Giustizia: verità e fesserie sul referendum di Federico Guiglia Alto Adige, 30 novembre 2025 Il referendum in arrivo numero 84 nella storia della Repubblica ha una caratteristica che lo rende diverso da tutti quelli - abrogativi, di indirizzo, istituzionale o, come questo, costituzionale - che l’hanno preceduto: ha rovesciato le posizioni dei partiti in campo. Il tema che vi si propone è concentrato in buona parte sulla futura composizione del Consiglio superiore della magistratura (per giuristi e giornalisti: Csm), che è l’organo di autogoverno. Ma riguarda anche la separazione delle funzioni, come prevede la legge voluta dal governo e osteggiata dall’opposizione di sinistra. I centristi alla Carlo Calenda hanno approvato la riforma e quelli alla Matteo Renzi si sono astenuti. A rigor di logica, la destra “legge e ordine” dovrebbe schierarsi con chi, la magistratura associata, paventa il venir meno del senso dello Stato e vede il testo come fumo negli occhi. Invece la destra concorda col dotto ministro della Giustizia e magistrato in pensione Carlo Nordio, che nel testo vede arrosto e non fumo, non soltanto per averlo cucinato lui stesso. A rigor di logica, la sinistra libertaria dal perenne Sessantotto nell’animo (chissà perché viene in mente Elly Schlein), dovrebbe felicitarsi con chi il potere della casta l’ha diviso in due per carriera (di là i pubblici ministeri, di qua i giudici) e perciò sostenere la revisione costituzionale di taglio “garantista”. Invece no, i contestatori contestano la diluizione e l’indebolimento di un potere che un tempo e a lungo da quelle parti si esecrava come longa manus dello “Stato repressivo” o almeno invadente. Come se non bastasse, l’argomentare su un testo di non facile né immediata comprensione, si presta a tutto e al suo contrario. Chi critica la separazione professionale tra le toghe, dice che l’anno scorso su 8.817 magistrati in servizio soltanto 42 sono stati i passaggi di funzione, cioè lo 0.48%. “Facciamo un referendum costituzionale per decidere la carriera di 40 persone ogni anno”, ha riassunto con ironia Maurizio Crozza. Che è il più grande artista di comicità in Italia (un po’ meno quando viene fuori l’ideologo che è in lui; non fa ridere, per esempio, l’imitazione tirata per i capelli rossi e conformista che fa di Jannik Sinner). Ma il dato dei 40 magistrati molto invocato non solo da Crozza per indicare l’insensatezza di una rivoluzione che in realtà è un’inezia, vale anche all’incontrario: proprio perché è un’inezia, non può rappresentare il pericoloso arrivo dei lanzichenecchi per nessuno. L’altro detto e contraddetto è il presunto potere più forte (o, all’opposto, asservito al governo), che acquisirebbe la pubblica accusa a se stante. Mettetevi d’accordo, perché delle due l’una: o il pm slegato dal giudice diventa più responsabile e indipendente a beneficio del popolo italiano, cioè senza guardare in faccia nessuno dalla politica in giù. Oppure separato e solo sarà schiacciato dall’esecutivo. Ma un discorso esclude l’altro: non è possibile che la sinistra ostile alla riforma li faccia entrambi. Sulla politicizzazione siamo al grottesco. Se al Csm approdassero magistrati sorteggiati a caso -come vuole la riforma-, anziché eletti col bilancino delle loro correnti, come accade oggi, è ovvio che anche essi, i sorteggiati, avrebbero un’idea politica: sono cittadini della Repubblica, mica robot dell’intelligenza artificiale. L’importante, però, è che nelle loro decisioni i magistrati siano soggetti soltanto alla legge, cioè che la applichino con rigore, anziché interpretarla come gli pare. Che non si sostituiscano, cioè, anche in nome della più nobile e giusta delle cause, al ruolo del Parlamento. Troppe volte accade e questo prescinde totalmente dalle modalità di elezione del Csm. Il sorteggio, dunque, non ammazza né deve ammazzare la dimensione civica e politica di una toga. Però il sorteggio colpisce alla radice il correntismo, la degradante malattia del Csm davanti agli occhi di tutti. Non è un caso che Antonio Di Pietro, uno dei pochi magistrati a non aver mai aderito a una corrente dell’Anm (Associazione nazionale magistrati) e a non aver mai avuto paura del potere -altrimenti non sarebbe diventato il simbolo dell’inchiesta Mani Pulite nel 1992-, sia favorevole al sorteggio. Oltre che super-favorevole alla riforma. Non è un caso che Nicola Gratteri, altro magistrato con la schiena dritta e lontano dalle correnti, si sia pronunciato a favore del sorteggio, pur essendo contrario alla riforma. Un tempo il magistrato parlava solo con le sue sentenze. Nell’era delle reti sociali dove tutti pontificano credendosi Hemingway, non si può chiedergli di tornare all’antico costume (ma quanto bello sarebbe). Tuttavia, il giudizio sulla giustizia che gli italiani daranno al referendum, non sarà arzigogolato come il dibattito che è già partito per partito preso. Un dibattito nel quale garantisti e giustizialisti passano con disinvoltura da un campo all’altro in virtù della loro separazione politica, profonda e pregiudiziale almeno quanto l’altrui separazione delle carriere. La magistratura ha le sue colpe, anche gravi, ma la Costituzione merita una riforma differente di Rosario Russo* Avvenire, 30 novembre 2025 Le gravissime colpe della Magistratura sono quelle documentate dalle notissime chat con cui moltissimi magistrati ordinari avevano chiesto - e spesso ottenuto - dal “sommo sensale” Luca Palamara illeciti favori, così mercificando la loro autonomia decisionale. Condotte siffatte rilevano (come stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione) quanto meno come gravissimi illeciti disciplinari, ma il Pg della Suprema Corte non risulta avere esperito alcuna azione pur avendone l’obbligo e ha impedito perfino la conoscenza delle archiviazioni emesse. Ben vero la riforma Mastella del 2006 fece un pessimo “regalo” ai magistrati ordinari, consentendo al Pg della Cassazione di archiviare, senza alcun effettivo controllo, le notizie disciplinari classificate come di “scarsa rilevanza”. Attualmente il Pg è perciò il dominus incontrastato dell’azione disciplinare, condizionando l’effettività della funzione disciplinare stessa assegnata dalla Costituzione al Csm (articolo 105 della Costituzione). E il Pg ha aggravato tale situazione rendendo inaccessibili le proprie archiviazioni, sicché il suo potere è ormai tanto autarchico quanto segreto. Altrettanto inerte è rimasto il ministro della Giustizia, cui la Costituzione attribuisce (non l’obbligo, ma) la facoltà di agire disciplinarmente e di sindacare le archiviazioni del Pg. Dunque, bandito dall’Ordine e dall’Anm il Palamara, è stata poi garantita l’impunità ai numerosi magistrati correi del Palamara. E questo è costituzionalmente intollerabile. Sennonché, allegando proprio tale ragione, la controversa riforma governativa ha sancito che i magistrati ordinari non sono più degni di eleggere i membri togati dei due Csm e dell’Alta Corte disciplinare (tutti di nuovo conio), che dovranno perciò essere estratti a sorte, al fine di scongiurare qualunque mercimonio correntizio su trasferimenti, cariche e nomine dei magistrati ordinari. Sembra davvero uno scandaloso pretesto. Non solo il ministro ha avuto il potere di agire disciplinarmente ogni qual volta il Pg ha emesso un’archiviazione (per l’effetto infatti comunicatagli); non solo egli poteva sempre promuovere l’azione disciplinare; ma in ogni caso poteva invece proporre una riforma legislativa più appropriata, quella cioè volta a precludere al Pg l’archiviazione addirittura segreta per “scarsa rilevanza”. Infatti, definitivamente approvata la predetta riforma costituzionale, Pg della Cassazione e ministro della Giustizia probabilmente continueranno a non agire in sede disciplinare nei confronti delle condotte disciplinarmente illecite dei magistrati ordinari, come è finora avvenuto in conformità alle persistenti disposizioni sopra richiamate. In verità, per reprimere i rilevati abusi dei magistrati ordinari, anziché optare per la citata riforma costituzionale che sovverte radicalmente il sistema, sarebbe bastato obbligare con legge ordinaria il Pubblico ministero presso la Suprema Corte a sottoporre le archiviazioni disciplinari al giudizio del Csm e soprattutto a non segretarle, come per altro è previsto in sede penale. In fondo è come se con apposita riforma si volesse sostituire il sorteggio all’elezione politica dei parlamentari, sol perché il Pubblico ministero non abbia agito penalmente contro i colpevoli di voto di scambio. Lo strabismo della riforma non sembra neppure casuale. Non è peregrino ipotizzare che la mancata applicazione di qualsiasi sanzione a carico dei magistrati colpevoli, pur assai biasimevole, sia stata sfruttata dal Governo come agevole appiglio per stravolgere radicalmente - con la menzionata riforma - il disegno costituzionale dei rapporti tra la Giurisdizione e il Governo. Orientano in tale direzione soprattutto le preoccupanti esternazioni del ministro Nordio. Infatti egli, in seno al proprio citatissimo volume (Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura, pag. 112 e segg., 2022, Milano), in passato auspicava convintamente l’innesto nel nostro ordinamento costituzionale (di civil law) di tutti gli istituti tipici del sistema di common law, tra cui la separazione delle carriere e la discrezionalità dell’azione penale nonché “la nomina governativa dei giudici e quella elettiva dei pubblici ministeri”, espressamente escludendo che “una simile riforma ucciderebbe l’indipendenza della magistratura, e sovvertirebbe l’ordine democratico”. Tuttavia, nominato Ministro della Giustizia proprio nell’ottobre 2022, egli si è fatto vittorioso promotore della menzionata separazione delle carriere requirenti e giudicanti, affrettandosi in siffatta qualità a garantire specificamente “l'indipendenza della magistratura giudicante e requirente”, sebbene avesse dianzi auspicato esplicitamente “la nomina governativa dei giudici e quella elettiva dei pubblici ministeri”. In sostanza, a fronte di un testo logicamente ipermotivato, come quello articolato dal dottor Nordio nel suo volume, deve riconoscersi a lui la possibilità di contraddirsi nel merito e ai suoi lettori la facoltà di dubitare della sua effettiva coerenza. Perciò la nostra Costituzione merita una riforma meno corsara - e cioè più congrua, trasparente, meditata, affidabile e utile - di quella ideata dal dottor Nordio. *Già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione Alle future toghe serve un tirocinio nei penitenziari per essere giuste di Gustavo Bialetti La Verità, 30 novembre 2025 Una volta, almeno, giudici e pm andavano spesso in carcere per fare gli interrogatori. Anche per alleviare costi e rischi delle cosiddette traduzioni. Ma spesso il carcere è in periferia e a molte toghe non va di perdere tempo. È un peccato, perché alzare il sedere dalla sedia e vedere come si vive dietro alle sbarre è educativo per tutti, specialmente per chi detiene il potere di mandarci la gente. Così, ieri, un membro laico del Csm, Claudia Eccher, di professione avvocato, ha rilanciato la proposta di fa passare due settimane in carcere a tutti i futuri magistrati. A un convegno su “Libertà e giustizia penale” in Lunigiana, Eccher ha affermato: “Troppo spesso, la formazione del magistrato si concentra quasi esclusivamente sull’aspetto tecnico-giuridico. Il tirocinio di 15 giorni in carcere, a contatto con i detenuti, presente nella proposta di legge Sciascia-Tortora, non