Carceri, giustizia e dintorni di Giuseppe Augieri nuovogiornalenazionale.com, 2 novembre 2025 Apriamo un varco: Una proposta di legge (cd legge “Sciascia-Tortora”) è stata avviata da un consistente numero di parlamentari bipartisan. Solo il Movimento 5 Stelle risulta assente. Si tratta di 2 soli articoli. L’articolo 1 stabilisce che l’attività formativa obbligatoria, preliminare e successiva al concorso per magistrato ordinario, debba riguardare anche la materia del diritto penitenziario e la letteratura dedicata al ruolo della giustizia quale strumento di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità umana e del rispetto reciproco tra persone, nonché alle distorsioni dei princìpi dello Stato di diritto che possono derivare dalle deviazioni del sistema giudiziario. L’articolo 2 dispone che i magistrati ordinari in tirocinio svolgano un periodo di quindici giorni di esperienza formativa in carcere, anche approfondendo le tecniche di mediazione dei conflitti e le esperienze relative a casi di concessione di misure alternative alla detenzione. Dal lavoro di Sciascia e dall’esperienza della Scuola della magistratura francese a Bordeaux nasce l’idea che i Magistrati abbiano una cultura “umanitaria” e sappiano, con esperienza diretta, cosa significhi limitazione della libertà personale, vita in comune obbligata, dignità calpestata. Far entrare i futuri giudici e pubblici ministeri in carcere non serve a commuoverli, ma a istruirli. Perché solo conoscendo davvero la realtà della pena si può giudicare con equilibrio, ricordando che ogni decisione incide sulla vita di una persona, e non su un fascicolo. Ma soprattutto serve per ricordare l’articolo 27 della Costituzione che parla di funzione rieducativa della pena e stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità: ed oggi le condizioni che portarono alla condanna della Corte internazionale all’Italia per “trattamento inumano” sono sempre lì. Non è un esercizio di retorica, ma una bussola preziosa per orientare l’azione dello Stato. La magistratura è un organo di garanzia: garante dei diritti, ma anche delle libertà, della dignità umana. Un magistrato che abbia dormito una notte in una cella di tre metri per due, pur se privilegiato perché senza “scomoda” compagnia, forse non diventerà più indulgente, ma di certo sarà più consapevole. E la consapevolezza, in uno Stato di diritto, è un atto di giustizia preventiva. L’intero impianto della proposta di legge sembra un paradosso e non lo è. Se, al di là dei numeri del sovraffollamento, inumani, si leggono i casi di suicidio in cella, un allarme di umanità dovrebbe suonare. 294 suicidi in 4 anni, 46 nei primi 7 mesi di quest’anno. Non è solo un problema di scarsità di celle: c’è ben altro e riguarda dignità calpestate, ingiustizie subite. Il numero delle sentenze di carcerazione preventiva e per reati che si sono rivelati poi del tutto inesistenti è bene conoscerlo. Ogni giorno, tutti i giorni, due innocenti finiscono ingiustamente in carcere per negligenza dell’apparato investigativo e giudiziario e soffrono senza motivo; quadro ancora più fosco per le persone condannate ingiustamente e sottoposte a una detenzione non meritata. E per chi, dopo anni e anni di processo, ottiene una assoluzione che però non gli restituirà mai la serenità persa e l’onore violato. Sono circa 1.000 all’anno. Tutto questo non può essere solo materia di polemica sugli “errori” dei giudici, ma di riflessione sulla necessità di carcerazione nei tanti casi dubbi e nelle quali la coercizione della libertà non è strettamente necessaria. Anche se “accontenta la voce del popolo”. Di converso è bene ricordare i casi nei quali l’aver concesso pene alternative, libertà condizionali o permessi premio ha trasformato questi provvedimenti in occasioni per delinquere ed anche con reati gravissimi. Le donne possono testimoniarlo. In margine alle polemiche sulla separazione delle carriere e preparando il relativo quesito referendario, come è giusto che sia e non solo perché lo prevede la Costituzione, un ragionamento sulla preparazione non solo giuridica ma umana del giudice può essere la strada, forse indiretta, ma a mio parere efficace, perché ci sia una riflessione anche sull’istinto “forcaiolo” che la nostra società sembra esprimere in molte sue componenti. E sulla risposta che il giudice ad esso da. Senza