il controllo medico quotidiano”. Le Regole penitenziarie europee chiedono almeno due ore al giorno di “contatti umani significativi”. In che modo le carceri italiane potrebbero rendere concreta questa indicazione e quali buone pratiche avete riscontrato (se ce ne sono) nei vostri monitoraggi? “Una possibile soluzione potrebbe consistere nel far scontare la sanzione di isolamento alla persona detenuta nella sua cella, senza trasferirla nella sezione di isolamento. Ciò eviterebbe lo sradicamento della persona ristretta dal suo contesto di riferimento e permetterebbe comunque di mantenere i contatti con i compagni di cella o con gli operatori penitenziari, riducendo la sanzione di isolamento alla mera esclusione dalle attività in comune. Tuttavia, è necessario superare l’isolamento, mettendo in campo strategie alternative e meno lesive dei diritti delle persone detenute”. Nel rapporto si parla di una “morte sociale” che segue l’isolamento. Come si può conciliare una pena detentiva che isola e spezza i legami con l’obiettivo costituzionale della rieducazione? “Rinunciando all’utilizzo dell’isolamento come sanzione disciplinare e all’isolamento informale. L’attuale gestione del penitenziario improntata sulla logica dell’esclusione, della separazione e della custodia chiusa non si sta rivelando efficace, anzi. Gli eventi critici sono, infatti, in aumento. In particolare, come abbiamo ribadito più volte, preoccupa fortemente il numero dei suicidi: 91 nel 2024 e già 66 all’8 ottobre 2025. Molte delle persone che si sono tolte la vita in carcere in questi mesi, si trovavano in uno spazio del penitenziario soggetto a restrizioni, cella di isolamento, sezioni a custodia chiusa, sezioni ex art. 32 e via discorrendo. Inoltre, la riduzione del tasso effettivo di sovraffollamento, il quale ha ormai superato il 135%, risulta essere imprescindibile per garantire condizioni di detenzione più dignitose all’interno delle carceri italiane. Perciò ridurre il sovraffollamento implica anche ridurre le occasioni che possono portare all’utilizzo dell’isolamento… Il sovraffollamento determina ovviamente un impatto rilevante e negativo nella quotidianità detentiva, peggiorando le condizioni di detenzione, affaticando gli operatori penitenziari, riducendo le opportunità e le risorse a disposizione delle persone detenute. Tutto ciò contribuisce a un aumento della disperazione e della tensione all’interno degli istituti penitenziari. Una situazione che, come abbiamo visto, è gestita con la logica della chiusura e con l’isolamento”. La necessità di intimità con i propri partner, tra attese, speranze e il desiderio di non sentirsi soli di Roberto M. e Marco P.* garantedetenutilazio.it, 4 novembre 2025 Negli ultimi anni, anche in Italia, si è cominciato a riconoscere il diritto dei detenuti a coltivare i propri legami affettivi in modo più umano e dignitoso. Le stanze dell’affettività - note anche come “camere dell’amore” - sono spazi riservati all’interno degli istituti penitenziari dove i detenuti possono incontrare in modo riservato i propri coniugi, partner o familiari più stretti. Queste stanze non servono solo a favorire l’intimità, ma rispondono a un bisogno profondo di mantenere vivi gli affetti, il contatto umano, la continuità relazionale. Introdotte in seguito a una storica sentenza della Corte Costituzionale (n. 10/2024), rappresentano un passo verso una detenzione più attenta alla dignità e alla rieducazione della persona. Al momento, solo pochi Istituti di pena italiani si sono adeguati a questa disposizione, ma l’auspicio è che il percorso intrapreso non si blocchi. Cosa può spiegare le emozioni che proviamo all’idea di incontrare la nostra compagna, nel desiderio di ritrovare quell’intimità che tanto ci manca? Non si tratta soltanto della dimensione sessuale - della quale certamente si può sentire la mancanza - ma piuttosto di un bisogno più profondo: quello di non perdere l’affetto, o l’amore, a seconda di come lo si voglia interpretare. È il bisogno di sentirsi, anche solo per poco, liberi da ogni controllo. Poter dialogare, esprimere un’effusione, sentirsi meno lontani. Per molti di noi il valore della famiglia è immenso, così come la consapevolezza della perdita della libertà, dell’impotenza nell’affrontare i tanti problemi che ci si pongono quotidianamente. Per noi, qui dentro, le difficoltà sono spesso mentali; ma fuori, per chi ci ama, sono reali, pesanti, a volte quasi ingestibili. Nonostante tutto, però, molte famiglie restano unite e piene di speranza. L’attesa tra un colloquio e l’altro è già di per sé molto dura. Per noi, perché il tempo sembra non passare mai; per le nostre compagne o mogli, perché affrontare ogni volta il viaggio fino all’Istituto è fonte di stress. Ci sono le lunghe file da sopportare, l’impegno nel portare quei piccoli ma preziosi doni: prodotti alimentari che ci ricordano i sapori di casa, vestiti lavati e profumati, con quell’odore familiare che tanto ci manca. A tutto questo, talvolta, si aggiungono umiliazioni: perquisizioni imposte per motivi che spesso dipendono da incidenti o disordini interni all’Istituto, che richiedono maggiori controlli delle persone che entrano come visitatori. Per noi, dunque, ogni incontro rappresenta un’occasione preziosa. È una conferma della fiducia e della credibilità della propria famiglia, un’opportunità per continuare a vivere grazie al legame con chi abbiamo lasciato fuori, a causa dei nostri errori. Il giorno dei colloqui è atteso da tutti. Nella sezione si aspetta di essere chiamati, ci si prepara con cura, si prova a nascondere l’emozione. Ma accade spesso che accanto a noi ci sia qualcuno che non ha la nostra stessa fortuna: non ha nessuno che venga a trovarlo, nessuno da cui aspettarsi una visita, nemmeno un volto da immaginare. E allora la gioia che proviamo si mescola al senso di colpa. Perché vivere questi momenti intensi davanti a chi è solo non è facile. Si percepisce il disagio, il loro silenzio pesa più di mille parole. Ci si rende conto che, per alcuni, il carcere è davvero un luogo assoluto di separazione. Non solo dal mondo libero, ma anche da ogni forma di affetto. Chi non ha nessuno fuori spesso si isola, si chiude, oppure tenta di non darlo a vedere. Ma il dolore è visibile, anche quando non viene espresso. Si insinua nei discorsi, negli sguardi, nei piccoli gesti. E ci ricorda quanto la detenzione senza legami possa diventare una condizione disumana. In quei momenti capiamo quanto siamo fragili, e quanto il bisogno di amore, vicinanza e riconoscimento sia universale. *Pubblicato sul giornale della Casa circondariale di Velletri, “Voci di Ballatoio”, numero 4 -agosto 2025 Carcere e diritti Lgbtq: se la “protezione” diventa un ghetto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 novembre 2025 Un’indagine di Antigone in tre istituti (Secondigliano, Poggioreale e Rebibbia) racconta l’isolamento dentro l’isolamento: dalle sezioni separate all’accesso negato alle cure, fino alla violenza normalizzata. “Protezione non vuol dire esclusione”. Questa frase, pronunciata da una donna trans detenuta a Napoli Secondigliano, racchiude il paradosso che intrappola le persone Lgbtiq nelle carceri italiane. Quello che dovrebbe essere un sistema di tutela si traduce spesso in un isolamento forzato, una “gabbia nella gabbia” che aggrava la privazione della libertà. È il dato più lampante emerso dal Rapporto nazionale di Antigone (nell’ambito del progetto europeo “Persone detenute LGBTIQ”), la prima indagine sistematica e aggiornata sulla condizione delle persone LGBTIQ private della libertà nel nostro sistema penitenziario. L’analisi si è basata su 39 interviste in tre istituti (Napoli Secondigliano, Napoli Poggioreale e Roma Rebibbia Nuovo Complesso) e un focus group di esperti. I numeri evidenziano un ritardo strutturale: l’Italia, secondo la Rainbow Map di ILGA-Europe, si posiziona al 35esimo posto su 49 paesi europei per i diritti LGBTIQ (con un punteggio del 24,41%, ben sotto la media Ue). Un contesto esterno di discriminazioni e mancata tutela (come il blocco del Ddl Zan) che, all’interno delle carceri, assume contorni ancora più drammatici. La regola: sistema binario e separazione - Il sistema penitenziario resta strutturato su un modello binario di genere, interamente declinato al maschile. Le persone trans vengono assegnate agli istituti seguendo il criterio puramente biologico: le donne trans finiscono in carceri maschili, gli uomini trans in quelle femminili, indipendentemente dalla loro identità di genere, dal percorso di affermazione intrapreso, persino dalla rettifica anagrafica eventualmente ottenuta. L’unico elemento che conta è l’apparato genitale. Ma c’è una differenza sostanziale nel trattamento. Mentre gli uomini trans vengono collocati nelle sezioni femminili ordinarie insieme al resto della popolazione detenuta - con tutto il disagio che questo comporta - le donne trans e gli uomini che dichiarano la propria omosessualità vengono separati dal resto dei detenuti e confinati in sezioni apposite. Un modello che sulla carta nasce da esigenze di protezione, ma che nella pratica genera spesso isolamento e marginalizzazione. La riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018 ha istituzionalizzato questo sistema, creando le cosiddette “sezioni protette omogenee”: oggi in Italia esistono sei sezioni per donne trans e tre sezioni per uomini omosessuali. A ottobre 2023 - gli ultimi dati disponibili - erano 70 le donne trans detenute nelle carceri italiane, di cui 64 nelle sezioni omogenee. Solo 66 uomini avevano formalmente dichiarato il proprio orientamento sessuale, metà nelle sezioni protette e metà ancora nelle vecchie “sezioni protette promiscue”, quelle dove finiscono mescolati sex offenders, collaboratori di giustizia e persone LGBTIQ. Nessun dato, invece, su donne lesbiche, uomini trans e persone non binarie: nell’universo femminile, dove non esistono sezioni apposite, l’amministrazione penitenziaria non prevede alcuna registrazione. “A Secondigliano stiamo nel Medioevo” - La separazione, nata per tutelare, si traduce in esclusione drastica. La sezione per donne trans a Napoli Secondigliano ne è l’esempio più lampante: strutturalmente isolata, offre opportunità ridotte al minimo - un solo corso scolastico, niente accesso alla biblioteca o a una vera palestra. “Qua stiamo nel Medioevo; per loro è impensabile mandarci a scuola con i maschi”, ha raccontato una detenuta, cui è stata negata persino la messa domenicale per evitare contatti con gli uomini. Il risultato è un isolamento quasi totale. A Rebibbia la situazione è diversa: la sezione trans si trova in un reparto più ampio e consente attività condivise con gli uomini (scuola, teatro, falegnameria). Nonostante ciò, la discriminazione persiste, in particolare nell’accesso agli spazi aperti: le donne trans sono spesso relegate in aree verdi separate, definite da una di loro “un buco nero fatto di cemento”. Ancora più drammatica è la condizione degli uomini trans nelle sezioni femminili. Tutti gli intervistati al carcere di Secondigliano hanno espresso il desiderio di un trasferimento in una struttura maschile. Il disagio di vivere in un ambiente femminile è amplificato per chi ha un look maschile, in particolare per l’obbligo della doccia comune, vissuto con grande sofferenza. Violenza, linguaggio e identità negata - La violenza in carcere inizia spesso con l’arma più sottile: il misgendering, ovvero l’uso sistematico di pronomi e termini che negano l’identità di genere. È una pratica diffusissima tra gli agenti. Un uomo trans ha raccontato la frustrazione: “La scusa è che il femminile esce automatico, ma sulla porta della mia cella c’è scritto il mio nome maschile”. Altri hanno subito vere e proprie umiliazioni: “Nonostante il documento, per noi sei femmina. Solo perché hai la barba pensi di essere uomo?”. Come sottolinea un’attivista del MIT (Movimento Identità Trans), il nome viene usato come un “grimaldello” per negare il riconoscimento e affermare il potere. Ma la discriminazione non si ferma alle parole. Il 24 giugno scorso, una donna trans detenuta a Ferrara ha denunciato una violenza sessuale di gruppo. Trasferita precedentemente da una sezione omogenea (Reggio Emilia) a una protetta promiscua (Ferrara), la donna aveva già segnalato insulti e molestie. Nonostante i segnali di allarme, la lentezza della burocrazia penitenziaria non è riuscita a proteggerla, lasciando il sistema penitenziario drammaticamente esposto nella sua incapacità di garantire la sicurezza. L’accesso all’assistenza sanitaria per le persone LGBTIQ è un’area critica. Nonostante la terapia ormonale sia formalmente inclusa nel Servizio Sanitario Nazionale, le testimonianze parlano di gravi ritardi e difficoltà. Gli uomini trans intervistati a Secondigliano, ad esempio, hanno confermato che “solo chi ha intrapreso il percorso fuori continua anche dentro il carcere”. L’accesso alle cure non è un diritto garantito. Ancor più allarmante è l’uso massiccio di psicofarmaci, specialmente nella sezione di Secondigliano, che genera una vera e propria dipendenza. Una tendenza che conferma come il carcere stia utilizzando la somministrazione di farmaci non solo con finalità terapeutiche, ma sempre più come uno strumento di controllo disciplinare, sedando il disagio derivante dal profondo isolamento. Il reinserimento impossibile - La fragilità di questa popolazione - spesso immigrata, irregolare e sex worker - rende l’uscita dal carcere un incubo, più che una liberazione. Come spiega un’attivista, molte detenute trans ammettono che “all’interno ci si sente a volte più protette che fuori. Si esce ma dove si va? Quando non hai casa, quando non hai amici, quando non hai nulla”. Questa precarietà è aggravata dalla totale mancanza di un sistema di supporto: il Garante di Roma conferma che l’accoglienza post-detenzione è quasi inesistente, con l’esclusione di fatto dalle case femminili e posti limitati nelle pochissime strutture dedicate. In questo scenario di abbandono, il ruolo della società civile è fondamentale, come dimostra l’esempio virtuoso dello sportello di supporto gestito da Arcigay Napoli. Il Rapporto Antigone non si limita a fotografare le criticità, ma indica la strada per un cambiamento concreto. È fondamentale dare attuazione alla riforma del 2018, garantendo