è una punizione o un’esperienza esotica. È, al contrario, un’immersione nella realtà più cruda del sistema giudiziario”. Parole sacrosante, perché lo stesso consigliere di Palazzo dei Marescialli ha aggiunto che “un futuro giudice che abbia provato anche solo per pochi giorni la claustrofobia di un ambiente detentivo, che abbia ascoltato le paure e le speranze di chi è recluso, sarà un giudice più consapevole del peso di una condanna, più attento alle garanzie, più incline a riflettere prima di limitare la libertà altrui”. Sono tesi ben note a chi, da sempre, difende le garanzie dei cittadini, in un Paese come l’Italia che ormai da molti decenni non è più la culla del diritto. Chi ha studiato legge sa che il cosiddetto garantismo non è un’opzione politica, ma di semplice cultura. Adesso questi temi vanno di moda perché c’è il referendum sulla giustizia, ma la vera sfida è ricordarsi del carcere anche dopo. Sia per i colletti bianchi che per i poveracci. Reati contro la polizia: “Archiviare se sono lievi” di Mario Di Vito Il Manifesto, 30 novembre 2025 La Corte costituzionale dichiara illegittima la norma (introdotta dalla riforma Cartabia) che escludeva l’esimente della particolare tenuità del fatto per i reati commessi contro le forze dell’ordine. Il caso nasce da una questione sollevata dal tribunale di Firenze per una manifestazione di dieci anni fa, e la Consulta ha così rivisto l’istituto della minaccia, resistenza e dell’offesa a pubblico ufficiale: fino a giovedì scorso, giorno del pronunciamento, la possibilità di non procedere alla punibilità per tenuità dei reati commessi contro gli agenti di pubblica sicurezza nell’esercizio delle loro funzioni, semplicemente, non esisteva. Invece, adesso, è stabilito che “l’esimente del fatto di lieve entità può essere riconosciuta per i reati puniti con la reclusione non superiore (nel minimo) a due anni”. L’esclusione, secondo i giudici, era da ritenersi manifestamente irragionevole a causa della “distonia normativa” che si è venuta a creare con la riforma Cartabia. Il giudice, in pratica, sarà chiamato a stabilire caso per caso la gravità dei fatti. Nel caso di particolare tenuità, le accuse si potranno archiviare. Il provvedimento, a ben guardare, in ogni caso non avrà effetti di alcun genere sull’ultimo decreto sicurezza, che ha inasprito le pene per i reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale, aggiungendo anche un cero numero di nuove aggravanti, come quella dell’ostacolo alla realizzazione delle grandi opere. Veementi e scomposte le reazioni alla sentenza della Consulta che arrivano dal sindacato di polizia. Così Stefano Paoloni, segretario del Sap: “Da adesso sarà di nuovo possibile sputare sulle divise e non risponderne. Come accadeva prima quando, ad esempio, il tribunale di Milano ha archiviato per lieve tenuità del fatto il procedimento penale per oltraggio a pubblico ufficiale a carico di un gruppo di antagonisti che aveva sputato su alcuni colleghi”. E Valter Mazzetti, segretario di Fsp polizia di stato: “Questa sentenza ingenera il timore che perda vigore il principio che qualsiasi violenza contro le forze dell’ordine rappresenta una violenza contro lo stato. Vorrebbe dire che nella tutela della funzione, della dignità delle divise e del loro ruolo di rappresentanti dello stato, si compie un passo avanti e due indietro. Ecco perché invochiamo un immediato correttivo da parte del parlamento”. Campobasso. Detenuto morto, disposta l’autopsia: accertamenti per chiarire le cause quotidianomolise.com, 30 novembre 2025 Morte, sembra per cause naturali, di un detenuto extracomunitario di 56 anni che stava scontando la sua pena nel carcere di via Cavour, a Campobasso. Il detenuto ha accusato un malore e i suoi compagni di cella hanno subito chiesto aiuto al personale della polizia penitenziaria, che è accorso tempestivamente. Ma le condizioni del detenuto sono apparse gravi e neanche l’intervento del 118 ha potuto evitare il decesso dell’uomo. Si pensa ad un arresto cardiaco come causa della morte. Il magistrato di turno ha autorizzato lo spostamento della salma all’obitorio del Cardarelli e non è escluso che nelle prossime ore si possa affidare l'incarico ad un esperto per un esame più approfondito. Il pubblico ministero Vincenzo Chirico ha ordinato l’esame autoptico, che sarà eseguito martedì 2 dicembre. L’accertamento potrà confermare un malore o evidenziare elementi differenti. Solo dopo la perizia la salma sarà consegnata ai familiari. Si arricchisce di nuovi elementi la vicenda relativa alla morte del detenuto extracomunitario di 56 anni deceduto nel carcere di via Cavour a Campobasso. Il pubblico ministero della Procura di viale Elena, Vincenzo Chirico, nelle ultime ore ha disposto l’autopsia, che verrà eseguita martedì 2 dicembre in una delle sale dell’obitorio dell’ospedale Cardarelli. Secondo quanto ricostruito nelle ultime ore, il detenuto ha accusato un malore improvviso nella sua cella. I compagni, resisi conto della gravità della situazione, avevano subito chiesto aiuto al personale della Polizia penitenziaria, intervenuto tempestivamente. Nonostante l’arrivo dei sanitari del 118, ogni tentativo di rianimazione era risultato vano. La decisione della Procura mira ora a chiarire in modo definitivo le cause del decesso. Se l’ipotesi iniziale resta quella di una morte naturale, l’accertamento autoptico non esclude a priori la possibilità di circostanze differenti. Sarà infatti la perizia medico-legale a stabilire con precisione la dinamica clinica. Solo dopo il completamento dell’esame, la salma potrà essere restituita alla famiglia per consentire l’ultimo saluto. Alessandria. Nel carcere di San Michele, nel silenzio, in arrivo detenuti in regime di 41 bis di Adelia Pantano La Stampa, 30 novembre 2025 Erano 300, restano solo 58 i carcerati comuni, quello di Alessandria diventa istituto di massima sicurezza. Senza una spiegazione ufficiale. Il rischio concreto è di perdere il patrimonio di iniziative rieducative e di “umanità” avviate da diversi anni. A capire che il carcere di San Michele stia attraversando una trasformazione profonda bastano due indizi: le grate che oscurano le finestre, visibili anche dalla strada, e il numero dei detenuti, crollato in poche settimane da oltre 300 a 58, come riportato sul sito del Ministero della Giustizia. Un cambiamento rapido, che non ha ancora trovato una spiegazione ufficiale, anche se gli indizi sono molto chiari. Interrogazione parlamentare - Il sindaco Giorgio Abonante ha scritto al sottosegretario Andrea Delmastro, il deputato Federico Fornaro ha presentato un’interrogazione parlamentare, sembra imminente la trasformazione in penitenziario di massima sicurezza. In questo clima “sospeso” si è aperto il Festival delle Arti Recluse organizzato da Ics (Istituto di cooperazione e sviluppo), che da anni costruisce ponti tra la realtà carceraria e la città attraverso arte e cultura. Un convegno, moderato dall’ex garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, ha provato a fare il punto su ciò che potrebbe accadere. “Se San Michele diventerà un istituto di massima sicurezza è la domanda che circola da giorni - ha detto l’assessore Roberta Cazzulo -. Monitoriamo la situazione, perché il rischio è di perdere il patrimonio costruito da associazioni, istituzioni e terzo settore: difenderlo significa prendersi cura della sicurezza e dell’umanità del nostro vivere civile”. Per Giovanni Mercurio, vicepresidente di Ics, il punto fermo restano le persone: “Siamo dentro per loro. Questo è il nostro obiettivo e rimarrà, qualsiasi condizione andrà a vivere il carcere di Alessandria”. Ics coordina 130 persone ex articolo 17, per il reinserimento sociale, in rete con altre realtà della provincia. “Qui da anni portiamo avanti percorsi che mettono in relazione scuola, carcere e città perché il San Michele - ha spiegato - con tutte le sue fragilità, resta un luogo interessante dal punto di vista educativo”. Sul futuro del Festival ha detto: “Ad oggi non abbiamo certezze, ma se ci verrà data la possibilità lo faremo”. Con la Bottega d’Arte, Piero Sacchi (anche lui di Ics) ha portato colori e pennelli dietro le sbarre. “Il carcere priva della dimensione sensoriale. Attraverso la pittura molti detenuti hanno scoperto parti di sé che non sapevano di avere”. Tante le preoccupazioni dal mondo della scuola. “Le informazioni arrivano giorno per giorno e nemmeno il personale sembra avere un quadro chiaro - ha spiegato la docente Paola Zanotti -. La scuola in carcere è un frammento di luce in giornate lunghissime: se i detenuti usciranno come sono entrati, avremo fallito tutti”. Anche l’università si trova in una fase di incertezza. “Ho incontrato detenuti di età diverse con una sorprendente fame di sapere - ha detto Pierfrancesco Arces, delegato del rettore dell’Upo. Ma non abbiamo alcuna informazione sul futuro dei percorsi universitari: se San Michele diventerà un carcere di alta sicurezza, dovremo ripensare tutto da zero”. Per Giuseppe Cormaio, presidente della Camera penale di Alessandria, la questione riguarda l’identità stessa della comunità: “Abbiamo esperienze straordinarie che raccontano il volto migliore della funzione rieducativa, ma anche un deficit di comunicazione clamoroso. Non voglio immaginare che questo patrimonio venga disperso”. Le garanti hanno riportato al centro il tema dei diritti. “La pena può limitare la libertà, ma non la dignità”, ha sottolineato Silvia Coscia, garante comunale che ha posto l’attenzione sui tanti problemi strutturali delle strutture, in particolare del Don Soria. La garante regionale Monica Formaiano ha insistito sulla necessità di “creare un ponte stabile tra dentro e fuori”, esprimendo “rammarico per la mancanza di un dialogo strutturato con la direzione dell’istituto proprio nel momento in cui si decide il futuro del carcere”. Tra grate oscurate e decisioni ancora senza voce ufficiale, il futuro di San Michele resta un’incognita. Ma una sola cosa è chiara, la città non intende rinunciare alla sua idea di pena come responsabilità, ma anche come possibilità concreta di cambiamento. Treviso. “Capire la violenza per cambiare: uomini in cammino” gnewsonline.it, 30 novembre 2025 Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha partecipato venerdì all’incontro “Capire la violenza per cambiare: uomini in cammino”, tenutosi presso la Casa circondariale di Treviso. Un evento di formazione sulla prevenzione della violenza di genere e sulla responsabilizzazione degli autori di reato, organizzato dal Centro Provinciale Istruzione degli Adulti “Alberto Manzi” di Treviso in collaborazione con la casa circondariale. Il Ministro Nordio ha sottolineato la necessità di percorsi formativi capaci di prevenire la violenza e promuovere responsabilità e cambiamento. La mattinata, pensata innanzitutto per i detenuti della Casa Circondariale e rivolta direttamente a loro, ha rappresentato un’occasione concreta di confronto e consapevolezza. La presenza in platea di persone provenienti dall’esterno - tra cui autorità civili e militari, professionisti e rappresentanti delle istituzioni - ha reso il dialogo ancora più ricco, favorendo uno scambio aperto e costruttivo. Diversi gli interventi: il direttore Quagliotto ha ricordato il valore rieducativo del carcere; Fabio Ballan e Alessia Zambon per gruppo Cambiamento Maschile TV e Cristina Tonon per il Tavolo interistituzionale sulla violenza di genere del Comune di Treviso hanno approfondito i temi della