strumentalizzazioni, affiancarlo al dibattito sulla terzietà del giudice che emette sentenze e sul ruolo del giudice requirente mi sembra più che opportuno. Detenuti, “Sopravvivono in condizioni disumane e degradanti”: 6mila condanne solo nel 2024 La Repubblica, 2 novembre 2025 L’Associazione Antigone lancia una nuova campagna e una petizione per riportare la detenzione dentro i confini della Costituzione. Il tasso di sovraffollamento nelle carceri italiane ha superato il 135% – si legge in una nota diffusa da Antigone – con oltre 63.000 persone detenute per meno di 47.000 posti realmente disponibili. In un solo anno la popolazione detenuta è cresciuta di 1.336 unità. È una situazione che la stessa magistratura di sorveglianza riconosce come inumana e degradante, condannando sistematicamente l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). 5.837 denunce di trattamenti inumani. Solo nel 2024 gli Uffici di Sorveglianza hanno accolto 5.837 reclami per trattamenti inumani o degradanti: il 23,4% in più rispetto all’anno precedente. È un dato che supera persino i numeri della condanna europea del 2013, la sentenza Torreggiani, quando poco più di quattromila ricorsi portarono la Corte di Strasburgo a sanzionare l’Italia e a imporre riforme strutturali. Ogni condanna per trattamenti inumani è un richiamo alla legalità costituzionale. “Oggi assistiamo a quelle stesse violazioni, e in misura ancora maggiore, ma nella generale indifferenza – dice Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - guai se a condannarci è l’Europa, poco male se a farlo sono i nostri stessi giudici. Eppure, ogni condanna per trattamenti inumani è un richiamo alla nostra legalità costituzionale, che dovrebbe essere il primo fondamento del sistema penitenziario”. La nuova Campagna di Antigone. Da questa constatazione nasce la nuova campagna di Antigone, “Inumane e degradanti. Il carcere italiano è fuori dalla legalità costituzionale”, accompagnata da una petizione pubblica rivolta al Parlamento e al Governo, disponibile a questo link: https://www.antigone.it/iniziative/3611-il-carcere-italiano-e-fuori-dalla-legalita-costituzionale Oltre il referendum c’è di più. Le derive del diritto penale in Italia di Giovanni Maria Flick Il Foglio, 2 novembre 2025 L’approccio del governo ai temi della politica criminale, dell’ordine pubblico e della sicurezza preoccupa: proliferano nuove fattispecie di reato e aggravanti che contribuiscono a sfigurare l’equilibrio del codice penale. E la magistratura non è esente da critiche. Populismi giudiziari da arginare. Il confronto/scontro fra politica e magistratura sulla riforma costituzionale “della separazione delle carriere” è ormai deflagrato. Con la costituzione dei comitati per il Sì e per il No si rischia che qualsiasi intervento sul tema venga “etichettato” per l’una o per l’altra parte. La magistratura lamenta che la riforma potrà costituire il primo passo verso l’assoggettamento del pubblico ministero al governo. La politica e l’avvocatura ritengono la riforma fondamentale per risolvere le patologie dell’iniziativa giudiziaria e scardinare il rapporto ritenuto “incestuoso” fra giudicante e requirente. La mia esperienza istituzionale e professionale non giustifica una presa di posizione “elettorale” per l’una o per l’altra parte; essa mi permette però di esprimere alcune preoccupazioni. Le ragioni dello scontro sono in sostanza imputabili in eguale misura alla politica e alla magistratura. La politica non interviene concretamente su problematiche giudiziarie fondamentali della collettività e su temi divisivi. Assume però un approccio contraddittorio, perché - non solo con l’attuale maggioranza - ricorre ai proclami sulla necessità di “riformare la giustizia” e allo strumento penale per convincere l’elettorato di “aver fatto qualcosa”. L’approccio del Governo ai temi della politica criminale, dell’ordine pubblico e della sicurezza preoccupa: proliferano nuove fattispecie di reato e nuove aggravanti che contribuiscono a sfigurare l’equilibrio del codice penale. La magistratura non è esente da critiche. Dopo Tangentopoli ha interpretato il proprio ruolo come una sorta di controcanto alle patologie della politica, superando i contrasti interni. Sotto la patina dell’orgoglio esteriorizzato con il richiamo a figure di prestigio ha coltivato la frantumazione correntizia, che