Rileggere Mattarella per non considerare la riforma della giustizia un incubo anti democratico di Claudio Cerasa Il Foglio, 3 novembre 2025 Il capo dello stato non si schiererà. Ma ripercorrendo a ritroso i segnali lasciati sul terreno in questi anni vi è la possibilità di notare spunti mattarelliani che permettono di osservare la riforma in un modo non apocalittico. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, uomo saggio e accorto, non ha alcuna intenzione di prendere posizione sulla battaglia politica che monopolizzerà il dibattito pubblico delle prossime settimane: il referendum costituzionale. Non perché non abbia una sua idea, che nessuno conosce, ma perché, come fu già nel 2016 ai tempi di un altro referendum costituzionale, il capo dello stato, per caratteristiche, stile ed equilibrio, essendo anche il capo di uno degli organi istituzionali oggetto di riforma, ovvero il Csm, il massimo che potrà fare sarà ripetere una frase già enunciata nove anni fa, ai tempi della riforma Boschi-Renzi: “Il confronto si svolga sul merito della riforma” (27 luglio 2016). Agli occhi di quella parte politica che nei momenti di difficoltà cerca senza successo un modo per tirare la giacchetta del presidente, la scelta del capo dello stato di non schierarsi potrebbe essere considerata già come una scelta: non dare il proprio contributo a quella che l’opposizione considera, nientemeno, una riforma destinata a far sprofondare l’Italia in un inferno anti democratico e anti costituzionale. Naturalmente non è così, anche se non schierarsi è una scelta. Ma se volessimo ripercorrere a ritroso i segnali lasciati sul terreno dal capo dello stato in questi anni vi è la possibilità di notare che vi sono spunti mattarelliani che permettono di osservare la riforma in un modo non apocalittico. Il presidente della Repubblica, da anni, sostiene che la politica debba “dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile” (18 giugno 2020). Una riforma della giustizia che diluisce il peso delle correnti attraverso il sorteggio qualche degenerazione forse potrebbe aiutare a superarla. O no? Il capo dello stato, poi, da anni ricorda quanto sia importante avere una magistratura che “si nutre anche di una profonda consapevolezza morale della terzietà della funzione giurisdizionale, basata sui princìpi dell’autonomia e dell’imparzialità” (24 febbraio 2015, all’inizio del primo mandato). Una riforma che premia la terzietà del giudice, separando le carriere, può essere accusata di essere una minaccia all’indipendenza e all’imparzialità della funzione giurisdizionale? Da anni, poi, il capo dello stato, ricorda quanto il processo mediatico, che la riforma della giustizia punta a ridimensionare, sia un virus del nostro sistema democratico. Mattarella lo ha detto in molte occasioni. Lo ha detto il 15 maggio 2023, quando ha sostenuto che “il processo non può essere utilizzato per finalità diverse, che ne stravolgerebbero il ruolo, mettendo gravemente a rischio la fondamentale separazione dei poteri”. Una riforma che smussa i pieni poteri dei pm aiuta o no a combattere il processo mediatico? Forse sì. Il presidente della Repubblica, infine, nel corso degli anni ha ribadito che l’autonomia della magistratura non debba equivalere ad avere un potere senza limiti. Era il 24 novembre 2021: “Queste prerogative non possono mai essere intese come una legittimazione per ogni genere di iniziativa o di decisione”. Non sappiamo, anche qui, cosa pensa il capo dello stato della nuova alta corte disciplinare. Ma l’idea che sia necessario riequilibrare le funzioni e i poteri dei pm rispetto ai giudici, introducendo nuovi contrappesi, è un elemento su cui il capo dello stato in questi anni ha insistito con forza, anche per permettere alla magistratura di “rifuggire dalle chiusure dell’autoreferenzialità e del protagonismo” (24 novembre 2021). Il presidente della Repubblica merita di non essere tirato per la giacchetta da nessuno, neanche da noi. Ma da mattarelliani puri, come ci consideriamo, non possiamo non vedere ottime ragioni mattarelliane per osservare la riforma della giustizia non con lo stesso senso di angoscia alimentato da chi considera questa riforma destinata a far sprofondare l’Italia in un inferno anti democratico e anti costituzionale. Giustizia o potere giudiziario: il confine si è fatto sottile di Orazio Abbamonte Il Roma, 3 novembre 2025 La riforma cerca di restituire alla giurisdizione quella dignità che ha perduto per il perseguimento di un ruolo politico ed in pretesa moralizzatore, che non le compete per nulla. “Le toghe avviano la battaglia e dettano la linea di comunicazione”. Così il catenaccio di un articolo a pagina due de La Repubblica di sabato scorso ha sintetizzato l’esordio della campagna referendaria dell’Anm, finalizzata all’abrogazione della riforma costituzionale testé approvata in quarta lettura dal Senato della Repubblica. E in quei distinguo cavillosi che a malapena reggono ancor oggi nell’argomentare giuridico, ma che in quello politico lasciano increduli per l’ingenuità che li connota, subito dopo riferiva la posizione ufficiale della sunnominata associazione delle toghe: “vogliamo fare la battaglia per il No parlando con chiarezza a chi andrà a votare dei rischi che corre il sistema. Ma senza fare la guerra al governo”. Se queste non sono parole della pura tenzone politica, non so cos’altro potrebbero essere. Esse annunciano la costituzione del ‘Comitato per il no’, vale a dire il soggetto politico che dovrà coordinare la competizione referendaria per impedire alla principale proposta politica dell’attuale maggioranza parlamentare d’entrare in vigore, correggendo così un equilibrio, evidentemente politico, che ha posto al centro delle dinamiche democratiche la funzione giudiziaria. Un equilibrio politico, però, nascosto dietro forme giuridiche sostanzialmente reazionarie, perché finalizzate a svolgere un’azione di trasformazione del sistema politico, condotta senza assumerne la responsabilità democratica. Ancora oggi, nel mentre si costituisce il ‘Comitato per il no’ - soggetto squisitamente politico - si dice di volerlo fare senza combattere il ‘Governo’, provandosi in tal modo a confinare in quest’ultimo la materia politica, per lasciare libere mani alla battaglia antireferendaria, come se quest’ultima non fosse a sua volta una tipica azione politica. Insomma, operazioni di mascheramento della realtà: la Magistratura in Italia ha assunto una funzione ed occupato spazio nel campo sociale propriamente politici, senza però volerne al contempo prenderne la responsabilità. Ad essa fa gioco l’apparire un agente della neutralità giuridica, una neutralità che già di per sé in purezza non può esistere; ma che in Italia è ormai divenuta un insostenibile rivestimento di strategie guidate da intenti di potere e del potere più difficile da controllare, perché coperto dai formalismi giuridici, a loro volta tenimento tendenzialmente monopolistico della giurisdizione. Cosa ha fatto questa riforma? Ha preso atto che nell’ordine giudiziario è dilagata una mentalità che è quella propria dell’agone partitico: tengo a precisare, partitico, non politico, e del più vieto cencellismo. Per chiarire, dato che oggi non si ricorda più quel che accadeva l’altrieri: il sostantivo viene dall’un tempo ben noto ‘Manuale Cencelli’, redatto da un funzionario della Democrazia Cristiana per ripartire il potere sottogovernativo tra le varie componenti del partito di maggioranza relativa, che s’identificava a sua volta con lo Stato. In questo caso, le correnti dell’Anm distribuiscono attraverso il pedissequo Consiglio Superiore della Magistratura le posizioni di potere interne all’organizzazione giudiziaria, che s’identifica, agli occhi dell’Associazione dei giudici, con le proprie interne anime. Non molto diversamente dalla veneranda Dc. Solo che quest’ultima era entità dichiarata della politica, mentre la Magistratura avrebbe tutt’altra funzione e, soprattutto, non si sottopone all’elettorato nel suo agire quotidiano, proprio per la ragione della sua pretesa neutralità. Di questo, il Parlamento ha dovuto necessariamente prendere atto, dopo un’infinità di deviazioni emerse, vuoi nell’uso distorto delle indagini, attraverso le quali, enfatizzando od occultando universali debolezze umane, s’indirizzano, o si cerca d’indirizzare, assetti politici; vuoi attraverso quell’autentico vaso di Pandora che è stato il caso Palamara, mediante il quale è venuto fuori un autentico mercato delle cariche di vertice della Magistratura e che, solo grazie al fatto che è stato gestito, sia sul piano delle indagini, sia su quello dell’esercizio del potere disciplinare, da magistrati ben interni al sistema, ha potuto limitare i danni a pochi capri espiatori. Del resto, se un sistema è tale, si chiama così proprio perché è costituito di una rete di rapporti, ciascuno dei quali influenza l’altro e tutti insieme fanno le regole del suo funzionamento. Sicché, nessuno dei suoi elementi se ne può chiamare del tutto fuori. Dunque, la riforma ha fatto tre cose, correlate: ha cercato di eliminare lo ‘spirito di corpo’ che accomuna giudicanti e requirenti; ha cercato di sottrarre al correntismo la composizione del Csm, stabilendo che in quel consesso s’arrivi grazie ad un ponderato sorteggio: e questo è per l’attuale sistema di potere giudiziario, il colpo davvero in grado di scardinarne le logiche; ed ha stabilito, infine, che non sia più esso il centro degli scambi interni alla magistratura, il luogo in cui si giudichino le responsabilità dei giudici, evitando che questi ultimi si sentano praticamente liberi di fare quanto desiderano, perché certi di poter confidare della ‘comprensione’, pronti a sottrarli da appropriate sanzioni. Ad oggi sono anche liberi di farsi beffe del ministro della Giustizia, che avrebbe su di loro il potere d’avviare l’azione disciplinare, ma che spesso non l’avvia, conscio degli esiti innanzi alla Sezione competente del Csm. In sostanza, la riforma cerca di restituire alla giurisdizione quella dignità che ha perduto per il perseguimento di un ruolo politico ed in pretesa moralizzatore, che non le compete per nulla: ha cercato di riportare la giurisdizione ai suoi intangibili spazi. La riforma ha cioè svolto un ruolo politico, quel che compete al Parlamento. Vedremo come andrà a finire, ma se la riforma venisse spazzata via, i tempi sarebbero ancor più tristi, perché vorrebbe dire il riconoscimento del ruolo politico dei giudici: ed allora non ci sarebbe che da farlo venire pienamente in chiaro, allineandoli alla funzione politica: attraverso la loro elezione, il che potrebbe anche essere un qualcosa di positivo: quel che si chiama eterogenesi dei fini. La riforma costituzionale sulla giustizia in Italia è una questione di potere di Stefano Feltri Il Centro, 3 novembre 2025 Dove fissare l’esatto punto di equilibrio tra la classe politica e la magistratura? Il governo ha fatto la sua mossa. Adesso tocca agli elettori con il referendum. La riforma della giustizia è uno di quegli argomenti sui quali moltissimi sembrano avere opinioni molto nette che hanno poco a che fare con il merito. Dunque, l’idea che quasi certamente il suo destino sarà affidato a un referendum che condensa questioni complesse in un sì o un no può suscitare qualche legittima preoccupazione. Il Senato ha approvato con 112 voti in quarta lettura la riforma costituzionale voluta dal governo Meloni che introduce, tra l’altro, la separazione tra le carriere del pubblico ministero e del giudice. Scrive Giorgia Meloni che così si fa “un passo importante verso un sistema più efficiente, equilibrato e vicino ai cittadini”. In realtà, appunto, ci sarà un referendum: basta che lo chiedano un quinto dei Parlamentari, 500.000 cittadini o cinque consigli regionali. Ma perfino i parlamentari del centrodestra dicono di volere il voto popolare che sarà, lo ricordiamo, senza quorum, perché si tratta di un referendum confermativo e non abrogativo come quello, fallito proprio per la bassa affluenza, di giugno sul lavoro. La campagna referendaria è già in corso da mesi: i promotori sostengono che così, finalmente, i cittadini avranno una giustizia più equa, imparziale, rapida. I detrattori dicono che è la fine dell’indipendenza del potere giudiziario, che i pm diventeranno avvocati dell’accusa e della polizia, che sarà il governo a indicare i reati prioritari. In realtà, non è chiaro a cosa serva questa riforma, nel senso che non ci sono analisi dei dati alla base né obiettivi misurabili per verificare, a posteriori, il suo successo o il suo fallimento. Il falso problema - Certo, può suscitare qualche sospetto il fatto che il grande ispiratore della separazione delle carriere sia Silvio Berlusconi, che in carriera ha avuto problemi soprattutto con i pubblici ministeri, e che da condannato in via definitiva per frode fiscale ha lasciato questa riforma come eredità spirituale. Matteo Renzi, che come Berlusconi ha avuto una lunga serie di problemi giudiziari negli anni del governo e in quelli successivi, con una serie di inchieste su politici e familiari che in gran parte si sono poi sgonfiate, critica la riforma perché non ha fatto abbastanza: “Oggi” spiega “non si celebra la giornata della separazione delle carriere, perché la separazione delle carriere in questo Paese c’è già. Il fatto numerico rende giustizia di qualsiasi vostra propaganda o di qualsiasi vostra preoccupazione. Sono solo 28 i magistrati che, negli ultimi cinque anni, in media ogni anno, hanno fatto la separazione delle funzioni, su un totale di 8.800: lo 0,3 per cento. Questa legge non è la riforma costituzionale della separazione delle carriere: è la riforma costituzionale del raddoppio del Csm”. Ci arriveremo. Dallo scranno senatoriale che fu di Berlusconi, rieletto nel 2022 dopo la decadenza per la condanna nel 2013, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha dedicato la riforma al leader scomparso. E per spiegare quanto sia necessaria, ha citato alcuni casi di errori giudiziari o comunque di condanne poi ribaltate in successivi gradi di giudizio: il presentatore Enzo Tortora arrestato nel 1983, poi assolto in Cassazione da accuse di legami con la camorra, il pastore sardo Beniamino Zuncheddu incarcerato per 33 anni e poi assolto, e altri incarcerati e poi assolti. Casi problematici, ma non è ben chiaro perché la riforma della giustizia dovrebbe ridurre il tasso di errori giudiziari, se proprio vogliamo considerare un problema il fatto che un giudice ribalti il verdetto di un altro giudice, anche se sarebbe molto più problematico se ogni magistrato si sentisse in dovere di confermare anche le condanne che