mascolinità, della gestione delle emozioni e dell’importanza delle reti territoriali; il dirigente scolastico Bortolini del Centro Provinciale Istruzione degli Adulti “Alberto Manzi” di Treviso ha evidenziato il ruolo dell’istruzione come strumento di consapevolezza; la dott.ssa Angela Colmellere ha evidenziato il ruolo dell’educazione nei percorsi di cambiamento; il Questore Alessandra Simone ha illustrato le diverse forme di violenza, le dinamiche delle relazioni violente e il quadro legislativo, soffermandosi sulle conseguenze per gli autori. L’evento è stato moderato dalla vicedirettrice del Tg2 Elisabetta Migliorelli. Al termine degli interventi si è sviluppato un momento di dibattito che ha coinvolto attivamente i partecipanti, permettendo ai detenuti di porre domande, condividere riflessioni e confrontarsi con i relatori. Un’occasione preziosa per tradurre i contenuti della formazione in un’esperienza viva, capace di generare domande, responsabilità e possibilità di cambiamento reale. L’iniziativa conferma l’impegno del Cpia “Alberto Manzi” di Treviso e della Casa Circondariale nel promuovere percorsi educativi che mettano al centro la persona, sostenendo il cammino di chi, attraverso la conoscenza e il confronto, sceglie di rimettere in discussione la propria storia e costruire nuove prospettive di futuro. Brescia. Comunicare per non sparire: i detenuti si raccontano di Valeria Pacella Il Giorno, 30 novembre 2025 Comunicare per non perdere sé stessi. Questa è la comunicazione in un ambiente come il carcere, dove “comunicare è un modo per non sparire nel silenzio”, come hanno potuto appurare le studentesse del corso di Teoria e tecnica dell’informazione che hanno preso parte al progetto Zona 508, con la docente Marina Villa. L’iniziativa è nata dalla collaborazione tra Associazione Carcere e Territorio, presieduta da Carlo Alberto Romano, detenuti degli istituti carcerari bresciani e il corso di Teoria e tecnica dell’informazione della Cattolica di Brescia, con l’obiettivo di riflettere attorno alla situazione carceraria italiana e bresciana in particolare, troppo spesso inadeguata rispetto a parametri indicati dalla normativa nazionale ed europea, ma anche da criteri di civiltà e tutela della dignità della persona. Nei mesi fra la primavera e l’estate scorsi i ragazzi della Cattolica (Letizia Abampi, Martina Lanzetti, Kawthar Dridi, Anna Petrali e Sara Panteghini) e le redazioni della rivista Zona 508 hanno lavorato in parallelo ma a distanza (i primi nelle aule universitarie, le seconde nelle strutture del Nerio Fischione a Canton Mombello e del carcere di Verziano) attorno al tema della comunicazione. A una prima fase di ricerca e approfondimento ha fatto seguito un incontro diretto fra alcuni studenti e la redazione di Canton Mombello, che tutti i partecipanti hanno vissuto come momento di grande spessore umano e come occasione di crescita personale. Frutto del lavoro svolto è l’ultimo numero della rivista Zona 508, che raccoglie testi e riflessioni di tutti i redattori coinvolti, presentato in Cattolica giovedì scorso. Le studentesse hanno riportato di esser state colpite dall’umanità delle persone con cui sono venute a contatto nelle redazioni del giornalino e da come i detenuti sentano l’esigenza di esprimere e comunicare quel che provano dentro, anche con disegni. Verona. “Una vita dedicata ai fragili”, a don Carlo Vinco il San Martino Corriere di Verona, 30 novembre 2025 È stato assegnato a Don Carlo Vinco il 22° Premio San Martino, il riconoscimento che l’Istituto Assistenza Anziani conferisce a persone, istituzioni pubbliche o private che, negli anni, si sono distinte con iniziative a favore degli anziani e dei loro familiari. Un premio nato per valorizzare impegno, dedizione e innovazione nel campo della cura e dell’assistenza. La cerimonia si è svolta venerdì in Gran Guardia, davanti alle autorità e a rappresentanti delle realtà sociali del territorio. Don Vinco, parroco, psicologo è stato scelto per un percorso umano e professionale a servizio delle persone fragili: da presidente della Fondazione Pia Opera Ciccarelli ai malati di Aids, fino ai detenuti, ruolo che oggi ricopre come garante dei diritti dei detenuti del carcere di Montorio. “Il Premio San Martino nasce per onorare chi dedica la propria vita ai più fragili e Don Carlo Vinco incarna pienamente questo spirito” ha dichiarato Franco Balbi, presidente dell’Istituto Assistenza Anziani. “U un sacerdote che, in ogni ambito che ha attraversato, ha portato attenzione, ascolto e capacità di innovazione. Il nostro grazie è profondo e sentito”. Siena. “Volare oltre le mura” con i CellaMusica. Detenuti, agenti, volontari uniti nell’arte di Massimo Biliorsi La Nazione, 30 novembre 2025 Concerti e un significativo compact disc: il progetto dei CellaMusica è una originale realtà. È un gruppo musicale in divenire, nel senso che tanti componenti si aggiungono nel tempo, e che è formato da detenuti, ex detenuti, agenti della Polizia penitenziaria, volontari, personale del carcere e musicisti del territorio. Il progetto si chiama “InnocentEvasione”, nato nella casa circondariale di Siena. Ugo Giulio Lurini è stato ideatore e promotore. Il progetto è stato sostenuto dalla Fondazione Monte dei Paschi di Siena, che nel 2024 ha finanziato la campagna di raccolta fondi promossa da l’Associazione LaLut - Libera Università del Teatro. Ma ripercorriamo le tappe di questo riuscito progetto. L’iniziativa e la conseguente campagna di raccolta fondi è partita nel 2024. Nel progetto Lets digital va in campagna, la Libera Università del Teatro ha visto un’incredibile opportunità per la casa circondariale di Siena che in quel periodo vedeva crescere al suo interno un esperimento nato per caso ma dal fortissimo impatto sociale ed emotivo. La proposta è stata accolta con entusiasmo da tutti i soggetti coinvolti; Sara Ceccarelli musicista coordinatrice del laboratorio musicale con i detenuti, le educatrici Maria Iosè Massafra e Lorenza Pascali, Andrea Castelli musicista professionista di Siena e volontario nella struttura, il gruppo musicale “CellaMusica”, già costituito all’interno del carcere, fatto da detenuti, un agente di polizia penitenziaria, Giancarlo Battista, volontari e personale del carcere, come Valentina Moffa. In un mese e mezzo, grazie al sostegno di donatori e supporter si è riusciti a raggiungere e superare la cifra preposta di 4.000 euro, utile all’avvio del progetto. Inizia così il nuovo anno 2025 con la lavorazione del disco della band, tra prove e registrazioni, tra il carcere e la sala incisioni, da gennaio a maggio. Il supporto tecnico del fonico Damiano Magliozzi (studio Gorilla Punch) è stato efficace, tutte le componenti coinvolte si sono sentite supportate e all’altezza del compito, non si è mai perso di vista la motivazione e i rinforzi positivi sul lavoro a tratti difficile e faticoso. Per registrare all’interno del carcere, dopo le necessarie autorizzazioni all’ingresso del materiale tecnico, è stata usata la sala teatro. Nel progetto del cd sono stati coinvolti musicisti senesi professionisti in qualità di “special guest”: Eleonora Bagnani, Marta Marini, Silvia Golini, Marco “Zatarra” Ottavi. La fase di mixaggio del disco si è svolta dal mese di giugno a settembre ed è stata curata interamente da Andrea Castelli, a titolo di volontariato, e Damiano Magliozzi. Il grafico Fabrizio Bartalozzi generosamente si è occupato, anche lui a titolo di volontariato, del libretto e della copertina del cd. Infine sono seguite le operazioni legate alla masterizzazione del cd affidata all’azienda Discolaser di Livorno, adempimenti burocratici e permessi Siae. Tra settembre e ottobre si è lavorato per promuovere gli eventi di lancio del disco, arrivando ad oggi con tre eventi programmati per i “CellaMusica” che nel frattempo è diventato un gruppo che può suonare fuori dal carcere perché alcuni detenuti sono tornati in libertà. Il disco è stato presentato ufficialmente nei giorni scorsi per i donatori, al Centro culture contemporanee-Corte dei Miracoli di Siena. Bologna. “Arte e bellezza sono un diritto di tutti” di Amalia Apicella Il Resto del Carlino, 30 novembre 2025 Elisabetta Riva, sovrintendente del Comunale, accoglie un gruppo di detenuti con il progetto di Bergonzoni. Uscire dal carcere per assistere a una recita di Bohème. È quello che hanno fatto ieri sera quattro detenuti della casa circondariale con i loro amici o famigliari. Il progetto ‘Uscire per motivi spettacoli’ (nato da un’idea dell’attore Alessandro Bergonzoni e della Camera penale Franco Bricola con l’Osservatorio diritti umani, carcere ed altri luoghi di privazione della libertà) ha preso ufficialmente il via con Giacomo Puccini. I principali teatri - Comunale, Arena del Sole e Moline, Duse, Celebrazioni, Dehon e Oratorio San Filippo Neri - mettono a disposizione biglietti gratuiti per i detenuti che dispongano di permessi premio o siano stati ammessi a misure alternative. La Rocco D’Amato, poi, assieme all’ufficio esecuzione penale esterna, individua chi può assistere alla recita, anche in compagnia dei propri affetti. “L’arte e la bellezza rappresentano un diritto fondamentale di ogni individuo - sottolinea la sovrintendente del Teatro Comunale Elisabetta Riva -, indipendentemente dalla condizione in cui si trova. Musica, teatro e cultura hanno la capacità di restituire dignità, stimolare riflessione e riattivare processi positivi”. In particolare, la Bohème proposta (ancora oggi al Comunale Nouveau) “offre una lettura profondamente contemporanea, capace di parlare alle fragilità del presente e di avvicinare esperienze apparentemente lontane ma umanamente vicine - prosegue Riva. Affronta temi universali come povertà, marginalità, amicizia, solidarietà e amore vissuto ai limiti dell’esistenza. È una scelta simbolica perché invita a riconoscere l’altro, a sviluppare empatia e senso di prossimità, valori centrali nel dialogo tra istituzioni e realtà carcerarie”. La selezione delle ‘uscite spettacolari’ che ha fatto il Comunale, infatti, privilegia opere che veicolano messaggi di “forte impatto umano e collettivo”, offrendo quattro biglietti ai detenuti e quattro ad amici o familiari. “Partire dal grande repertorio italiano facilita un primo avvicinamento”. È già prevista la partecipazione ai prossimi titoli, come Idomeneo, La traviata e Cavalleria rusticana, oltre ad altri appuntamenti che verranno individuati assieme alla Camera Penale nel corso dell’anno. Il criterio di selezione non è solo artistico, le opere scelte “parlano di fragilità, coraggio, speranza e possibilità di riscatto”. Roma. Un murale per il “Pastificio Futuro” a Casal del Marmo di Annalisa Picardi cittanuova.it, 30 novembre 2025 Sulle mura di cinta dell’istituto penitenziario minorile di Roma inaugurato il murale dedicato a papa Francesco e padre Gaetano Greco, nel segno del lavoro e del futuro per i ragazzi detenuti. Un muro nato per separare diventa un segno, una finestra aperta sul futuro. Sul muro del carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, è stato inaugurato lo scorso 12 novembre il murale del Pastificio Futuro, il laboratorio di pasta secca artigianale che offre lavoro e formazione a ragazzi detenuti o appena usciti dal carcere, impegnati in un percorso di reinserimento. L’opera corre lungo il muro di cinta, proprio nell’area del pastificio voluto da papa Francesco come risposta concreta al suo invito a “non lasciarsi rubare la speranza”. Qui il colore, l’arte e