troppo spesso si è trasformata in autoreferenzialità e in protagonismo. La magistratura in parte si è illusa di prendere il posto della politica, nel momento in cui ha smesso di esaminare le responsabilità di fatti e persone ed è passata all’esame dei fenomeni. Nella situazione attuale di campagna elettorale permanente ogni questione viene riportata al confronto/scontro fra politica e magistratura. È stato così ad esempio per la declaratoria di inammissibilità da parte della Cassazione di un ricorso proposto dalla Procura Generale di Palermo avverso il rigetto della richiesta di confisca di prevenzione nei confronti di un noto esponente politico, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda ha avuto particolare eco mediatica nonostante non siano state ancora depositate le motivazioni da parte della Suprema Corte. Si sono confusi però piani completamente diversi (la responsabilità penale per concorso esterno in associazione mafiosa; la “pericolosità sociale” e la legittima provenienza di trasferimenti in danaro ricevuti in epoca successiva alla condanna). Tutto ciò rischia di allontanare politica, avvocatura, magistratura e l’opinione pubblica dai veri problemi. Il processo penale sta perdendo appeal in favore del ricorso alle misure di prevenzione e in particolare alla c.d. “prevenzione mite”. La Corte costituzionale e la Corte E.D.U. riconoscono nella prevenzione patrimoniale una funzione ripristinatoria: colpire il c.d. “arricchimento illecito” da parte di soggetti “socialmente pericolosi”, condannati o meno per determinati reati. In realtà la prevenzione patrimoniale sembra un utile strumento alternativo per supplire alle difficoltà di accertamento e alle lungaggini del processo penale. La “prevenzione mite” si concretizza nell’amministrazione giudiziaria quando l’impresa “agevola” indirettamente la verificazione di fatti illeciti al di fuori di essa. L’impresa committente concorda con il pubblico ministero le modalità per ripristinare la “salubrità” del contesto aziendale, al fine di evitare l’intervento dell’amministratore giudiziario. Si tratta di una negozialità non prevista dalla legge, rimessa all’interpretazione creativa di taluni uffici di Procura che sembra convenire all’impresa dal punto di vista reputazionale ed economico. Recentemente una nota impresa ha rifiutato di “scendere a compromessi” rivendicando il rispetto della legalità e invitando anche la politica ad intervenire a tutela del Made in Italy. Senza scendere nel merito, la vicenda è emblematica di quali possano essere le conseguenze di un’applicazione creativa della legge per colpire fenomeni sociali anziché accertare fatti concreti. L’etica di impresa è assicurabile attraverso l’iniziativa giudiziaria in assenza di specifici obblighi di legge? Si rischia di promuovere una “moralizzazione d’impresa in balìa della discrezionalità. Anche la responsabilità penale “classica” è in crisi nell’odierno diritto penale d’impresa. La colpa generica si sostituisce a quella specifica; la responsabilità si spersonalizza; si registra la confusione fra responsabilità “collegiale” dell’impresa e responsabilità penale del singolo. La logica della prevenzione e dello svuotamento dell’accertamento nel fatto di tutti gli elementi costitutivi del reato sembra aver colpito anche il processo penale. Il dolo e la colpa non vengono accertate in modo rigoroso; spesso il problema si supera con argomentazioni legate al profilo del nesso di causalità. Se dalla condotta umana deriva un certo risultato, nell’ambito dell’impresa esso poteva essere quantomeno prevedibile. Insomma: l’imprenditore “non poteva non sapere”, “non poteva non aspettarselo”. Il rischio è che il problema della responsabilità possa esasperarsi con l’evoluzione del diritto penale dello “sviluppo sostenibile” e l’irrompere della tecnologia dell’intelligenza artificiale nel contesto delle condotte umane. La recente l. n. 132-2025 delega il governo alla introduzione di autonome fattispecie di reato per il mancato controllo dei sistemi di intelligenza artificiale, in taluni casi; lo delega inoltre su questo aspetto a “precisare” la responsabilità penale del singolo e dell’ente collettivo. Anche qui sembra riproporsi il rischio di uno svuotamento delle categorie classiche del diritto penale, in favore di forme precauzionali e prevenzionali. Se questa è la