accesso effettivo ad attività e risorse, e superare il criterio di assegnazione basato solo sul sesso biologico, lasciando margini per valutazioni caso per caso. Il principio di individualizzazione del trattamento deve prevalere sulla standardizzazione. Infine, è necessaria una formazione specifica e obbligatoria per tutto il personale penitenziario, con il coinvolgimento diretto delle associazioni. Come sottolinea la sociologa Daniela Ronco, la battaglia per i diritti delle persone LGBTIQ in carcere non dovrebbe essere percepita come una questione di nicchia, ma come un’opportunità per elevare gli standard di tutela per tutte le soggettività ristrette. Legge 104, il Dap ignora le unioni civili: discriminate le coppie dello stesso sesso di Patrizia De Rubertis Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2025 I diritti che la legge prevede, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) cancella con un colpo di spugna. È accaduto con i permessi e con i congedi straordinari previsti dalla legge 104 del 1992 e che poi sono stati estesi in favore dei lavoratori nel caso delle unioni civili. In altre parole, dopo aver equiparato le unioni civili ai matrimoni, è stato garantito a entrambi i partner dello stesso sesso i diritti previsti per l’assistenza al coniuge. E questo ha incluso anche i permessi per assistere i parenti del partner nel caso dei lavoratori del settore privato attraverso una circolare ad hoc prevista dall’Inps nel 2022. Una premessa necessaria per capire ora la portata della decisione presa dal Dap che lo scorso 7 ottobre - denuncia Florindo Oliverio, segretario nazionale Fp Cgil - ha inviato una circolare interna, spiegando che “nonostante la legge abbia regolamentato le unioni civili dello stesso sesso, ora è stato invece deciso che questi benefici non siano più previsti per chi lavora nelle e per le carceri”. La motivazione scritta è che “la disposizione non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella legge” che fa riferimento alla 76/2016 che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso. “È evidente che al ministero della Giustizia - dice Oliverio - ci sia una pressione fortissima in atto per affossare i diritti dei lavoratori, impedendo addirittura un diritto normato per legge e per contratto. È inaccettabile che si faccia implodere un dicastero dove la politica si sostituisce alla competenza e alla responsabilità della dirigenza che risulta sempre più sottomessa. Dobbiamo credere che questa forte pressione faccia compiere addirittura degli errori così grossolani”. Il riferimento normativo della circolare interna riguarda, infatti, una circolare Inps che però è relativa ai dipendenti privati e non ai lavoratori pubblici, disattendo quello tutto quello che è tra l’alto riportato nel contratto collettivo del lavoro del pubblico impiego dove espressamente è scritto che si può usufruire del beneficio di legge senza distinzione di sesso. Nelle scorse ore, la Fp Cgil ha avuto un’interlocuzione con i vertici del Dap ai quali non è rimasto altro che temporeggiare, spiegando che in base alla denuncia del sindacato attiveranno una procedura per chiedere spiegazioni all’ufficio legislativo. Intanto si continueranno a negare i permessi previsti dalla legge 104. Parliamo di giustizia, ma facciamolo nel merito di Mario Chiavario Avvenire, 4 novembre 2025 Il referendum sulla riforma nasce già avvelenato: politica chiusa, toni ideologici, poco confronto. Invece è necessario pensare con libertà. Come Giulia Tortora, ad esempio. Nella varietà delle forme di comunicazione compaiono anche gesti aventi l’apparenza di semplici postille a qualcosa di ben altrimenti importante. Ma talora qualcuno di quei gesti viene invece ad essere, forse ancor più delle affermazioni cui accede, significativo e persino esemplare. Penso a una recente dichiarazione di Gaia Tortora, nota giornalista figlia di una delle vittime più illustri di un modo deplorevole di imbastire e condurre un’indagine penale. Lei - ha sottolineato - voterà convintamente “sì” al referendum sulla cosiddetta riforma costituzionale della giustizia, non risparmiando neppure critiche severe all’atteggiamento delle forze politiche che invece vi si oppongono. Tuttavia - ha subito aggiunto - non pensa di aderire, benché sollecitata, ad alcun comitato di sostegno a quel sì: “Preferisco essere libera di andare dove desidero, quando lo desidero. Di dire quello che credo o di non dire niente se il livello del dibattito resta quello di adesso: basso”. Altro stile, indubbiamente, dal trionfalismo con cui l’ultimo voto senatoriale sulla riforma Nordio è stato celebrato come uno scalpo offerto alla memoria di Silvio Berlusconi, le cui vicende nei rapporti con la giustizia, comunque le si rivolti, non sono assimilabili a quelle di Enzo Tortora. Del resto, è stato tutto l’iter parlamentare della riforma ad essere condotto, dalla maggioranza governativa che con vari gradi di devozione si riconduce a quella memoria, con modalità sconcertanti, a partire da un testo rispetto al quale si è rifiutato ogni contributo emendativo, fosse pur suggerito da appartenenti alla stessa coalizione che lo ha proposto. In un clima del genere a che vale che siano state rispettate alla lettera le regole procedurali scritte nell’art. 138 della Carta fondamentale? Sì, c’è stato il doppio passaggio di quel testo presso ambedue le Camere e ora, non essendosi raggiunti i 2/3 di favorevoli in ognuna di esse, si andrà al referendum popolare. Ma ci mancherebbe altro se addirittura tali regole venissero tranquillamente ignorate. Il fatto è che a ogni evidenza la ferrea blindatura del testo ha ridotto i vari passaggi dell’esame da parte di deputati e senatori a una serie di stucchevoli teatrini, in palese conflitto con un’esigenza che, mediante le suddette regole, i padri costituenti vollero fosse salvaguardata ogni qualvolta si venisse a toccare la legge basilare della Repubblica. È quella di un confronto particolarmente ed effettivamente approfondito e incisivo sui contenuti del testo, ricercandone autenticamente la più ampia condivisione possibile, qui sostituita viceversa da un categorico “prendere o lasciare”. L’aver fatto un corpo unico delle varie articolazioni della riforma rende altresì inevitabile che pure i cittadini chiamati a pronunciarsi nel referendum lo possano fare soltanto con un “sì” o un “no” globali (in questo caso, non essendoci un quorum da superare per la validità dell’esito, l’astensione non può essere usata come un’altra specie di voto negativo). Donde, un’ulteriore spinta a trasformare l’istituto referendario in un plebiscito pro o contro qualcuno (qui, a seconda delle rispettive simpatie e antipatie del singolo elettore, si potrà scegliere se impallinare governo, opposizione o magistratura …), a prescindere da valutazioni di merito sul quesito che si leggerà sulla scheda. Largamente deludente, però, anche l’atteggiamento adottato dalle leadership dei principali partiti dell’opposizione, accomunati ma non senza ragguardevoli dissensi interni al Pd, in una gara a chi grida più forte un contrasto frontale alla riforma, andando anche oltre la magistratura associata, dal canto suo impegnata - opportunamente? - persino nella promozione di un “suo” Comitato per il no. C’è bisogno di ricordare che qui si trattava e si tratta di argomenti che da sempre suscitano controversie tra i giuristi e con buone ragioni di dubbi e incertezze in vario senso da parte di chiunque, cognita causa, li affronti senza pregiudizi ed equilibratamente. Le analisi problematicamente critiche dei singoli punti e del loro insieme sono invece state per lo più assorbite dalla ripetizione di slogan espressivi di certezze presentate come incontestabili e convergenti nel dare per scontato che la riforma comporti la riduzione o addirittura la soppressione dell’indipendenza della magistratura requirente se non anche, di riflesso, di quella giudicante. Personalmente non sono insensibile al pericolo, dal momento che specialmente lo sdoppiamento dell’attuale Csm in due organismi distinti può indurre o rafforzare la tentazione di fare come in parecchi tra gli Stati dove le carriere di giudici e accusatori sono separate, ossia di sottoporre i secondi a una più o meno larvata dipendenza dal potere politico. Ma dell’esistenza di questo pericolo non si può fare un dogma di fede, almeno fino a quando l’art. 104 della Costituzione ribadisce l’intoccabilità dell’indipendenza dell’una e dell’altra categoria di magistrati. Partita male e gestita peggio, la legge Nordio difficilmente vedrà spegnersi, nel tempo che ci separa dal referendum, le esasperazioni che ne hanno caratterizzato sin qui l’iter. E, vincano i “sì” o vincano i “no”, è poco probabile che si possa sperare nell’adozione, a livello di legislazione ordinaria, di integrazioni ragionevoli: tale, quella della riforma del tirocinio di formazione che - come accade in Germania - metta i giovani magistrati per un periodo adeguato a contatto operoso con tutte le realtà in cui prendono corpo le principali figure degli operatori di giustizia: giudici, pubblici ministeri e, perché no, avvocati. Peccato, giacché sarebbe questo, invece, il modo migliore per dare un senso compiuto a quella “cultura comune della giurisdizione” richiamata sovente come un valore, ma non sempre poi coerentemente praticata. Quella della giustizia è una riforma inevitabile di Augusto Barbera* Il Foglio, 4 novembre 2025 La separazione delle carriere e il sorteggio del Csm non porteranno nessuna subordinazione dei pm alla politica e aiuteranno a tutelare la Costituzione. Ragioni riformiste per il sì da sinistra. Come risposta, nel 1999 fu approvato dal Parlamento, a larghissima maggioranza, il nuovo articolo 111 della Costituzione: il “giusto processo” nel contraddittorio fra le parti” in “condizioni di parità” davanti a un Giudice “terzo ed imparziale” (così detta riforma Pera). Il dibattito venne inquinato da ulteriori vicende della storia repubblicana: prima Craxi e poi Berlusconi prendendo in mano questa bandiera, certamente più favorevole alle loro posizioni processuali e comunque utile (a loro avviso) per contrastare i giudici inquirenti, favoriranno ulteriori passi indietro delle forze politiche, in particolare delle attuali opposizioni. Al di là del merito della riforma prevalsero vieppiù ragioni di schieramento politico. È quanto sta per ripetersi: chi è a favore della attuale maggioranza sarà spinto a votare “Si”; chi è contro sarà indotto a votare “no”. Si ripeterà quanto accaduto bocciando la (per me ottima) riforma Renzi? Non mi piacciono le tifoserie ma non voglio demonizzare nessuna posizione: anche la “politique politicienne” ha le sue logiche. Logiche non commendevoli, che possono anche meritare rispetto; ma a due condizioni. La prima: che si evitino argomenti artefatti. Fra i tanti sento ripetere che dopo la riforma Cartabia pochi sono i passaggi dall’una all’altra carriera; verissimo ma giudici e pm sono rimasti insieme nel medesimo Csm (i pm a giudicare le carriere degli altri giudici e viceversa) e soprattutto raggruppati nelle medesime correnti in esso presenti. Sono lontani i tempi - fine anni Sessanta - in cui la divisione in correnti dei magistrati rifletteva due diverse letture della Costituzione ed è andata crescendo la loro sgradevole natura di gruppi di pressione e di potere. L’altra condizione: che si rispetti la storia. Vedo chiamato in causa da giuristi militanti la posizione di Piero Calamandrei nell’Assemblea costituente. Richiamo sempre suggestivo di un indiscusso e celebrato padre della Costituzione; ma stavolta richiamo privo di senso, anzi controproducente, frutto di quella disinvolta agiografia con cui spesso si leggono i lavori dell’Assemblea costituente. Spiego perché. Su incarico della Commissione dei 75, Calamandrei elabora nell’autunno del 1946 la “Relazione sul potere giudiziario e sulla suprema Corte costituzionale”, che riprende la sua Relazione alla commissione Forti, in alcuni passaggi più chiara e discorsiva (per puntuali citazioni rinvio a un mio vecchio saggio pubblicato in “Rassegna Parlamentare” del 2009). Questi i punti principali. I giudici, “assieme agli ausiliari”, costituiscono un “ordine autonomo”. Nella Commissione Forti, Calamandrei aveva usato l’espressione “potere autonomo” ma non spiega il mutamento di posizione (ammesso che di questo si tratti). Pertanto, i giudici, nell’esercizio delle loro funzioni, dipendono solo dalla legge, “che essi interpretano ed applicano al caso concreto secondo la loro coscienza, in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione”. Per assicurare tale obiettivo, il giudice deve essere “precostituito”; ha il dovere di motivare le sentenze e deve assicurare la pubblicità delle udienze. Per le medesime ragioni deve essere riservata al potere legislativo l’interpretazione delle leggi con efficacia generale e astratta ma deve essere garantita l’intangibilità dei giudicati da parte del potere legislativo. E infine l’unicità della giurisdizione, superando soprattutto la distinzione fra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa. Ma il punto che più ha affaticato Calamandrei - il “punctum pruriens”, lo definiva - è come collegare alla politica l’ordinamento delle magistrature. La soluzione prescelta, fra le diverse prospettate, ricorda il Lord Chancellor, pilastro dell’ordinamento inglese (superato con la riforma Blair del 2005). Quella proposta prevedeva un “procuratore generale”, con funzioni di “commissario della giustizia”, nominato dal capo dello stato ma scelto in una terna di magistrati superiori proposta dalla Camera dei deputati. Tale commissario è il “capo degli uffici del pubblico ministero dei quali vigila e coordina l’azione” ed esercita l’azione disciplinare. E’, in breve, organo di collegamento fra il potere giudiziario e gli altri poteri dello stato e, come tale, è membro di diritto del Consiglio superiore, prende parte al Consiglio dei ministri con voto consultivo e “risponde di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura”. Se si fa eccezione per la figura del commissario della giustizia (e per la unicità della giurisdizione ordinaria e amministrativa), quasi tutte le proposte di Calamandrei verranno accolte e andranno a costituire la struttura portante del testo costituzionale. Sulla configurazione