il lavoro raccontano che una seconda possibilità è possibile. Un “muro lungo un sogno”. L’autrice del murale, Giovanna Alfano, confida di aver percepito, al suo arrivo, quel muro come “un brutto sogno”: una presenza massiccia, incombente, che chiude. La richiesta, esplicita, era di “buttarlo giù” almeno idealmente. Lei ha scelto un’altra strada: “Non ho voluto cancellarlo - ha spiegato - perché i limiti, a volte, ci salvano. Ho immaginato allora questo murale come una lunghissima finestra su un paesaggio altro”. Lo sfondo è stilizzato, fatto di geometrie semplici che hanno permesso anche ai ragazzi del pastificio di mettersi al lavoro per la sua realizzazione. Su questo paesaggio si stagliano elementi figurativi dal forte valore simbolico: la storia del grano, il chicco che muore per dare vita alla spiga, la mano di madre natura che porge il frutto della terra alla mano dell’uomo. Attorno al grano si alza un grande volo di uccelli - gabbiani, rondini, corvi, passeri - tutti diversi, tutti nutriti dallo stesso chicco: immagine di una umanità plurale, di percorsi differenti che cercano una direzione. A chiudere il murale, l’abbraccio tra papa Francesco e padre Gaetano Greco, l’ex cappellano di Casal del Marmo, che ha dedicato 36 anni di vita ai ragazzi più fragili. Da quell’abbraccio, “scintilla” raffigurata nell’opera, è germogliato il sogno del Pastificio Futuro. Accanto al murale è stata scoperta una targa con i loro nomi e una frase semplice e potente: “Hanno scatenato la speranza”. Pastificio Futuro: la dignità che si impasta - Nato nell’area dell’istituto penitenziario minorile di Casal del Marmo, il Pastificio Futuro ha un obiettivo chiaro: offrire formazione professionale e lavoro ai giovani che escono dal carcere, perché possano rientrare nella società “a testa alta, non scappando, ma con un lavoro tra le mani e la dignità nel cuore”, come ricordava padre Gaetano. Il progetto, sostenuto dalla Caritas di Roma, dalla diocesi, dall’amministrazione della giustizia minorile e da diversi partner, mette al centro la qualità del prodotto - pasta secca artigianale, grano selezionato, lenta essiccazione - e la qualità delle relazioni: fiducia, responsabilità, accompagnamento nel tempo. Nel suo intervento conclusivo, il presidente della cooperativa Alberto Mochi Onori ha ricordato come la storia del pastificio nasca proprio da un abbraccio, quello tra papa Francesco e padre Gaetano, e da una precisa visione: la dignità che non si predica, ma si costruisce. “Si impasta e si dona”, ha detto, annunciando anche una nuova iniziativa: le donazioni destinate alla produzione solidale permetteranno di destinare pacchi di pasta ai detenuti del Lazio, in particolare in vista del Giubileo delle carceri previsto per il 14 dicembre 2025. “Segni di speranza” nel Giubileo 2025 - L’inaugurazione del murale si colloca dentro il cammino del Giubileo della speranza di quest’anno, nel quale papa Francesco ha chiesto alle comunità cristiane di moltiplicare i “segni concreti” di un futuro possibile per tutti. Il cardinale Baldassarre Reina, vicario del papa per la diocesi di Roma, ha definito il Pastificio Futuro “uno di questi segni”: un luogo in cui il seme della speranza viene affidato alla terra, esposto al vento e alle intemperie, ma destinato a fiorire nel tempo. Il presidente del Municipio, Marco Della Porta, ha parlato di una “alleanza per il bene comune” tra istituzioni, associazioni e volontariato, sottolineando il valore di un’opera che porta bellezza proprio dove sembra dominare la sconfitta. Riprendendo Dostoevskij, ha ricordato che “la bellezza può salvare il mondo” e, in questo caso, può contribuire a salvare anche il futuro di questi ragazzi. Dal buio al bordo del cratere - Nel suo saluto, il cappellano don Nicolò Ceccolini, successore di padre Gaetano, è tornato all’immagine evangelica del chicco di grano che, caduto in terra, muore per portare frutto. Guardando l’abbraccio tra il papa e il confratello, ha sottolineato che “solo chi ama dona futuro”: chi si spende e si dona, genera per altri un domani diverso, più libero. Nella serata, il moderatore e giornalista Gianmarco Trevisi ha evocato un’immagine che ha aperto l’incontro: alcune ferite della vita restano “buchi che non si possono riempire”, crateri che non si cancellano. Eppure, attorno a quei buchi può ricrescere l’erba, si possono mettere vasi di fiori, si può costruire un nuovo paesaggio. Proprio su questa immagine si è innestato l’intervento di Cristiana Rotunno, vicecapo dipartimento per la giustizia minorile, che ha scelto volontariamente di usare il linguaggio del cuore più che quello giuridico, riconoscendo come il murale abbia la forza di parlare non solo ai ragazzi, ma anche alle istituzioni presenti, ispirandole a costruire possibilità e non solo a giudicare. “Nessun uomo è mai identificabile con la sua colpa - ha ricordato - e meno che mai lo è un ragazzo”. Da qui l’impegno dell’amministrazione a sostenere percorsi che uniscano lavoro, formazione e arte, perché i giovani possano elaborare il proprio vissuto e tornare a sentirsi parte della società. Il murale del Pastificio Futuro - con il suo volo di uccelli, le spighe di grano, le rondini di primavera e l’abbraccio che lo attraversa - vuole essere proprio questo: un bordo fiorito sul cratere del carcere, un invito a credere che nessuno è definito per sempre dal proprio errore, e che il bene, quando si organizza in rete, può davvero “scatenare la speranza”. Il Pastificio Futuro è aperto al pubblico e dispone di un proprio sito, dove è possibile sostenere il progetto acquistando la pasta sia online che direttamente in sede. Un modo semplice, concreto e quotidiano di continuare a impastare dignità e futuro. Brian Barry e l’imparzialità come fondamento della giustizia sociale di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2025 L’imparzialità, più che il mutuo vantaggio, è essenziale per valutare la giustizia nelle istituzioni e le ingiustizie nascoste dietro equilibri politici apparentemente stabili. Quando i sentimenti o la devozione non sono sufficiente a risolvere i conflitti l’unica via che resta è “l’uso della ragione, dell’imparzialità, del compromesso ragionevole”. Si apre così, con questa citazione di Karl Popper, Justice as Impartiality (Clarendon Press, 1995), il secondo volume del grande trattato sulla giustizia sociale del filosofo britannico Brian Barry. È l’imparzialità il concetto chiave che può rendere un accordo giusto. Non occorre essere altruisti, neanche negare le nostre identità, né azzerare i conflitti. La “giustizia come imparzialità” ci dice qualcosa di più sottile e insieme più radicale. Ci invita a prendere sul serio l’idea che, nel progettare le nostre istituzioni, nessuno può valere più di un altro. Perché l’imparzialità? Per capire come Barry arriva a fondare il suo edificio teorico su questo principio, bisogna tornare al punto di partenza da cui si sviluppa tutta la sua critica: l’idea che la giustizia sia solo un equilibrio cooperativo, un compromesso conveniente per tutti fondato sul mutuo vantaggio. È la tradizione humeana e del neocontrattualismo di John Rawls e del Morals by Agreement di David Gauthier: una società giusta è quella che elimina conflitti e favorisce la cooperazione perché genera un “mutuo vantaggio” per tutti. Il benessere reciproco diventa la misura del giusto. Barry smonta questo paradigma in modo netto facendo notare come un equilibrio può essere stabile e vantaggioso e contemporaneamente ingiusto. Gli accordi, infatti, possono essere “accettati” perché chi si trova in una posizione di svantaggio non ha alternative migliori. In questo modo dietro la cooperazione ed il mutuo vantaggio possono nascondersi rapporti di forza asimmetrici che non hanno nulla di morale. L’esempio dei noxious neighbors (“vicini molesti”) che abbiamo analizzato la settimana scorsa, è da questo punto di vista emblematico: l’accordo è “mutuamente vantaggioso”, ma si fonda sulla paura e sulla vulnerabilità. Gli accordi così ottenuti non sono giusti ma estorti dalla necessità. “Una teoria basata sul vantaggio reciproco - scrive Barry in Theories of Justice - è necessariamente corrotta dall’asimmetria delle posizioni” (1989, p. 48). Se l’unico requisito della giustizia è il mutuo vantaggio, allora i più deboli non rifiuteranno mai nulla. Ecco perché abbiamo bisogno dell’imparzialità. Ci aveva provato già Rawls e Barry glielo riconosce in maniera esplicita. L’idea rawlsiana del “velo di ignoranza” dietro cui, nella posizione originaria, si negoziano i principi del contratto sociale rappresenta il tentativo di introdurre un elemento di imparzialità nei giudizi e di uguaglianza nelle posizioni di partenza. Il tentativo, tuttavia, viene ritenuto incompleto dal filosofo britannico perché dietro il velo gli individui continuano a ragionare come massimizzatori razionali. Non sanno chi saranno una volta che il velo verrà sollevato, ma sanno bene che qualunque cosa saranno, avranno un interesse da tutelare. Rawls “ripulisce” l’egoismo, ma non lo supera (cfr. Mind the Economy del 10/03/2024). L’imparzialità di Barry esige qualcosa di più: un metodo di giustificazione che non dipenda dall’interesse, né dal potere, dalla paura o dalla mancanza di alternative. Da questa esigenza emerge il suo “criterio fondamentale”: una norma è giusta se nessuno, partendo da condizioni di eguaglianza morale, potrebbe ragionevolmente rifiutarla. Il test per ogni principio di giustizia e per ogni istituzione possibile non è la sua accettabilità, che può essere forzata, interessata, necessitata, ma il “rifiuto ragionevole”. Per questo abbiamo bisogno dell’imparzialità. L’eventuale rifiuto può essere ragionevole e libero solo se tutte le parti si trovano nelle medesime condizioni di potere, bisogno, disponibilità di risorse, etc. Saranno giusti quei principi impossibili da rifiutare ragionevolmente se le condizioni di partenza fossero di uguaglianza morale. Immaginiamo una città italiana di medie dimensioni. Per anni il Comune ha garantito il tempo pieno nelle scuole primarie: un servizio che non rappresenta solo un sostegno alle famiglie ma costituisce un presidio educativo fondamentale soprattutto nei quartieri più vulnerabili. Quest’anno però chiudere il bilancio è più complicato del solito. L’amministrazione deve tagliare. Inizia a circolare la proposta di mantenere il doposcuola solo nei quartieri benestanti, dove le famiglie potranno contribuire con fondi privati. Nelle zone più povere, proprio lì dove il servizio sarebbe più necessario, il tempo pieno verrebbe abolito. La misura, all’apparenza, ha una logica ferrea: il Comune risparmia risorse, i quartieri ricchi mantengono il servizio, i quartieri poveri “si adattano”. Nessuno protesta davvero, perché le famiglie vulnerabili sanno che non verrebbe comunque introdotto nulla al posto del tempo pieno, e che un rifiuto della proposta sarebbe del tutto inutile. È un “equilibrio cooperativo”. Tutti concordano nell’accettare questa proposta come la migliore tra quelle realisticamente possibili. Ma sotto questa apparente plausibilità si cela un errore fondamentale. Stiamo assumendo la prospettiva sbagliata, quella di chi accetta l’accordo. E se guardiamo solo all’accettazione, allora la proposta del Comune non sembra poi così scandalosa. Nessuno scende in piazza, nessun ricorso al TAR, l’opinione pubblica parla di “compromesso responsabile”. Ma proviamo, per un attimo a cambiare prospettiva, a considerare lo sguardo di chi avrebbe