ritiene ingiuste per non screditare la categoria. La separazione delle carriere è una soluzione a un problema che non esiste: ogni anno sono poche decine i magistrati che passano dalla carriera inquirente, quindi da pubblici ministeri, a quella giudicante. Lo ha spiegato il procuratore di Napoli Nicola Gratteri, contrario alla riforma, in una recente puntata di Otto e mezzo. Non si può quindi sostenere che ci siano giudici troppo indulgenti verso l’accusa perché prima erano stati dall’altra parte, sui banchi del pubblico ministero. Sembra di capire, quindi, che i promotori della riforma considerino sufficiente il fatto che pubblico ministero e giudice appartengano alla stessa categoria per rendere di fatto l’intera magistratura più sbilanciata a favore degli argomenti accusatori. Ci vorrebbero dati per sostenerlo, e non esistono, figurarsi delle analisi per stabilire un eventuale nesso di causalità. Resterebbe poi da spiegare se nei casi dei cosiddetti errori giudiziari il problema è dal lato dell’accusa o da quello della difesa. Se prendiamo per esempio il grande pasticcio di Garlasco, quali sono i magistrati che hanno sbagliato? Quelli che hanno accusato Alberto Stasi, la cui colpevolezza sancita da sentenza definitiva viene ora messa in discussione? Quelli che lo hanno assolto nei primi processi? Quelli che lo hanno condannato? Il procuratore che ha riaperto l’inchiesta? Non si sa. L’argomento della ipotizzata commistione tra pubblici ministeri e giudici non viene mai dettagliato dai promotori della riforma, tra i quali il ministro Nordio che è appunto un ex pm. Viene trattato come un assioma, un’ovvietà da non dimostrare, da cui discende il cuore della riforma. Cioè la rivoluzione del Csm. Oggi tutti i magistrati rispondono per le carriere e per le sanzioni disciplinari al Consiglio superiore della magistratura, composto da magistrati, membri indicati dal Parlamento, avvocati, e presieduto da Mattarella. La riforma prevede che il Csm attuale sia spacchettato in tre: uno per la magistratura d’accusa, uno per quella giudicante, e un’alta corte disciplinare. Il presidente della Repubblica presiede i primi due, l’alta corte da un membro laico, cioè non magistrato. I membri dei due Csm saranno estratti a sorte da liste predisposte dal Parlamento, per i laici, e tra i magistrati che rispetteranno certi requisiti da stabilire per legge. Questo è il vero intervento che sposta l’equilibrio di potere, non tra accusa e difesa, ma tra politica e magistratura. Spostare il potere - Con lo sdoppiamento dei consigli superiori, svuotati di potere disciplinare, e con una nomina per sorteggio, si rompe il sistema attuale dell’autogoverno della magistratura, che si fonda su una compattezza di categoria, su un sistema di correnti che rispecchia - più o meno - il sistema dei partiti e che presidia percorsi di carriera, rapporti con governi e potere. Non c’è dubbio che la riforma indebolisca la magistratura come potere autonomo. E, di conseguenza, la riforma ridimensiona anche il ruolo del presidente della Repubblica come garante dell’indipendenza della magistratura: un conto è essere il riferimento unico di un ristretto gruppo di componenti di un solo Consiglio superiore, altro è essere il referente di due consigli, che fanno cose diverse. La moral suasion del capo dello Stato sarà molto più difficile da esercitare. E questo non è un effetto collaterale della riforma, ma una delle sue caratteristiche desiderate dalla destra che ha sempre sofferto il ruolo del Quirinale come arbitro esterno ai rapporti di forza dei partiti. Ma qui finiscono le certezze e cominciano le opinioni, i timori, le esagerazioni per mobilitare i rispettivi elettorati. Il sorteggio è stato evocato negli anni anche da molti magistrati di aree lontane da quella della destra berlusconiana o meloniana, ne ha scritto per anni su Il Fatto il magistrato, ora scomparso, Bruno Tinti. Dopo gli scandali degli anni di Luca Palamara, e l’infinito strascico di processi e polemiche che ha visto condannato persino l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, è difficile sostenere che il sistema delle correnti sia un presidio dei valori costituzionali e dell’indipendenza della magistratura migliore del sorteggio. I sorteggi, poi, bisogna sempre ricordarlo, garantiscono una certa imprevedibilità del risultato soltanto nel ristretto perimetro delle possibilità offerte dalle regole. Per capire se la scelta dei membri dei due Csm sarà davvero affidata alla sorte, insomma, bisogna prima capire i dettagli su come saranno formate le liste. Se poi la separazione delle carriere porterà a una progressiva sottomissione dei pubblici ministeri alle indicazioni politiche del governo, lo vedremo. Di sicuro, la destra oggi al potere ha un rapporto molto complicato con i giudici ai quali richiede di eseguire le indicazioni della politica, invece che di far prevalere la legge. Ma gli scontri non si contano più, che si tratti di immigrazione - con i tribunali di primo grado e le Corti di appello che fanno prevalere, come previsto dalla Costituzione, la legislazione europea su quella nazionale - o che si tratti di indagini sui singoli membri del governo: ogni inchiesta è vissuta come un’ingerenza del potere giudiziario da arginare. Abbiamo persino assistito a un governo che manda il capo dei servizi segreti, il direttore del Dis Vittorio Rizzi, a denunciare in procura a Perugia il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi che aveva appena indagato la premier e mezzo governo per il rimpatrio del torturatore libico Osama Almasri. Insomma, non mancano gli elementi per sostenere che nell’approccio del governo c’è un intento punitivo nei confronti della magistratura. Cosa non c’è - Detto questo, la riforma non prevede la sottomissione dei pubblici ministeri al potere esecutivo e dunque la possibilità per il governo di stabilire quali reati vadano perseguiti e quali messi in secondo piano. Sarebbe certo un gran problema se un governo potesse dire che, per esempio, gli scippi sulle metropolitane o gli stupri commessi da immigrati irregolari devono avere la priorità sulle indagini per mafia o corruzione. Rimane la teorica obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pubblico ministero dalla politica. Due concetti previsti dalla Costituzione non sempre declinati nella realtà, visto che i pm hanno nella pratica grande discrezionalità su come muoversi, e che Camera e Senato sono pieni di ex magistrati passati in un attimo dalla toga al seggio. Niente di questa riforma ha a che fare con l’efficienza della giustizia, con la durata dei processi, con la garanzia di una risposta in tempi e modi equi, soprattutto per chi non ha le risorse per affrontare processi infiniti dai costi indeterminati. Questa riforma costituzionale è una questione di potere, di dove fissare il punto di equilibrio tra politici e magistrati. La politica ha fatto la sua mossa. Adesso tocca agli elettori. La premier Giorgia Meloni ha già fatto capire che non ha intenzione di sovrapporre la sopravvivenza del suo governo all’esito del referendum, per non ripetere l’errore di Matteo Renzi nel 2016. All’opposizione Elly Schlein e Giuseppe Conte si sono opposti con Pd e Cinque stelle alla riforma, ma ora bisognerà vedere quanto si impegneranno in una campagna per il No che la destra cerca di presentare come autodifesa corporativa dei magistrati. Come succede spesso in Italia, si sa come le campagne referendarie cominciano ma non come finiscono e con quali conseguenze di lungo termine. Nordio: “La riforma? Molti magistrati in privato sono a favore. E così la politica riprende i suoi spazi” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 3 novembre 2025 Intervista al ministro della Giustizia: “Mi stupisce Schlein, la legge gioverebbe anche a loro al Governo. Meloni non mi chiede di non fare dibattiti in tv, anzi, sono sollecitato a farli”. Carlo Nordio, ministro della Giustizia: molti suoi ex colleghi si sono ricompattati per il no alla riforma in difesa di autonomia e indipendenza. Non ha nessun dubbio? “Nessun magistrato di buon senso può pensare che si sia attentato all’indipendenza. Perché nella legge costituzionale questo principio è consacrato a chiare lettere. Capisco che i vertici dell’Anm siano contrari: nessun tacchino si candida al pranzo di Natale. Ma nella riservatezza...”. Che accade? “Molti confessano di essere favorevoli al sorteggio, che li svincola dall’ipoteca delle correnti. Così come molti sindaci del Pd, segretamente, erano favorevoli all’abolizione dell’abuso d’ufficio. Ogni magistrato sa che la carriera dipende dal Csm , condizionato dalle correnti. Per chi non è iscritto diventa difficoltoso. Anche il procuratore Gratteri lo sa. Infatti è pro sorteggio”. Il cuore di questa riforma è lo sdoppiamento del Csm, senza la disciplinare, assegnata a un’Alta corte. Allora che autogoverno è? “È un organismo previsto dalla bicamerale di D’Alema di trent’anni fa. Composto di elementi ultra qualificati. Garanzia di indipendenza dallo strapotere correntizio che tutti definiscono deviato e inaccettabile”. Non è presieduta dal capo dello Stato, come invece il Csm. Perché? “Lui presiederà i due Csm, quello dei giudici e quello dei pm. Conferirgli anche una funzione disciplinare sarebbe stato investirlo di responsabilità incompatibili con la sua alta carica”. Per i togati c’è il sorteggio secco. Per i laici da una lista compilata dai parlamentari. C’è chi pensa sia anticostituzionale. “Stupidaggine. Come fa una legge costituzionale a essere anticostituzionale? Questa è la Costituzione”. Non teme che diminuisca l’influenza delle correnti e aumenti quella della politica? “No, perché ci siamo mossi nella tradizione dei padri costituenti che hanno voluto una componente politica che è degli eletti. Quella togata rappresenterà la magistratura nella sua purezza di indipendenza, senza condizionamenti delle correnti”. Citate il caso Palamara, ma all’Hotel Champagne c’era anche un sottosegretario. Non si dovrebbe separare la magistratura dalla politica? “Lo scandalo Palamara è ancora tutto coperto dalla scelta del precedente Csm di mettere il coperchio sulla pentola bollente. Se la magistratura vuole riacquistare credibilità deve scoperchiarla, e far venire alla luce tutto il marciume che s’era sotto. Finché questo non avverrà, è legittimo ogni sospetto su quello che l’ex procuratore antimafia Roberti, eletto nel Pd, ha definito “mercato delle vacche”. Come farà questa riforma a evitare “invasioni di campo”? “Fa recuperare alla politica il suo primato costituzionale. Il governo Prodi cadde perché Mastella, mio predecessore, fu indagato per accuse poi rivelatesi infondate. Mi stupisce che una persona intelligente come Elly Schlein non capisca che questa riforma gioverebbe anche a loro, nel momento in cui andassero al governo”. Allora è vero che avete spuntato le unghie alla magistratura? “Niente affatto. Cerchiamo di far recuperare alla politica quello spazio colmato dalla magistratura”. Il vicepresidente Csm, Fabio Pinelli, dice che “è in corso un riassetto degli equilibri di potere”. La magistratura dovrà arretrare? “No. È la politica che deve recuperare gli spazi che ha abbandonato, in modo talvolta codardo”. Ora toccherete l’obbligatorietà dell’azione penale? “Non l’abbiamo fatto e non lo faremo. È stata Italia viva di Renzi a lamentarsi che non abbiamo toccato né l’obbligatorietà né la responsabilità civile dei magistrati. Più realisti del re. Lo abbiamo fatto per evitare che sembrasse un’iniziativa punitiva verso la magistratura”. Il procuratore Nicola Gratteri teme che la riforma allontani il pm dalla giurisdizione. Da garantista lei che dice? “È una vuota astrazione. La giurisdizione è un tavolo a tre gambe: accusa, difesa e giudice terzo e imparziale. Non vedo perché il pm dovrebbe avere una supremazia etica o giuridica sull’avvocato. Il pm deve essere garante della legalità delle indagini della polizia giudiziaria come accade in Gran Bretagna, dove è nata la democrazia”. Hanno dedicato la riforma a Silvio Berlusconi. Gliene parlò in quell’incontro prima del suo incarico? “Berlusconi ha subito numerosi processi. Anche opinionisti di sinistra hanno parlato di accanimento. Ma della necessità di separazione e sorteggio ne avevo già scritto nel ‘95. Mi permetto di rivendicarne il copyright”. La separazione era voluta da FI, FdI premeva per sorteggio e Alta corte. È per questo che La Russa ha detto che forse “il gioco non valeva la candela” ? “Con La Russa siamo in assoluta sintonia. Ho risposto che la riforma “valeva un candelabro”. Era d’accordo. E gli applausi più forti in aula li ho ricevuti da FdI”. L’opposizione invece ha picchiato duro. “La politique n’a pas d’entrailles, gli insulti mi lasciano indifferente. Quando sono esaltazioni grezze e ripetitive, come in Senato, mi porto un libro di Anatole France, elegante scrittore socialista, che mi riconcilia con la sinistra”. Ma non ha risposto a chi l’ha accusata di riproporre la riforma di Gelli. “Sì. Gelli, Giuda Iscariota... Cosa vuoi rispondere? Enfasi verbali che non significano nulla”. Non risponde neanche a chi legge le tre riforme come un unico disegno per disarticolare l’architettura costituzionale e virare verso la “democratura”? “L’unica disarticolazione è della logica. Attendo uno svolgimento razionale con cui potermi confrontare”. Lo farà anche in tv? “Sì”. Meloni non le ha chiesto di non partecipare a dibattiti? “Al contrario. Mi sollecitano a farne”. Ma il premierato si farà? “L’iter è lungo, ma anche la presidenza Meloni lo sarà”. Limiti a intercettazioni, preavviso alle perquisizioni. Non fate leggi pro imputati che ostacolano lotta a mafia e corruzione? “Un ministro deve essere super partes e guardare a diritti e interessi anche degli indagati, tutelati dalla Costituzione. Altrimenti si potrebbe dire che è giustificata anche la tortura”. Quando vi occuperete dell’efficienza della giustizia? “Lo facciamo dall’inizio. Se il Csm ci dà una mano con la burocrazia, entro fine ‘26 colmeremo l’organico con 1600 magistrati. È la prima volta”. I saluti fascisti a Parma sono di “mele marce” o di una realtà sommersa di FdI? “Un liberale come me non si sarebbe iscritto a FdI se vi fosse anche una minima realtà sommersa di neofascismo. Il mio primo gesto di ministro all’estero fu di deporre una corona a Mont Valerian, le Fosse Ardeatine di Parigi. Mai nessun esponente di governo italiano era stato lì”. Bruti Liberati: “Il Csm? Con la riforma sarà come scegliere con i dadi. L’Alta Corte? Sgangherata” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 3 novembre 2025 Intervista all’ex procuratore di Milano: “Ci sono rischi per lo