dei rapporti con il potere politico, invece, Calamandrei dovette combattere su due fronti. Da un lato contro i comunisti favorevoli alla elezione popolare diretta dei magistrati (su cui si era pronunciato il V Congresso del Partito) e comunque assai tiepidi, se non ostili, verso l’autogoverno dei magistrati; dall’altro, contro la Democrazia cristiana favorevole al controllo governativo del pubblico ministero. Da un lato la posizione di Palmiro Togliatti che riteneva il pieno autogoverno “concezione democraticamente non accettabile” e proponeva che almeno la vicepresidenza del Csm fosse affidata al ministro della giustizia “che deve avere una funzione preminente”. Un autogoverno, peraltro, impropriamente riconosciuto a “sovrani senza corona e senza autorità”, dirà intervenendo nel dibattito generale sul progetto di Costituzione l’11 marzo 1947 (“Discorsi alla costituente”, Editori riuniti, Roma 1973, p. 16). Non è possibile in una democrazia, aggiungerà Renzo Laconi, deputato del Pci, costruire poteri “sottratti al controllo delle istanze democratiche” né costruire una guarentigia autoreferente, propria di una “casta”, aggiungerà ulteriormente l’ex Guardasigilli comunista Fausto Gullo. Evidente era ancora l’eco del “caso Pilotti”, il procuratore generale che all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947 si era rifiutato di rendere omaggio al capo dello stato repubblicano. Dall’altro lato la posizione di Giovanni Leone, relatore per la Dc, che nella sua relazione (più volte ripresa in Aula) disegnava il pubblico ministero come organo del potere esecutivo, privato di ogni funzione di tipo giurisdizionale (allora più marcate nel vecchio Codice di procedura penale); organo di “sorveglianza per l’applicazione della legge”; promotore dell’azione penale, e anzi posto a capo della polizia, “non solo giudiziaria”; non inamovibile e posto alla dipendenza gerarchica del ministro della Giustizia. Entrambe le posizioni furono sconfitte, la prima con un voto già nella commissione per la Costituzione che vide isolato Togliatti (commissione per la Costituzione, Seduta plenaria del 30 gennaio 1947, Atti Assemblea costituente, vol. VI, p. 241), la seconda in Aula nella seduta pomeridiana del 26 novembre 1947. Si addivenne invece (sulla base di un emendamento Grassi-Leone) di non porre sullo stesso piano nel testo costituzionale - oggi ultimo comma dell’art. 107 - le garanzie di indipendenza dei giudici e quelle dei magistrati del pubblico ministero, e di rinviare per queste ultime alla legge sull’ordinamento giudiziario. Da qui la formula dell’art. 101, “i giudici sono soggetti solo alla legge”, che corregge la proposta della commissione dei 75 che faceva riferimento a tutti i magistrati, sia ai giudici sia ai pubblici ministeri. Sulla base di questa distinzione la Corte costituzionale in due distinte sentenze la n. 37 del 2000 e la più recente n. 58 del 2022 ebbe ad ammettere due referendum proposti sia dai radicali e sia successivamente da cinque regioni che prevedevano la separazione delle carriere (e che non furono approvati per il mancato raggiungimento del quorum). Pienamente legittima per la Corte costituzionale, dunque, anche a Costituzione vigente, la possibile separazione del regime dei due pilastri. Scartata la strada del raccordo con il governo (inizialmente preferita da Calamandrei), il momento di collegamento della magistratura con il potere politico verrà infatti individuato nella presidenza del Consiglio superiore affidata al presidente della Repubblica e nell’immissione nel Consiglio stesso di un terzo di laici, eletti dal Parlamento, mentre al ministro della Giustizia verranno affidati solo l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110), e la promozione dell’azione disciplinare (art. 107). Un Consiglio superiore con compiti, dunque, di “garanzia”; non dovrebbe invece svolgere funzioni di “rappresentanza”, né del Parlamento né dei magistrati. Cadono pertanto le obiezioni (quelle giuridiche almeno) al “sorteggio” dei componenti dei due Csm, fondate invece qualora dovesse trattarsi di eleggere “rappresentanti”. Non credo, infine, che la vittoria nel referendum porterà a una subordinazione al potere politico. Lo impedisce il nuovo testo dell’art. 104 laddove stabilisce che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Una affermazione, peraltro, ancora più forte rispetto al testo vigente che, come abbiamo visto, lascia spazi alla legge ordinaria, sia nell’ultimo comma dell’art. 107, sia nel secondo comma dell’art. 108. Se mai il nuovo ordinamento potrebbe rendere più agevole la tormentata introduzione di forme di coordinamento fra procure varate, dopo tanti timori e incertezze, con la legge n. 8 del 1992, in seguito agli attentati a Falcone e Borsellino. Esse non hanno superato l’obbligatorietà dell’azione penale ma aperto la strada ai poteri di coordinamento delle procure antimafia e antiterrorismo, distrettuali e nazionali. Non mancarono allarmi e diffidenze ma quei poteri di coordinamento non hanno” assoggettato” le singole procure, né reso invadente il potere politico. *Ex presidente della Corte costituzionale Riformisti alla prova giustizia di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 4 novembre 2025 Adeguandosi alla linea della segreteria, la minoranza del partito rinuncia alla propria vocazione liberale. Tra l’incudine e il martello. Forse la posizione più difficile, meno invidiabile, in vista del referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati, è quella della componente riformista, la minoranza, del Pd. Se sceglie il “sì” a una riforma di impronta liberale come quella, riafferma la sua identità e la sua vocazione riformista ma se lo fa trasforma anche se stessa in un gruppo di “social traditori”, di sabotatori della “causa”. La quale causa consiste nel tentativo di usare il referendum per dare una spallata al governo Meloni. Un bel dilemma. Probabilmente se si facesse un sondaggio rigorosamente anonimo fra i dirigenti del Pd verrebbe fuori una maggioranza favorevole alla riforma Nordio. Ma una cosa sono le verità “private”, quelle che si conservano ben chiuse nel proprio cuore, un’altra cosa sono le verità “pubbliche”, quelle in cui conta il gioco di squadra, la disciplina di partito, gli obiettivi politici da perseguire. Quelli che, della minoranza, si piegheranno al diktat della segreteria, ovviamente, cercheranno per lo meno di salvare la forma non potendo salvare la sostanza: non si lanceranno in intemerate sulla deriva autoritaria, le minacce alla democrazia, l’attacco alla Costituzione, eccetera eccetera. Si limiteranno a dire, più o meno a mezza bocca, che il loro “no” alla riforma dipende dal fatto che essa non è in grado di risolvere le gravi disfunzioni del nostro sistema giudiziario. Probabilmente seguiranno la strada indicata da Matteo Renzi: mantenere le distanze dalla Associazione Nazionale Magistrati (sulle cui posizioni è invece schiacciata la segreteria) battendo contemporaneamente sul tasto della inutilità della riforma. A proposito di Renzi: è comprensibile che egli dica che se Meloni perde il referendum deve andare a casa. Perché è quanto accadde a lui quando venne sconfitto nel referendum costituzionale del 2016. Sarà però curioso vedere come farà Renzi ad astenersi. Lo ha potuto fare al momento del varo della legge. Astenersi nel referendum è più difficile. Se vota “sì” rischia di rafforzare il detestato governo Meloni. Se vota “no” si trova in compagnia di quelle procure che gli diedero così tanto filo da torcere in passato. Qualcuno, a quel punto, potrebbe persino evocare la “sindrome di Stoccolma”. Al di là del difficile scoglio del referendum sulla separazione delle carriere la posizione dei riformisti del Pd (come quella del partito di Renzi) è oggi assai precaria. E lo resterà se e fin quando l’asse politico del Pd rimarrà così spostato a sinistra, fin quando l’alleanza a tutti i costi con i 5 Stelle continuerà ad essere la sua priorità. Con effetti a tutto campo. Dalla giustizia ai temi del lavoro, a quelli dell’immigrazione o della politica estera. È dura sopravvivere, disporre di quelli che un tempo si definivano “spazi di agibilità politica”, se devi fare i conti con una maggioranza del partito che è distante anni luce dalle tue posizioni. Anche perché non è più questo il tempo degli indipendenti di sinistra. Che è esattamente quanto viene di fatto evocato quando si immagina che il Pd possa andare alle elezioni politiche usando una qualche “copertura a destra”, un cespuglio di volenterosi riformisti a caccia di voti centristi. Non funziona più così. È la leadership del partito che deve (dovrebbe) avere la forza e la capacità di aggregare un fronte ampio in grado di erodere i consensi dello schieramento di destra. Che è quanto Romano Prodi ha detto e ripetuto. Tutto questo per dire che la minoranza, i riformisti del Pd, è e resterà in una posizione assai difficile se la leadership del partito non cambierà ridefinendo il proprio posizionamento e le proprie politiche. Cosa però che, a meno di imprevisti, non è plausibile che avvenga prima del 2027, prima delle prossime elezioni politiche. In caso di sconfitta del Pd allora la minoranza riformista tornerebbe in gioco. O per lo meno, tornerebbero in gioco i sopravvissuti essendo probabile che, al momento della formazione delle liste, la segreteria scelga di affondare i denti, di non fare prigionieri. Fino a quel momento continuerà a mancare al Paese una forza di opposizione che, messi da parte slogan, rumori e furori, sappia davvero incalzare il governo, mettere a nudo i suoi veri punti di debolezza. Che è quanto sanno fare e fanno le opposizioni efficaci, quelle che non si limitano a chiamare a raccolta i già convinti, quelle che, mostrando debolezze e inadempienze del governo, riescono a persuadere elettori che lo sostenevano a cambiare bandiera, a votare per l’opposizione. Un terreno sul quale la componente riformista del Pd si troverebbe a proprio agio. Ma solo se avesse il sostegno di una dirigenza impegnata a remare nella stessa direzione. Nel frattempo, mosse e contromosse saranno condizionate dall’agenda politica. E oggi, nell’agenda politica del Paese campeggia il referendum sulla separazione delle carriere. Nella curiosa e molto italiana storia delle riforme costituzionali risulta che quelle approvate hanno sempre fatto più male che bene al Paese: la modifica dell’immunità parlamentare, la pasticciatissima riforma del Titolo Quinto, la demagogica riduzione del numero dei parlamentari. I buoni tentativi, come la riforma costituzionale proposta da Matteo Renzi nel 2016, hanno sempre fatto fin qui una brutta fine. Se sarà questo anche il destino della separazione delle carriere ciò confermerà che il “riformismo” in Italia gode di pessima salute. La vita grama e precaria dei riformisti del Pd risulterà allora solo la spia di un problema assai più grande e generale. Così i Pm avranno molto più potere di Luciano Violante Corriere della Sera, 4 novembre 2025 La separazione delle carriere crea una “casta” di magistrati arbitri indiscussi delle libertà e della reputazione dei cittadini. La discussione sulla separazione delle carriere, per la difficoltà della materia e la sua intrinseca politicità, rischia di aggrovigliarsi in un viluppo di accuse reciproche che nasconderebbero la sostanza delle cose. Un tentativo di chiarimento è forse necessario. 1. Questa legge non istituisce la separazione delle carriere; infatti tra pm e giudici restano uguali tanto la progressione nella carriera quanto la progressione nella retribuzione. Né introduce la separazione delle funzioni, di pm e di giudice, che sono già state separate dalla legge Cartabia. Oggi, in base alla legge Cartabia, si può passare dalla funzione di pm e quella di giudice una sola volta nella vita e solo nei primi dieci anni, ma a condizione che si vada ad esercitare in un’altra regione. Sino ad oggi, meno dell’1 per cento dei magistrati ha chiesto di cambiare funzioni. 2. Quali sono le novità della riforma? La riforma vieta comunque il passaggio da una funzione all’altra, lascia all’attuale CSM solo la competenza sui giudici, crea un nuovo CSM per i soli pm, sottrae le funzioni disciplinari ai due CSM e li attribuisce, sia per i pm che per i giudici (di nuovo uniti), ad un’Alta Corte costituita da dodici componenti: sei giudici, tre pm, e sei “laici”, professori universitari o avvocati, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica e tre estratti a sorte da un elenco approvato a maggioranza semplice (la maggioranza di governo, per intenderci) dallo stesso Parlamento. 3. Quali sono le principali conseguenze istituzionali? Si costituisce la “casta dei pm”, 1.200 magistrati, che, attraverso il proprio CSM, si autogovernano, che, privi di qualsiasi vincolo gerarchico, sono gli arbitri indiscussi della libertà e della reputazione dei cittadini, che attraverso il principio della obbligatorietà dell’azione penale hanno piena libertà di azione su tutto il territorio nazionale. 4. Quindi i pm sono pericolosi? Certamente no. Ma se la politica regala a una categoria di magistrati una quantità sproporzionata di potere, l’esperienza insegna che quei magistrati prima o dopo quel potere lo usano. 5. La riforma aveva l’obbiettivo di evitare che le ragioni dell’accusa condizionassero eccessivamente il giudice. Ma un eccesso ideologico in gran parte della maggioranza e alcuni eccessi autodifensivi in una parte della magistratura hanno portato ad una sorta di eterogenesi dei fini, al raggiungimento di uno scopo diverso da quello voluto. Volevano indebolire i pm e invece li si è rafforzati, creando un corpo di accusatori che non ha eguali in nessun Paese civile. I danni, se il referendum confermerà la riforma, ricadranno sui cittadini e sulla stessa politica. 6. In quasi tutti i Paesi del mondo i pm sono separati dai giudici. Verissimo. Ma in quei Paesi le regole sono diverse: i pm dipendono dal governo e l’azione penale è discrezionale: non si procede per ogni notizia di reato, ma solo in seguito a quelle che, d’intesa con il governo, sono ritenute più meritevoli di attenzione. Da noi i pm sarebbero indipendenti, autogestiti e con un raggio di azione a 360 gradi. I danni e gli arbìtri per i cittadini e per la stessa politica potrebbero essere insostenibili. A quel punto le vie di uscita sarebbero due: o si introduce il controllo politico, o si fa la riforma della riforma. 