tutte le ragioni per rifiutare. Secondo il criterio di Barry non contano tanto i benefici aggregati, non conta che tutti siano d’accordo e che l’equilibrio sia cooperativo e stabile. Ciò che conta è che quell’accordo è frutto di una iniziale distribuzione asimmetrica del potere. Dovremmo chiederci, allora, chi, se partissimo da condizioni di vera parità, avrebbe ragioni per rifiutare questa politica? La risposta alla domanda così posta, diventa d’un tratto evidente: le famiglie dei quartieri più poveri, cioè proprio quelle su cui ricade il costo maggiore del taglio di bilancio. Il fatto che non protestino non è un segno di giustizia, è sintomo della loro debolezza contrattuale. “Le persone accettano condizioni ingiuste - scrive Barry - non perché le ritengono giuste, ma perché non hanno alcuna possibilità reale di rifiutarle” (Why Social Justice Matters, Polity Press, 2005, p. 94). Se analizziamo la situazione con un minimo di finezza istituzionale vediamo subito che il servizio abolito nel quartiere povero non è “un lusso in più”. Si tratta di garantire ai bambini e alle bambine un ambiente protetto nel pomeriggio, di mettere tutti nella stessa condizione educativa minima, di consentire ai genitori, spesso con lavori precari, di mantenere un impiego, contrasta la formazione di una scuola “a due velocità”. La soppressione del doposcuola non è neutrale. Ha un peso specifico, una direzione ben chiara. Ricade sempre su chi ha meno possibilità di supplire con risorse private. È questa asimmetria strutturale, non il dissenso espresso, la materia prima con cui deve confrontarsi ogni idea di giustizia. Consideriamo un secondo esempio. Immaginiamo una Regione che deve razionalizzare la spesa sanitaria. Una parola elegante, “razionalizzare”, che però, quando entra nei bilanci pubblici, significa quasi sempre una cosa precisa: tagliare. Una delle misure sul tavolo è la chiusura dei piccoli presidi di medicina territoriale nei paesi dell’interno e nelle periferie urbane più fragili per concentrare l’assistenza in due grandi poli ospedalieri. La misura ha la sua razionalità dal punto di vista economico perché ridurrebbe la duplicazione dei servizi, consentendo di investire in tecnologia avanzata ed evitando la dispersione del personale sanitario. I cittadini dei centri più grandi supportano politicamente la riforma. La percepiscono come un miglioramento. Quelli delle aree interne, invece, protestano, ma sono pochi e anziani e la protesta è debole. Ben presto la loro voce di dissenso non si sente più. Ora per una visita bisogna percorrere trenta, quaranta, cinquanta chilometri. Molti non hanno mezzi per andare altrove, i trasporti pubblici non sono particolarmente efficienti, non c’è neanche la sanità privata a sopperire, non c’è proprio la possibilità di “scegliere” un’alternativa. Ma la riforma viene implementata comunque. I centri urbani ottengono più servizi, le aree interne si adattano. Anche qui sembra esserci un “equilibrio”: nessuno ottiene tutto, tutti ottengono qualcosa, o così appare. Anche in questo caso, come per il doposcuola, l’accettazione non nasce dall’approvazione, ma dalla mancanza di alternative. Per capirlo possiamo applicare il “test dell’imparzialità” e ribaltare la prospettiva. Se partissimo da condizioni di parità morale, di potere, risorse, etc. chi avrebbe le migliori ragioni per rifiutare questa riorganizzazione? La risposta è evidente: l’anziano solo, che non può guidare, il malato cronico che fatica a muoversi, la madre single che dovrebbe prendere due autobus per una visita di controllo; il lavoratore precario che perderebbe una giornata di paga per raggiungere l’ospedale della grande città. Il fatto che non protestino più non è un segno di consenso, è solo la conseguenza della loro debolezza contrattuale e politica. Le persone accettano anche condizioni ingiuste quando non hanno alcuna possibilità reale di rifiutarle. E così le differenze geografiche si trasformano in distanza sociale che poi diventa disuguaglianza nell’accesso ai servizi mentre la maggioranza dei cittadini, quelli che vivono nei grandi centri, ritiene tali politiche del tutto ragionevoli. Ecco a cosa serve mettere l’accento sull’imparzialità: a impedire che ciò che la maggioranza accetta sia ritenuto automaticamente giusto. La sua funzione è quella di spostare lo sguardo dal vantaggio collettivo alla vulnerabilità individuale. La lente dell’imparzialità ci costringe ad un esercizio non intuitivo ma necessario, un esercizio di ragionamento “controfattuale”. Dobbiamo cioè immaginare individui informati, in condizioni di uguaglianza morale, non manipolabili, non ricattabili dal bisogno. Proviamo poi a chiedere a questi individui di valutare la politica in questione: abolire il doposcuola solo nei quartieri poveri, ridurre i presidi di sanità territoriale nei piccoli centri? Chiediamo se, da quella posizione, qualcuno potrebbe rifiutarle ragionevolmente. La risposta ora diventa ovvia. Chi verrebbe danneggiato in modo sistematico da queste misure avrebbe motivi soverchianti per opporsi. Ed è questo che, per Barry, definisce l’ingiustizia. Ed è questo che ci fa capire la differenza tra cooperazione ed equità. Nel suo Spheres of Justice, Michael Walzer sostiene che ogni società possiede dei “significati condivisi” che definiscono la natura dei beni sociali e, di conseguenza, i criteri della loro distribuzione. Il pane, l’istruzione, la cura, il potere politico: ogni bene ha una logica distributiva “propria”, radicata storicamente e culturalmente (vedi Mind the Economy del 23/03/2025). La giustizia, in questa visione, non si fonda su principi universali, ma sull’interpretazione dei significati sociali che le comunità attribuiscono ai beni che considerano importanti. È una teoria densa quella di Walzer, una forma di comunitarismo sensibile alla pluralità e rispettosa delle tradizioni. Ma proprio qui Barry vede il problema. Il punto dirimente della sua critica è semplice: se i criteri di giustizia sono interamente “interni” a ciascuna comunità, come possiamo, dall’interno, criticare quelle forme di ingiustizia che possono emergere da quelle stesse tradizioni? Pensiamo alla discriminazione di genere e al patriarcato, per esempio, o alle società castali. Secondo il principio walzeriano, se tali pratiche sono coerenti con i significati locali che i membri di quelle comunità accettano e condividono, allora non esiste un criterio per condannarle. È la trasformazione del “ciò che è condiviso” in “ciò che è giusto”. Per Barry, questo esito è inaccettabile. Una teoria della giustizia deve permettere di giudicare pratiche ingiuste anche quando sono largamente accettate. È qui che entra in gioco ancora una volta l’idea di imparzialità, la necessità di un punto di vista che non sia catturato dall’ordine simbolico esistente. Se i significati condivisi, infatti, definiscono da soli la giustizia, allora nessuna discriminazione radicata culturalmente potrà essere contestata, nessuna disuguaglianza strutturale potrà essere criticata se deriva da un sistema di valori consolidati, nessuna minoranza potrà chiedere giustizia se la maggioranza interpreta quei beni in modo contrario. Ma così come nel caso del “mutuo vantaggio”, non si può accettare che la giustizia dipenda dal consenso sociale, se dovessimo accettare la definizione “interna” di giustizia, rinunceremmo a ogni strumento per contrastare le ingiustizie radicate nelle strutture sociali e culturali. Mentre il consenso può essere un fatto sociologico, la giustizia rappresenta un criterio di natura morale. L’imparzialità come “architettura del giusto” - La proposta di Barry si fonda, al contrario, su un “universalismo minimo”, basato su criteri che ogni individuo può accettare a prescindere dalla propria identità sociale. Un universalismo fondato sui principi di imparzialità delle istituzioni, di eguale considerazione, sul rifiuto di giustificare privilegi con argomenti culturalmente fondati e su criteri redistributivi che non dipendono da appartenenze o tradizioni. La giustizia non può essere soltanto un esercizio ermeneutico; deve possedere forza sufficiente a sfidare e mettere in discussione dall’interno le pratiche e le norme sociali anche le più radicate. È una difesa dell’idea che esistano criteri morali che dobbiamo poter applicare anche contro i nostri stessi usi e i costumi, anche se questi sono accettati e condivisi nella nostra cultura o nel nostro gruppo. È la condizione minima della critica democratica. Gli esempi del doposcuola e della sanità territoriale mostrano perché Barry considera l’imparzialità una forma di protezione istituzionale, non un ideale etico. È un modo per evitare che la politica ragioni solo in termini di efficienza o di pacificazione. È ciò che impedisce alla democrazia di diventare un nome elegante per l’amministrazione delle diseguaglianze. Finché non risponderemo alla domanda relativa a chi potrebbe rifiutare un certo accordo, non staremmo valutando la giustizia di quella regola o di quella istituzione; staremo solo osservando l’esercizio del potere nella sua forma più civile. L’imparzialità di cui parla Barry si configura come una “architettura del giusto”, un insieme di strumenti concettuali atti a smascherare ciò che nei processi politici appare come un ragionevole compromesso ma che, in realtà, poggia su rapporti di forza opachi e asimmetrici. Da un punto di vista individuale non potremo mai essere del tutto imparziali: ciascuno di noi guarda il mondo attraverso le proprie appartenenze, le proprie storie, le proprie ferite. Eppure, possiamo, e dobbiamo, costruire istituzioni imparziali, procedure che obblighino la politica a misurarsi con la prova più scomoda: lo sguardo di chi ha meno voce, meno opportunità, meno potere di rifiutare. È questo il punto decisivo. La giustizia non è ciò che tutti accettano, ma ciò che nessuno potrebbe ragionevolmente rifiutare se partissimo da condizioni di pari dignità morale. È la linea sottile che separa un sistema che funziona da un sistema che è davvero giusto. Gli esempi del doposcuola che viene abolito nei quartieri più fragili e quello dei presìdi sanitari rimossi dalle periferie, mostrano politiche che “funzionano” perfettamente dal punto di vista degli equilibri politici ed economici. Non generano rivolte né blocchi istituzionali. Sono stabili. Ma è proprio quella stabilità a renderli sospetti. La pace sociale non sempre è la misura di un ordine giusto. Può essere anche sintomo di rassegnazione, una forma civile dell’impotenza. È qui che l’imparzialità mostra il suo valore. Non nel livellare le differenze, ma nel proteggere chi dalle differenze può essere schiacciato. Non nel produrre consenso, ma nel garantire la possibilità del dissenso. Non nel pacificare il conflitto, ma nell’impedire che il conflitto venga risolto a vantaggio di chi ha maggiori risorse e per questo può imporre il proprio punto di vista. In questo senso l’imparzialità altro non è che l’impegno a costruire istituzioni che rendano la giustizia indipendente dalla paura, dal bisogno, dal potere della maggioranza del momento. Franco Mussida: “La strada è viva, un inno all’amore” di Simona Buscaglia Corriere della Sera - La Lettura, 30 novembre 2025 Da quarant’anni impegnato nel volontariato, il chitarrista Franco Mussida, ha composto un brano che diverse comunità - da Kayròs al Progetto Arca fino a Scampia e a tre carceri - hanno interpretato insieme: “La musica ci offre equilibrio emotivo e ci fa rinunciare all’odio”. E