tendenza, si rischia di trasformare il diritto penale del fatto in diritto penale del rischio; di favorire sempre di più l’intervento del giudice penale grazie alla previsione di reati di pericolo e alla valorizzazione della precauzione in luogo della repressione. Questo rischio non potrà essere evitato né dal Sì né dal No ad una riforma costituzionale che riguarda l’ordinamento giudiziario. Spero invece che avvocatura e magistratura possano tornare a confrontarsi per ragionare su queste criticità latenti del sistema, che rischiano di esasperarsi con l’ingresso delle nuove tecnologie nel processo e nell’accertamento delle responsabilità. Referendum sulla Giustizia, si accende lo scontro governo-toghe. Il Colle sempre neutrale di Giovanna Vitale La Repubblica, 2 novembre 2025 Il Pd: già agitano la clava della responsabilità civile per piegare i giudici. L’auspicio che nessuno tiri per la giacchetta il capo dello Stato. Infiammare lo scontro, additare le toghe come nemico pubblico numero uno, utilizzare le tv amiche per convincere i cittadini che la riforma Meloni-Nordio non è solo giusta, ma necessaria. L’affondo di Alfredo Mantovano, ospite l’altra sera della striscia quotidiana di Bruno Vespa su RaiUno, “è l’ennesimo tassello di una strategia che, con la scusa della separazione delle carriere, il governo usa per colpire e indebolire la magistratura, mettersi al di sopra della legge, piegare le regole al proprio tornaconto”, attacca Debora Serracchiani, responsabile Giustizia del Pd. “Come sempre stanno ingannando gli italiani”, rincara il verde Angelo Bonelli: “Vogliono far credere che la riforma serve a migliorare la giustizia, mentre l’obiettivo è asservirla all’esecutivo”. Altra benzina che, a macchina referendaria non ancora avviata, rischia di arroventare un clima già surriscaldato. Pesantissime le accuse lanciate in diretta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio: dai pieni poteri a suo dire già esercitati dai giudici - rei di bloccare la politica dell’immigrazione, la politica industriale e persino di non dar “seguito alle indagini per i disordini di Roma” - al nefasto condizionamento dei gip sui pm. Mentre il Csm sarebbe incapace di sanzionare i magistrati che sbagliano perché, spiega Mantovano, se “il mio giudice disciplinare è colui che ho concorso a eleggere sulla base dei criteri correntizi” l’imparzialità va a farsi benedire. Dunque “la riforma corregge questa stortura”. E non sarà nemmeno l’ultima: la prossima - a cui il braccio destro della premier pure allude - riguarderà la responsabilità civile delle toghe. Parole inaccettabili per Marcello Basilico, consigliere Csm di Area, la componente progressista: “Il sottosegretario dice cose sbagliate e oltraggiose sui magistrati”, replica. “Sa benissimo che sui loro giudizi disciplinari i gruppi associati non hanno alcuna influenza”, rivendica dati alla mano un rigore senza eguali. Furioso per il tentativo di mistificazione: “Abbiamo smesso di illuderci che i rappresentanti dello Stato non attacchino indiscriminatamente altre istituzioni, confondendo le idee ai cittadini”, insiste Basilico, “ma vorremmo che almeno il confronto sui temi del referendum si svolgesse su fatti veri”. E perciò “spero che, se Mantovano va a parlare ancora di responsabilità civile dei magistrati, tutti capiscano quale sia lo scopo di questa modifica alla Costituzione: punire i magistrati scomodi”. Sconsolato anche Enrico Grosso, l’avvocato e costituzionalista scelto dall’Anm per guidare il Comitato per il no al referendum: “È stata presentata come la riforma della separazione delle carriere, ma è quasi uno specchietto per le allodole”. D’accordo la dem Serracchiani: “La responsabilità civile esiste già, ma la vogliono trasformare in una nuova clava. Per cui ora Mantovano ci dia i numeri: quante sono le cause intentate e vinte ogni anno? Parliamo dello zero virgola? La verità è che continuano a fare propaganda punitiva per nascondere la loro incapacità di affrontare i problemi veri della giustizia che ha bisogno di risorse, personale, un processo telematico che funzioni, carceri dignitose”. Chiara la posta in gioco: la vittoria al referendum costituzionale. Che il governo ha deciso scientemente di non personalizzare per evitare ripercussioni. Dopo la premier, ieri anche il ministro Guido Crosetto ha escluso che un’eventuale