7. Il ministro Nordio denuncia il lassismo del CSM in materia di responsabilità disciplinare. I dati lo smentiscono. Comunque, In base alla Costituzione, il ministro della Giustizia è titolare del potere di esercitare l’azione disciplinare. Inoltre, il Ministero dispone di un ufficio ispettivo che può rilevare qualsiasi violazione, informare il ministro e metterlo in condizione di agire. Ma il ministro non lo ha mai, dico mai, fatto. Le sue critiche, detto con rispetto, appaiono o infondate o pretestuose autolesioniste. 8. L’estrazione a sorte rende più deboli le correnti. Certamente sì, perché non potranno né fare le liste né organizzare il voto. Ma circa il 96 per cento dei magistrati è iscritto all’ANM, che è distinta in correnti; quindi i sorteggiati apparterranno quasi sicuramente ad una corrente e si aggregheranno ai colleghi sorteggiati che fanno parte della medesima corrente. Peraltro in questa consigliatura tra l’80 e l’85 per cento delle nomine per incarichi direttivi è stato approvato alla unanimità. Il dato dimostrerebbe che tende a prevalere il merito sull’appartenenza. 9. È comunque inaccettabile che il pm non sia separato dal giudice. Può essere vero. Ma nella Corte dei Conti i procuratori non sono separati dai giudici. Perché la riforma non se ne occupa e si occupa solo della magistratura ordinaria? 10. Quali sono i costi? La legge istituisce due nuovi organismi costituzionali, il CSM per i pm e l’Alta Corte per i procedimenti disciplinari. Oggi il CSM ha un bilancio annuale di circa 50 milioni, dispone di 219 dipendenti amministrativi, 32 assistenti dei consiglieri, 20 magistrati (segreteria, ufficio studi etc.) 15 carabinieri, compreso il colonnello comandante. La riforma, istituendo altri due organi costituzionali, triplica all’incirca gli investimenti, regalando alla magistratura circa 100 milioni l’anno, 438 dipendenti amministrativi, 64 assistenti dei consiglieri, 40 magistrati, 30 carabinieri, compresi due altri colonnelli. 11. Alla fin dei conti non avremo nessun miglioramento del funzionamento della giustizia, ma un formidabile potenziamento dei poteri della magistratura nella società, nell’economia e nella politica. I magistrati dopo la riforma: più deboli e gerarchizzati di Francesco Pallante Il Manifesto, 4 novembre 2025 L’obiettivo è ridurre l’indipendenza della magistratura dal potere politico, di modo che ugualmente ridotto sia il rischio di sentenze sgradite alla politica. Le riforme costituzionali - dice Gustavo Zagrebelsky - si fanno per cambiare gli equilibri di potere. Perché qualcuno guadagni e, corrispettivamente, qualcun altro perda potere. Altrimenti, se tutto dovesse rimanere com’è, perché assumersi l’onere, e il rischio, di una riforma? Se, dunque, ci chiediamo quale sia la ragione della riforma della magistratura, la risposta è: ridefinire gli equilibri costituzionali a scapito della magistratura. Non si tratta - come si dice - di un intervento volto a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. La separazione esiste già, considerati gli strettissimi vincoli che ostacolano il passaggio da una funzione all’altra. L’obiettivo è ridurre ai minimi termini l’indipendenza della magistratura dal potere politico, di modo che ugualmente ridotto ai minimi termini sia il rischio di sentenze sgradite alla politica. Con toni di puerile ripicca, la destra ha voluto dedicare il suo - scontato, eppure comunque tracotante - successo parlamentare alla memoria di Silvio Berlusconi. Ma c’è uno scarto significativo rispetto al passato. L’ostilità di Berlusconi nei confronti della magistratura era dettata da ragioni personali, legate alla tumultuosità legale della sua vita imprenditoriale e privata. L’ostilità di Giorgia Meloni è dettata da ragioni politiche. Vuole potersi spingere al di là del costituzionalmente consentito: infrangere le forme e i limiti della Carta fondamentale, senza sottostare ai controlli della magistratura (e, più in generale, dei poteri terzi) che inevitabilmente ne seguono. In vista di tale risultato la riforma colpisce anzitutto l’indipendenza della magistratura nei confronti del potere politico (la cosiddetta indipendenza esterna). Più in specifico, il Consiglio superiore della magistratura (Csm) viene suddiviso in due organi di analoga denominazione, uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri. Un terzo organo - denominato Alta Corte disciplinare - riceve il compito, oggi spettante al Csm, di trattare i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati. In tal modo, il potere di governare le carriere dei magistrati (concorsi, assegnazioni di sedi e funzioni, trasferimenti, promozioni, sanzioni), che oggi spetta a un solo organo, sarà suddiviso tra tre organi minori: dunque, inevitabilmente più deboli. Com’è oggi, tali organi continueranno a essere composti da membri scelti in parte dalla politica (i “laici”), in parte dalla magistratura (i “togati”); ma mentre oggi tutti i membri sono elettivi, con la riforma solo i laici continueranno a esserlo, mentre i togati saranno estratti a sorte. La conseguenza è che i primi saranno in condizione di esprimere un’unità d’intenti che i secondi non potranno avere, con il risultato che, all’interno dei tre organi, già di per sé indeboliti, a risultare ulteriormente indebolita sarà la componente togata. La particolare composizione dell’Alta Corte disciplinare vale, poi, a indebolire l’indipendenza dei magistrati nei confronti dei loro colleghi (la cosiddetta indipendenza interna). Oggi tra i magistrati non esiste gerarchia. I gradi di giudizio non sono l’uno verticalmente superiore all’altro: sono, piuttosto, orizzontalmente successivi. Quello giudiziario è un potere diffuso che ciascun magistrato incarna nella sua pienezza. La riforma altera tale impostazione, perché prevede che la componente togata dell’Alta Corte disciplinare sia composta solamente da magistrati di Cassazione. In tal modo, questi ultimi eserciteranno il più delicato dei poteri di controllo interni alla magistratura nei confronti degli altri magistrati, ritrovandosi, di fatto, in una posizione gerarchicamente sovraordinata. I giudici di Cassazione avranno, cioè, non solo l’ultima parola sulla causa, ma altresì il potere di sanzionare disciplinarmente i colleghi che su quella causa si sono espressi nei gradi di giudizio precedenti. È chiaro che l’autonomia di giudizio dei giudici di primo e secondo grado ne risentirà gravemente, risultando fortissima la spinta ad adeguarsi agli orientamenti della Cassazione. C’è da scommettere che sarà proprio sugli ermellini che si faranno più pressanti i tentativi di condizionamento politico. Se, infine, consideriamo che alla magistratura spetta il compito costituzionale di difendere i diritti dei cittadini, anche contro gli eventuali abusi del potere politico, la domanda conclusiva è: chi è che più di tutti rischia di pagare il prezzo dell’indebolimento del potere giudiziario a favore del potere politico? Ma quali carriere separate: è il sorteggio che terrorizza l’Anm di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 4 novembre 2025 La vera forza dello Stato sul singolo è impersonata da chi ha la capacità, attraverso pressioni e alleanze, dentro il Csm, di ottenere posti al sole. Nell’Italia in cui lo Stato deve spendere, come accaduto l’anno scorso, 26 milioni di euro a causa degli errori della magistratura, chi sono i primi della classe degni di sedere nel Consiglio superiore della magistratura? Quelli nominati con le pastette delle correnti politiche o quelli estratti a sorte? Qualcuno, tra le toghe, lo dice con preoccupazione, altri con sprezzo. Non capiterà che i magistrati, requirenti e giudicanti, scelti con il sorteggio a far parte dei due Csm, saranno magari proprio gli ultimi della classe? Gli asini? L’ex procuratore di Milano, già presidente del sindacato delle toghe, Edmondo Bruti Liberati, parla di “scelta con i dadi”, altri di “Armata Brancaleone”, in tanti irridono alludendo agli incompetenti e impreparati. La corporazione dei magistrati è infine uscita allo scoperto, anche nella propria veste più burocratica di pubblici dipendenti attenti in modo eccessivo solo alle progressioni di carriera. Che però, non dimentichiamolo, coincide in molti casi, con promozioni che contengono in sé qualche tonnellata di potere. I magistrati del NO nella campagna referendaria hanno già messo in penombra, nelle dichiarazioni pubbliche, la polemica sulla separazione delle carriere. Troppo ampio e prestigioso è l’elenco dei Paesi occidentali di democrazia liberale in cui la distinzione tra le parti processuali e il giudice è tradizione consolidata. Ed è un’arma spuntata quella fondata sulla logica del sospetto di un futuro in cui il pubblico ministero sarà sottoposto al “controllo politico” del ministro guardasigilli. E’ sotto gli occhi e anche sulla bocca di tutti il testo dell’articolo 104 della Costituzione, secondo la nuova formulazione, che rimanda alla tradizione dell’ autonomia e indipendenza della magistratura. Sia pure nei ruoli separati. Così, mentre, dopo l’approvazione della legge di riforma costituzionale sull’ordinamento giudiziario, si stanno già costituendo i Comitati per il Si e quelli per il NO, si affilano le armi sulla vera ferita sanguinante della casta, il sorteggio. Perché solo gli ingenui pensano che il potere delle toghe sia determinato solo dalla possibilità di privare i cittadini della propria libertà personale. La vera forza dello Stato sul singolo è impersonata da chi ha la capacità, attraverso pressioni e alleanze, dentro il Csm, di ottenere quella promozione che in seguito gli consentirà i blitz, le retate e le conseguenti conferenze stampa, con il timbro del giudice. Lo stesso giudice la cui carriera in seguito sarà condizionata dai suoi comportamenti nei confronti della procura nelle inchieste più famose. È un gioco dell’oca fatto di do ut des, di condizionamenti reciproci, in cui la voce in capitolo più vincente è quella delle correnti sindacali delle toghe e delle loro alleanze. Il sorteggio non è il criterio ideale, ma avrà il vantaggio di spezzare le “relazioni pericolose”. Poi, avrà forse ragione il procuratore Bruti Liberati quando dice che gli accordi sottobanco si potranno fare lo stesso. O addirittura l’ex magistrato Piercamillo Davigo quando ipotizza che qualche pm possa accordarsi con un altro pm per far disporre controlli fiscali o sui conti correnti di un gip che non abbia accolto le sue richieste. Vien da chiedersi: ma che gentaglia frequentano coloro che stimano così poco i propri colleghi? Ma forse, neppure troppo nascostamente, alcuni ritengono che solo la spartizione correntizia di nomine e posti, garantisca la selezione di quelli del primo banco. Ha spiegato ieri con una certa chiarezza l’avvocato Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi e promotore del Comitato “SI separa”, che se anche un magistrato alle prime armi è in grado, come succede, di privare qualcuno della libertà personale o decidere un ergastolo, a maggior ragione potrà occuparsi di trasferimenti e promozioni. Basterà ricordare che il dottor Luca Tescaroli, oggi procuratore capo di Prato, iniziò a occuparsi di Silvio Berlusconi a 27 anni. E nessuno ha obiettato. La stessa età aveva, qualche decennio fa, un pm che si ritrovò di turno la notte in cui saltò in aria un famoso traliccio dell’alta tensione, un episodio di terrorismo che segnò uno spartiacque nella storia della sinistra italiana. La storia quotidiana di tutte le procure italiane, ma non solo delle procure, è costellata della casualità con cui ogni singolo magistrato, sia nella funzione requirente che in quella giudicante, è chiamato ai casi più semplici piuttosto che a quelli complessi. E ci sarà l’Alta Corte disciplinare, che, fuori dalle gabbie dei due Csm, avrà il compito di valutare, finalmente con serietà e severità, le capacità professionali delle toghe, e i loro errori, a fronte della situazione attuale di grande “distrazione”. E che Bruti Liberati definisce invece come “sgangherata”, senza spiegarne il perché, e forse dimenticando che si ispira alla proposta della Bicamerale del 1997, quella presieduta da Massimo D’Alema. Caso femministe, il rogo pubblico della vita privata di Simona Musco Il Dubbio, 4 novembre 2025 La chiusura di un’inchiesta per diffamazione e stalking ha portato alla diffusione di pagine di chat private, anche di persone non indagate. Ma a che pro? C’è un’inchiesta su un gruppo di femministe accusate di stalking e diffamazione. Fin qui, una storia giudiziaria come tante. Ma con la chiusura delle indagini è arrivato il solito cortocircuito: le chat private delle indagate - e anche di persone che non lo sono affatto - sono finite ovunque. Pagine e pagine di conversazioni, pezzi di vita, insulti, ironie, giudizi su chiunque, da Mattarella a Segre, decontestualizzati e trasformati in materiale da talk show. La giustificazione è sempre la stessa: serve per capire il metodo. Per bacchettare e punire l’incoerenza - da qualche tempo a questa parte peccato capitale a targhe alterne. Solo che no, non serve a capire nulla. Quelle chat non spiegano il reato contestato, non aiutano a ricostruire un fatto. Servono solo a disegnare un profilo, a scolpire il volto del “mostro”, a rendere più credibile il racconto della colpa. Proprio mentre si accusa quelle persone di fare la stessa cosa: usare la vita privata degli altri (manipolarla, pure) per eliminarli dalla vita pubblica. La costruzione di un profilo psicologico, però, non spetta ai giornalisti e nemmeno ai commentatori da tastiera. È un lavoro serio, complicato, affidato - se serve - a periti e professionisti. Farlo a colpi di screenshot e tramite la selezione chirurgica di messaggi - magari sbagliando anche a indicare l’autore delle frasi “incriminate” - è un esercizio che svilisce tutto: la giustizia, il giornalismo e la dignità delle persone coinvolte. Nulla di quanto si può leggere in quelle chat è condivisibile. Ma non è importante: non era condiviso. Era un fatto privato, che non costituisce reato. E fintanto che non esiste un controllo morale diffuso che sanzioni le brutture caratteriali lasciate a briglia sciolta nel calduccio delle nostre chat private, restiamo liberi da una cultura del controllo che pretende