infatti il titolo è “Love Street”. “A volte la musica arriva come un regalo, in modo diretto, senza sforzo. Quando capita, sai già di avere tra le mani qualcosa di prezioso che deve raggiungere il pubblico più ampio possibile. Questo brano è uno strumento per dare voce a chi, in questi tempi bui, prova a tenere una luce sempre accesa per chi vive la strada, per chi assiste chi è in difficoltà”. Franco Mussida, chitarrista e compositore, per quasi mezzo secolo membro della Premiata Forneria Marconi, fondatore del Cpm Music Institute di Milano (diventato Istituto di Alta formazione artistica e musicale), da circa 40 anni lavora nelle carceri e nelle comunità. Conosce bene lo smarrimento di chi ha avuto una vita poco gentile, di chi ha provato, con i mezzi a disposizione, a riempire un vuoto interiore, a volte incolmabile. Questo rende ancora più evidente l’importanza di chi invece apre una porta, tende una mano, accende una speranza. Da qui nasce Love Street. Gente che la vita... non si butta via, una canzone di Natale composta e scritta da Mussida, che contiene al suo interno le voci di molte realtà associative che hanno incrociato il suo cammino. Un lungo lavoro collettivo, un’opera creata da diverse registrazioni che diventano un solo racconto, una sola traccia finale realizzata con i ragazzi della comunità Kayròs di don Claudio Burgio, con gli operatori del Progetto Arca, con il coro Millecolori di Scampia, con chi partecipa ai laboratori musicali di ascolto emotivo consapevole nel carcere di San Vittore, insieme al coro dell’Associazione Amici della Nave, con gli atleti di Vero Volley, senza dimenticare gli studenti del Cpm che, oltre a operare con queste associazioni, è da sempre impegnato nell’uso terapeutico della musica, come nel Progetto CO2 (Controllare l’Odio), iniziativa che ha portato la musica all’interno di dodici istituti penitenziari italiani, tra cui San Vittore, Opera e Rebibbia. Il brano, che comincia con il contributo dei Layers, ensemble vocale interamente formato da studenti dei corsi accademici del Cpm, ruota intorno a un messaggio, che suona più come una rivelazione: “Lo sai che l’odio è nostalgia d’amore”, frase cantata nel ritornello. Gli interventi rap si alternano al canto a cappella, a un racconto cantato articolato e ai diversi cori, oltre a un assolo di chitarra eseguito da Mussida. Lo stimolo creativo è partito quest’estate, dalla partecipazione al corso di Formazione alla Spiritualità nella Musica e nella Danza “Zipoli”, la cui sesta edizione era dedicata alla capoeira brasiliana: “Chiedemmo a Franco una mano a livello musicale per poter realizzare la serata di opening e lui ha risposto scrivendo dei brani inediti”, racconta padre Eraldo Cacchione, della Rettoria Santa Maria della Speranza dei Gesuiti di Scampia, tra i promotori del coro interetnico di bambini e giovani, rom e napoletani, provenienti dalle zone più marginali del quartiere napoletano di Scampia. Che aggiunge: “L’aspetto più toccante per noi del Coro Millecolori è stata la richiesta di partecipare al canto e alla registrazione. Esperienza straordinaria per i nostri bimbi”. Quella danza brasiliana, e ciò che simboleggia, cioè la continua ricerca d’equilibrio tra amore e odio, ha ispirato il processo che ha portato alla realizzazione del brano: “La capoeira - spiega Mussida - è il simbolo di una lotta fisica che mantiene l’intenzione di aggredire l’avversario, ma che sceglie di fermarsi un attimo prima di colpirlo, di fargli del male. Volevo rimarcare il senso della lotta interiore che ci riguarda tutti; parlare dell’istinto a far morire e a far vivere. Raccontare dell’odio e dell’amore come parti integranti della vita. Offrire una visione laica, a-confessionale dell’amore come energia che costruisce futuro”. Da qui il passo successivo: “Pensavo al Natale e alle persone che si dedicano a portare conforto a chi vive la strada, a tutti questi anni di lavoro in carceri e comunità. Ho immaginato fosse la canzone giusta per rappresentare questo impegno. Per suonarla e cantarla non ho pensato a celebrità, ma a bravi musicisti, a gente intonata che canta per il piacere di farlo, a chi la strada l’ha provata e vissuta. Ho chiesto agli amici delle associazioni con cui collaboriamo. L’abbiamo fatta suonare e cantare agli studenti della Scuola, agli operatori delle associazioni, ai ragazzi che cercano aiuto per superare l’invisibile, doloroso diaframma emotivo-esistenziale che separa l’adolescenza dall’età adulta. Considero Love Street un regalo speciale: spero possa entrare nel cuore di tutti”. Quando si riferisce al brano, Mussida parla anche di “una carezza da mettersi in tasca”, soprattutto per chi sta attraversando un periodo difficile: “Il lavoro con i detenuti e con i ragazzi con problemi di tossicodipendenza continua a essere una fonte di ispirazione, mi fa capire come possiamo essere utili davvero. Oggi i giovani sono sempre più distanti: le droghe sono diventate, ancora più di prima, un ulteriore elemento d’isolamento, anche perché l’egoismo e la solitudine si sono amplificati. In questo mondo meccanico, sovrastimolante, si perde sempre più la libertà emotiva, la capacità di emozionarsi con autonoma sincerità per qualcosa che davvero ci interessa”. La musica diventa così un veicolo fondamentale per mantenere un legame con il proprio sentire, soprattutto per quei giovani attratti dalla violenza come via di fuga immediata dal dolore: “Ci dimentichiamo sempre - prosegue Mussida - che la musica è un’arte non verbale, è puro codice sonoro avulso da concetti legati alle lingue parlate, la manifestazione delle nostre intenzioni emotive. È attraverso la musica che si vivono i sentimenti nella loro totale purezza. Si tratta del più straordinario strumento per la comunicazione emotiva che l’uomo abbia mai creato, dietro al quale c’è un mistero meraviglioso che la rende un linguaggio universale. La disumanità che siamo costretti ad assimilare ogni giorno ha effetti negativi su di noi, sui ragazzi, e anche per questo il lavoro delle realtà coinvolte nel progetto è cruciale. Mai come adesso serve sviluppare la nostra intelligenza emotiva, dando ai ragazzi nuovi strumenti per coltivarla, la musica è tra questi. Non si può mettere un cappotto di piombo al nostro cuore, prima o poi si ribellerà con conseguenze negative”. La lavorazione del brano è stata vissuta con entusiasmo e stupore: “Da subito - sottolinea l’ex chitarrista della Pfm - non si sono più liberati del ritornello. Uno dei ragazzi di don Burgio a un certo punto è come se si fosse svegliato. Si è avvicinato e mi ha chiesto in studio: “Come si fa a scrivere una cosa così?”. Con quella domanda rivelava di aver colto la profondità del messaggio. Non si capacitava di come fosse possibile. Gli ho risposto: “Ho 78 anni, hai tanto tempo, potrai scrivere cose ancora più profonde”. A confermare l’importanza del percorso anche don Burgio: “Da anni i ragazzi della comunità Kayròs sono coinvolti in laboratori e progetti musicali perché abbiamo compreso che l’arte può contribuire in modo formidabile al loro cambiamento e alla loro capacità di comunicare. Siamo certi che i nostri adolescenti trarranno beneficio da questa esperienza immersiva fatta di ascolto e di cura, da questo progetto musicale e dal valore profondamente spirituale”. Sono stati chiamati a partecipare alle registrazioni audio video operatori e mediatori culturali di diverse nazionalità: siriani, afghani, egiziani, indiani, tutti rapiti dal ritornello. In alcuni momenti gli interpreti si sono sorpresi a cantare anche senza la base, per il gusto di cantare insieme: “Nutrirsi di musica - dice Alberto Sinigallia, presidente di Fondazione Progetto Arca - significa nutrirsi di bellezza, e per noi la bellezza è ciò che accende il cambiamento. Tutti noi del progetto Arca, soprattutto gli operatori che vivono la strada accogliendo migranti richiedenti asilo e persone senza fissa dimora, desideriamo ringraziare di cuore l’amico Mussida e il Cpm per averci coinvolti nel progetto Love Street e per il cammino condiviso con il progetto delle “Audioteche per il ristoro emotivo”, luoghi in cui la bellezza della musica diventa ascolto interiore, strumento di benessere e cura per le persone che accogliamo”. Il brano sarà accompagnato da un video, girato durante le registrazioni insieme alle diverse realtà che hanno partecipato attivamente al coro. Brano e video verranno pubblicati e presentati tra il 2 e il 4 dicembre. Per il fondatore del Cpm la canzone è un po’ una sintesi di quasi quarant’anni di lavoro e relazioni con le persone fragili: “L’amore lo associo a un concetto ampio. Lo ribadisco all’inizio del brano: “Non ha Paese, Stato, partito, religione”. Lo percepisco come un fiume che pervade tutto il vivente, la vita stessa. Sull’amore si appoggia tutto, a partire dai nostri sentimenti e desideri, l’essenziale che invita all’azione. È su questa essenzialità che agisce la musica, nutrendoci della medesima vibrazione vitale di cui siamo costituiti. I tanti anni di relazione con persone che vivono le loro fragilità mi hanno arricchito di un’energia che da sempre provo a restituire. La stessa che pervade il brano Love Street; quella che mi fa vedere il futuro della musica con la certezza di avere di fronte un’opportunità da non perdere. Quella di educare attraverso di lei l’intelligenza emotiva, e con questa conoscere per conoscersi sempre più a fondo”. Il senso di ansia e stress nelle famiglie di oggi: è la generazione impaurita di Paola D'Amico Corriere della Sera, 30 novembre 2025 La fotografia del ceto medio italiano, tante rinunce e solitudine. I dati raccolti nel libro “Il fragile domani”. Secondo gli studiosi manca progettualità. E il benessere è legato alle relazioni sociali. Sempre più piccole e frammentate, le famiglie del ceto medio nazionale vivono in un contesto di crescente incertezza. Impegnate a destreggiarsi in un percorso a ostacoli tra problemi economici e relazionali, confessano di sperimentare spesso ansia e stress. Tra queste troviamo genitori sopraffatti dalla cura di figli e anziani (la sandwich generation) anche se non vulnerabili come i single, i separati e i giovani adulti (che vivono ancora in famiglia e quando hanno un proprio reddito è molto basso). Un nuovo rapporto del Centro internazionale studi famiglia, “Il fragile domani-La famiglia alla prova della contemporaneità” (Ed. San Paolo, 270 pag, 18 euro), scatta una complessa istantanea di quella che il sociologo e direttore del Cisf Francesco Belletti definisce “una generazione impaurita”. In generale, aggiunge, “l’io speriamo che me la cavo è il sentire comune. Ma non si riesce a capire come uscirne”. Il volume, che parte dalla ricerca condotta da Eumetra su, tra le altre cose, stato di salute e aspettative per il futuro di un rappresentativo ed eterogeneo campione di 1.600 persone, cerca di capire come è possibile salvaguardare il benessere attraverso la dialettica con la società. Ma, nel frattempo, smonta l’idea della “resilienza” della famiglia italiana. “Il nostro lavoro nasce dall’idea di una crescente difficoltà relazionale-progettuale delle persone. Quasi un’onda lunga del Covid. Famiglie e giovani fanno fatica a pensare a un futuro possibile, a mettersi in gioco. Per una precarietà reale ma anche per una situazione di ansia diffusa. Prevale l’incertezza - continua Belletti - e due guerre hanno rinforzato questa sensazione di futuro incerto, ingovernabile”. Più della metà del campione è convinto che a livello