Stato di diritto, di questa riforma non mi piace nulla”. Lei è stato presidente dell’Anm e di Md, corrente più progressista delle toghe, oltre che procuratore di Milano. Dottor Edmondo Bruti Liberati, che ne pensa della riforma della Giustizia? “Diciamo che è un passo avanti rispetto alla pigrizia di chiamarla “Separazione delle carriere tra giudici e pm”, come era la proposta originaria degli avvocati delle Camere penali ripresa da diversi parlamentari e poi cestinata senza molto garbo dal disegno di legge Meloni/Nordio, nel quale la separazione è un aspetto del tutto marginale”. Cosa non le piace? “Non mi piace nulla. Sulla separazione delle carriere, i difetti sono di gran lunga prevalenti sui pregi. Si sarebbe potuto svolgere un confronto, ma la blindatura ha vanificato la riflessione prevista per le revisioni della Costituzione. Pm separati dai giudici sono previsti in molte democrazie europee con una qualche forma di dipendenza dal ministro della Giustizia. Fin quando questa influenza viene esercitata con discrezione, tutto ok, ma le involuzioni verso le democrazie illiberali alle quali stiamo assistendo in Europa e negli Stati Uniti dimostrano che i rischi per lo Stato di diritto esistono”. La maggioranza dice che nella riforma questo non è scritto da nessuna parte. “A nulla vale la proclamazione formale dell’indipendenza del potere giudiziario dall’esecutivo se poi si riduce alla quasi irrilevanza il Consiglio superiore della magistratura che la Costituzione ha previsto per rendere effettiva l’indipendenza di tutti i magistrati, non solo dei pm, che è garanzia perché la legge sia uguale per tutti”. Negli ultimi decenni, la giustizia è stata terreno di scontro. Da qui al referendum sarà peggio? “I cittadini saranno chiamati a votare sì o no ad un pacchetto di norme inscindibile. Si vota sullo spezzettamento del Csm in due Csm non comunicanti tra loro, sul sorteggio, il mitico “uno vale uno”, dei componenti e su una Corte disciplinare chiamata Alta, ma costruita in modo sgangherato. Temi complessi sui quali mi auguro l’opinione pubblica sarà informata puntualmente”. Le principali critiche alla riforma riguardano il sorteggio dei componenti del Csm, togati e laici. “Per i laici è una autoumiliazione del Parlamento che si dichiara incapace di scegliere. Per i magistrati è inutile, perché i sorteggiati potranno continuare a far riferimento lo stesso alle diverse anime dell’associazionismo. La scelta con i dadi di chi è chiamato ad organizzare la giustizia è insensata. La divisione in due Csm, uno per i pm e l’altro per i giudici, non comunicanti, impedisce una visione coordinata dell’organizzazione di Procure e Tribunali”. Le correnti, che i promotori intendono sconfiggere, sono strumento di potere o di confronto? “Pregi e difetti dell’associazionismo dei magistrati e delle sue diverse opzioni li conosciamo: confronto tra diverse legittime idee sulla gestione dell’apparato giudiziario e delle riforme versus chiusura corporativa e particolarismo. Sui grandi temi, però, si trova sempre una sintesi. Ho presieduto 25 anni fa una Anm unita tra tutte le correnti come lo è oggi con il presidente Parodi”. Non si è esagerato nel Csm con le nomine a pacchetto, considerate una forma di spartizione? “Il dato negativo, sempre immanente, va contrastato, ma pretendere di abolire il raggrupparsi attorno alle diverse opzioni è impossibile e controproducente, perché apre spazio, come dicevo, ai particolarismi. Molti passi avanti sono stati fatti. Come ha ricordato il vicepresidente Pinelli sul Corriere della Sera, l’85% delle nomine lo scorso anno sono state all’unanimità. Che su alcune, magari le più importanti, ci si divida è nella fisiologia del pluralismo”. Si vuole istituire un’Alta corte disciplinare. “Va smentita la favola che ci sia nel Csm un lassismo disciplinare, che tale è anche se rilanciata dal ministro Nordio che ha parlato di sanzioni molto morbide come le “censure”. I dati ufficiali per il 2024 dicono che prevalgono le sanzioni più gravi, come perdita di anzianità e rimozione. Il vicepresidente Pinelli ha dichiarato: “La sezione disciplinare che io presiedo, nel rispetto delle garanzie, decide con assoluto rigore”. Questa Alta corte ha una costruzione così sgangherata che persino i, pochi, costituzionalisti che ne sono fautori evidenziano criticità insuperabili. In realtà, è uno dei tasselli per depotenziare il Csm riducendolo all’organismo assolutamente irrilevante che ha operato nell’Italia liberale e nel periodo fascista. Nel 1948 la Costituzione ha fatto una scelta diversa”. Cesare Mirabelli: “Il sorteggio al Csm rompe le correnti. Il pubblico ministero resta autonomo” di Irene Famà La Stampa, 3 novembre 2025 L’ex presidente della Consulta: “Ma vedo rischi dalla presenza di due organi di garanzia”. “A prescindere dal risultato del referendum, sono necessarie nuove norme sul tema giustizia”. L’analisi dell’ex presidente della Corte costituzionale e numero due del Consiglio superiore della magistratura Cesare Mirabelli sulla riforma è posata. “Vorrei che il dibattito si svelenisse”. Favorevole o contrario alla riforma? “Sono più interessato a valutarne i contenuti. Se vincerà il “sì” bisognerà valutare l’attuazione delle nuove norme, se vincerà il “no” si apre comunque l’opportunità di intervenire su alcuni nodi critici”. Quali? “L’obiettivo è assicurare, anche dal punto di vista ordinamentale, in maniera netta e forte, la diversità di funzioni tra giudice e pubblico ministero. E assicurare l’assoluta terzietà del giudice”. Per quanto riguarda il Csm? “Bisogna assicurarne un funzionamento libero, anche se il termine è forte e forse improprio, dall’incidenza e dal condizionamento delle correnti”. Quale il problema più urgente del Csm? “Quello della composizione e del sistema elettorale. Se la legge verrà approvata, si valuterà l’applicazione e i limiti del sorteggio. In caso contrario, è comunque opportuna una riscrittura della legge elettorale. Il Csm dev’essere organo di garanzia e non di rappresentanza”. Decidono le correnti? “Che le correnti diano luogo a degenerazioni dipende dalla professionalità e dalla coscienza delle persone. Il punto che è non vi siano preferenze nelle carriere ancorate all’appartenenza a questa o quell’altra area. Che vi sia una garanzia del Csm per la carriera e non un dominio sulla carriera”. Il sorteggio dei membri non rischia di penalizzare la qualità? “Non solo. Può essere sorteggiato chi non ha alcun interesse nelle attività organizzate. Ad esempio nelle università ci sono ottimi professori o scienziati che non farebbero mai il preside o il rettore, così come ci sono magistrati che sono giuristi insigni ma che non farebbero mai il presidente di un tribunale con compiti organizzativi. Altri possono essere più orientati e idonei a questi compiti”. Almeno sul sorteggio si sbilancia? Il suo sarà un “sì” o un “no”? “È una soluzione diretta a rompere il dominio delle correnti sui sistemi elettorali. Mi chiedo se ci possano essere dei temperamenti al sorteggio, che la legge potrebbe prevedere, o modalità elettorali che raggiungano lo stesso obiettivo”. Anche lei, come altri, teme che il pubblico ministero finisca sotto il potere dell’esecutivo? “La Costituzione attuale afferma che il pubblico ministero ha le stesse garanzie della magistratura giudicante. E in questo non verrà modificata”. In futuro? “Non si può ritenere che quello sia il cammino”. È vero che questa riforma depotenzia e mortifica la magistratura? “Non credo sia adeguato parlare di potenziamento o depotenziamento e mortificazione. Non è un rapporto di forza tra i poteri. Semmai bisogna individuare la modalità più opportuna per assicurare e mantenere l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere. Semmai vedo un rischio nei due Csm”. In quali termini? “Mi soffermo sulla corporazione dei pubblici ministeri: sono circa 1/3 dei magistrati totali e hanno poteri formidabili, perché l’esercizio dell’azione penale è un potere forte che incide sulla libertà degli individui e lo stesso esercizio dell’accusa colpisce nella vita indipendentemente dalla condanna. C’è il rischio, e spero non sia così, di un’autoreferenzialità accentuata della corporazione che potrebbe contrapporsi anche ad altre istituzioni”. La sua analisi si contraddistingue per i toni pacati, la discussione generale, invece, è sempre più aspra… “Mi pare ci siano elementi di disordine. La magistratura che organizza un comitato per il “no” è un’espressione singolare, dal loro punto di vista probabilmente giustificata”. E dal suo? “Mi chiedo se non ci sia anche un po’ di disordine nel governo che dice che il risultato del referendum non lo toccherà in nessun modo”. Non ci crede? “Il Disegno di legge è stato presentato e voluto fortemente dal governo, senza alcuna modifica parlamentare. Questo significa che è una volontà governativa che ora viene messa in qualche modo a confronto con quella popolare”. Con l’Anm non c’è stato alcun confronto. Sbagliato? “Mi pare che la legge abbia limitato il potere d’interdizione della magistratura”. Ovvero? “Le leggi che riguardavano la magistratura sono sempre state in qualche modo negoziate”. Perché, in questo caso si è agito diversamente? “Il potere di interdizione è un puro rapporto di forze, non ha fondamento giuridico. Evidentemente il mondo politico è diventato meno sensibile alle richieste e alle sollecitazioni della magistratura”. Anche gli attacchi della politica verso le toghe sono diventati più duri… “Auspico che la discussione diventi meno velenosa. E che, nell’ambito del recinto della legge in discussione, venga analizzata alla riforma con un’attenzione particolare a quegli approfondimenti che, legge o non legge, dovranno comunque essere affrontati”. La giustizia fai da te delle “femministe” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 3 novembre 2025 La cosa più sconcertare nell’inchiesta di Monza sul commando delle “femministe” d’assalto accusate di stalking e diffamazione è il tribunale in versione chat per emettere sentenze di call out per reati segnalati da chissà chi e del tutto presunti. Al di là delle offese, delle bestemmie, della violenza verbale, dell’inopportunità di parole e comportamenti, c’è una questione di fondo che dovrebbe sconcertare più di ogni altra cosa nell’inchiesta di Monza sul commando delle “femministe” d’assalto accusate di stalking e diffamazione. E cioè il ricorso alla giustizia fai da te. Sommaria e inappellabile. Non denunce, garantismo e processi nelle aule di giustizia ma un tribunale in versione chat per emettere sentenze di call out per reati segnalati (ripeto: segnalati) da chissà chi e del tutto presunti. Per i pochi che a questo punto non dovessero conoscerne il significato: un call out è una chiamata alle armi della maldicenza (da esercitare in forma fisica e digitale) per “uccidere” la reputazione, le relazioni sociali, la professionalità di qualcuno. “Vessazione pubblica” e “gogna digitale”, la definisce la procura. Maldicenza nata da convinzioni personali, da misteriose segnalazioni, appunto, o da azioni non gradite del malcapitato o la malcapitata di turno. Quindi funziona così: io per qualcuno dei motivi appena elencati ti ritengo un “abuser”, un molestatore, un manipolatore, oppure mi convinco che hai sostenuto la causa di gruppi omofobi o misogini. E che faccio? Organizzo un call out contro di te. Ti denigro pubblicamente, mi attivo per far scappare i follower dai tuoi canali social, faccio pressione su organizzatori di eventi (chiamo o segnalo via web il “reato” che ti ho cucito addosso) per far cancellare il tuo nome o per farti escludere da eventi futuri; pubblico post per dichiarare la tua indegnità o ne parlo in chat di gruppo. Costruisco la tua “morte sociale e politica”, per dirla con le loro parole. Un concetto piuttosto bizzarro di giustizia. Che ovviamente non avrebbe senso nemmeno se ci fossero le prove provate che il reato tal dei tali sia stato commesso davvero. Non ha senso, è pericoloso e incompatibile con un sistema democratico il concetto che sta alla base di tutto questo, cioè sostituirsi ai tribunali e mutuare dalla giustizia e dal codice penale parole a casaccio. Un potenziale stupratore, un molestatore, va denunciato, non ricoperto di fango via call out. Quindi, per quanto sgradevoli, il problema più grave di questa storia non sono gli insulti via chat a Mattarella o a Liliana Segre. È rimpiazzare il potere giudiziario con il potere di sputtanare e rovinare. In morte di Pasolini 2 novembre 1975: la verità monca dell’idroscalo di Guido Salvini* Il Dubbio, 3 novembre 2025 Non è possibile che Pino Pelosi, detto non a casa “Pino la rana”, abbia da solo sopraffatto e ucciso in quel modo Pasolini, un uomo più forte e robusto di lui. Troppo gravi le lesioni sul corpo. Sono passati cinquant’anni dall’assassinio di Pierpaolo Pasolini. Il 2 novembre 1975 è un giorno rimasto impresso nella memoria. Mi permetto un ricordo personale. Quando quella mattina dal Telegiornale arrivò la notizia che il suo corpo era stato ritrovato in un campetto dell’Idroscalo di Ostia, ero in montagna con amici per trascorrere i giorni dell’estate di San Martino. Parlammo di cosa era accaduto e di politica sino a notte fonda. Allora non si parlava ancora degli influencer e di banalità simili. Era anche appena avvenuto il massacro del Circeo. Poi ci sono stati processi. Nella sentenza di primo grado, scritta da Alfredo Carlo Moro, fratello dello statista, Pino Pelosi era stato condannato per aveva ucciso Pasolini “in concorso con ignoti”. Gli “ignoti” sono poi scomparsi nelle sentenze successive. Ma anni di ricerche di giornalisti d’inchiesta e nuove testimonianze hanno sgretolato la ricostruzione ufficiale secondo cui Pelosi avrebbe fatto tutto da solo. Non è possibile che Pelosi, detto non a caso “Pino la Rana”, abbia da solo sopraffatto e ucciso in quel modo Pierpaolo Pasolini, un uomo più forte e robusto di lui. Troppo gravi le lesioni sul corpo, quasi massacrato, del poeta. Un corpo su cui era passata più volte una autovettura, forse l’Alfa GT di Pasolini, forse anche un’altra vettura, in modo incompatibile con la semplice fuga di Pelosi, alla guida, dal luogo del delitto. E poi rumori e grida di più persone e di più vetture sentite a lungo quella notte dagli abitanti delle “baracche” intorno e non ascoltati, per incapacità e approssimazione investigativa dalle autorità di Polizia, ma solo dai giornalisti che avevano avvicinato e sentito quei testimoni. Alla fine, nel 2005, Pino Pelosi, ha ammesso di avere avuto solo il ruolo di esca e che lo scrittore era stato aggredito da un gruppo che li attendeva a Ostia, sulla cui identità è stato