il politicamente corretto anche fuori dalla scena pubblica. Purché, ovviamente, si tratti di avversari. C’è qualcosa di profondamente sbagliato nel dire che diffondere conversazioni private serva a “spiegare il contesto”. È una scusa. Quelle chat non raccontano il contesto: recidono la vita delle persone. Assomiglia a una vendetta, che spalanca la porta al processo mediatico, come sempre in largo anticipo su quello vero. Lo si evoca, il processo, parlando - come fatto da alcuni giornali - di “Tribunale social”, una definizione utile per descrivere il presunto metodo d’azione delle donne oggi indagate. Ma è curioso: la stessa definizione viene usata da testate che applicano - in questo caso - lo stesso identico metodo per processare mediaticamente le indagate (e gli altri a cui tocca la stessa sorte). E se un giorno dovessero risultare innocenti - succede, anche quando le accuse sembrano solidissime - cosa resterà della loro reputazione? Chi cancellerà le frasi rilanciate mille volte, gli screenshot salvati, i titoli urlati? Il loro identikit tracciato da sconosciuti? E se invece fossero colpevoli, questa pena accessoria - l’esposizione, la ridicolizzazione, la condanna permanente dell’opinione pubblica, la riduzione della vita a un francobollo di parole estirpato dal resto - sarà mai proporzionata alla colpa? Il punto non è assolvere nessuno, non è un esercizio di innocentismo ad ogni costo, il voler sembrare per forza “Bastian contrari”. È una questione di misura. Perché trasformare ogni chat in un documento pubblico, ogni sfogo in una prova morale, non vuol dire fare informazione, ma esercitare violenza. Non dissimile da quella che si dice di condannare. Se la selezione di ciò che viene diffuso dagli atti giudiziari, poi, non risponde a criteri trasparenti e verificabili, il rischio è che la narrazione mediatica finisca per sovrapporsi alla realtà processuale. Il diritto di cronaca è sacro, ma la sua forza sta nella capacità di distinguere ciò che serve a capire un fatto da ciò che serve solo a indignare, ad assecondare istinti pruriginosi e volgari. Quando questa distinzione svanisce, a perdere non è solo la privacy dei singoli, ma la credibilità dell’informazione stessa. Siamo così assuefatti al frastuono che non ci accorgiamo più della violenza operativa di questo meccanismo. Ogni volta che leggiamo una chat “rubata” partecipiamo alla costruzione del mostro di turno, convinti di cercare - addirittura di vedere - la verità. Ma la verità, quella autentica, non ha bisogno di spettacolo. Ha bisogno di tempo, di silenzio. E di regole. L’articolo 15 della Costituzione tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione. È un principio semplice e fondamentale: non tutto ciò che è accessibile deve diventare pubblico. È accettabile che frammenti della vita privata di cittadini, anche non indagati (è accaduto anche questo), diventino materiale di esposizione mediatica senza alcun rilievo penale? Con quale diritto la curiosità del pubblico prevale sulla dignità delle persone? Davvero vogliamo vivere in un Paese dove nessuna parola privata è al sicuro? Non è più cronaca, è l’estetica della gogna. E sembra piacerci anche troppo. Emilia Romagna. Guida sulle professioni nelle carceri: iniziativa del Garante dei detenuti ansa.it, 4 novembre 2025 Il volume “Guida alle carriere lavorative e professionali nell’amministrazione penitenziaria” nasce da un’idea del garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri e sarà presentato giovedì 7 novembre nella facoltà di Sociologia dell’Università di Forlì. La guida si rivolge a diplomati e laureati intenzionati a lavorare nell’amministrazione penitenziaria, con informazioni dettagliate sui percorsi professionali, requisiti e procedure concorsuali. Copre tutte le professioni del settore: dalle figure dedicate al trattamento e reinserimento sociale dei detenuti (pedagogisti, psicologi, criminologi, mediatori culturali) a quelle amministrative (funzionari contabili) fino agli addetti alla sicurezza (agenti, ispettori e commissari della Polizia penitenziaria). “Il carcere ha il compito di offrire una possibilità di cambiamento attraverso un percorso rieducativo. Se questo percorso fallisce, a perderci sarà l’intera società - osserva il garante Cavalieri - con questa pubblicazione continua l’impegno nell’attività di diffusione di strumenti per conoscere i contesti in cui si trovano le persone sottoposte a misure limitative della libertà. Solo attraverso la conoscenza è possibile lavorare a garanzia del rispetto dei diritti”. Silvia Mannone, curatrice del volume e dottoranda in Sociologia all’Università di Bologna, sottolinea che “il carcere non può essere inteso solo come luogo di reclusione, ma come una società a sé stante. Questo testo vuole orientare chi desidera intraprendere una carriera nel sistema dell’esecuzione penale e stimolare una riflessione sul ruolo che queste professioni possono assumere nel cambiamento dell’istituzione carceraria”. Alla stesura hanno collaborato le docenti Raffaella Sette e Sandra Sicurella dell’Università di Bologna, insieme al Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche e alla Polizia penitenziaria. Lecce. Suicida in carcere a 25 anni: aperta un’inchiesta di Francesco Oliva Corriere Salentino, 4 novembre 2025 I familiari: “Era tranquillo fino a poche ore prima”. C’è un fascicolo d’indagine sulla morte di un detenuto 25enne di Foggia, ma di origini brasiliane, trovato cadavere nel reparto di Infermeria nel carcere di Lecce, il 30 ottobre scorso. L’ipotesi di reato, ipotizzata dal sostituto procuratore Alfredo Manca, è quella di istigazione al suicidio al momento a carico di ignoti ed è contenuta nell’avviso di conferimento dell’autopsia che verrà eseguita nelle prossime ore. Il giovane era detenuto per una vicenda di maltrattamenti e, da tempo, aveva problemi di tossicodipendenza. Con la sua famiglia adottiva, assistita dagli avvocati Speranza Faenza e Luca Laterza, l’ultimo contatto telefonico risale al primo pomeriggio del 30 ottobre quando il giovane era apparso tranquillo. Solo tre ore dopo, la telefonata dal carcere per comunicare ai genitori adottivi che il figlio si era tolto la vita. Gli accertamenti disposti dalla magistratura salentina dovranno fugare qualsiasi dubbio sulla morte e, soprattutto, accertare se ci sia stata qualche falla nei sistemi di controllo di un detenuto descritto come un ragazzo fragile. L’ennesima tragedia in un carcere ripropone l’emergenza sovraffollamento. Negli 11 istituti penali pugliesi a fronte di una capienza regionale regolamentare di 2.629 detenuti, i reclusi sono circa 4.500, con un tasso di affollamento medio del 156%. “Questo contesto di spazi ridotti, strutture obsolete, malattie e disagio psichico diffuso crea un sistema penitenziario in affanno - commenta il segretario regionale del sindacato Cnpp-spp Ruggiero Damato - le cui ripercussioni si abbattono pesantemente sulla Polizia Penitenziaria, sottoposta a vere e proprie violazione di norme contrattuale che li rendono veri schiavi di Stato. La situazione degli istituti pugliesi - prosegue D’Amato - è aggravata da una cronica carenza di personale che si attesta sulle 1000/1200 unità in meno soprattutto nel ruolo agenti, “un deficit esacerbato dai numerosi “prepensionamenti” che vedono il personale “scappare” da condizioni di servizio insostenibili”. Nel carcere di Lecce, la carenza di servizi socio-sanitari per i detenuti, come la mancanza della figura del Dirigente Sanitario genererebbe ulteriori tensioni che si riversano sugli agenti della penitenziaria, costretto a subire reazioni, aggressioni fisiche e verbali da parte dei detenuti. La dirigenza dell’Amministrazione e la politica considerano tale situazione un “mero pericolo professionale”, una visione che Damato definisce “aberrante, sconcertante e vergognosa in uno Stato di diritto”. L’appello finale del segretario è diretto al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro della Giustizia Carlo Nordio, “affinché vengano in Puglia e incontrino le organizzazioni sindacali rappresentative. Sarebbe questo un segnale concreto per una situazione che, senza interventi decisi, rischia di rendere l’istituzione del carcere priva di ragione d’esistere”. Firenze. Sollicciano va sott’acqua. Detenuti a piedi nudi per salvare scarpe e calze di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 novembre 2025 L’associazione Pantagruel: inzuppati i vestiti donati che sono custoditi in magazzino. Sollicciano è di nuovo sott’acqua dopo le piogge dei giorni scorsi: l’associazione Pantagruel denuncia: secchi da tutte le parti, detenuti costretti a stare a piedi nudi per non bagnare scarpe e calzini. Sollicciano, ci risiamo. I temporali che hanno colpito Firenze nei giorni scorsi, hanno fatto allagare, come ormai da prassi, il penitenziario fiorentino. Piove non soltanto nei corridoi, ma anche dentro le celle. E succede che molti detenuti siano costretti a camminare scalzi per non bagnarsi scarpe o calzini, oltre che ad armarsi di secchi e stracci. “Una situazione assurda - commentano i volontari dell’associazione Pantagruel - Ci sono secchi di plastica dappertutto, è pericoloso camminare da una parte all’altra del carcere perché si rischia di scivolare”. “Mentre fuori si discute di progetti e di promesse - spiega Stefano Cecconi, vicepresidente di Pantagruel - dentro il carcere la pioggia entra nelle celle e nei corridoi, aggravando una situazione già segnata dal degrado e dal sovraffollamento. Piove sul personale sanitario che si chiede chi glielo ha fatto fare, sui vestiti del magazzino del progetto Francesco, raccolti con fatica e generosità dalle cittadine e dai cittadini, e ora inzuppati d’acqua”. Si tratta degli indumenti raccolti dalle parrocchie e dalle famiglie (attraverso l’associazione volontari penitenziari e Pantagruel) e destinati ai detenuti che non hanno la possibilità di comprarsi vestiti. “Nel nostro magazzino ormai abbiamo imparato a sistemare i vestiti in base a come cade la pioggia e agli allagamenti conseguenti, ma se piove troppo come la scorsa settimana, non c’è accorgimento che tenga”. Non solo pioggia e allagamenti. Tra le numerose criticità del penitenziario fiorentino, adesso si aggiunge una nuova tegola: l’ascensore del reparto giudiziario è rotto. Non significa soltanto che gli agenti e gli operatori del carcere devono farsi le scale, ma significa che i carrelli del cibo - quello che arriva nelle celle - devono passare attraverso le scale. E siccome i carrelli (con i piatti, i bicchieri e quant’altro) sono pesanti, il lavoro per portarli da un piano all’altro diventa complicato. C’è bisogno di almeno due persone che, stando attenti a non inciampare, fanno avanti e indietro con le attrezzature necessarie al vitto. E come se non bastasse, è ancora aperta la questione dell’inagibilità dell’Atsm, il reparto per i reclusi con problematiche psichiatriche. Un reparto ormai inagibile da diversi mesi, tanto che i detenuti psichiatrici (attualmente ce ne sono 6) sono stati trasferiti nella sezione accoglienza, ovvero la sezione in cui dimorano le persone appena arrestate. Una convivenza tutt’altro che semplice. Tutto questo a fronte di lavori di ristrutturazione di Sollicciano che non sono realmente cominciati: “Piove non solo nelle celle e nelle sezioni, ma anche sulle parole inutili dei lavori che ancora non sono partiti ma, per restare nella metafora, anche dalla pioggia può nascere un fiore. Serve volontà politica, rispetto e dignità per tutti coloro che vivono e lavorano in carcere”, conclude Cecconi Livorno. “Addio al corso di teatro e alla squadra di rugby, è l’effetto della nuova Circolari Dap” novaradio.info, 4 novembre 2025 Niente più corso di teatro al carcere “le Sughere” di Livorno, e addio anche all’ esperienza della squadra di rugby delle “Pecore nere”, attiva da vent0anni e regolarmente iscritta a campionati di categoria. A denunciarlo, ai microfoni di Novaradio è il garante dei detenuti d Livorno, Marco Solimano. È la diretta conseguenza della recente Circolare emanata dal Ministero di Giustizia con cui il governo ha riscritto le regole per l’organizzazione delle attività di soggetti esterni in carcere, limitandole fortemente. Cambiano così le procedure autorizzative per gli istituti che hanno il doppio circuito della media ed alta sicurezza - oltre a Livorno, in Toscana anche Prato e San Gimignano - non sono più in capo alla direzione delle singole carceri ma vengono trasferiti in modo centralizzato Dap a Roma, con effetti anche per i detenuti reclusi nelle sezioni di media sicurezza. Cambiano inoltre anche le modalità di accesso, ristrette ai soli soggetti che già sono attivi nelle carceri. Una vera propria stretta: “Dalle celle chiuse alle carceri chiuse, è un attimo. Un balzo all’indietro di più di quarant’anni” ha denunciato il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, lanciando un allarme condiviso da molti altri suoi omologhi, anche in Toscana, tra cui lo stesso Solimano. Lo stop alle iniziative culturali e sportive, per le “Sughere”, sottolinea ancora Solimano, aggiunge problemi a problemi in un carcere tra i complessi della Toscana, caratterizzato da un forte sovraffollamento, una pesante carenza e fatiscenza di spazi, e alle prese con i lavori di rifacimento dei due padiglioni che da anni vanno avanti tra ritardi, opere mal eseguite o non realizzate, polemiche e denunce: “Le sezioni femminili sono state chiuse e i detenuti trasferiti nella sezione di transito, tasso di sovraffollamento che tocca il 130%” dice Solimano: “I lavori ai due nuovi padiglioni sono ancora a ultimare, anche se qualcosa si muove. Sono stati acquistati i nuovi arredi, ed è stata indetta la gara per la centrale termica ed elettrica, entro la primavera i lavori dovrebbero essere ultimati e finalmente i detenuti trasferiti nei nuovi spazi”. Grosseto. Dal carcere al lavoro: 18 detenuti acquisiscono competenze certificate di Carolina Brugi Corriere di Maremma, 4 novembre 2025 Contribuire al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti, fornendo loro competenze spendibili sul mercato del lavoro. Con questo obiettivo, Cna Servizi, l’agenzia formativa di Cna Grosseto, ha portato a termine due progetti finanziati dalla Regione Toscana, che hanno coinvolto 18 detenuti delle case circondariali di Grosseto e Massa