mondiale la situazione peggiorerà e anche nel nostro Paese. Appena il 10% pensa che il futuro sarà più roseo per la propria famiglia. Il fragile domani, capitolo per capitolo, affronta specifiche dimensioni dell’esperienza quotidiana: dalle relazioni familiari al mondo digitale, dalle condizioni socioeconomiche alla modalità di uso dei servizi educativi, sociali e sanitari, mettendone in luce punti di forza e debolezza, fattori di rischio e opportunità. Ed evidenzia l’urgenza, continua Belletti, “di riaccompagnare le persone a trovare il coraggio di progettare e pensare a un futuro possibile. È l’idea incerta del domani che ha avvelenato l’oggi”. Le difficoltà economiche del ceto medio sono oggettive: nel 2024 le famiglie hanno tagliato molte spese, a cominciare da quelle per il benessere personale o il tempo libero (32,5% dei casi), per la casa (32,4%), le cure sanitarie (18,5%), le vacanze già preventivate (16,9%) e, allo stesso tempo, hanno fatto il possibile per non limitare la spesa necessaria per le attività dei figli (4,1%), o non rispettare la rata di mutuo o affitto (2,9%). Un quinto degli intervistati, in particolare il 78% di quelli che vivono soli, di ogni età, e poi il 60,4% tra i giovani adulti si sente vulnerabile. Le coppie più anziane sono invece quelle con più difese. Infine, i nuclei monogenitoriali sono meno esposti alla solitudine, forse, è l’ipotesi, perché “sono stati capaci di farsi aiutare da aiuti informali e formali, per esempio dopo separazioni e divorzi”. Dall’indagine emerge anche che “c’è consapevolezza della propria vulnerabilità, c’è una crescente domanda per esempio dello psicologo, ma i servizi sono sovraffollati, ci sono liste d’attesa di mesi. La capacità di risposta dei servizi è inadeguata”. Lo studio intercetta moltissimi ambiti di vita personale e familiare. “Ci siamo chiesti come si può riaccompagnare le persone a trovare il coraggio di progettare e pensare a un futuro possibile. L’ipotesi di partenza - insiste il sociologo - è che il benessere di ciascuno di noi trova alimento (ma anche minacce) nelle relazioni familiari e nel contesto sociale. E questo dipende da quante relazioni ha la persona, da quanto sono solide e aiutano”. La felicità - Già il World Happiness Report 2025 ha rilevato come “gli indicatori di felicità crescano al crescere delle relazioni qualificate e dell’orientamento pro-sociale - spiega Sara Nanetti, sociologa, ricercatrice - e solidaristico che riescono a fronteggiare le emergenze della solitudine, come le dipendenze, i suicidi. Producono benessere sia per l’individuo sia per l’intera società. E nel rapporto si è vista la ricorrenza di questo schema. La felicità dipende in sostanza dalla capacità di cura e condivisione. La qualità delle relazioni familiari, fiducia, cooperazione, reciprocità, migliora la tenuta del senso di appartenenza al contesto nel quale il soggetto vive. Hanno un peso enorme, incidono persino sul senso di sicurezza nella città in cui vivo fino alla dimensione più intima, quella del buonumore”. Ad avere il ruolo di “Cenerentola” è il tema del “senso della vita, su cui si interrogano i giovani”. Epidemia di femminicidi. Ma chi educa i figli? di Marina Corradi Avvenire, 30 novembre 2025 Educazione, certo, bisogna educare i giovani. Mi domando chi, però: una scuola in crisi, o famiglie dove a fatica ci si ritrova all’ora di cena, lo smartphone acceso accanto al tovagliolo? Una legge che distingua il femminicidio dall’omicidio. Pochi anni fa lo avrei trovato illogico - la vita di un uomo o di una donna vale uguale. Ma come tutti sono sbalordita dalla quantità di mogli e fidanzate uccise, quasi una ogni tre giorni. Un’epidemia di mirata ferocia. Vent’anni fa, le statistiche degli omicidi del Ministero dell’Interno riportavano principalmente uomini, come vittime, e sempre nell’ambito di regolamenti malavitosi. Le donne uccise per motivi passionali erano rare. E certo, pene più severe, braccialetti elettronici, denunce immediate. Ma non ci sarà mai una Volante abbastanza vicina ad ogni casa italiana, quando la violenza esonda. E io non so quale soluzione si possa trovare, a questa che sembra una mutazione sociologica. Qualcosa che non abbiamo ancora capito né studiato. Ma ne varrebbe la pena. Indagare sul “prima”, su quali parole e contrasti corrono nelle case dove, poi, corrono le sirene. Ci viene detto che l’uomo uccide quando viene abbandonato. Plausibile. I nostri padri erano una generazione che non veniva abbandonata mai. Non c’era il divorzio, le donne non avevano un lavoro. E restavano sempre. La mia generazione in buona parte già lavorava. Le coetanee di mia figlia lavorano tutte. Spesso maternità e matrimonio non sono nel loro orizzonte, almeno fino ai 30 anni. Si fidanzano, convivono, poi, se non va, abbandonano. Gli uomini sembrano rimasti alla forma mentis dei padri: la tua donna non se ne può andare. E alcuni proprio non lo tollerano: uccidono, e poi si tolgono la vita. Come se la storia e la società avessero subito dal ‘900 una brusca accelerazione, e i sentimenti degli uomini no. I sentimenti interiori sono lunghi, a cambiare. Educazione, certo, bisogna educare i giovani. Mi domando chi, però: una scuola in crisi, o famiglie dove a fatica ci si ritrova all’ora di cena, lo smartphone acceso accanto al tovagliolo? Quarant’anni fa ho iniziato a lavorare, poi ho avuto tre figli. È stata davvero dura, nonostante dei preziosi nonni. Come madre mi sentivo sempre colpevole. Sapevo bene che, certi giorni, avrei dovuto essere a casa. Oggi quasi tutte le giovani madri che lavorano vivono questa divisione, che è anche emotivamente molto faticosa. Bisogna aiutarle davvero, con part time autentici e garantiti, o con assegni qualora, controcorrente, vogliano stare con i figli. Se di figli ne vogliamo ancora. Se vogliamo educarli ancora. Perché una madre che sia a casa quando i figli tornano da scuola è ormai il più grande dei lussi. Qualcuno che li aspetti, che li guardi negli occhi, che giochi con loro. Certo, anche un padre va bene, ma non è esattamente la stessa cosa. Padre e madre non erano mai stati la stessa cosa, e per me non lo sono ancora. Penso alla certezza che avevo io di trovare mia madre davanti a scuola, e a questi ragazzi che tornano in pullmino, aprono con le loro chiavi, guardano lo smartphone, accendono la tv. Perché la casa è così maledettamente silenziosa. Jerry Masslo e la strage di Castel Volturno: un viaggio nella memoria migrante di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2025 Fuggito dall’apartheid in Sudafrica, Jerry dormiva con altri 28 migranti in un capannone. Aveva denunciato le condizioni di sfruttamento. Quattro persone fecero irruzione con armi e spranghe. Il treno regionale con provenienza Napoli Centrale e diretto a Roma Termini arriva puntuale nella stazione di Villa Literno. Non ricordavo che, il 25 agosto del 1989, in questa cittadina fu ucciso Jerry Essan Masslo, richiedente asilo e raccoglitore di pomodori. La sera prima Jerry, fuggito dall’aparteid in Sudafrica, dormiva con altri 28 migranti in un capannone. Aveva denunciato le condizioni di sfruttamento di cui erano oggetto i lavoratori migranti della zona. Un gruppo di quattro persone, coi volti coperti, fece irruzione con armi e spranghe esigendo i salari che erano stati distribuiti. Il rifiuto di sottostare alla domanda gli costò la vita. Poco dopo l’assassinio ebbe luogo a Roma la prima grande manifestazione antirazzista in Italia con la partecipazione di circa 200 mila persone. Per Jerry furono tributati i funerali di Stato perché più volte era stato uccisa la sua dignità. A Castel Volturno, ospite per qualche giorno dei compagni di viaggio missionari comboniani, fu il 18 settembre del 2008 che vennero attaccati e uccisi sei migranti e ferito gravemente un settimo. Tutti di origine dell’Africa subsahariana e in particolare del Ghana, componevano la ricca varietà di migranti che caratterizza a tutt’oggi il paesaggio del tutto particolare di Castel Volturno. Il giorno dopo il massacro circa duecento migranti organizzano un corteo di solidarietà e bloccano per alcune ore la via Domiziana. Le indagini, facilitate dalla testimonianza dell’unico superstite, condussero all’arresto, al processo e, per la prima volta nel Paese, ad una condanna definitiva per una strage di camorra che riconosce l’aggravante di razzismo. Nel luogo stesso della sparatoria si trova come monumento due semplici ferri intrecciati a simbolo delle storie migranti che si ‘incrociano’ ancora oggi. Sono otto le zone nelle quali è stato suddiviso Castel Volturno e colpisce, allo sguardo del viaggiatore di pochi giorni, la straordinaria differenza tra di esse. La parte turistica, abbiente e caratterizzata da molto cemento in poco spazio a quelle dove il degrado ambientale facilita anche quello umano. Centinaia di case abbandonate, fatiscenti, vuote o abitate, saltuariamente o con regolarità, da migranti, richiedenti asilo o stranieri senza un’identità affermata. Alcune case sono chiamate ‘connection houses’ e diventano luoghi di incontro, scambio, convivialità e piacere prezzolato per chi cerca di ricostruire il pezzo d’Africa abbandonato per cercare fortuna altrove. C’è la violenza dello sfruttamento, l’economia sommersa del lavoro sottopagato e la mano non troppo invisibile della camorra. In alcune strade di periferia si possono osservare signore offerte come mercanzia per clienti occasionali. Non ricordavo affatto che la grande Miriam Makeba, militante e cantante originaria del Suadafrica era morta proprio a Castel Volturno. Ormai provata da un salute malferma si dedicò a un giro mondiale di addio allo spettacolo, cantando in tutti i Paesi che aveva visitato nella sua lunga carriera. Makeba morì la notte del 9 novembre del 2008, lo stesso anno e luogo dove erano stati uccisi i migranti di cui sopra. Fu a causa di una crisi cardiaca presso la clinica Pineta Grande di Castel Volturno durante il concerto che aveva confermato malgrado i forti dolori al petto che l’avevano accompagnata. Nel luogo del decesso è stata posta una targa metallica col suo nome e il titolo col quale era conosciuta e amata. Mama Africa e Miraiam Makeba si confondono nello stesso volto con la forma dell’Africa che arriva per tentare di liberare il continente che l’ha resa schiava. Intanto si informano i signori viaggiatori che l’Intercity arriverà in ritardo a destinazione. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia Droghe. Le “stanze del consumo” funzionano: la Francia le rinnova, l’Italia non le considera di Francesco Paolo Savatteri Il Domani, 30 novembre 2025 Il Parlamento francese vuole tenere aperte le uniche due sale di consumazione del Paese, perché i risultati sono positivi: meno overdose e meno costi sanitari. In Italia l’unico luogo che ci si avvicinava è stato chiuso. “Alcune mattine nella stazione di Gare du Nord si potevano trovare cinquanta persone che si iniettavano droghe direttamente sul suolo, in condizioni deplorevoli e sotto lo sguardo di tutti. Oggi questa cosa non c’è più, è scomparsa quasi del tutto”. Jamel Lazic riassume così l’efficacia della “stanza del consumo” di Parigi, un luogo in cui le persone con tossicodipendenze possono consumare droghe in sicurezza, sotto la supervisione di personale specializzato. In questo modo si cercano di evitare overdose, infezioni e altre complicazioni che possono insorgere più facilmente quando si consuma per strada. Lazic è il capo servizio dell'area dipendenze dell'associazione Gaïa, che gestisce la struttura, e lavora da una quindicina d’anni nel campo della riduzione del danno (un insieme di strategie che mira alla diminuzione delle conseguenze negative del consumo di sostanze). In tutta la Francia ci sono solo due stanze del consumo: una a Parigi e una a Strasburgo. Fanno parte di un progetto sperimentale, nato nel 2016 e dalla durata limitata. Dopo essere stato rinnovato già una volta nel 2022, l’esperimento si sarebbe dovuto concludere a fine 2025. Con ogni probabilità, però, il progetto sarà prolungato per altri due anni. L’8 novembre l’Assemblea Nazionale (l’equivalente francese della Camera dei deputati) ha approvato un emendamento alla legge di finanziamento della sicurezza sociale - una sorta di legge di bilancio che riguarda solo le spese della previdenza sociale - che permetterebbe alle stanze del consumo di proseguire le proprie attività fino alla fine del 2027. La conferma definitiva arriverà con l’approvazione della legge, che in questo momento è al centro dei dibattiti parlamentari francesi. Alla stanza del consumo di Parigi si accede da uno stretto cancello di metallo grigio scuro, a un angolo del grande complesso di palazzi che compongono l’ospedale Lariboisière, nel decimo arrondissement. Si trova accanto alla Gare du Nord, una delle principali stazioni di Parigi, e confina con la zona della Goutte d’Or, che fa parte dei quartieri “prioritari” - cioè ad alto rischio di esclusione sociale - individuati dall’amministrazione cittadina. “Abbiamo 350 ingressi quotidiani”, racconta Lazic. “La maggior parte delle persone viene tutti i giorni o anche più volte al giorno. Abbiamo circa 800 persone diverse all'anno. Siamo aperti sette giorni su sette, dalle 9:30 alle 20:30”. Il servizio di accoglienza proposto dalla sala è anonimo e gratuito. “Una persona che vuole venire nei nostri locali deve registrarsi. Può scegliere uno pseudonimo e una data di nascita. Poi si fa un colloquio: ricostruiamo il suo percorso di consumo, la sua situazione sociale e di salute”, spiega. “All'ingresso valutiamo se il loro stato è compatibile con ciò che vogliono consumare. Qualcuno troppo stanco, troppo sedato, troppo alcolizzato cerchiamo di farlo desistere, perché l'obiettivo è evitare che ci siano overdose”. Nella struttura, oltre al personale sanitario operano anche altre figure, come i servizi sociali, che possono aiutare i consumatori a trovare un alloggio. I risultati dell’esperimento sono positivi. “Una valutazione dell'Inserm (l'istituto nazionale francese per la ricerca sulla medicina, ndr) nel 2021 ha mostrato una diminuzione delle overdose, un miglior accesso alle cure e soprattutto minori costi per il sistema sanitario, in particolare grazie a un minor numero di passaggi al pronto soccorso”, sottolinea Lazic. La situazione in Italia - Si tratta di un modello molto sviluppato in alcuni Paesi europei. In Germania ci sono 34 sale di consumo. In Spagna, 15 solo nella città di Barcellona. In Italia invece questi luoghi non esistono, come spiegano Pino Di Pino, presidente della rete Italiana riduzione del danno (Itardd), e Emanuele Perrone, psicologo e membro del direttivo della stessa realtà. “C’era la “stanzetta di Collegno”, vicino Torino. Era la cosa più simile a una stanza del consumo in Italia, ma è stata chiusa poco dopo la pandemia”, dice Di Pino. “Per il resto ci sono i drop-in (luoghi in cui le persone con tossicodipendenze possono riposarsi e accedere a servizi di cura, ndr), le unità di strada e gli infopoint”, sottolinea. Questi servizi non sono però omogenei sul territorio nazionale. “Alcune regioni hanno servizi nelle Asl, altre sono quasi del tutto scoperte, con una rarefazione da nord a sud”. Il governo si è ripetutamente espresso negativamente su questo tipo di interventi. “Nella prefazione della relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia del 2024, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri Alfredo Mantovano ha definito gli interventi di riduzione del danno come “rinunciatari”, sottolinea Di Pino. “Secondo noi l’approccio del governo è fallimentare perché riduce tutto al problema della dipendenza individuale e ignora gli elementi strutturali, economici, sociali e geopolitici. Non si affronta davvero la questione nel suo complesso”, insiste Perrone. Stati Uniti. Siamo stati In Louisiana, nell'hub “logistico” dove si deportano gli immigrati di Elena Molinari Avvenire, 30 novembre 2025 L’aeroporto internazionale di Alexandria, nel cuore della Louisiana, è un piccolo scalo regionale con una manciata di voli di linea ogni giorno, senza mai file alla sicurezza né folle agli arrivi. A poche centinaia di metri dai gate, però, l’atmosfera rilassata cambia radicalmente. Su una pista separata, più sorvegliata, atterrano e ripartono in continuazione gli aerei dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice), il braccio dell’apparato federale d’immigrazione degli Stati Uniti. E accanto al terminal sorge l’Alexandria staging facility, un centro di detenzione da circa 400 posti letto: 7000 metri quadri di stanze senza finestre, pensate per soste brevi. Qui i detenuti vengono identificati, “smistati” e trasferiti verso altri centri o direttamente sui voli di rimpatrio. È da questo aeroporto che, lo scorso marzo, è passato Badar Khan Suri, ricercatore indiano con visto per la Georgetown University sul quale pesavano soprattutto l’attività sui social della moglie, palestinese americana critica nei confronti di Israele, e la storia della sua famiglia a Gaza. I risvolti politici della sua vicenda hanno attirato l’attenzione dei media e, dopo 54 giorni, un giudice ne ha ordinato il rilascio. Sempre qui ha transitato, nei giorni scorsi, Bruna Caroline Ferreira, che ha legami familiari con la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, e alla quale gli avvocati hanno promesso un rapido rilascio. Ma la maggior parte delle persone che arrivano ad Alexandria non ha la stessa visibilità. Proprio grazie alla zona d’ombra in cui opera, infatti, negli ultimi mesi lo scalo è diventato lo snodo centrale della macchina delle deportazioni statunitense. Secondo il gruppo Witness at the Border, più di 31.000 persone sono passate dall’Alexandria staging facility dall’inizio della seconda Amministrazione Trump. E mentre i voli di deportazione dell'Ice raggiungevano, a giugno, il livello più alto degli ultimi cinque anni, Alexandria saliva al primo posto tra i centri di espulsione più trafficati della nazione. Nel raggio di 150 chilometri ci sono almeno otto altri centri di detenzione per migranti che possono ospitare fino a 7000 persone. Il risultato è che la Louisiana è lo Stato con più detenuti in custodia Ice e la principale cerniera tra arresti e deportazioni. La scelta non è casuale. La Louisiana ha da decenni il più alto tasso di carcerazione pro capite negli Usa. Diversamente da altri Stati, una parte consistente dei detenuti statali è rinchiusa in carceri gestite a livello locale che negli anni Duemila sono state affidate ad aziende private, tra cui Geo Group e LaSalle Corrections. Quando, nel 2017, il governatore democratico John Bel Edwards ha avviato una riduzione della popolazione carceraria, migliaia di posti sono rimasti vuoti, proprio mentre l’Ice cercava nuovi letti. Le carceri rurali della Louisiana si sono rivelate una soluzione immediata che ha portato contratti federali più redditizi. In pochi anni i posti disponibili per detenuti Ice sono più che triplicati senza bisogno di investimenti edilizi. La logica economica ha fatto il resto: terreni a basso prezzo, salari inferiori alla media nazionale e un costo giornaliero per detenuto stimato a circa un terzo rispetto ad altri Stati. Anche sul piano giudiziario il quadro è favorevole a Ice: la Corte d’appello federale con sede a New Orleans è considerata tra le più rigide in materia di immigrazione, e la classe politica locale - oggi interamente repubblicana ai vertici - non ha opposto resistenze. Le cittadine rurali attorno ad Alexandria, dove questi centri hanno preso il posto delle vecchie industrie, sono diventate note come “detention alley”, un corridoio di vecchie carceri riconvertite dove la presenza dei detenuti cresce a ritmo vertiginoso. Richwood, per esempio, era una comunità agricola in declino. Il carcere locale, oggi gestito da LaSalle Corrections per conto di Ice, è diventato la principale fonte di entrate della cittadina: i contributi annuali pagati dall’azienda sono saliti a quasi mezzo milione di dollari, in un bilancio cittadino di 1,7 milioni. Il sindaco sottolinea i benefici del sistema: più agenti assunti, nuove auto di pattuglia, servizi ampliati. Anche a Winnfield, cittadina del nord dello Stato circondata da foreste e un tempo legata al legname, il centro di detenzione ha portato posti di lavoro e nuove entrate pubbliche. Dentro i centri, però, il quadro cambia. A Richwood quasi 1.200 persone dormono in letti a castello doppi o tripli, così vicini da lasciare poco spazio per muoversi; le luci si spengono a mezzanotte e si riaccendono dopo quattro ore, con guardie che urlano per far alzare tutti. Tra loro ci sono giovani donne, madri, anziane, alcune incinte. Molti lavorano per un dollaro a turno nelle pulizie o in cucina. Rapporti federali hanno segnalato problemi di igiene, carenze sanitarie, ricorso estensivo all’isolamento. I centri sono spesso lontani dalle grandi città, fatto che rende gli incontri con avvocati e familiari difficili e costosi. Per molti l’unica alternativa è la “partenza volontaria”: temendo mesi di detenzione, preferiscono accettare il rimpatrio per poter tentare, un giorno, un rientro regolare, soprattutto quando si tratta di persone che vivevano negli Usa da anni, non hanno precedenti penali, e non godono di assistenza legale. La Casa Bianca rivendica l’efficienza come obiettivo. Il direttore Ice Todd Lyons ha dichiarato che l’agenzia deve funzionare come un colosso logistico “alla Amazon o FedEx, ma con esseri umani”, assicurando deportazioni rapide e sicure. Per conseguire quel risultato, una legge federale di luglio ha stanziato 45 miliardi di dollari per nuove strutture Ice e per l’espansione di quelle esistenti. Geo Group e CoreCivic hanno già annunciato migliaia di nuovi letti ricavati riaprendo carceri inattive o riconvertendo edifici, sul modello della Louisiana. Il ritmo dello sviluppo è tale che le associazioni umanitarie e il mondo cattolico faticano a portare assistenza in tutti i centri. Mercoledì scorso, ad esempio, un’organizzazione non profit e alcuni membri del clero cattolico hanno intentato una causa contro la Casa Bianca, accusando Ice di aver impedito illegalmente la presenza pastorale in un centro di detenzione vicino a Chicago. Anche in Louisiana la macchina che combina deportazioni e profitto è già entrata in collisione con la rete di avvocati, volontari, parrocchie e religiosi che tentano di tenere aperto uno spazio di presenza umana nell’hub delle deportazioni. Intanto i vescovi cattolici Usa hanno approvato una dichiarazione critica verso la campagna di deportazioni, sottolineando le ricadute familiari, l’assenza di proporzionalità e il rischio di violazioni della dignità umana. Il testo richiama l’appello di papa Leone XIV a guardare ai migranti come a persone vulnerabili. Ma il terreno da tutelare continua ad allargarsi: l’esercito americano ha in programma di allestire un centro di detenzione gigantesco, da 5.000 posti letto, a El Paso, in Texas, con accesso all’aeroporto della base di Fort Bliss.