sconfitta possa avere riflessi negativi sull’esecutivo, mentre il Guardasigilli Carlo Nordio ha dichiarato che non si dimetterà in ogni caso. Pur dicendosi pronto a fare campagna per il Sì in prima persona, sulle tv e in giro per l’Italia, compatibilmente con i suoi impegni istituzionali. Intanto il Quirinale segue in silenzio il dibattito in corso. E nulla filtra neppure sulla posizione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella rispetto al referendum, in ossequio alla regola del riserbo e della neutralità politica a cui si è sempre attenuto. E che osserverà anche stavolta. Indisponibile a farsi tirare per la giacchetta da chiunque. Auspicando anzi, a quanto trapela, che nessuno pretenda di attribuirgli opinioni che non intende manifestare. Nella speranza che da ogni parte ci si astenga dal tentativo di forzare abusivamente le sue parole. Il referendum conteso. Nordio: “Se perdiamo nessuna dimissione” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 2 novembre 2025 L’opera del fantasma La destra conta di presentare le firme martedì. Si voterebbe tra marzo e aprile. Costa (Forza Italia) contesta che l’Anm si impegni nella campagna Rossi (Comitato per il No): “Battaglia dei cittadini e non dei giudici”. “I magistrati, come tutti i cittadini, hanno il diritto di esprimersi sulla riforma. Nutro qualche dubbio sull’opportunità di costituire un comitato promosso dall’Anm per la propaganda referendaria, perché il comitato è un soggetto politico a tutti gli effetti, e di utilizzare i tribunali come palcoscenici”. Mentre i parlamentari del centrodestra annunciano che martedì prossimo presenteranno le firme per il referendum sulla riforma della giustizia (bastano quelle di 80 deputati o 41 senatori), Enrico Costa di Forza Italia, membro della commissione giustizia alla Camera, polemizza con la possibilità che l’associazione dei magistrati prenda parte direttamente alla contesa per la consultazione di primavera. “È oggettivo il nesso tra alcune forze politiche ed alcune correnti della magistratura nell’opporsi alla riforma - prosegue Costa - M5S e Pd da sempre puntano a sbarazzarsi degli avversari attraverso la scorciatoia giudiziaria, il fronte comune con le toghe sul referendum non è altro che la proiezione di questo loro schema”. È questo il terreno di gioco che la maggioranza ha scelto, sulla scia del ventennio berlusconiano: la riforma costituzionale sarebbe un modo per risolvere una volta per tutte il problema della giustizia politicizzata. Le opposizioni rispondono attono: “Il vero obiettivo della riforma è quello di asservire la magistratura al governo, come dimostra la reazione sconsiderata di Meloni alla decisione della Corte dei conti sul Ponte sullo Stretto - attacca Angelo Bonelli da Avs - Poiché la decisione della Corte non è di gradimento per il governo, allora si annuncia una riforma per neutralizzarla”. Il Ministro della giustizia Carlo Nordio, invece, prova a suscitare contraddizioni nel campo avverso: “La sinistra si è dimenticata che questa riforma fa parte della sua storia?” dice, citando gli esempi della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema e della mozione congressuale di Maurizio Martina, entrambi favorevoli alla separazione delle carriere. Gli rispondono, indirettamente, le componenti riformiste della minoranza che, da sempre schierate a favore della separazione delle carriere, continuano invece a considerare la riforma largamente insufficiente. “È mancato il dibattito parlamentare - spiega Riccardo Magi - La maggioranza è andata dritta come un treno, senza ascoltare minimamente i suggerimenti delle opposizioni. Credo che questa separazione delle carriere non funzionerà”. Il segretario di +Europa rivendica la sua storia pannelliana e radicale per smentire le ricostruzioni della maggioranza. “Noi radicali abbiamo sempre accompagnato la separazione delle carriere alla responsabilità civile dei magistrati e al superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale - argomenta Magi - Questa separazione, invece, monca degli altri pezzi, rischia di vedere un nuovo potere, quello della magistratura dell’accusa, completamente slegato dal resto dell’ordinamento giudiziario, discrezionale e irresponsabile”. Esprime la frustrazione dei renziani il senatore Enrico Borghi: “Eravamo entrati nel dibattito sperando di incidere. E invece ci è