Marittima. I percorsi, conclusi da pochi giorni, hanno permesso ai partecipanti di ottenere certificazioni professionali in diversi settori, dalla manutenzione del verde alla produzione dolciaria e termoidraulica. I risultati sono stati presentati durante l’incontro conclusivo, a cui hanno preso parte i partner del progetto, la Regione Toscana e il Garante dei diritti dei detenuti, Giuseppe Fanfani. “È stata un’occasione di confronto importante, non solo perché per la prima volta la nostra agenzia formativa si è cimentata in percorsi progettati per le case circondariali - commenta la direttrice di Cna Grosseto, Anna Rita Bramerini - ma anche perché ci ha permesso di evidenziare una serie di problematiche che gli ex detenuti incontrano nel loro reinserimento lavorativo che, come associazione datoriale, ci siamo impegnati per provare a ridurre, promuovendo politiche di inclusione e contrastando il pregiudizio”. Secondo Elena Dolci, responsabile dell’agenzia formativa, “Il nostro tessuto economico chiede lavoratori e manodopera spesso in possesso di competenze specifiche e certificazioni. Nella progettazione di questi percorsi abbiamo tenuto conto di una serie di bisogni emersi negli anni e di profili professionali che potessero essere formati anche all’interno di un istituto detentivo. Non è stato sempre facile, perché si tratta di percorsi di formazione che hanno bisogno anche di pratica e attività laboratoriali, difficili da realizzare in alcuni contesti, ma siamo molto soddisfatti perché abbiamo permesso a 18 persone di acquisire nuove competenze e certificarle, ma anche per la rete che si è costituita sul territorio e che ha collaborato in modo proficuo”. I percorsi si sono sviluppati attraverso quattro corsi di oltre 250 ore ciascuno, alternando formazione in aula e attività pratiche. A Grosseto sei detenuti hanno seguito il corso per “potatori e curatori di interventi ortoflorovivaistici” e tre quello per “operatori di prodotti panari, dolciari e da forno”. A Massa Marittima sei partecipanti hanno ottenuto la certificazione per “potatura e lavorazioni del terreno nelle aree a verde” e tre per “installazione e manutenzione degli impianti termoidraulici e simili”. I progetti hanno potuto contare sul supporto delle case circondariali e sulla collaborazione di numerose realtà locali, tra cui la cooperativa Il Melograno, Heimat, Comit, Termobenessere, Toscana Food, Panificio Falorni e Macii, Le micro atelier, Favilli Rinaldo e l’Istituto tecnico agrario di Grosseto. Un’esperienza, sottolinea Bramerini, “che non solo ha permesso ai detenuti di acquisire competenze e certificazioni, ma ha anche creato una rete sul territorio, fondamentale per sostenere il reinserimento sociale e lavorativo”. Roma. Il carcere degli invisibili di Giustino Trincia* caritasroma.it, 4 novembre 2025 A Roma oltre novemila persone scontano misure alternative alla detenzione, spesso in condizioni di solitudine e invisibilità. Tra gli invisibili della nostra città, vi sono le molte persone che stanno beneficiando di misure alternative alla detenzione in carcere, alle pene sostitutive, alla messa alla prova e al lavoro di pubblica utilità, ossia di percorsi che si svolgono fuori dal carcere, affinché sia favorita la rieducazione e il reinserimento sociale. Moltissimi non sanno che a Roma, accanto agli istituti di pena già noti, c’è un altro carcere, però invisibile, ben più vicino a noi, molto più ampio e soprattutto diffuso nella città, in particolare in quartieri periferici. I numeri aiutano a comprendere meglio e ancora di più a sapere cosa c’è dietro di essi, l’umanità delle situazioni e delle condizioni che li determinano e poi interrogarsi sul perché della loro invisibilità e sul come cercare di essere prossimi a persone che, se hanno commesso errori o addirittura dei crimini gravi, occorre cercare di aiutare nel loro processo di riabilitazione personale e di reintegrazione sociale. Nelle carceri di Roma, al 30 settembre 2025, ci sono 3.522 persone detenute complessivamente tra uomini, donne e minori, che secondo i dati del Ministero della Giustizia abitavano le classiche carceri romane allo scorso 3 ottobre: Regina Coeli: con 1.128 detenuti (poco meno del 50% stranieri); Rebibbia Nuovo Complesso “R. Cinotti”, con 1587 detenuti (circa il 30% stranieri); Rebibbia Femminile, con 381 detenute (circa il 30% straniere); Rebibbia Terza Casa, con 73 detenuti (circa il 20% stranieri); “Rebibbia” (Casa di Reclusione), con 283 detenuti (circa il 10% stranieri) e l’Istituto Penitenziario Minorile Casal del Marmo, con 70 detenuti minori (in larga parte ragazzi). Sono invece 9.078 le persone fra Roma e provincia che, alla stessa data, sono seguite dall’Ufficio Inter-Distrettuale di Esecuzione Penale per il Lazio, l’Abruzzo e il Molise (UIEPE), l’organo locale del Ministero della Giustizia, che gestisce, in gran parte, l’esecuzione di provvedimenti rivolti a persone che scontano la loro pena fuori dal carcere (cfr. Elaborazione dati del Sistema informativo dell’esecuzione penale esterna - SIEPE, sezione statistica del sito del Ministero della giustizia). Infatti l’UIEPE segue persone imputate o indagate e sottoposte in regime di messa alla prova, persone in misura di sicurezza, persone che scontano la loro pena in misura alternativa alla detenzione, persone sottoposte alle pene sostitutive, ma anche persone detenute prese da loro in carico per motivi specifici per brevi periodi. Avendo come riferimento le tabelle con le percentuali a livello nazionale2, si potrebbe stimare che circa 3.000 persone stanno scontando la pena in abitazioni private o, in minor parte, nei centri di accoglienza a Roma e provincia (carceri di Civitavecchia e Velletri). Va poi tenuto in considerazione il C e n t ro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, che, nel corso del 2024, ha visto transitare 1.045 uomini e 88 donne, secondo la Relazione annuale 2024 del Garante dei Detenuti delle persone private della libertà. Ci sono poi i minorenni e giovani adulti, presi in carico dall’Ufficio di Servizio Sociale per i minorenni, dai cui dati provvisori al 30 settembre risultano presi in carico 1.893 ragazzi e ragazze, di cui 503 presi in carico per la prima volta nel 2025. Affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà sono quando il processo è concluso e la condanna è già definitiva… allora si parla di “misura alternativa alla detenzione”. La formula degli “arresti domiciliari” non è una misura alternativa alla detenzione, ma una misura cautelare che viene presa mentre il processo è in corso, il che induce a vincolare le persone coinvolte al rispetto di una serie di divieti e di prescrizioni. Nella sola città di Roma, alcune fonti segnalano che a metà 2024, erano 1.712 le persone recluse in casa, in gran parte italiane. Il record spetta a Tor Bella Monaca, dove polizia e carabinieri controllano 326 detenuti che non possono uscire da casa e 411 persone sottoposte a misure restrittive da parte del tribunale di sorveglianza e delle misure di prevenzione. Segue la zona del Tuscolano/Romanina, con 263 detenuti ai domiciliari; poi San Basilio con 222 e Pietralata con 216 detenuti. A seguire c’è Ostia dove ci sono 177 detenuti ai domiciliari; seguita da Fidene con 150. Nell’a rea Fleming/Flaminio, tra i quartieri certamente non periferici, ci sono invece 44 persone agli arresti domiciliari. Alle durissime prove che vivono molte delle famiglie dei detenuti, sarebbe necessario dedicare un approfondimento a parte. Esiste, dunque un “carcere” silente fra le nostre strade, apparentemente senza volti e storie e immagini simbolo, così presente, soprattutto in certe aree della città: il carcere degli invisibili, abitato da persone spesso sole, che potrebbero avere bisogno di uno sguardo, una voce, una presenza, un aiuto concreto… o perlomeno, intanto, di sapersi viste, riconosciute, accolte come persone, prima di tutto. Molti fra loro potrebbero essere nostri vicini di casa, eppure, oltre alla povertà materiale, pagano la pena più alta della povertà relazionale. Questo aspetto coinvolge, in un certo senso, ciascun cittadino, perché se la giustizia ha concesso loro di scontare la pena fuori dagli istituti penitenziari, ciòè con il fine del loro reintegrarsi nella società. E perché ciò possa avvenire è necessaria la sinergia da ambo i lati: la volontà e l’impegno della persona, ma anche la disponibilità e l’accoglienza da parte della società, dunque di ogni cittadino. Un altro aspetto importante da sottolineare è che almeno 3.000 detenuti a Roma potrebbero accedere a misure alternative alla detenzione, in particolare quelli con periodi di pena ancora da scontare brevi. Molti di loro non possono beneficiare di questa opportunità costruttiva delle misure alternative, perché non hanno un posto dove poter alloggiare, o dove svolgere un’attività di volontariato, o un lavoro. Ecco un altro punto su cui si registra un enorme deficit delle politiche pubbliche! Quanto di cui abbiamo fin qui parlato investe direttamente anche il Popolo di Dio, chiamato a dare testimonianza della carità, cioè del farsi prossimo di ogni fratello e sorella. Questo mondo di persone silenti interpella pure la nostra Chiesa di Roma, in ordine alla capacità di sapersi dimostrare madre di una umanità colpita dalla vita, certo e il più delle volte per delle responsabilità dirette e personali, ma per le quali il giudizio finale spetta solo a Dio Padre, mentre a noi, in cammino sulle strade della vita, spetterebbe ascolto, accompagnamento e promozione umana di queste persone. Ecco allora l’apertura di spazi nuovi, di una chiesa in uscita che sappia accorgersi della “persona della porta accanto” e offrire ad essa, ascolto, accoglienza, rispetto e segni concreti di vicinanza umana e di solidarietà concreta. Quanto sarebbe importante l’opera di informazione e di sensibilizzazione e di animazione pastorale delle nostre comunità parrocchiali e civili su questa vastissima realtà! Non mancano esperienze buone e segnali di speranza, ma il lavoro da fare è moltissimo. Esso, però, ci interpella tutti, interpella le comunità, perché la disponibilità per poche ore di volontariato in una parrocchia può cambiare la vita e il percorso di una persona! Sono preziose, ma troppo poche rispetto alle 333 totali, le 20 parrocchie che attraverso la Caritas diocesana stanno facendo una esperienza di questo tipo. Passa anche da qui la possibilità non solo di ridurre il sovraffollamento delle carceri, ma anche e soprattutto di aiutare davvero la persona a rinascere in un percorso verso il reinserimento sociale. Coloro che stanno dentro le mura classiche del carcere, come coloro che scontano una pena “nascosti” nella città, hanno bisogno di cuori disponibili. I primi sono spesso dimenticati, divisi e separati dal resto del mondo e l’unico aiuto che hanno proviene da una rete invisibile che, con e per la Carità di Cristo, sorpassa quel muro che li limita, abbattendo le distanze: volontari, operatori, la vicinanza delle comunità che, accanto ai classici doni dei panettoni e delle colombe a Natale e a Pasqua, non fa mancare la propria solidarietà per il necessario quotidiano (indumenti intimi, prodotti igienici). Un aiuto indispensabile per non violare la dignità umana di fratelli e sorelle che, se giustamente chiamati a pagare per i reati commessi, reclamano il rispetto dei propri diritti, del loro essere anzitutto delle persone. È bene cominciare a rivolgere anche lo sguardo a coloro che stanno scontando le misure alternative alla detenzione, per dare volto, nome, riconoscimento e possibilità a persone che, scontando fuori la loro pena, hanno diritto di vivere libere anche dal carcere dell’isolamento. *Direttore della Caritas diocesana di Roma Livorno. “Fuori tema”, un podcast racconta le storie dei detenuti del carcere de “Le Sughere” novaradio.info, 4 novembre 2025 Un podcast che racconta le storie, i problemi, i sogni e le speranze dei detenuti della sezione di media sicurezza del carcere livornese de “Le Sughere”: “Fuori tema”, questo il titolo del podcast è curato da Lara Gallo e Francesca Ricci, nasce dall’esperienza del corso di scrittura creativa che da anni curano in carcere ed è realizzato grazie alla collaborazione tre la direzione della Casa Circondariale e Arci Livorno, con il sostegno dei fondi del Prap e della Regione Toscana. Il podcast è ascoltabile su spotify: il 28 ottobre sono uscite le prime due puntate, ne domani usciranno altre due. “Abbiamo deciso di dare voce ai detenuti e alle loro storie - spiega a Novaradio Lara Gallo - proprio attraverso il tema della scrittura in carcere, che può assumere varie forme anche non convenzionali: i tatuaggi sul corpo, le lettere ricevute e quelle scritte a familiari e amici, le ‘domandine’ che i detenuti fanno per le loro richieste quotidiane”. “Quel che ne emerge - sottolinea Ricci - è la urgenza dei detenuti di comunicare con l’altro e con l’esterno, che diventa anche una forma di comunicazione interiore, una riflessione su sé stessi”. Quegli odiatori con la divisa che scatenano i linciaggi social di Francesca Santolini La Stampa, 4 novembre 2025 Io, bersaglio di attacchi dopo la pubblicazione del libro sull’ecofascismo. Turpiloquio e insinuazioni nel canale Telegram di forze dell’ordine e militari. Il politicamente corretto minaccia la libertà d’espressione, viviamo tempi di censura, ormai “non si può più dire nulla”. Lo ripetono in molti, come un mantra e mentre si moltiplicano le lamentazioni, più o meno in buona fede, contro il cosiddetto wokismo, chi prova a raccontare fatti verificabili, che magari non sono in linea con la propaganda dominante, viene travolto da ondate di odio. Da quasi un anno mi trovo in un vortice dai risvolti angosciosi, che ha cambiato il mio modo di guardare alla rete, e anche a me stessa. Tutto è cominciato nell’aprile 2024 con la pubblicazione di un libro in cui analizzavo il modo in cui le destre estreme si appropriano dei temi ecologici per giustificare discorsi identitari, nazionalisti, talvolta apertamente razzisti. Le prime reazioni furono prevedibili: titoli polemici, critiche ineleganti (per tenerci nel territorio dell’eufemismo), perfino stroncature quasi paranormali, perché pubblicate il giorno stesso dell’uscita, quando il libro non poteva essere stato letto da nessuno. Poi, il 30 luglio 2024, il