molto “cauto” parlando solo di due malavitosi siciliani ormai morti. Pasolini era stato attirato all’Idroscalo con la promessa di riscattare, Pasolini aveva con sé i soldi, le bobine di “Salò”, il suo ultimo film, rubate nell’agosto 1975 negli stabilimenti della Technicolor. Poi, purtroppo quasi in punto di morte, Sergio Citti ha confermato che Pasolini intendeva riavere le bobine a tutti i costi, anche a suo rischio personale. E la Commissione Antimafia della scorsa legislatura ha accertato con nuove testimonianze che in seguito, qualche mese dopo, proprio quelle bobine erano state fatte ritrovare da elementi della criminalità, per allentare la pressione e ottenere qualche vantaggio, ad un agente dei Servizi e rimesse al loro posto. Una trappola quindi, non un incontro finito male, ma ad opera di chi? All’inizio degli anni ‘70 Pasolini stava ponendo mano ad un progetto di “processo”, culturale non giudiziario ovviamente, al potere identificato nella Democrazia Cristiana, o meglio nella sua degenerazione, che aveva anche consentito e beneficiato degli effetti delle stragi e delle altre manovre eversive di quell’epoca. Insieme a questo progetto con il colossale romanzo Petrolio, rimasto incompiuto, lo scrittore intendeva denunciare il potere economico, raffigurato nel padrone dell’ENI Eugenio Cefis che stava teorizzando la prevalenza dei grandi potentati economici e delle multinazionali sulla politica svuotata e ridotta ad un ruolo servente. Non voglio con questo dire che l’omicidio Pasolini sia stato un delitto direttamente politico, cioè commissionato da coloro che erano gli obiettivi del suo lavoro culturale. Non ve ne sono le prove e se così fosse, ad esempio, forse Pino Pelosi non sarebbe rimasto vivo a lungo. Ma certamente è stato un delitto politicamente orientato e sfruttato. È stato un delitto di “influenza” per poter descrivere Pasolini che ne è stato vittima come una persona negativa e pericolosa in grado di sviare la gioventù non solo per le sue tendenze ma anche per le sue idee in qualche modo corrispondenti ad esse. Il delitto è stato ricostruito e commentato esclusivamente nella cornice dell’uomo “malato”. Solo quella poteva essere la sua fine e così era stato. Ed è stato così realizzato l’intento di svilire solo come un anormale chi criticava il sistema di potere. Allora era facile. La violenza pura e gratuita contro gli omosessuali esisteva in modo molto violento più di oggi e senza possibilità di appellarsi alla giustizia e alla pubblica opinione che erano sordi. Oggi non è più così, anche a destra ci sono esponenti politici omosessuali e nessuno farebbe la campagna politica contro l’omosessualità equiparandola magari alla droga o alla sovversione. Allora invece era un marchio sull’intera persona. Non è difficile immaginare chi siano stati gli autori materiali di quell’omicidio tribale: elementi della malavita più violenta e agguerrita che stava prendendo il potere a Roma, stava nascendo la Magliana, o elementi dell’estrema destra che già avevano disturbato le prime dei suoi film, come “Mamma Roma” e consideravano il film Salò uno sfregio. Non credo che sulla morte di Pasolini, dopo ripetute e svogliate archiviazioni, vi siano molti spazi per una soluzione giudiziaria. Tuttavia può essere costituita, come chiesto inutilmente in passato, una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che, seppur con obiettivi limitati e anche senza la presunzione di raggiungere la verità, possa ascoltare chi, a conoscenza di quella vicenda, è ancora vivente e alla fine condensare, almeno sul piano storico, in una sua relazione quanto ormai si sa sulla morte dello scrittore. Sarebbero un omaggio dovuto ad uno dei grandi protagonisti della cultura e anche della storia del nostro paese. Un’ultima riflessione. Nel 1974 Pasolini aveva scritto che “l’Italia è un paese che diventa sempre più stupido ignorante” dove regna il consumismo e dove il conformismo di sinistra si accompagna ormai a quello di destra. Chissà cosa avrebbe scritto oggi dei giovani accalcati in fila davanti ai negozi in cui è in vendita l’ultimo modello di smartphone. Più che una critica la sua è stata una profezia. *Già magistrato Quel “Io so, ma non ho le prove” volutamente frainteso dalla dietrologia complottista di Paolo Delgado Il Dubbio, 3 novembre 2025 Chissà se Pier Paolo Pasolini, il più anticonformista e coraggioso ma anche volutamente provocatorio tra i grandi intellettuali italiani, avrebbe apprezzato la canonizzazione di cui è stato fatto oggetto dopo la tragica scomparsa. Probabilmente no. Di certo, comunque, le sue provocazioni avrebbero meritato e meriterebbero di essere vagliate, analizzate e se del caso confutate con lo stesso spirito critico che lo stesso Pasolini esercitava a tempo pieno. Nessuno tra i suoi scritti corsari è stato citato più spesso, e quasi sempre a sproposito, di quello uscito sul Corriere della Sera il 12 novembre 1974 col titolo ‘Io so’ e diventato nella vulgata degli ultimi 15 anni una sorta di Ipse Dixit. Certo non erano queste le intenzioni dell’autore, ma è un fatto che la frase centrale di quell’articolo, ‘Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi’, è stata trasformata in una legittimazione per ogni fantasia malsana, ogni sospetto di complotto, per quanto improbabile e surreale, ogni architettura ‘dietrologica’. Quell’articolo e l’autorevolezza del suo autore hanno arrecato un danno difficilmente calcolabile non solo alla cultura della sinistra italiana ma alla sua stessa mentalità diffusa. Il sospetto è stato elevato a certezza per il semplice fatto di essere nutrito. Nessun bisogno di prove e neppure di indizi perché alcune cose ‘si sanno’ e basta. Alcune responsabilità sono palesi di per sé e non necessitano di verifiche. Si può dubitare della presenza di Licio Gelli dietro ogni torbido mistero della Prima Repubblica? C’è davvero bisogno di dimostrare che la mano della Cia ha mosso molti fili nelle fasi più delicate e tragiche della storia italiana nella seconda metà del Novecento? La potenza di quell’ ‘Io so’ è tale da sfidare le ricostruzioni giudiziarie, le testimonianze, le ricerche degli storici di professione. Poco importa, tanto per fare l’esempio più eloquente, che una serie interminabile di processi abbia stabilito che dietro il sequestro Moro c’erano solo le Brigate Rosse e dietro le Brigate Rosse assolutamente nessuno. Per l’opinione diffusa, e dunque domani per la storia, resta la certezza che invece i burattinai fossero sin troppi: ‘Noi sappiamo. Anche se non abbiamo le prove’. In compenso è stata senza alcuna eleganza cancellata la sostanza dell’articolo cardine di quella fase, quello sulla ‘scomparsa delle lucciole’ uscito sempre sul Corriere della Sera il primo febbraio 1975. Oggetto del pezzo era la differenza nella natura stessa del potere democristiano nella prima fase della Repubblica, prima della scomparsa delle lucciole’ e nella seconda, ‘dalla scomparsa delle lucciole a oggi’. La critica alla prima fase era feroce. Quella rivolta al presente lo era molto di più. La modernizzazione, riassunta nella metafora delle lucciole, aveva reso gli italiani ‘un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale’. L’autore insisteva affermando di aver visto ‘il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista’ Per un intellettuale della sinistra, allora, negare la fede nel progresso era un rivoluzione copernicana, indicare lo sviluppo come fonte di regressione umana e morale e non di emancipazione suonava quasi come una bestemmia. Di lì a poco sarebbe stato il segretario del Pci Enrico Berlinguer a indirizzare il suo partito verso una visione nuova, ‘il più rivoluzionario e il più conservatore’, e fare dell’austerità non più solo un obbligo ma un valore da contrapporre al consumismo e a quella che si chiamava allora ‘società del benessere’. Ma ad aprire la strada verso il divorzio tra sinistra comunista e fede nel progresso era stato, prima di Berlinguer, proprio Pasolini. Ma quanto di quella ‘rivoluzione culturale’ si sia poi rivelato puntuale e utile e quanto invece abbia tagliato ogni ponte tra la sinistra italiana e la modernità, determinando un ritardo anche analitico mai più colmato, sarebbe un quesito essenziale che la sinistra stessa di porrebbe se, invece di sbandierare come slogan le frasi di Pasolini, fosse in grado di ereditarne lo spirito critico. Era un intellettuale libero e libertario che odiava la forca. Ne abbiamo fatto un moralista e un inquisitore di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 3 novembre 2025 Sinistra e destra liberali e conservatori, populisti e moderati si accalcano nel cucirgli addosso la toga del giudice o i vestiti del censore. Era un intellettuale libertario, ne abbiamo fatto un poliziotto della morale. E poi lo abbiamo messo a cavallo, come una statua del Risorgimento. Pier Paolo Pasolini - poeta corsaro, scandaloso, eretico - è stato prima processato, poi beatificato, quasi sempre frainteso. Come un santino laico, un monumento equestre in piazza dell’ipocrisia. Da un lato il castigatore che brandisce “Io so” come un mandato d’arresto universale, dall’altro l’icona addomesticata del nuovo moralismo, saccheggiata un po’ da tutti. A mezzo secolo dalla morte, destra, sinistra, liberali e conservatori, populisti e moderati si accalcano nel celebrare il grande scrittore, regista e poeta, un cherry picking in cui ognuno pesca ciò che gli fa comodo: il Pasolini anticapitalista diventa bandiera della sinistra radicale, il Pasolini tradizionalista del mondo rurale diventa spauracchio dei conservatori, il Pasolini contrario all’aborto (ma non alla legge 194) è così il beniamino dei pro life, il Pasolini comunista sui generis reclutato dalla sinistra, il Pasolini che denuncia il “fascismo degli antifascisti” vezzeggiato dalla destra. Quasi tutti invece salutano in un coro trasversale il Pasolini “inquisitore” che voleva processare la democrazia cristiana e i suoi leader, riducendo il vibrante j’accuse di un intellettuale che denuncia il sistema politico evocando il “romanzo delle stragi” a una giaculatoria giustizialista da pseudo giornalismo d’inchiesta. Come un pubblico ministero qualunque, lui che dalla magistratura italiana è stato letteralmente perseguitato, oltre 33 procedimenti giudiziari in gran parte messi in piedi per castigare la sua omosessualitàmle sue condotte contrarie alla moraole e alla pubblica decenza. Dal 1949, quando i carabinieri di Casarsa segnalano la sua condotta “immorale”, al 1977, quando il procuratore della Repubblica di Milano, due anni dopo la sua morte dissequestra le bobine di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Ce lo vedete nei panni di un procuratore della repubblica? In questo furto sistematico della sua identità Pasolini non è più un pensatore vivo, ma una proprietà condivisa, un contenitore vuoto che ognuno riempie a suo piacimento. Quando nel novembre 1974 pubblicò sul Corriere della Sera (principale quotidiano della borghesia) Io so, denunciando le trame oscure dello Stato, non pretendeva prove né condanne. Rivendicava il diritto di “sapere” come intellettuale, di leggere i segni invisibili del potere, di intuire la verità anche senza tribunali. Ma oggi lo citano come se fosse il capostipite del giustizialismo, il precursore del giornalismo-inchiesta, il giudice poetico dell’Italia colpevole. È la più radicale falsificazione del suo pensiero. Il grottesco emerge, per esempio, quando Marco Travaglio cita il processo di Pasolini nel suo vecchio spettacolo È stato la mafia, o quando l’ormai ex magistrato Antonio Ingroia titola il suo libro “Io so”, tentando di cavalcare la popolarità del motto pasoliniano in una deformante inversione di ruoli, il poeta che si trasforma in magistrato, il magistrato che si fa poeta. Quell’”io so ma non ho le prove”, come spiega bene Paolo Delgado nelle nostre pagine, diventa il punto di riferimento per chiunque voglia agitare teorie del complotto senza elementi concreti, come una suggestione permanente e impolitica. Pasolini non accusava la DC soltanto di immoralità, ma anche e soprattutto di ignoranza storica, di non aver compreso che il potere reale non stava più nella politica ma nel nuovo ordine economico. Il suo vero reato, scrive Pasolini, era “un errore di interpretazione politica” - un delitto culturale prima che penale. Il Processo, per lui, era un rito di elaborazione, un gesto collettivo di consapevolezza. Non cercava punizioni né colpevoli, ma una “coscienza scandalosa e fuori da ogni conformismo”. Pasolini diffidava dei moralisti, dei bacchettoni. Sapeva che dietro ogni “purezza” si nasconde la violenza. La verità, per lui, era sempre impura, attraversata dal dubbio e dal dolore. Quando negli Scritti corsari denunciava la “mutazione antropologica” del Paese, parlava di un’Italia che si stava omologando, che aveva perso la coscienza del proprio male. La sua non era una predica di pulizia, ma un atto di responsabilità. Eppure, a quarant’anni dalla sua morte, chi lo cita di più sembra aver dimenticato tutto questo: gli stessi che invocano Pasolini sono spesso i nuovi sacerdoti del sospetto, i professionisti dell’indignazione, gli impresari del processo mediatico. I miseri interpreti di Pasolini - giornalisti da talk show, morali- sti di rete, politici travestiti da giustizieri - si credono suoi eredi. Ma sono gli stessi che alimentano la cultura della forca, che scambiano la calunnia per la giustizia e la gogna per la verità. Parlano di Pasolini e lo tradiscono, perché trasformano la sua libertà in inquisizione. Lo evocano per legittimare la violenza simbolica del populismo penale, per sostituire alla critica il linciaggio, alla coscienza il sospetto. Il poeta che difendeva i ragazzi di borgata contro la polizia e veniva trascinato alla sbarra per atti osceni è diventato, nelle loro bocche, il tutore della morale collettiva. È l’ennesimo rovesciamento: il libertario ridotto a sbirro, arruolato nella cupa schiatta dei Torquemada. “Sbranate Pasolini!” L’imperativo dei Tribunali per zittire l’intellettuale di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 3 novembre 2025 Per trentatré volte si trovò imputato: corruzione di minore, oscenità, oltraggio. dietro i processi, il volto di un’Italia che non sapeva tollerare la sua voce libera. Pier Paolo Pasolini: poeta, scrittore, regista e anche imputato eccellente. Per ben 33 volte è stato processato, tanto da provocare una spaccatura nell’opinione pubblica con opposti schieramenti. I detrattori di Pasolini provarono in tutti i modi ad abbattere un personaggio scomodo e controcorrente per l’epoca in cui visse. La prima volta in cui si presentò al cospetto