stato risposto: ‘Abbiamo già deciso, si fa così’”. La destra alza il livello dello scontro ma al tempo stesso ci tiene a tenere al riparo la posizione della presidente del consiglio sull’esito del referendum. Per Guido Crosetto, ad esempio, Giorgia Meloni non dovrebbe dimettersi se dovesse prevalere il no. “Questa non è una riforma Meloni - afferma il ministro della difesa infilando una serie di affermazioni lapalissiane - Il referendum normalmente significa affidare l’ultima parola al popolo, quindi quando il popolo si esprime, si prende atto di quello che ha deciso il popolo”. Enrico Grosso, presidente del Comitato Giusto Dire No, la mette così: “Credo profondamente che questa sia e debba essere la battaglia dei cittadini contro una riforma costituzionale sbagliata e non possa diventare la battaglia dei magistrati contro il governo o contro la maggioranza politica. Forse è il governo e la maggioranza politica che vorrebbe trascinare la magistratura su questo piano”. Si voterà tra marzo e aprile. Durante la campagna referendaria il governo capirà chi sono davvero i suoi oppositori di Claudio Cerasa Il Foglio, 2 novembre 2025 I poteri che non amano il governo Meloni fino a che punto useranno il pretesto della riforma Nordio per venire allo scoperto e provare a dare una spallata anzitempo al governo di centrodestra? L’inizio della campagna referendaria offrirà l’occasione al centrodestra di fare i conti con una valutazione più generale che riguarda un tema delicato per il futuro del governo: quanto sono in salute, oggi, i nemici dell’esecutivo. La riflessione, ovviamente, non riguarda semplicemente il fronte politico che si andrà ad opporre alla riforma Nordio. Riguarderà anche un altro fronte che spesso si muove in modo sotterraneo e che però costituisce ormai da tempo un argine alle politiche del governo Meloni. In questa categoria di avversari del melonismo spicca naturalmente il ruolo dei magistrati che saranno più impegnati a fare campagna contro la riforma. Spicca il ruolo dell’Anm, il sindacato dei magistrati, i cui principali esponenti hanno già annunciato che si batteranno, ci si augura solo politicamente e non nelle aule dei tribunali, per fermare su questo punto l’azione del governo. Spicca il ruolo della corrente più a sinistra della magistratura, Md, in prima linea contro la riforma Nordio, ci si augura solo politicamente. Ma quel che sarà interessante capire è come, su questa riforma, si schiereranno anche altri copri importanti: quelli intermedi. La Cgil, per dire, ha già fatto sapere di essere pronta a dare battaglia. La Cisl non si schiererà. La Uil non ha ancora deciso. E la questione di fondo è evidente: i poteri che non amano il governo Meloni fino a che punto useranno il pretesto della riforma Nordio per venire allo scoperto e provare a dare una spallata anzitempo al governo di centrodestra? Le sorprese potrebbero essere all’ordine del giorno. Tic tac. Pinelli (Csm): “Riassetto dell’equilibrio tra i poteri. Ma il voto non va caricato di aspettative” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 2 novembre 2025 Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Il confronto sia tecnico. In corso un riassetto dell’equilibrio tra i poteri, ma il referendum non va caricato di aspettative. Magistrati in piazza? Un errore: i poteri dello Stato non dovrebbero scioperare”. Dopo l’approvazione in Senato della riforma costituzionale della Giustizia, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Fabio Pinelli, risponde alle domande durante un forum al Corriere della Sera. La riforma è stata approvata in un clima di scontro, che potrebbe peggiorare nei mesi che mancano al referendum confermativo, portando a una delegittimazione della magistratura? “Montesquieu diceva che ad ogni avanzamento di un potere corrisponde un arretramento dell’altro. Credo sia in corso un riassetto dell’equilibrio dei poteri, non solo in Italia. Leggevo che in un’intervista del 2013 il presidente Prodi era favorevole alla contrazione dei poteri di Tar e Consiglio di Stato che a suo dire intralciavano la libera iniziativa economica. Senza nessuna censura su Prodi, dico che quando si ricoprono ruoli di governo è inevitabile una contrapposizione fisiologica con la magistratura. Nel rispetto delle prerogative costituzionali di tutti, deve essere chiaro che nelle democrazie il potere