breve estratto di un mio intervento televisivo, pochi secondi tagliati, decontestualizzati, in sostanza manipolati, viene rilanciato sui social. La reazione è immediata, compatta, di proporzioni imprevedibili: migliaia di commenti misogini, insulti sessisti, minacce di morte e di stupro. Chi frequenta il web lo sa: la violenza digitale non è un incidente, è un metodo, anzi un sistema. L’International press institute (Ipi), che in quel periodo stava conducendo un monitoraggio sulle minacce online ai giornalisti ambientali, include il mio caso nel suo rapporto annuale. Nelle conclusioni si legge che gli attacchi non erano casuali, ma parte di “una rete consolidata che seleziona obiettivi specifici e innesca azioni coordinate”. È un linguaggio tecnico, ma dice una cosa semplice: non si tratta di aggressioni verbali volgari, a volte orrende ma spontanee, quasi casuali; si tratta di violenza organizzata. In ogni caso, dopo mesi di shitstorm, a gennaio 2025 decido di denunciare, segue poi una seconda denuncia a marzo, a seguito della comparsa di nuovi attacchi. Per mesi ho creduto che tutto si limitasse a una delle tante campagne virali di disinformazione, non riuscivo però a capire come ciclicamente saltassero fuori queste ondate di insulti, e soprattutto non riuscivo a capire come il mio nome fosse finito su VKontakte, il social network russo e su Gab, la piattaforma americana che raccoglie suprematisti e neonazisti. Poi pochi giorni fa, ho scoperto un nuovo tassello di questa vicenda surreale che ha cambiato il quadro. Un quadro a dir poco inquietante. Il mio avvocato ha ottenuto copia del primo fascicolo con i nomi di alcuni hater identificati dalla polizia postale. Pochi, rispetto alle migliaia di messaggi, ma sufficienti per capire che non si trattava solo di profili fittizi. Tra loro, tanto per intenderci, figurano la segretaria provinciale della Lega di Pesaro e un ex consigliere comunale capitolino di Forza Italia: persone con nomi e cognomi, ruoli pubblici, seguito reale. La signora in questione, tanto per dare un’idea della qualità del dibattito, si chiedeva, tra le altre cose, come mai una come me potesse “piacere a un uomo bianco”. Nel medesimo orizzonte concettuale, a completamento, diciamo, un tizio mi augurava di essere ripetutamente stuprata con modalità creative da un gruppo di uomini africani. Il dettaglio più inquietante, però, è un altro. Tre giorni dopo quel mio intervento televisivo, il video era già stato diffuso su un canale Telegram chiamato O.S.A. Italia, acronimo di “Operatori di Sicurezza Associati”, un gruppo di circa 16 mila iscritti, composto da appartenenti o ex appartenenti alle forze dell’ordine, militari e “simpatizzanti civili”. Sul sito l’associazione si presenta come promotrice della “cultura della legalità e della sicurezza”. Parole nobili, dietro le quali però si nasconde un mondo parallelo, non una realtà professionale neutrale: nei canali social si trovano messaggi polarizzanti intrisi di rancore, retoriche anti-media, teorie complottiste e una propaganda aggressiva mascherata da patriottismo. Nel canale dove è comparso il mio video si è scatenata una valanga di insulti sessisti, turpiloqui, insinuazioni a sfondo sessuale. Molti dei profili erano riconducibili a persone che indossano, o hanno indossato, una divisa. Il presidente di O.S.A., Gianluca Salvatori detto Drago, è un ex agente della Polizia di Stato noto per le sue apparizioni televisive come “esperto di sicurezza”. Intorno a lui si muovono figure provenienti da movimenti nati durante la pandemia, No Green Pass, no vax, gruppi di protezione civile ideologizzati, oggi riuniti sotto un linguaggio pseudo-istituzionale che mescola populismo legalitario, rabbia e sfiducia verso le istituzioni. Quando la violenza verbale arriva da chi dovrebbe rappresentare la legalità, si oltrepassa una soglia pericolosa. Il confine tra dissenso e intimidazione si dissolve. Il problema non è solo la brutalità delle parole, ma il loro effetto: normalizzano la prepotenza, danno l’idea che insultare sia un modo legittimo di partecipare al dibattito pubblico. Un dato del rapporto dell’IPI mi ha colpita: oltre l’80% degli attacchi che ho subito proveniva da uomini. Non è una sorpresa. La violenza online contro le giornaliste ha quasi sempre una componente sessualizzata: serve a ribadire che certi argomenti - ambiente, energia, economia - restano affare maschile. Ovviamente il tema non è la mia vicenda personale. È la fotografia di un clima. La libertà di parola, in molti casi, è diventata un alibi: la scusa dietro cui si nasconde l’impunità dell’offesa. Chi invoca il diritto indiscriminato di “dire ciò che pensa” ignora che la libertà d’espressione non è un’arma per colpire, ma uno spazio di responsabilità condivisa. Forse l’odio digitale sembra qualcosa di impalpabile, fatto solo di parole. Ma le parole non sono mai solo parole: costruiscono realtà, creano categorie, orientano comportamenti. Allora sì, forse oggi “non si può più dire nulla”. Ma non perché esista una dittatura del politicamente corretto, semmai perché è diventato normale odiare. Difendere la libertà d’espressione, oggi, significa difendere la possibilità di parlare senza essere intimiditi dalle aggressioni online come dalle querele dei potenti. Significa saper distinguere il dissenso dall’aggressione, in sostanza: la critica dalla diffamazione. Droghe. Vogliono farci credere che la cocaina sia la droga dei ricchi di Anna Paola Lacatena Avvenire, 4 novembre 2025 È tempo di superare alcune convinzioni. Tra polvere bianca, crack e freebase, il consumo in realtà è molto trasversale. E la guerra ai soli consumatori non è la strategia vincente. Se da più parti si levano strepiti e fragori a proposito di un’imminente conversione del consumo di sostanze psicoattive in direzione oppioidi sintetici, le strade italiane continuano a riempirsi di cocaina. Ci hanno fatto credere che questa sia la droga dei ricchi, che chi la utilizza sia in grado di controllarla, che l’eroina sia ben altra cosa e il suo consumo da tossici. Ce l’hanno fatto credere e ci abbiamo creduto. Così non è. La Relazione Annuale della Direzione Centrale Servizi Antidroga, rilasciata qualche giorno fa, specifica che il mercato della cocaina, si conferma il principale interesse dei gruppi criminali e che “lo spaccio di crack avviene tendenzialmente (…) nelle periferie cittadine e nei quartieri più popolari, dove è elevato il tasso di disoccupazione, ci sono situazioni di degrado ambientale e sociale e i pusher possono operare indisturbati perché protetti da fitte reti di vedette (…). In questi contesti la criminalità organizzata (…) è già in grado di produrre il crack all’interno di appartamenti o pertinenze di cui può facilmente disporre”. Saremmo indotti a pensare che si tratti solo di hotspot di consumo locali tra comunità emarginate: così non è. Pur presentata come la versione povera della cocaina, anche in ragione di costi ridotti e qualità scadente, il crack registra ormai tipologie di consumatori socialmente trasversali e variegati. Cocaina, crack, e freebase: quali sono le differenze principali? Intanto le vie del consumo: al contrario della cocaina, i suoi derivati possono essere assunti per via inalatoria (fumo). La polvere bianca scaldata con bicarbonato di sodio (crack) o in soluzione acquosa (per eliminare i protoni in eccesso) con ammoniaca, cloroformio o etere (freebase), evapora a 96°. Presentandosi dopo questi semplici passaggi come granelli di colore marroncino, nella preparazione del freebase le impurità della cocaina si dissolvono, in quella del crack persistono, sebbene per entrambe l’aspettativa di una presunta purificazione va molto ridimensionata. Le basi ottenute sono fumate con una pipa di metallo o di vetro - più raramente su un foglio di alluminio scaldato con una cannuccia - producendo effetti nel giro di pochi secondi e con una durata variabile - soggetto, contesto, caratteristiche, quantità e purezza della sostanza non vanno mai scisse - che si conclude bruscamente, tanto da indurre il consumatore a ricominciare con una nuova somministrazione o a garantirsi una discesa attutita attraverso l’uso di oppioidi, alcol, cannabinoidi o benzodiazepine. Va ricordato che l’overdose da cocaina, così come da crack e freebase, può essere letale, sopraggiungendo infarto del miocardico acuto o arresto respiratorio determinato da paralisi muscolare. Resta la difficoltà di accertare, dal punto di vista medico-legale, la sostanza come prima causa di morte. Le basi fumabili costano meno della cocaina ma conducono più velocemente alla dipendenza sia per la modalità dell’assunzione (fumata) sia per l’istaurarsi repentino della tolleranza. Alla fine si finisce per spendere anche di più. Spesso il consumo si accompagna a quello dell’alcol, dal cui connubio si genera spontaneamente un metabolita (cocaetilene) prodotto dal fegato, estremamente tossico per questo e per il cuore, ma in grado di produrre un’azione ancora più disregolante su stati mentali ed emozionali. Ci hanno fatto credere che il crack si fumi solo per strada, che a farlo siano esclusivamente emarginati e i reietti. Ce l’hanno fatto credere e ci abbiamo creduto. Così non è. Si consuma sempre di più e in qualsiasi contesto. Sono coloro che vengono dall’mdma, dalle amfetamine (speed) o dalla ketamina, ma anche persone che hanno utilizzato in precedenza alcol, cannabis o cocaina. L’astinenza in tutte le sue formulazioni provoca depressione, dolori muscolari, agitazione. L’uso prolungato accentua la possibilità di sviluppare psicosi, allucinazioni, aggressività. Ad oggi, non esistono trattamenti d’elezione e terapie farmacologiche specifiche. Gli stabilizzatori dell’umore, gli agonisti dopaminergici, gli antidepressivi riducono il craving, ma questo, sul lungo periodo, non basta. Si rende necessario un intervento multidimensionale che preveda un lavoro psicologico-sociale e socio-culturale singolo e/o di gruppo. Proprio in questa chiave, i Servizi per le Dipendenze (Ser.D.) continuano a proporre risposte specialistiche e gratuite. Controllare la movimentazione di milioni di teu presso gli scali europei più importanti (Rotterdam, Gioia Tauro, Anversa-Zeebrugge) e presso quelli emergenti come Danzica (PL), Algeciras (ES), Costanza (RO) con le risorse di polizia attualmente dedicate non è fattibile, così come non lo è arginare un mercato che muove miliardi di dollari, il cui riciclaggio dissocia sempre di più il luogo di consumo dal luogo di reimpiego del denaro. Vorrebbero farci credere che la guerra ai consumatori sia la strategia vincente per avere la meglio su problematiche nel migliore dei casi appena governabili. Che così non sia. La segregazione lavorativa dei migranti: in Italia retribuzioni inferiori del 45% di Cinzia Arena Avvenire, 4 novembre 2025 Il rapporto Ocse evidenzia la maglia nera del nostro Paese in termini di gap retributivo e sovraqualificazione, colpa anche del mancato riconoscimento dei titoli di studio. Sono essenziali e al tempo stesso marginali. I lavoratori migranti vivono in una sorta di limbo che li rende da un lato indispensabili, nei campi, nelle fabbriche, nei ristoranti, nelle case degli anziani, dall’altro discriminati perché inseriti in settori e aziende con livelli di retribuzione risicati, per non dire insufficienti. A mettere nero su bianco questa disparità di trattamento il 49esimo rapporto sulle Prospettive Ocse sulle migrazioni internazionali 2025, presentato ieri a Parigi, che dedica un intero capitolo all’integrazione lavorativa e al ruolo delle aziende in 15 Paesi, compreso il nostro. “Uno dei risultati più sorprendenti - scrivono nelle conclusioni di questo capitolo i tre ricercatori César Barreto, Ana Damas de Matos ed Alexander Hijzen - è che la segregazione occupazionale è molto persistente”. E in Italia tocca livelli particolarmente elevati. La strada da fare in nome di una reale integrazione e per il riconoscimento di questi lavoratori come risorsa e non minaccia è ancora tanta. Ma il loro ruolo, complice l’inverno demografico, sarà sempre più determinante. “I flussi migratori contribuiscono ad affrontare la carenza di manodopera e a sostenere la resilienza delle economie Ocse” ha esordito il segretario generale Mathias Cormann, invocando la necessità di “politiche migratorie efficaci”. “L’ampio divario retributivo tra immigrati e lavoratori nativi - ha avvertito - evidenzia l’importanza di semplificare la valutazione e il riconoscimento delle qualifiche straniere e di ottimizzare le politiche a supporto dell’acquisizione delle lingue, della ricerca di lavoro e dello sviluppo delle competenze”. Il commissario europeo alle migrazioni, Magnus Brunner ha evidenziato gli aspetti positivi dei migranti regolari. “Abbiamo bisogno dei loro talenti, delle competenze e dell’energia”, ha detto il commissario, aggiungendo che per avere migrazioni legali “sostenibili” bisogna ‘‘gestirle’’ in modo adeguato. “Bisogna ascoltare le preoccupazioni nel dibattito pubblico” ha detto e lottare contro i “trafficanti di uomini” che sfruttano la vulnerabilità dei più deboli. Il rischio di sfruttamento lavorativo è altrettanto concreto. Il punto di partenza (basato sui dati dal 2000 al 2019 ) è che gli immigrati nei Paesi Ocse percepiscono una retribuzione mediamente inferiore del 34% a quella dei lavoratori della stessa età e dello stesso sesso nati in loco. Un divario che in Italia raggiunge il 45% (il più elevato in assoluto nei 15 Paesi analizzati a fondo), assai distante dai livelli dei Paesi più virtuosi come Francia, Danimarca e Portogallo (28%). Paradossalmente, per le migranti il “gap” è inferiore, si ferma al 40%, visto che le retribuzioni delle donne sono più leggere in generale. La penalizzazione economica è legata ad una concatenazione di fattori. Gli immigrati lavorano prevalentemente nei settori meno remunerati (ristorazione e ospitalità turistica, pulizie e assistenza domestica, agricoltura, edilizia, manifattura) e per quei datori di lavoro, spesso microrealtà, che in questi settori pagano meno, e sono quindi meno appetibili . Ben il 63% del divario salariale di fatto è legato alla tipologia di settore e azienda. Un’ulteriore penalizzazione dipende dalla quantità di lavoro che è spesso inferiore in termini di ore lavorate con il ricorso a part-time involontari e forme di