della legge fu nel 1949 (aveva 27 anni). Gli vennero contestati i reati di corruzione di minorenne e atti osceni in quello che fu ribattezzato lo “scandalo di Ramuscello”. Nella frazione di San Vito al Tagliamento, PPP si appartò con alcuni ragazzi. La notizia dell’incontro proibito si diffuse nel giro di poco e portò all’interessamento da parte dei carabinieri e della Pretura, nonostante la mancanza della querela da parte dei genitori dei ragazzi. Dopo la laurea in Lettere a Roma nel 1945, Pasolini si trasferì in Friuli dove venne assunto come professore delle scuole medie a Valvasone, in provincia di Udine. Le pesanti accuse, oltre ad avere conseguenze giudiziarie, provocarono la perdita del posto di lavoro e l’espulsione dal Partito comunista italiano per “indegnità morale e politica”. In quella occasione Pasolini scrisse una lettera a Ferdinando Mautino, della Federazione di Udine: “Fino a stamattina mi sosteneva il pensiero di avere sacrificato la mia persona e la mia carriera alla fedeltà a un ideale; ora non ho più niente a cui appoggiarmi. Un altro al posto mio si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre. Vi auguro di lavorare con chiarezza e passione; io ho cercato di farlo. Per questo ho tradito la mia classe e quella che voi chiamate la mia educazione borghese; ora i traditi si sono vendicati nel modo più spietato e spaventoso. E io sono rimasto solo col dolore mortale di mio padre e mia madre”. Pasolini venne difeso per i fatti di Ramuscello dall’avvocato Bruno Brusin, originario di San Vito al Tagliamento, scomparso nell’estate del 2015 all’età di 94 anni. Dopo la condanna in primo grado nel 1950, l’assoluzione in appello giunse nel 1952. Tutta la documentazione del processo è stata donata dalla famiglia di Brusin al Comune di San Vito. Il faldone contiene anche il verbale dei carabinieri della stazione di Cordovado con le “testimonianze di paese” sull’episodio di cui fu protagonista Pasolini in compagnia di alcuni ragazzi a Ramuscello e dal quale scaturì l’incriminazione. È possibile visionare pure i documenti della pretura di San Vito al Tagliamento e gli atti dell’appello con tanto di appunti scritti a mano e sottolineature. La linea difensiva scelta dall’avvocato Brusin fu molto chiara sin dall’inizio. Il legale fece leva sulla mancanza di una denuncia da parte delle famiglie dei giovani coinvolti nello scandalo. Tra l’altro, due di loro e Pier Paolo Pasolini furono assolti in appello per insufficienza di prove. Ma i guai giudiziari non erano destinati a finire. “Volete sbranarlo, Pasolini?”. Con questa espressione esasperata l’avvocato Francesco Carnelutti stigmatizzò l’attacco durissimo al quale fu sottoposto il suo assistito durante il processo di Latina. All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso Pier Paolo Pasolini venne processato per rapina a mano armata. Il 18 novembre 1961 l’intellettuale venne denunciato dal proprietario di una pompa di benzina di San Felice Circeo. Il processo stabilì che Pasolini agì per simulare la sequenza di un suo film e non per rapinare il benzinaio. Il regista venne comunque riconosciuto colpevole di minaccia con arma. Umberto Apice, magistrato ed ex avvocato generale presso la Corte di Cassazione, ha scritto un interessante libro, intitolato “Processo a Pasolini. Un poeta da sbranare” (Zolfo editore, prefazione di Roberto Saviano) sui fatti del Circeo e sulla sentenza del Tribunale di Latina. “Durante il dibattimento - evidenzia Apice - l’avvocato della parte civile, Giorgio Zeppieri, faceva le richieste più assurde al Tribunale con il solo scopo di denigrare e demonizzare Pasolini. Un atteggiamento che alla fine fece sbottare Carnelutti, il quale espresse disappunto e preoccupazione in merito alla volontà di sbranare in quel processo il suo assistito. Non mancarono alcuni articoli, soprattutto sui giornali di estrema destra, come il Secolo d’Italia e Il Borghese, che crearono una vera e propria campagna stampa contro il regista. Penso a Gianna Preda, che, parlando di un battibecco tra Carnelutti e Zeppieri, descrisse le diverse simpatie politiche dei due legali, impegnati però a difendere persone che avevano orientamenti opposti ai loro. La difesa della parte civile nel processo insisteva per la perizia psichiatrica da fare a Pasolini. In realtà si trattò di una spia che fece capire come Zeppieri fosse lo specchio di una parte della società che voleva a tutti i costi demonizzare Pasolini”. Orientamenti opposti tra il difensore e l’assistito anche nel processo di Benevento del 1972, ma con un unico obiettivo: dimostrare l’infondatezza di certe accuse. A Pasolini venne contestato il reato previsto dall’articolo 528 del Codice penale, che punisce tra l’altro la fabbricazione di immagini oscene per farne commercio o esporle pubblicamente. Il Tribunale di Benevento ebbe la competenza per territorio in quanto nella città campana ci fu la prima del film “I racconti di Canterbury”. Alcune scene vennero considerate offensive per il comune senso del pudore. Alfredo De Marsico, già ministro della Giustizia dal febbraio al luglio del 1943 e componente del Gran Consiglio del fascismo, assunse l’incarico difensivo in favore del regista. De Marsico si considerò sempre un garantista e, nonostante l’appartenenza al fascismo durante il Ventennio, non ebbe nessuna titubanza nell’assistere Pasolini. Mussolini considerava De Marsico un “liberale del fascismo”; il giurista napoletano dal canto suo disse che il partito lo considerava un “fascista non conformista”. Il processo con al centro “I racconti di Canterbury” si articolò nei tre gradi di giudizio tra l’ottobre del 1972 e il dicembre 1973, mentre il procedimento d’esecuzione, avviato dalla difesa di Pasolini e dal produttore Alberto Grimaldi, ebbe lo scopo di ottenere il dissequestro della pellicola. La Corte di Cassazione, nel dicembre 1973, assolse in via definitiva Pasolini e gli altri imputati da ogni accusa. Nello stesso anno il film ottenne l’autorizzazione definitiva ad essere proiettato nei cinema con una ordinanza del Tribunale di Benevento, dopo un ricorso in Cassazione della procura beneventana che fece giurisprudenza (il dissequestro era subordinato all’assoluzione definitiva di Pasolini). Nella memoria per consentire la proiezione del film, sottoscritta anche dall’avvocato Giuseppe De Luca, Alfredo De Marsico si soffermò sull’esigenza di un intervento dei giudici privo di pregiudizi ideologici, all’insegna dell’imparzialità, con una sottolineatura che, in materia cautelare, sembra ancora attuale: “La libertà dell’arte restaurata dal giudice con la sentenza non può essere sottoposta ad una ulteriore “censura sospensiva” attuata “di fatto” mediante l’impugnazione di un organo (P.M.) che non gode costituzionalmente delle stesse garanzie di indipendenza del giudice (articolo 107, ultimo comma, della Costituzione)”. Treviso. Don Otello, cappellano dell’Ipm: i detenuti più giovani chiedono che senso ha vivere di Roberta Barbi vaticannews.va, 3 novembre 2025 In occasione della Commemorazione di tutti i fedeli defunti, si ricordano anche i 68 ristretti che nel 2025 hanno deciso di togliersi la vita e che vanno ad aggiungersi ai già troppi morti in carcere. Tra chi quest’anno ha compiuto questo gesto estremo, anche un ragazzo destinato all’istituto di pena minorile veneto. Il cappellano: la società deve farsi carico di questo disagio. Non accadeva dal 2003 che un minorenne - nel caso specifico un ragazzo di soli 17 anni - decidesse di farla finita in carcere, ma è accaduto quest’anno a Treviso: “In realtà il giovane di cui parliamo non era ancora in istituto, ma nel Cpa (centro di prima accoglienza, ndr), un percorso che probabilmente lo avrebbe portato comunque in carcere”. Sospira, don Otello Bisetto, il cappellano dell’Istituto di pena minorile del Veneto - sono 17 in tutta Italia - quando racconta ai media vaticani questa ennesima storia di dolore: “Era un senza fissa dimora, con un vissuto pregresso probabilmente problematico, quando è arrivato al centro chissà da quanto tempo non dormiva, chissà quali sostanze aveva assunto e poi”. Un caso come questo porta con sé i soliti interrogativi di cui tutti conoscono la risposta: “Probabilmente il carcere non era il luogo giusto per questo ragazzo, avrebbe dovuto essere inserito in una comunità o comunque in un luogo più adatto, anche se non sono io a doverlo dire”, prosegue scoraggiato don Otello che racconta come in quei giorni l’istituto avesse al suo interno molti problemi di ordine, segnalazioni di atti di autolesionismo e minacce suicide da parte di altri ristretti. “Agli ospiti, infatti, non abbiamo detto nulla di questo fatto anche se poi l’hanno appreso dalla televisione - spiega - soprattutto per evitare gesti di emulazione il cui rischio purtroppo esiste sempre”. Fanno male al cuore alcuni dettagli della testimonianza di don Otello, al quale sempre più giovani chiedono che senso abbia vivere rinchiusi in un carcere: “Per portare loro la speranza che non delude mi aggrappo a queste loro domande”, che rivelano tanta disperazione ma anche la ricerca di una vita nuova. “Il mondo ci vuole perfetti, in salute, ricchi, belli, perciò questi giovani che si trovano soli, senza una famiglia che hanno perso o che non li ha voluti, si trovano allo sbaraglio, sono per così dire il rovescio della medaglia di questa società, e quando ti trovi per strada, prima o poi un reato lo commetti”. I dati italiani confermano il racconto del sacerdote, e registrano un incremento della criminalità giovanile che si trasforma in un’impennata di ingressi negli istituti minorili, tanto che in alcuni come quello di Bologna, è stato reputato necessario trasferire alcuni ospiti nella casa circondariale degli adulti, con tutte le conseguenze del caso. È sulla società, cioè su tutti noi, che ricade, quindi, la responsabilità di quanto accade: “Certo, il disagio in carcere è dovuto anche al sovraffollamento, ma non è l’unica causa - spiega il cappellano - non si riescono più a intercettare i bisogni dei giovani, i loro problemi, che non vengono affrontati prima che avvenga l’irreparabile, intendendo come l’irreparabile il reato”. Don Otello ricorda il passato, quando le istituzioni facevano sinergia e c’era una sorta di “patto educativo” tra parrocchie, scuola e famiglia: “C’era un’interazione maggiore che consentiva ai giovani di avere a disposizione luoghi positivi in cui anche sfogare le proprie frustrazioni piuttosto che le proprie energie - evoca - oggi la società dei disagi si accorge pure, ma non se ne fa carico, delega, e quei ragazzi che non hanno possibilità economiche restano indietro, per strada. Qui si formano le bande e poi chissà dove si arriva… inizia tutto da lì”. Barcellona Pozzo di Gotto (Me). “Ripariamo vite”, i detenuti-attori nella Giara di Pirandello tempostretto.it, 3 novembre 2025 Consensi e partecipazione per lo spettacolo promosso da “D’aRteventi” di Daniela Ursino nella Casa circondariale “Madia”. Il carcere di Barcellona Pozzo di Gotto ha ospitato il 30 ottobre la messa in scena della “Giara” di Luigi Pirandello, interpretata dalla Compagnia dei detenuti attori. L’evento è inserito nel progetto “Ripariamo vite”, un’officina riabilitativa che “esplora l’arte segreta del Kintsugi”, l’arte giapponese di riparare le crepe della vita. Un laboratorio creato da D’aRteventi di Daniela Ursino. E che vede la sinergia tra molti partner come l’Associazione Le Miniere, capofila del progetto, parco naturale votato alla promozione di attività per soggetti fragili, la Cooperativa Azione Sociale, con un’esperienza quarantennale sui servizi per le persone fragili e svantaggiate, La Zappa e il Lombrico, fattoria immersa in un’oasi biologica specializzata nell’agricoltura biologica, l’Uepe - ufficio di esecuzione penale esterna con le sue antenne operative, e l’Orto botanico di Messina, come consulenza sul mondo delle piante. “Nonostante il teatro del carcere non sia ancora pronto, la Compagnia dei detenuti attori ha trovato spazi alternativi per portare avanti il progetto sulle arti e mestieri del teatro. La rappresentazione della “Giara” di Pirandello è un momento importante per il carcere di Barcellona, che dimostra, attraverso il laboratorio teatrale portato avanti da tanti anni da D’aRteventi, come l’arte e la cultura possano essere strumenti di rinascita e di crescita personale”, sottolinea Daniela Ursino. Il progetto “Ripariamo Vite” è un’iniziativa che mira a promuovere la riabilitazione e la reintegrazione dei detenuti attraverso l’arte e l’agricoltura attraverso un messaggio che vuole avvicinare alla cultura della vita. “L’evento è un esempio che sottolinea come il teatro possa essere un potente strumento di cambiamento e di crescita, anche in contesti difficili come il carcere”, viene evidenziato. La Giara, messa in scena al carcere Vittorio Madia, con la direzione artistica di Daniela Ursino, e la regia di Giuseppe Spicuglia e l’aiuto regia di Viviana Isgrò, è stata accolta con passione e partecipazione. Ed è il frutto di una sinergia di D’aRteventi con la direttrice dell’Istituto penitenziario, Romina Taiani e con l’area trattamentale con il capo area, Rosaria De Luca, con il comandante della polizia penitenziaria, Salvatore Parisi e i suoi agenti. E con il presidente del Tribunale di Sorveglianza, Francesca Arriigo. in scena, insieme alla Libera Compagnia del Teatro per Sognare dei detenuti attori, dopo Tindari, ancora una volta hanno partecipato con passione “le signore di Patti, espressione della partecipazione del territorio che accoglie e abbraccia il processo di reinserimento in società dei detenuti e anche Adriana Malignaggi, studentesca dell’Università di Messina del progetto Liberi di essere Liberi. E anche altre studentesse hanno partecipato attivamente alla parte organizzativa dell’evento, nel solco di un progetto sulle arti e i mestieri del teatro, come ad esempio la realizzazione degli oggetti di scena e il bozzetto della locandina realizzati sempre dai detenuti”, mette in risalto Daniela Ursino. I movimenti scenici sono di Gio’ Prizzi, il trucco e parrucco di Giovanna Gaudenti. Il progetto teatrale è sostenuto dalla Curia arcivescovile di Messina, con l’arcivescovo Giovanni Accolla, e dall’Università di Messina con gli studenti di Liberi di Essere Liberi, che con la rettrice Giovanna Spadari ha voluto rinnovare il protocollo d’intesa con il progetto. Trapani. “Le Nostre Prigioni”, un recital che racconta l’anima del carcere itacanotizie.it, 3 novembre 2025 Il 7 novembre, alle ore 20.30, il Cine Teatro Ariston ospita un evento organizzato dalla Camera Penale di Trapani, con la collaborazione di diversi enti e il