di rappresentanza e di scelta spetta alla politica e nello stesso tempo deve essere assolutamente chiaro che la magistratura ha il diritto di esprimere le proprie valutazioni. Ciò deve avvenire con il dialogo ed evitando reciproche delegittimazioni. Mi auguro che il referendum sia un momento di confronto sul piano tecnico”. Dopo più di 30 anni di scontro politico sulla giustizia, non sarà velleitario? “Il dovere nostro, dell’informazione, della politica e della magistratura è far capire ai cittadini se preferiscono oppure no un pm separato o più vicino al giudice terzo imparziale, se vogliono il sorteggio di parte dei componenti dei due Csm e dell’Alta corte disciplinare e, anche rispetto al ruolo delle correnti della magistratura, se preferiscono un organo disciplinare completamente separato o no”. I magistrati in piazza non la convincono? “Penso che sia un errore. La magistratura nasce per risolvere i conflitti, non per farne parte. Credo che debba evitare di cadere nell’agone politico rischiando di confondersi con una parte politica”. Ci sono stati già due scioperi dei magistrati... “I poteri dello Stato non dovrebbero mai scioperare. I cittadini che attendono le sentenze devono avere fiducia nella magistratura, che è conseguente alla postura, alla sobrietà e responsabilità con le quali si esercita la funzione”. Come giudica le dichiarazioni che la premier e il ministro Salvini hanno fatto dopo il pronunciamento della Corte dei conti sul ponte sullo Stretto parlando di invasione di campo? “Rivesto un ruolo di garanzia, è inopportuno che commenti singole dichiarazioni”. A gennaio saranno tre anni dall’insediamento di questo Csm. Bilancio? “Assolutamente positivo. È stato compiuto un lavoro straordinario. Ci siamo prefigurati obiettivi di grande concretezza sotto la guida illuminata dello straordinario capo dello Stato che il nostro Paese ha la grande fortuna di avere”. Quali? “Innovazione e migliore organizzazione dei servizi con una ricaduta positiva sul servizio giustizia al cittadino, che sarà ulteriormente incrementata con le risorse importanti destinate dal governo nell’ultimissima legge di Bilancio. Più trasparenza attraverso il sito internet, perché il Csm deve essere una casa di vetro, e riduzione a 6 mesi dei tempi di nomina dei dirigenti. Inoltre, abbiamo raggiunto una percentuale di unanimità tra l’80 e l’85 nelle nomine per gli incarichi direttivi che rivendico come risultato straordinario. Infine, abbiamo fatto un grande lavoro nella sezione disciplinare, che io presiedo, che, nel rispetto delle garanzie, decide con assoluto rigore. Nel 2024 ha emesso 74 sentenze, il 41% di condanna. Affinché non ci siano equivoci, non significa che non reputi legittimo prevedere un’Alta corte disciplinare”. Perché? “Riuscire a trovare una sintesi di questo tipo significa avere la capacità di dialogo e di coesione importantissima tra il componente laica e quella togata”. La contrapposizione correntizia è stata assorbita? “Il dato sull’unanimità dimostra un contenimento della degenerazione correntizia. Non vuol dire che le correnti non esistono o non debbano esistere. Mi sono ripromesso di contribuire perché abbiano un ruolo più proficuo”. Si sostiene che il sorteggio dei togati nei Csm e nell’Alta corte riduca i poteri delle correnti. Che ne pensa? “In un mondo ideale, vorremmo che nei ruoli di responsabilità ci fossero persone di particolare competenza e provati percorsi professionali. Da questo punto di vista, per certi aspetti il sorteggio va in controtendenza. Dopodiché, il grado di competenza dei magistrati italiani è tale per cui il sorteggio non deve spaventare perché comunque avverrà all’interno di un corpo particolarmente qualificato. Il tema della giustizia non si risolve con la riforma, che riguarda l’architettura costituzionale e non va sovraccaricata di importanza e aspettative, ma affrontando tutta un’altra serie di aspetti”. A cosa si riferisce? “Ad esempio, discutendo se ogni conflitto nella società debba finire davanti alla giurisdizione”. La tendenza, infatti, è per una iper giurisdizionalità... “Penso che il tema della pena oggi sia da rivedere completamente chiedendosi se la pena detentiva debba valere per tutti i reati o no, se la rieducazione del condannato richieda necessariamente una previa reclusione in carcere e come tutelare la comunità rispetto a fatti