lavoro “grigio”. Con il passare degli anni la situazione migliora e il gap retributivo diminuisce di un terzo dopo cinque anni e si dimezza dopo dieci. Si assiste ad uno spostamento verso aziende più generose, ma non verso occupazioni diverse. La “segregazione” insomma diventa una prigione. In Italia però anche in questo caso il meccanismo è meno virtuoso: dopo cinque anni il gap salariale è del 34% per gli uomini e 28% per le donne. Il rapporto evidenzia che ci sono grandi differenze legate al Paese di origine: asiatici, africani e mediorientali sono penalizzati rispetto a chi arriva dall’Europa o dall’America. A pesare infine il mancato riconoscimento delle qualifiche pregresse e la mancata padronanza della lingua. Il fenomeno della “sovraqualifcazione” di fatto riguarda il 44% dei lavoratori immigrati nei paesi Ocse (e solo il 17% dei nativi). Anche in questo caso l’Italia è in fondo alla classifica con il 64% di migranti (contro il 14% di italiani) costretto a fare un lavoro non in linea con le proprie capacità. Essenziale secondo i ricercatori favorire il riconoscimento dei titoli di studio e adottare politiche che affrontino gli ostacoli alla mobilità professionale” ma agire anche su altri fronti come “il miglioramento dei trasporti locali, la lotta alla discriminazione nel mercato immobiliare con l’accesso ad alloggi a prezzi accessibili”. Nonostante i problemi strutturali, nel 2024 l’Italia è stata uno dei nove paesi Ocse in cui la situazione del mercato del lavoro per i migranti è migliorata in termini. Il tasso di disoccupazione dei migranti è diminuito dell’1,3%, toccando quota 11,4% a fronte di una media Ocse del 10%. Per quanto riguarda l’arrivo di nuovi migranti nel 2024 sono stati quasi 169mila quelli di lungo temine o permanenti, il 2% di tutti i flussi mondiali. C’è stato un calo significativo rispetto all’anno precedente (-16 %). Il dato include un 23% di immigrati ammessi nel quadro della libera circolazione all’interno della Ue, un 10% di immigrati professionali, un 61% per motivi famigliari e il restante 5% per motivi umanitari. Ucraina, Albania e Romania sono i tre principali Paesi d’origine, in forte aumento gli arrivi dall’Egitto. Le richieste di asilo sono state 151 mila (ma ne sono state accolte circa 28mila) con un aumento del 16%. La maggioranza dei richiedenti è originario di Bangladesh, Perù e Pakistan. Per il popolo migrante non punizioni, ma “un orizzonte di speranza” di Flore Murard-Yovanovitch Il Manifesto, 4 novembre 2025 Intervista a Gianni Tognoni, segretario generale del Tribunale Permanente dei Popoli. È ormai sistematica, la gravità e la persistenza delle violazioni dei diritti umani nei confronti dei migranti, prova di un regime transnazionale di violenza istituzionalizzata che si manifesta attraverso la crescente militarizzazione delle frontiere e l’uso sistematico della forza; la proliferazione di luoghi di detenzione spesso al di fuori di qualsiasi quadro giuridico; la criminalizzazione della solidarietà attraverso procedimenti legali o pressioni amministrative; la diffusione istituzionale di discorsi razzisti e xenofobi che alimentano ulteriormente la stigmatizzazione e la repressione. L’atto di accusa presentato durante l’apertura della sessione del Tribunale Permanente dei Popoli tenutosi a Palermo dal 23 al 25 ottobre - “Le violazioni dei diritti umani dei migranti da parte degli Stati del Maghreb, dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri” - è senza appello. Ne abbiamo parlato con il segretario generale del Tibunale, Gianni Tognoni. Perché il Tribunale Permanente dei Popoli ha scelto ancora una volta, dopo la sessione di Palermo del 2017 e le altre che l’hanno seguita fino alla presentazione conclusiva all’Ue, una nuova sessione sulle persone migranti? I migranti rimangono al centro di una attenzione, nazionale e internazionale, che si concentra esclusivamente sulla repressione, senza alcuna considerazione concreta propositiva che ne garantisca il diritto fondamentale alla vita e ad un futuro. Con il genocidio del popolo palestinese in corso, i migranti sono un indicatore intollerabile del fallimento delle nostre società e del diritto internazionale nel rispettare gli standard minimi di civiltà. Siamo spettatori di una crisi radicale del ruolo del diritto internazionale di poter prevenire crimini di inumanità. Con questa 56ma sessione, che si rivolge a una delle aree più critiche di un fenomeno globale come è quella del Maghreb, intendiamo riprendere il tema del popolo dei migranti, esposti a un rischio aggiuntivo di invisibilità in scenari di guerre e genocidi, per contribuire non solo a qualificarne complessivamente la gravità, in modo non frammentato per paesi ed episodi più drammatici, come se fosse parte ‘normale’ di una cronaca ripetitiva, ma a riproporlo come priorità politica, culturale, giuridica dell’agenda europea ed africana. Ma quale giurisdizione dare a questi soggetti di diritti negati? Uno degli snodi di fondo è quello di immaginare un vero e proprio Popolo Migrante, non somma di individui casualmente confluenti in ‘flussi’ più o meno intensi, che è un incrocio di sfide geopolitiche internazionali: è imprescindibile integrare l’attuale strategia giuridica, concentrata (e per fortuna, spesso efficace) su casi-eventi di violazioni che sono veri e sempre in corso “crimini contro l’umanità” ; confrontarsi con la stessa attenzione allargata e contestualizzata, con la repressione da parte dell’Ue che vede in questi soggetti dei popoli da “scartare”, e con le politiche nazionali e regionali degli Stati del Maghreb per vederne in modo articolato le reciproche responsabilità; superare una visione del diritto internazionale bloccato sulla questione delle frontiere mentre il fenomeno è trasversale. Al di là delle sue varie realtà, il Popolo migrante deve diventare soggetto collettivo di diritto. Non solo per punire i responsabili ma per generare un orizzonte di speranza e restituire al diritto la sua funzione di garante del futuro. Lo scenario che si presenta nella ‘tribuna di presa di parola’ del TPP (che non è per definizione un processo penale) deve essere visto come provocatorio per i tanti scenari che a livello globale richiedono al diritto, e più a fondo alle culture di pensare al diritto-identità di essere umani come l’unico titolo di diritto, inviolabile, e che non può essere degradato a diventare una variabile dipendente dalla difesa, spesso violenta, di frontiere che sempre più spesso sono espressione di neo-colonialismi economici, finanziari, militari. I paesi del Maghreb sono accusati di gravissime violazioni dei diritti umani ma in primis anche l’Unione europea, per essere all’origine della catena di commando nord-sud delle violazioni dei diritti delle persone migranti negli stati di respingimento e transito... L’Europa attraversa un tempo drammatico di perdita di memoria dei propri impegni, costituzionali e di civiltà, con politiche addirittura impensabili di riarmamento che invadono letteralmente tutti gli ambiti istituzionali e di comunicazione, in nome di logiche di ‘sicurezza’ che hanno bisogno di vedere-creare nemici, che giustifichino investimenti senza fine. Come le guerre, anche i migranti sono diventati parte di un mercato dove gli attori privati, produttori dell’universo tecnologico della sorveglianza generalizzata e permanente, sono gli alleati degli stati e definiscono i modelli di sviluppo e la strategia di interi paesi. Come perfettamente documentato nei rapporti della relatrice delle Nazioni Unite sulla Palestina, Francesca Albanese, l’apartheid e quindi il genocidio del popolo Palestinese, al di là della questione (più retorica che sostanziale) della loro definizione, ha anche svelato la stretta continuità e complementarietà, in termini di ‘efficacia’ repressiva, degli attori privati e pubblici. La Palestina ha concentrato, in un nucleo, le stesse violenze e violazioni applicati alle persone migranti e ha documentato giorno dopo giorno l’impotenza delle nostre società e della corte penale a difendere, ed ancor meno a contrastare, popolazioni che i poteri dominanti, sul mercato, fino a livello delle Nazioni Unite, decidono di dichiarare nemici, terroristi, diversi, invasori… Che fare? Il diritto è anche il prodotto della storia di cui le regole evolvono assecondo dei modelli culturali. Oggi sono tornati, con altri titoli o nomi o mezzi, sultani, sovrani, schiavitù ed è in corso sempre più rapido e diffusivo, lo svuotamento di quel diritto universale che 80 anni fa aveva introdotto per la prima volta nella storia umana un diritto universale: che è da difendere a tutti i costi nella sua affermazione di fondo: che tutti gli umani, senza distinzione, sono soggetti inviolabili, e non oggetto facoltativo, degli stessi diritti, ad una vita nella dignità. Ricostruire ciò che è di fatto distrutto e rimane impunito, non è facile. Nemmeno nel pensiero. Come la ricostruzione di Gaza. Il Tribunale è per definizione un piccolo attore: può dare nome alle responsabilità di commissione di violazioni e di politiche di omissione, mettere in evidenza, e ‘gridare’, in nome delle tante vittime silenziate, torturate, fatte scomparire, che la loro vita non è stata un ‘effetto collaterale’, che si può dimenticare, ma una memoria-seme per il futuro. Le sentenze di un Tribunale ‘dei’ popoli sono strumenti. Punti di partenza. Indicatrici di priorità. Condanna radicale di quel crimine contro l’umanità che fonda tutti gli altri che è la diseguaglianza programmata, perseguita, imposta, impunita di chi è qualificato come il diverso da cui difendersi senza esclusione di colpi. Quali sono i passi futuri dopo questa sessione unica? Come si è detto sopra, un TPP è uno strumento che viene affidato anzitutto a coloro che lo hanno domandato. La dichiarazione che qui viene consegnata diventerà in pochissimi mesi una sentenza formale, articolata e documentata. Una piattaforma permanente dei paesi del Maghreb per continuare, in modo coordinato un loro cammino nazionale e regionale? Uno strumento di dialogo-pressione-esplicitazione-pressione politica sull’Unione europea? Toccherà ai popoli che hanno richiesto e reso possibile questo evento, farne un progetto di ricerca: il Maghreb in quanto entità regionale di “esportazione” e transito delle persone migranti è una questione permanente ma “invisibilizzata” che dovrebbe avere una voce comune. Non è un progetto semplice. In nome dei testimoni che hanno rappresentato i tanti assassinati nelle guerre raccontata in questa sessione ne ricordano l’obbligatorietà. Migranti. “La guardia costiera libica non è soggetto legittimo per i soccorsi in mare” di Marika Ikonomu Il Domani, 4 novembre 2025 La Humanity 1 ha agito in conformità con il diritto internazionale. I ministeri non fanno ricorso e la sentenza diventa definitiva. La ong ora chiede un risarcimento alle autorità italiane per il fermo illegittimo. La vicenda risale al marzo del 2024. Quella della Corte d’Appello di Catanzaro è una sentenza dalla forte valenza giuridica e politica, che ora diventa definitiva dopo che le autorità italiane hanno deciso di non impugnarla. Nero su bianco i giudici hanno di fatto non soltanto dato ragione alle ong attive nella ricerca e nel soccorso in mare, ma hanno anche messo in discussione il Memorandum Italia-Libia appena fresco di rinnovo (2 novembre). Se da una parte è stato confermato che la Sos Humanity ha agito in conformità del diritto internazionale nello svolgimento delle sue operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, rendendo così il suo fermo come illegale e ingiusto, dall’altro si ribadisce che la Guardia costiera libica non può essere considerata un soggetto legittimo per i salvataggi dei migranti. La vicenda risale a inizi marzo 2024 quando la Humanity 1 è stata colpita da un fermo amministrativo di venti giorni con l’accusa di non aver “rispettato le indicazioni fornite dal competente centro per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si è svolto l’evento” e di aver creato situazioni di pericolo durante le operazioni Sar. Quest’ultima accusa proviene proprio dal centro di coordinamento libico, secondo cui la nave della ong avrebbe “generato disordini e alcuni migranti si sono gettati in mare”. L’imbarcazione aveva appena tratto in salvo 77 migranti soccorsi poche ore prima, ma secondo le autorità italiane non aveva ignorato le istruzioni delle autorità libiche. L’organizzazione decise all’epoca di fare ricorso e sul caso si è espresso il Tribunale di Crotone il 26 giugno del 2024. I giudici avevano deciso che “a fronte del “dovere si soccorso riconosciuto dalle fonti internazionali e delle specifiche modalità in cui lo stesso deve esplicarsi”, corretta fosse da qualificare la condotta tenuta dal Comandante della nave”. E poi che ““l’attività perpetrata dalla guardia costiera libica (non fosse) qualificabile come attività di soccorso per le modalità stesse con cui tale attività (era) stata applicata”, essendo emerso che dalla motovedetta intervenuta erano stati esplosi colpi di arma da fuoco e che le note condizioni dei “campi di accoglienza in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico escludessero di potere considerare la Libia un posto sicuro”. Quindi “nessuna condotta ostativa era stata posta in essere dalla ong coinvolta”. Alla luce di queste considerazioni, il tribunale ha quindi accolto il ricorso, annullato il provvedimento di fermo e condannato lo stato a pagare le spese processuali. Qualche mese più tardi, il 2 settembre 2024, i Ministeri coinvolti hanno presentato appello. Ma anche la sentenza di secondo grado del giugno del 2025 ha confermato le conclusioni del tribunale di Crotone e cioè la Humanity 1 ha agito in conformità del diritto internazionale, che la guardia costiera libica finanziata dall’Ue e sostenuta dall’Italia non può essere considerata un soggetto legittimo di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Così come la Libia, come denuncia da tempo anche le Nazioni Unite, non può essere considerato un luogo sicuro di sbarco. Questa volta i ministeri italiani, e nello specifico quello dell’Interno, dei Trasporti e della Finanza, hanno deciso di non impugnare questa sentenza. Ma il team legale della Sos Humanity ha deciso di chiedere un risarcimento per i danni causati dal sequestro illegale della sua nave.