sostegno di mecenati privati. In scena, lo spettacolo teatrale “Le Nostre Prigioni”, un recital a tre voci interpretato dall’attore e regista Emanuele Montagna, su testo del magistrato Dino Petralia. L’opera si compone di cinque storie di pena e di sofferenza, di uomini e donne che vivono la quotidianità del mondo penitenziario italiano - un universo dove la normalità è spesso un’eccezione e il tempo, anziché curare, diventa acceleratore di disagio e malessere. Sono racconti intensi e umani, in cui si alternano dolore e speranza, tragedia e ironia. Tra le mura delle carceri si intrecciano le vite dei detenuti e quelle di agenti di polizia penitenziaria, anch’essi coinvolti in una realtà complessa, segnata da responsabilità, empatia e fatica quotidiana. Storie di suicidi, redenzione e sopravvivenza emotiva, ma anche di ironia necessaria, quella che aiuta a resistere al peso della restrizione e a stemperare la durezza del lavoro. “Le Nostre Prigioni” è un melologo - una forma poetica e teatrale che unisce voce e musica - costruito sul contrappunto di colonne sonore di musica da film. In scena, accanto a Montagna, ci saranno le attrici Asia Galeotti e Martina Valentini Marinaz, che daranno corpo e voce ai diversi personaggi di questo intenso affresco umano. Un evento che non è solo spettacolo, ma anche riflessione civile e sociale, per raccontare con sensibilità e autenticità l’universo del carcere, le sue ombre e i suoi rari sprazzi di luce. “Le porte della speranza in carcere: l’obiettivo è creare una vera fratellanza” di Francesco Vitale interris.it, 3 novembre 2025 Il prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione, il cardinale cardinale Tolentino de Mendonça, sottolinea a Interris.it il significato delle porte della speranza in carcere. Un progetto per aiutare i detenuti a uscire e a mettersi in cammino. La Fondazione Pontificia Gravissimum Educationis continua il progetto “Le porte della speranza”. L’iniziativa prevede l’installazione di “usci” e monumenti artistici all’ingresso di istituti penitenziari. Questi simboleggeranno il passaggio dalla disperazione alla speranza e rafforzeranno la comunicazione tra la società esterna e il mondo carcerario. Il Cardinale Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione a Interris.it ha definito il progetto una “pedagogia della speranza” ispirata dal Papa, non solo per sostenere i detenuti come “persone in cammino”, ma anche per scuotere le coscienze della società. L’obiettivo è creare una vera fratellanza che guardi al futuro, dimostrando che la speranza è un messaggio che ha bisogno di circolare. Eminenza, come si traduce l’esigenza di far circolare la speranza in un luogo come il carcere? “La speranza non può e non deve essere sepolta in carcere. Deve circolare, e noi crediamo che il carcere sia il luogo dove riscoprire la speranza, la possibilità di una ripartenza e di una vita nuova. Questo messaggio deve essere concreto e non astratto. È possibile solo con la collaborazione delle istituzioni, certamente, ma anche con il sostegno di tutta la società”. Il progetto prevede l’apertura di “Porte della Speranza” in dieci carceri: otto in Italia e due in Portogallo. Qual è l’obiettivo non solo per i detenuti, ma per l’intera società internazionale? “L’obiettivo è duplice. Non solo aprire porte della speranza all’interno delle carceri a livello internazionale, ma anche aprire coscienze della speranza nelle nostre società. Vogliamo creare un senso di vera fratellanza, un contesto in cui guardare insieme al futuro. Abbiamo visto che i detenuti non sono soggetti passivi, ma persone in cammino e attive in questo percorso”. Il ricordo va al compianto Papa Francesco che ha aperto una porta santa in carcere e poi il suo rapporto con i detenuti anche nel corso del suo pontificato. Ma oggi come viene accolto concretamente questo messaggio di ripartenza e investimento nella loro persona? “È straordinario, e mi commuove sempre ricordarlo. All’inizio c’è sempre una sorpresa: ‘Cosa vengono a fare questi?’. Ma quando il messaggio passa, è una gioia e un’emozione profonda. Sentono che è una reale opportunità, un investimento nella loro persona. Vediamo una luce che si accende nel loro sguardo, e quella è un’immagine che non dimentichiamo mai”. Piano dell’economia sociale, ecco il link del Ministero per esprimere un parere di Paolo Foschini Corriere della Sera, 3 novembre 2025 Dieci giorni. Sono quelli che mancano al 12 novembre (compreso) entro cui il mondo dell’economia sociale potrà dare un parere sul Piano nazionale dell’economia sociale varato dal governo. La “pubblica consultazione” è in effetti aperta dal 17 ottobre. Ma come fare? Un link, naturalmente. Sul sito del ministero dell’Economia e delle Finanze. Intanto il 4 novembre torna “Philantropea”, iniziativa durante la quale verrà rilanciato il “Manifesto delle partnership responsabili”. La consultazione indetta dal Ministero è aperta a “organismi che operano nell’economia sociale, associazioni di categorie sindacali e ordini professionali” che potranno non solo esprimere il proprio parere sul Piano - varato dal governo a seguito della “Raccomandazione” europea che da tempo lo sollecitava - ma anche contribuire a integrarlo con osservazioni e proposte. Certo i tempi son piuttosto stretti. E forse è un peccato, vista una voglia di partecipazione crescente che sui valori dell’economia sociale - condivisi da tre cittadini europei su quattro - è stata registrata anche dall’ultimo report di Eurobarometro. Ma per chi vuole il link è questo: basta entrare e registrarsi: https://www.finanze.gov.it/consultazioniDF/consultazioni-pubbliche/consultazioni-aperte/form-cons-piano-naz-economia-sociale-min-economia-finanze/form-partecipa-cons-piano-naz-econ-sociale-min-econ-finanze/ In sintesi le macroaree di cui si occupa il Piano sono quattro: il contesto istituzionale, l’accesso a strumenti e risorse, la formazione delle competenze e gli investimenti in conoscenza, l’attuazione del piano secondo un approccio collaborativo tra i soggetti coinvolti. Con cinque punti di interesse in particolare: un quadro normativo e fiscali da cui l’economia sociale possa trarre impulso e sostegno; un accesso facilitato a fonti di finanziamento specifiche per l’economia sociale; lo sviluppo di programmi formativi non solo su competenze manageriali e operative dell’economia sociale ma anche su ricerca e innovazione sociale come leva strategica; la promozione di partnership tra pubblico e provato; una strategia di lungo periodo e l’idea di costruire una roadmap su un arco temporale di dieci anni. Nel frattempo, come si diceva, il 4 novembre torna la nuova edizione di “Philantropea”: iniziativa promossa da Italia non profit (partecipazione gratuita online, qui i dettagli) sul tema delle collaborazioni tra aziende, fondazioni, enti non profit, che quest’anno parte dai dati dei due Censimenti permanenti, rispettivamente sulle imprese e sulle istituzioni non profit, raccolti dall’Istat. Da una parte c’è il fatto che in Italia una azienda su tre (con almeno tre addetti) dichiara di sostenere o realizzare iniziative di interesse collettivo: si tratta di oltre 320 mila aziende attive nell’ambito della sostenibilità sociale e ambientale. Dall’altro lato però solo il 9,2% degli enti non profit dichiara di avviare progetti di raccolta fondi con le aziende. Una domanda e un’offerta che faticano a incontrarsi, ma che a loro volta potrebbero trarre beneficio proprio dal neonato Piano nazionale per l’economia sociale. In un Paese con un Terzo settore che conta quasi 400 mila organizzazioni, 1,53 milioni di addetti e oltre 4,6 milioni di volontari, un valore della produzione che secondo il Mef supera i 148,4 miliardi di euro. Cnr: “Un milione di adolescenti coinvolti in risse o violenze” Il Dubbio, 3 novembre 2025 Lo studio Espad rivela l’aumento dell’aggressività tra i giovani. Molinaro (Cnr): “Sottovalutano il rischio, vivono più online che nel reale”. La violenza tra gli adolescenti italiani cresce e assume forme sempre più preoccupanti. È quanto emerge dallo studio Espad (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs) condotto dall’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr, che ha coinvolto 20mila studenti di circa 250 scuole in tutta Italia. I risultati, diffusi da LaPresse, descrivono uno scenario allarmante: il 40,6% dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni ha partecipato almeno una volta a una rissa o a una zuffa. Proiettato sulla popolazione scolastica, significa circa un milione di adolescenti coinvolti in episodi di violenza. Secondo Sabrina Molinaro, responsabile dell’Unità di Epidemiologia Socio-Sanitaria del Cnr, alla base del fenomeno c’è una sottovalutazione del rischio. “I giovani sono così abituati a vivere online da non rendersi conto delle conseguenze reali: se ti do una coltellata, rischi di morire. Nel mondo virtuale, invece, tutto sembra reversibile”. Il 10,9% dei ragazzi dichiara di aver assistito a scene di violenza filmate con il cellulare, spesso poi condivise e commentate sui social, contribuendo a una normalizzazione della violenza. Tra i dati più preoccupanti, il 3,4% degli studenti ammette di aver portato a scuola coltelli o tirapugni, un numero quasi doppio rispetto all’anno precedente. “Nel 2018 erano l’1,4%. Ora la percentuale è più che raddoppiata. È un segnale grave, anche se i numeri restano piccoli”, spiega Molinaro. Molti ragazzi raccontano di portare un’arma per sentirsi sicuri, ma le motivazioni, secondo i ricercatori, sono più complesse e intrecciate con l’abuso di sostanze psicoattive e l’influenza dei social network. Molinaro sottolinea anche l’impatto del linguaggio violento nei media e nella musica: “Assistiamo a un aumento delle parole d’odio, e anche l’ambiente musicale della trap ne è permeato. Guerre, aggressività e conflitti mediatici alimentano un clima di livore che si riflette sui più giovani”. Un contesto che, secondo la ricercatrice, non favorisce armonia né rispetto reciproco. “Siamo noi adulti i primi a scannarci per un parcheggio. Come possono loro imparare la gentilezza?”. Lo studio Espad lancia dunque un campanello d’allarme per tutto il sistema educativo e sanitario. Migranti. Albania, flop dei centri. Chi sta pagando il conto? di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 3 novembre 2025 Gli oltre 670 milioni di euro stanziati per i centri in Albania destinati ai migranti, e di fatto vuoti, non sono soldi recuperati in più da qualche parte, ma sono risorse tolte ad altre voci di spesa. Da dove arrivano? La ricostruzione che segue mostra che quando un progetto politico diventa prioritario, i fondi si trovano, anche a costo di ridurre quelli destinati a settori già miseri, come Istruzione, Sanità, Lavoro. Il 6 novembre 2023 il governo italiano sigla un protocollo con l’Albania per il trasferimento dei migranti soccorsi in acque internazionali da navi italiane. L’accordo prevede la creazione di un hotspot a Shëngjin per le procedure di identificazione e una struttura a Gjadër destinata alla gestione delle richieste d’asilo e alla detenzione degli stranieri irregolari in attesa di rimpatrio, che resta comunque di competenza italiana e deve essere eseguito dal nostro Paese. Le strutture di Gjadër comprendono un Centro per il trattenimento dei richiedenti asilo, un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) e un penitenziario. Le norme e l’azzardo - L’iter prevede che un giudice a Roma convalidi il trattenimento entro 48 ore. Il governo Meloni intende applicare la “procedura accelerata di frontiera” che riduce i tempi decisionali a 28 giorni: 7 giorni per la decisione della Commissione territoriale sull’asilo o sul rimpatrio, 14 giorni per un eventuale ricorso e altri 7 per la decisione finale (decreto-legge Cutro n. 20 del 2023. Questa procedura è riservata ai migranti provenienti da Paesi di origine sicura (articolo 28-bis, comma 2-C del decreto legislativo 25 del 2008 qui). In parole povere se il governo italiano ritiene che l’Egitto sia un Paese sicuro, il migrante egiziano deve essere rimpatriato con procedura d’urgenza. Ed è proprio sulla definizione di “Paese sicuro” che si apre il problema. Fin dall’inizio la scelta di trasferire i migranti in Albania appare un azzardo giuridico. È immediatamente chiara la possibilità che i giudici non convalidino il trattenimento. E a Shëngjin e Gjadër i migranti non possono girare a piede libero (vedi Dataroom del 25 marzo 2024. Com’è andata? La cronaca giudiziaria successiva conferma i timori. La cronaca giudiziaria - Il 4 ottobre 2024, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea stabilisce che un Paese è sicuro solo se, in tutto il suo territorio e per tutti, non presenta rischi di persecuzione. È il motivo per cui il 18 ottobre 2024, il Tribunale di Roma non convalida il trattenimento in Albania di 16 migranti da Bangladesh ed Egitto e ne ordina il trasferimento in Italia: “Il diniego della convalida dei trattenimenti nelle strutture e aree albanesi equiparate alle zone di frontiera o di transito italiane è dovuto all’impossibilità di riconoscere come “Paesi sicuri” gli Stati di provenienza delle persone trattenute, con la conseguenza dell’inapplicabilità della procedura di frontiera e, come previsto dal Protocollo, del trasferimento al di fuori del territorio albanese delle persone migranti, che hanno quindi diritto ad essere condotte in Italia”. Il governo reagisce con due decreti. Il 23 ottobre 2024 viene istituita per legge una lista di Paesi sicuri (decreto legge n. 158). Contestualmente, nella speranza di avere pareri dei giudici più favorevoli, la competenza sulle convalide viene trasferita dal 2025 alla Corte d’Appello di Roma (decreto legge 145 del 2024 art. 16). La strategia non produce risultati. L’11 novembre 2024 sempre il Tribunale di Roma sospende la convalida di altri 7 trattenimenti e rinvia la questione alla Corte di Giustizia Ue . Il 4 dicembre 2024, la Corte di Cassazione specifica che la sicurezza di un Paese può essere valutata in termini di prevalenza e non assoluti, ma ribadisce che la decisione finale spetta al giudice (ordinanza n. 34898/2024). In pratica occorre valutare caso per caso. Nemmeno il cambio di competenza funziona. Il 31 gennaio 2025, la Corte d’Appello di Roma non convalida il trattenimento di 43 immigrati, ne ordina il trasferimento in Italia e rinvia nuovamente la questione alla Corte di Giustizia Ue. L’evoluzione del protocollo - Insomma: i nuovi decreti, il rimpallo con la Corte d’Appello e la Cassazione e i rimandi alla Corte di Giustizia Ue non risolvono il problema. A questo punto a marzo 2025 il governo destina i centri albanesi anche alla detenzione di migranti irregolari già presenti in Italia, sempre ai fini di un rimpatrio che deve comunque avvenire dal territorio italiano (decreto-legge 28 marzo 2025, n. 37 qui art. 1). Le strutture diventano di fatto Cpr extraterritoriali. Anche questa misura viene messa in discussione: la Cassazione chiede un nuovo parere alla Corte di Giustizia Ue, ipotizzando l’illegittimità del trasferimento dall’Italia all’Albania (ordinanza n. 23105). È da chiarire se trasferire e trattenere in Albania persone già destinate al rimpatrio è compatibile con la Direttiva 2008/115/CE e con i diritti di difesa riconosciuti nell’Ue. A inizio ottobre 2025 il bilancio è il seguente: almeno 66 immigrati trasferiti dall’Albania nel nostro Paese per ordine dei tribunali, circa 20 attualmente detenuti nei centri albanesi. Numeri bel lontani dallo scopo per il quale quei centri sono stati costruiti, cioè una rotazione di 3.000 migranti al mese. I costi dell’operazione - Il costo complessivo del Protocollo fino al 2028 con l’Albania ammonta a 671,6 milioni di euro. Per la fase iniziale del progetto sono stanziati 73,48 milioni (di cui 65 per le strutture e 8,48 per spese correnti; legge 21 febbraio 2024, n. 14, art. 6 qui). E per il 2024 sono finanziati altri 96,1 milioni per i costi operativi. Vediamo allora da dove provengono i fondi per la costruzione dei centri, la loro gestione, gli apparati telematici, per i viaggi, la diaria, il vitto e alloggio degli uomini dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, per l’affitto delle aule a Roma per le video-udienze, per luce e riscaldamento, per le spese di viaggio di avvocati e interpreti, ecc. La provenienza dei fondi - Concentriamoci sui 169,6 milioni stanziati per la costruzione e le spese operative del 2024. I 73,5 milioni per la costruzione provengono da tre fonti: 10 milioni dal Fondo straordinario Difesa per la costruzione dei Cpr in Italia (dl 19 settembre 2023, n. 124, art. 21 qui), 15,8 milioni dal Fondo esigenze indifferibili utilizzato anche per calamità naturali e terremoti (legge 23 dicembre 2014, n. 190, comma 200 qui) e per 47,68 da una sorta di tesoretto di sicurezza del bilancio dello Stato (il cosiddetto “Fondo di riserva”) che ha sottratto risorse a 12 ministeri. Vediamo i tagli principali: Mef (18,3 milioni di euro), Università e Ricerca (3,9), Cultura (3,8), Istruzione e Merito (3,6), Ambiente e Sicurezza Energetica (3,4), Salute (3,2). Somme minori da Difesa (2,3 milioni di euro), Affari Esteri (2,2), Lavoro (2), Turismo (2), Infrastrutture (1,6), Agricoltura (1,4). I 96,1 milioni per le spese operative si dividono tra: 14,9 milioni presi dal Fondo interventi strutturali di politica economica, quasi 1,3 milioni dal Fondo per le emergenze e 80 milioni prelevati da 15 ministeri. I tagli principali: Affari Esteri (14,9 milioni di euro), Mef (10,3), Università e Ricerca (9,3), Infrastrutture e Trasporti (8,4), Agricoltura (8,3), Difesa (7,1), Lavoro e Politiche Sociali (6,4). Somme minori da Turismo (4,6 milioni di euro), Giustizia (3,9), Istruzione e Merito (2,6), Ambiente e Sicurezza Energetica (1,9), Interno (1,7), Imprese e Made in Italy (244.814 euro), Salute (144.937 euro) e Cultura (121.167 euro). Tutte le cifre sono arrotondate per leggibilità. In conclusione, dal 2025 al 2028 sono previsti costi per circa 125 milioni l’anno con il rischio che siano più di propaganda che di sostanza. Su queste spese ora pende un esposto alla Corte dei conti dell’organizzazione internazionale indipendente ActionAid. Migranti. In Albania la protesta contro i centri per migranti di Meloni di Linda Caglioni Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2025 A Tirana la manifestazione contro il “modello Albania” del protocollo Meloni-Rama: costoso, inefficace e contestato anche dalle ong locali. A due anni dalla sigla del protocollo Meloni-Rama che ha portato alla creazione di due centri in Albania per accelerare la procedura di rimpatrio dei migranti, un centinaio di attivisti da tutta Europa si sono dati appuntamento nel fine settimana a Tirana per protestare contro il cosiddetto “modello Albania”. L’iniziativa è stata organizzata dal Network Against Migrant Detention, una realtà nata due anni fa su iniziativa italiana e che ha coinvolto nel corso dei mesi diverse associazioni internazionali, europee e non solo. “La recente visita dei deputati italiani ha messo in luce il fatto che le persone che arrivano in queste strutture vengono prelevate dai cpr italiani e portati in Albania - spiega Maddalena Scotti, una delle organizzatrici - Si tratta di un modello di gestione dei flussi migratori che viola le norme costituzionali e che non facilita la procedura per chi entra nel nostro Paese”. Al centro della contestazione ci sono le strutture di Shëngjin e Gjadër - che secondo le stime dovrebbero costare tra i 650 e i 680 milioni di euro nell’arco dei 5 anni 2024-2028 - che hanno ospitato globalmente solo 200 persone delle migliaia inizialmente ipotizzate. “Al momento si contano 25 persone nel centro di Gjadër, a dimostrazione che il sistema non sta funzionando. Nonostante questo, i centri rimangono attivi, con numerose forze dell’ordine italiane a presidiarle e un conseguente dispendio economico per i contribuenti italiani - prosegue Scotti - Vogliamo continuare a costruire reti e mobilitazioni per opporci a questo sistema, ma il nostro obiettivo è anche monitorare quello che accadrà nei prossimi mesi a seguito delle nuove politiche migratorie adottate a livello europeo, che mirano a prendere a modello il concetto di remigration di cui il nostro governo si sta facendo promotore. Si rischia di andare verso una deriva sempre più autoritaria nei confronti dei migranti e per noi l’unica soluzione possibile è lo smantellamento di questo modello”. Il collettivo ha coinvolto anche una ong albanese locale, Hana, che ha sottolineato i tanti punti dell’accordo con l’Italia lasciati in ombra. “Abbiamo saputo della costruzione dei campi sul nostro territorio attraverso la stampa estera. Le nostre amministrazioni non ci hanno fornito alcun tipo di informazione. Sapevamo già che quella albanese è una democrazia solo sulla carta, ma essere tenuti all’oscuro su un fatto così importante ci ha lasciati con un profondo senso di delusione” ha detto Besmira Lekaj, di Hana “Lì le persone sono costrette all’isolamento, allontanate da ogni possibile contatto umano in un Paese in cui non parlano nemmeno la lingua. Non c’è stato il minimo interesse a livello locale per le loro condizioni, è come se tenendoli nascosti dagli occhi avessero perso anche di rilevanza per le coscienze. La debole opposizione locale verso questo sistema coloniale è stata messa a tacere con la scusa che i campi avrebbero anche portato sviluppo economico, attraverso l’assunzione di albanesi che sarebbero stati coinvolti nella gestione delle strutture”. Speranza che però, secondo i locali, non sembrerebbe essersi realizzata. La strada che dalla municipalità di Lezhe conduce al centro di detenzione amministrativo di Gjadër è una via che si snoda tra pareti rocciose in mezzo al nulla. La struttura si staglia come uno sterile complesso di metallo e plastica, dalle alte pareti esterne risulta impossibile scorgere qualsiasi cosa avvenga all’interno. L’impressione è che l’architettura sia un esercizio ben riuscito di rimozione sia fisica che psicologica, con le sue barriere pensate più per impedire ogni interazione o contatto dall’esterno che per confinare le persone al suo interno. Nei grigi e anonimi container che si susseguono lungo il suo vasto perimetro, tuttavia, nel corso degli ultimi mesi sono stati registrati gravi casi di autolesionismo, episodi su cui il flashmob di sabato ha messo più volte l’accento. “I casi di autolesionismo, avvenuti qui come in tutti gli altri cpr, sono la dimostrazione di quanto questi luoghi siano patogeni: le persone vi entrano innocenti e sane e una volta all’interno sviluppano patologie mentali per via delle inumane condizioni di detenzione - ha detto Marcello Dall’Osso, di +Europa e Radicali Roma- Spesso, se non sempre, non sanno neanche dove si trovano o il motivo per cui siano stati rinchiusi e, in questo caso, deportati. L’Europa che vogliamo è l’Europa dell’integrazione e dei diritti umani non quella che contraddice i propri stessi valori fondativi.” Alla protesta era presente anche Mediterranea, con Simone Riva, che ha detto a ilfattoquotidiano.it: “Essere di fronte a queste realtà mi sconvolge perché mi mette di fronte all’evidenza della detenzione amministrativa e dei lager che ne rappresentano i confini fisici. Questa immagine è totalmente contrastante rispetto alla prospettiva che ci è restituita dall’opinione pubblica e dai media, dove il concetto di cpr appare come qualcosa di marginale se non addirittura inesistente”. In questo momento la Commissione Ue sta lavorando alla cosiddetta return regulation che stabilisce una base legale per, potenzialmente, riprodurre il modello Albania a livello europeo. Il mese di giugno 2026 è la deadline per l’implementazione del nuovo patto sull’Asilo e la migrazione che punta l’esternalizzazione della migrazione in Paesi terzi. Il ritardo italiano (e globale) nel raggiungimento del Goal 16 dell’Agenda 2030 di Mauro Scrobogna linkiesta.it, 3 novembre 2025 L’obiettivo dal titolo “Pace, giustizia e istituzioni forti” è la condizione necessaria e sufficiente per uno sviluppo davvero sostenibile. L’Italia, spiega l’ASviS nel suo Rapporto 2025, deve fare la sua parte approvando urgentemente un Piano d’accelerazione trasformativa. Ucraina, Gaza, Sudan e non solo: le guerre e le relative tragedie umanitarie in corso stanno ridisegnando il perimetro e l’urgenza del Goal 16 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, dal titolo “Pace, giustizia e istituzioni forti”. Formalmente, è un obiettivo dedicato alla “promozione di società pacifiche e inclusive ai fini dello sviluppo sostenibile, e si propone inoltre di fornire l’accesso universale alla giustizia, e a costruire istituzioni responsabili ed efficaci a tutti i livelli”. Praticamente, è la condizione necessaria e sufficiente per soddisfare tutti gli altri traguardi fissati dal programma sottoscritto nel 2015 dai centonovantatré Paesi Onu. Secondo l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), infatti, il raggiungimento del Goal 16 è un risultato “imprescindibile al perseguimento di tutti i Goal dell’Agenda 2030”. È un tema che, per quanto riguarda l’Italia, passa anche attraverso il Piano d’accelerazione trasformativa (Pat), che il governo di Giorgia Meloni si è impegnato ad adottare in sede Onu nel settembre 2023. Ma procediamo per gradi. Nel report “UN SDGs 2025”, ricorda ASviS nel suo Rapporto 2025, il sedicesimo obiettivo appare come il più carente in assoluto dell’Agenda 2030, fermo restando che nessuno dei target risulta al momento raggiungibile entro il periodo prefissato. Pesano negativamente, spiega l’organizzazione co-fondata e diretta da Enrico Giovannini, “le persistenti violazioni del diritto internazionale, le guerre, le crisi umanitarie, l’erosione dei diritti umani”. Nel 2024, per dire, ci sono state quasi cinquantamila vittime causate dai conflitti umanitari in corso: una ogni dodici minuti. Si tratta di un aumento del quaranta per cento rispetto al 2023. Nel biennio 2023-2024 sono stati uccisi circa quattro volte più bambini (+337 per cento) e donne (+258 per cento) rispetto al biennio precedente: di questi, otto decessi infantili su dieci e sette decessi femminili su dieci si sono verificati nella Striscia di Gaza, dove è in vigore un fragile cessate il fuoco. A livello europeo, l’indice composito sul Goal 16 risulta comunque stabile, con gli unici (leggeri) incrementi registrati nel 2014 e nel 2021 che hanno generato una crescita complessiva di soli quattro punti in quell’arco di tempo. Sono sedici i Paesi europei ad aver migliorato le proprie performance nel raggiungimento del target. Tra questi c’è anche l’Italia, che resta tuttavia al di sotto della media continentale. L’indice composito, spiega ASviS nel Rapporto, è stato “abbastanza stabile” fino al 2020, mostrando poi un netto peggioramento. A contribuire a questa tendenza sono gli indicatori relativi alle truffe e alle frodi informatiche, con un valore di 5,1 frodi per mille abitanti nel 2023 (solo 1,6 nel 2010). Cala, a livello nazionale, anche la partecipazione sociale, con una quota di persone attive ridotta di 5,7 punti percentuali tra il 2012 e il 2023. ASviS, in riferimento all’Italia, ha approfondito due obiettivi quantitativi relativi al Goal 16. Il primo è l’azzeramento del sovra?ollamento degli istituti di pena (Target 16.3), in preoccupante aumento a partire dal 2021. Il secondo riguarda la riduzione del quaranta per cento della durata media dei procedimenti civili rispetto al 2019, raggiungendo così un valore di 253 giorni (Target 16.7). Anche in questo caso, l’andamento osservato è insufficiente al raggiungimento dell’obiettivo perché, fa notare l’Alleanza, nel 2024, la durata media si è attestata a 447 giorni. Nell’analizzare questi dati, ASviS ha segnalato che “sia l’approvazione di alcuni provvedimenti che presentano forti criticità sul piano della contrazione dei diritti e delle libertà della persona, sia il rifiuto a costituire un’istituzione nazionale per i diritti umani” hanno avuto un impatto negativo sul percorso dell’Italia verso il Goal 16 del 2030. ASviS si è soffermata soprattutto sulle “distorsioni segnalate dalla Consulta nel “Decreto Sicurezza” e nel sovra?ollamento delle carceri”, che rendono il nostro Paese passibile di sanzioni per “negligenza umanitaria”. Per invertire la tendenza, ASviS - nel suo Rapporto 2025 - ha aggiornato e rilanciato l’identificazione di leve istituzionali e strategiche per accelerare l’attuazione dell’Agenda 2030 attraverso il già citato Piano d’accelerazione trasformativa (Pat). Il Pat proposto dall’Alleanza, “riprendendo la metodologia proposta dal gruppo di scienziati che ha prodotto un apposito Rapporto per l’Onu, si basa su azioni che riguardano due aspetti principali. Il primo concerne cinque “leve trasformative”, ossia governance, economia e finanza, azione individuale e collettiva, scienza e tecnologia, sviluppo delle capacità. Il secondo, invece, include sei “punti d’ingresso chiave”: benessere e capacità umane; economie sostenibili e socialmente eque; sistemi alimentari sostenibili e alimentazione sana; decarbonizzazione dell’energia e accesso universale; sviluppo urbano e periurbano; protezione dei beni comuni ambientali globali. ASviS ha comunque accolto “con soddisfazione il fatto che il governo Meloni ha proposto al Parlamento, come suggerito dal 2016 e previsto dal Patto sul Futuro, di introdurre la Valutazione di impatto generazionale (Vig) e intergenerazionale delle nuove leggi”. Il Ddl, già approvato dal Senato, è attualmente in discussione alla Camera. Per migliorare ancora, Roma dovrebbe definire una tabella di marcia per attuare il Patto sul Futuro nelle sue diverse dimensioni, anche attraverso strutture di previsione strategica (strategic foresight) in grado di dialogare con la società e con la pubblica amministrazione. ASviS ha anche parlato della nuova Legge di Bilancio, recentemente approdata in Senato. La Manovra, spiega l’Alleanza, deve essere “coraggiosa e orientata ad accelerare il cammino verso gli SDGs, cosa che non emerge dalla lettura del Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) e delle anticipazioni giornalistiche”. Non a caso, nella roadmap proposta dall’ASviS c’è anche “l’avvio di un processo di analisi e revisione del corpus normativo vigente” alla luce degli articoli 9 e 41 della Costituzione riformati nel 2022. Al tempo stesso, è essenziale una visione a medio-lungo termine che sottolinei i costi dell’inazione, anche in termini ambientali: un euro speso oggi può farne risparmiare mille domani. Tra le altre cose, ASviS ha posto l’obiettivo di definire il Piano d’accelerazione trasformativa (a cura della presidenza del Consiglio) entro metà 2026, così da poter impattare positivamente sulla Legge di Bilancio per il 2027. Medio Oriente. Il caso Sde Teiman scuote Israele tra video di abusi, incriminazioni e lo strappo ai vertici militari di Liborio La Mattina giornalelavoce.it, 3 novembre 2025 La fuga di un filmato di sorveglianza dal centro di detenzione nel Negev - diffuso nell’agosto 2024 - riaccende uno scandalo: cinque riservisti dell’IDF incriminati, le dimissioni della massima giurista militare, l’ira di Benjamin Netanyahu e nuove domande sulla legalità della detenzione a Sde Teiman. Una stanza spoglia, corpi distesi a terra, scudi antisommossa sollevati come paraventi per nascondere ciò che non dovrebbe accadere sotto una telecamera. È l’immagine che torna a perseguitare l’Israele del dopoguerra di Gaza: la scena, ripresa all’interno del centro di detenzione di Sde Teiman nel luglio 2024, mostra - secondo l’accusa - un detenuto palestinese ammanettato e bendato trascinato dietro un muro di plastica e corpi. Dopo circa 15 minuti, l’uomo riemerge sanguinante. Poco più tardi sarà portato in ospedale con diagnosi che parlano di costole rotte, perforazione di un polmone, lesioni rettali provocate dall’uso di un oggetto acuminato. È la sequenza che, trapelata e trasmessa dalla televisione israeliana Channel 12 nell’agosto 2024, ha innescato un’indagine, incriminazioni per cinque riservisti e, il 31 ottobre 2025, le dimissioni della maggiore generale Yifat Tomer?Yerushalmi, capo dell’Avvocatura militare. Il 2 novembre 2025 il primo ministro Netanyahu ha definito la vicenda “forse l’attacco propagandistico più duro” affrontato da Israele dalla fondazione dello Stato, chiedendo una inchiesta indipendente. Secondo gli atti d’accusa depositati dai procuratori militari, la notte del 5 luglio 2024 un gruppo di riservisti del reparto di guardia “Force 100” avrebbe sottoposto il prigioniero - identificato nei documenti solo con le iniziali - a una perquisizione degenerata in un pestaggio prolungato e in un’aggressione sessuale. La versione ricostruita nell’inchiesta parla di calci, colpi di manganello, trascinamenti a terra e scariche di taser, con la vittima immobilizzata, mani e piedi legati, occhi bendati. L’uomo avrebbe riportato sette fratture costali, un polmone perforato e una lacerazione del retto che richiese un intervento chirurgico con confezionamento di stomia, poi rimosso tre mesi più tardi. Il caso esplose il 29 luglio 2024, quando agenti della Polizia Militare arrestarono dieci soldati: cinque finirono poi formalmente incriminati; gli altri, inizialmente trattenuti, furono rilasciati. La confusione di quella giornata fu alimentata dall’irruzione di manifestanti dell’ultradestra - tra cui esponenti politici - nella base di Sde Teiman e, poco dopo, nel centro detentivo di Beit Lid, per contestare le manette ai militari. Il 6 agosto 2024 Channel 12 trasmise la clip di sorveglianza: si vedono detenuti distesi a pancia in giù, un gruppo di soldati che ne isola uno e alza scudi per coprire l’azione dalla telecamera. La sequenza, secondo le ricostruzioni giornalistiche, coincide con l’episodio finito nell’inchiesta. I cinque riservisti sono stati imputati per reati gravi: “causazione di lesioni gravi” e “aggressione in circostanze aggravate”. Non è stato invece contestato il capo di “sodomia aggravata” (equivalente allo stupro), ipotizzato nella fase iniziale dell’indagine. Una scelta che ha diviso l’opinione pubblica e giuristi: per la Procura militare le prove disponibili - tra cui il video e la documentazione medica - sostengono l’impianto attuale; per critici e organizzazioni per i diritti umani la dinamica descritta e le lesioni sono compatibili con una violenza sessuale. Il punto di rottura istituzionale arriva il 31 ottobre 2025: Yifat Tomer?Yerushalmi, maggiore generale e capo dell’Avvocatura militare, ammette in una lettera di aver autorizzato la condivisione con i media del filmato di Sde Teiman, “per contrastare una campagna di delegittimazione” contro gli organi legali dell’IDF e rivendicare il dovere di indagare anche in guerra su condotte illegali. Poche ore dopo presenta le dimissioni, accolte dallo Stato Maggiore; il ministro della Difesa Israel Katz plaude alla sua uscita e preannuncia ulteriori verifiche. Per la premier line, la diffusione del video ha “prodotto un danno enorme all’immagine” del Paese e dell’esercito. Nel consiglio dei ministri del 2 novembre 2025, Benjamin Netanyahu ha definito la fuga del video e la sua pubblicazione “forse l’attacco propagandistico più duro dalla fondazione dello Stato”, invocando una indagine indipendente. Il messaggio politico è doppio: da un lato la condanna per le violazioni, dall’altro la denuncia dei danni reputazionali, con la promessa di “fare piena luce” senza indebolire l’IDF. Le sue parole, rilanciate da media israeliani, hanno spostato il baricentro del dibattito dalle responsabilità individuali all’impatto geopolitico e interno. Sde Teiman, il “buco nero” della guerra: cosa sappiamo del centro e perché è nel mirino Dopo il 7 ottobre 2023, con l’impennata dei fermi nella Striscia di Gaza, l’IDF ha riadattato la base di Sde Teiman nel Negev a centro di raccolta e detenzione per sospetti militanti e altri palestinesi. La struttura - con aree di trattenimento e un ospedale da campo - è stata sin da subito al centro di accuse: detenzione senza contatti con l’esterno, interrogatori senza legale, uso prolungato di bendaggi e immobilizzazioni, standard igienico?sanitari carenti. Denunce simili sono state documentate da Physicians for Human Rights Israel, Human Rights Watch e altri osservatori; le autorità militari hanno ripetutamente dichiarato che ogni abuso è perseguito e che i detenuti ricevono cure “in base al rischio e allo stato di salute”. Un’inchiesta del Guardian ha raccolto testimonianze interne sull’uso di pannoloni, sul ricorso a restrizioni fisiche prolungate e sulla mancanza di personale medico esperto; in un caso, l’amputazione di un arto sarebbe stata collegata alle lesioni provocate da manette serrate per tempi prolungati. L’IDF ha replicato che tali pratiche non rappresentano la norma e che le segnalazioni vengono esaminate. La trasmissione della clip da parte di Channel 12 nell’agosto 2024 ha amplificato l’eco internazionale: la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato USA chiesero una indagine completa e “tolleranza zero” qualora le accuse fossero confermate. Altri media - tra cui ABC News Australia - hanno descritto fotogramma per fotogramma il metodo con cui gli scudi sarebbero stati usati per occultare l’azione. La Procura militare israeliana dichiarò allora che gli elementi raccolti, inclusi i filmati, costituivano “un fondato sospetto” della commissione dei reati. La dimissione di Yifat Tomer?Yerushalmi è rarissima per rango e tempistica. La generale, seconda donna nella storia dell’IDF a raggiungere quel grado, ha difeso in passato l’autonomia delle indagini anche su episodi controversi del conflitto. Ammettendo di aver autorizzato la condivisione del video con un giornalista come “contro?propaganda” rispetto agli attacchi dell’ultradestra, ha spostato il fuoco su un tema sensibile: fin dove può spingersi un apparato legale militare nel dialogo con i media per proteggere se stesso e i propri principi? La risposta, per il governo, è netta: c’è stata una violazione inaccettabile di riservatezza. Per altri, l’atto ha “forzato” un Paese a guardare dentro un luogo fin lì opaco. Il duro commento di Netanyahu - con la richiesta di una commissione indipendente - va letto anche alla luce del logoramento reputazionale di Israele dopo un anno di guerra. Mentre i partner occidentali invocano standard legali e tutela dei detenuti, l’esecutivo deve tenere insieme due pulsioni: mostrare fermezza contro gli abusi e proteggere l’IDF da ciò che viene descritto come una campagna di demonizzazione. Le parole del premier traducono il timore che il caso Sde Teiman diventi un paradigma nei dossier giudiziari e diplomatici aperti sul conflitto. Russia. I soldati portano a casa la guerra: boom di omicidi commessi da veterani di Giuseppe D’Amato Avvenire, 3 novembre 2025 Negli ultimi tre anni si sono registrati 378 delitti ad opera di ex combattenti. “Servono specialisti che sostengano gli ex militari”. “Non mi fa paura consegnare il Paese a persone come queste”. Ecco le parole utilizzate dal presidente Vladimir Putin, riferendosi ai reduci del conflitto in Ucraina, “l’élite che difende la Patria”. Alle ultime consultazioni elettorali - a livello locale e regionale, nel settembre scorso, - 1.600 veterani sono stati candidati nelle liste di partiti e di movimenti. Oltre 800 di loro sono stati poi eletti. Putin ha preso sotto il proprio controllo personale il programma “L’ora degli Eroi”. Artur Orlov, comandante di carro armato, è oggi il responsabile del gruppo giovanile “Il movimento del Primo”; Artiom Zhoga, ex capo di un battaglione, è il rappresentante speciale presidenziale negli Urali; a quattro veterani sono stati affidati incarichi nell’Amministrazione del Cremlino. E così via. Non passa giorno che sui canali televisivi federali non si lodino questi “Eroi” che hanno messo in gioco la loro vita, ma il loro ritorno alla normale quotidianità da civili è meno semplice di come idealizzano i media vicini al Cremlino. Lo stesso potere politico, da quanto raccontano fonti ben informate, è ben conscio dei “rischi sociali”, a cui il Paese va incontro. Del resto il ricordo degli “afghantsy” (i reduci dalla guerra in Afghanistan) - a cavallo tra anni Ottanta e Novanta - è ancora vivo in Russia. Sarà adesso la volta degli “ukraintsy”? Il Levada, l’istituto dei sondaggi, lo ha chiesto alla gente comune: il 39% dei russi si attende presto l’aumento della litigiosità e della criminalità. Secondo i dati forniti a giugno dal funzionario del Cremlino, Serghej Novikov, 137mila reduci sono già tornati a casa. Stando a rilevazioni di organizzazioni legate alle opposizioni - fatte consultando documentazione del ministero della Giustizia federale - negli ultimi tre anni si sono registrati 378 omicidi ad opera di reduci e 376 ferimenti gravi; 166 di questi assassinii sono stati compiuti da ex galeotti. Come si ricorderà, le carceri furono svuotate tra fine 2022 e il 2023, quando, dopo la parziale mobilizzazione del settembre 2022, servivano ancora uomini per proseguire l’”Operazione militare speciale” (Svo) in Ucraina. Fecero il giro del mondo le immagini-video con Evghenij Prigozhin, allora capo dei mercenari “Wagner”, che arringava i prigionieri, promettendo: “Liberazione immediata e amnistia in cambio di sei mesi di servizio al fronte”. La scorsa primavera il quotidiano Kommersant aveva riportato le prime preoccupazioni diffuse tra organizzazioni e politici non allineati. La Fondazione a sostegno delle vittime dei reati (Fpp) aveva proposto che si fermasse la pratica della liberazione dei condannati per gravi crimini dopo la fine del servizio all’Svo e quanti già a piede libero fossero sottoposti a controllo amministrativo. “Alcune vittime - ha scritto Fpp - dichiarano di temere per la vita e per la salute loro e dei propri cari”. Ma il deputato Aleksej Zhuravliov non era d’accordo: c’era il rischio - osservava il parlamentare di Ldpr - di privare queste persone di “una seconda chance” per redimersi. Purtroppo - stando alle rilevazioni già citate - non pochi ex galeotti hanno commesso gli stessi reati una volta liberi. I dati al riguardo sono ineccepibili. E poi ci sono i reduci che non si rendono conto di avere necessità di aiuto psicologico. “Abbiamo bisogno - ha denunciato Sardana Avksentieva, vice-segretaria del partito “Novye Ljudi”, - (soprattutto nelle regioni) di specialisti che sostengano gli ex militari e le loro famiglie”. Per il ministero della Difesa, parole riportate dalla stessa parlamentare, un ex combattente su cinque ha disturbi da stress post traumatico (Ptsd). Nel passato agosto orrore ha provocato l’omicidio del giudice federale Vasilij Vetlughin al Tribunale di Kamyshin (regione di Volgogrado). Il 47enne Sergeij, tornato dal fronte in licenza, ha scoperto che la moglie aveva una relazione con il togato. Gli ha sparato, l’ha evirato e gli ha piantato un coltello in un occhio. Le foto, circolate sui canali Telegram, sono agghiaccianti. A inizio settembre sull’Altai un 37enne ha violentato e ucciso una 18enne, madre di un bebè di 4 mesi, mentre la riaccompagnava a casa. I due si erano appena conosciuti ad un bar. Il corpo della giovane è stato ritrovato in un fiume due giorni dopo. I reduci hanno bisogno soprattutto di un posto di lavoro (tantissimi prima di partire per l’Svo era disoccupati!), possibilmente ben pagato. Ma si accontenteranno dopo i milioni ricevuti al fronte? In alcuni casi dovranno guadagnare 10 volte di meno. Al momento lo Stato federale è più forte rispetto a quanto lo fosse negli anni Novanta, dopo il crollo dell’Urss. Quindi, secondo alcuni, la prevedibile ondata di violenza non ci sarà. Ma tanti non vi credono: il numero degli ex combattenti in Ucraina sarà di molte volte superiore a quello di tre decenni fa. La tragedia russo-ucraina, in conclusione, è destinata a lasciare ferite profonde nella società federale. È meglio non farsi illusioni.