e condotte che sono pericolosi. Dobbiamo chiederci come impatteranno sul sistema giustizia i cambiamenti demografici, economici e l’evoluzione tecnologica. Insomma, che giustizia dobbiamo lasciare alle nuove generazioni”. Secondo Beccaria, non conta l’entità, ma la rapidità e la certezza della pena. Invece, è come se oggi la società si aspettasse sempre una pena esemplare... “È il gravoso tema del processo mediatico. Accettando come normale che i processi si celebrino fuori dalle aule dei tribunali, vengono compromessi i diritti tanto dell’indagato quanto delle vittime del reato. È necessario senso di responsabilità nell’avvocatura, che deve rispondere a principi etici di riservatezza e di sobrietà, nell’informazione, che deve rispettare le norme deontologiche per evitare di ledere la reputazione delle persone, nel mondo della magistratura, che, tranne in casi particolari, deve parlare con i provvedimenti e non con le conferenze stampa”. È fondata la critica secondo la quale si sarebbe molto lontani dagli obiettivi del Pnrr, che non dipendono tutti dal Csm, come la riduzione dei tempi della giustizia civile? “Si è in linea con le aspettative, ma siamo un po’ indietro nel disposition time civile (il tempo per concludere un procedimento, ndr) sul quale si stanno concentrando gli sforzi in vista del termine del giugno 2026. Bisogna fare tutto il possibile perché un conto è fallire l’obiettivo, un altro è avvicinarsi di molto al traguardo per poi poter ragionare con l’Europa e fare in modo che le risorse indispensabili possano comunque arrivare”. Gherardo Colombo: “Dico no alla legge Nordio, aumenta il potere dei pm che si voleva limitare” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 2 novembre 2025 L’ex magistrato: “Il sì di Di Pietro? A volte penso che lui anticipò la riforma”. Gherardo Colombo, pensa che ci siano punti della riforma Nordio che mettono a rischio l’indipendenza dei magistrati? “Più di uno: la creazione di un Csm dei pm separato da quello dei giudici; il sistema di nomina, per sorteggio indiscriminato dei componenti magistrati di entrambi; la creazione dell’Alta corte disciplinare e la sua composizione. Riducono a un lumicino indipendenza e autonomia dei magistrati, garanzia per la tutela dei diritti della persona. Con un paradosso: aumenta il potere dei pm che il legislatore diceva di voler limitare”. Il governo dice che autonomia e indipendenza sono nella riforma. Non è così? “Le regole costituzionali che presidiano la separazione dei poteri si fanno proprio per evitare che si retroceda nella architettura necessaria ad uno Stato di diritto. Separazione dei poteri vuol dire ordine giudiziario indipendente e autonomo dal potere esecutivo”. E quindi? “Creare due Csm genera una struttura dell’ufficio inquirente molto autoreferenziale, che dovrà per forza prima o poi essere limitata, con un controllo dell’esecutivo sulla politica della repressione dei reati: il super potere del pm dovrà essere limitato. Nel contempo per i giudici l’organo di governo autonomo risulterà molto indebolito poiché non potranno eleggere i suoi componenti, che si dovranno sorteggiare, mentre la componente laica sarà comunque, seppure in via mediata, di espressione elettiva, quindi verosimilmente partitica come già accade ora”. L’Alta corte non è presieduta dal capo dello Stato. Può incidere sull’indipendenza? “Incidono più circostanze. Si sottrae il giudizio sulla disciplina di giudice e pm al Csm, l’organo che si occupa di tutti gli altri aspetti della sua vita professionale e ne conosce ogni particolare e criticità. Nell’Alta corte si aumenta il numero dei membri di nomina parlamentare rispetto a quelli sorteggiati tra i magistrati. Sempre con i primi estratti da un elenco di scelti e i secondi - cosa che in genere non dispiace ai conservatori - tra gli apici della carriera, i magistrati di legittimità. L’attuale rapporto di 30 magistrati a 10 laici, diventerebbe in ciascun Csm di 9 magistrati a 6 laici. Si passa da due terzi a un terzo nei Csm, a tre quinti e due quinti nell’Alta corte”. Il sorteggio spaventa perché toglie potere alle correnti? “Non toglie potere alle correnti, che peraltro non possono essere viste come delle specie di associazioni per delinquere. È successo che abbiano fatto accordi opachi per le nomine in importanti uffici giudiziari, che si siano barattate poltrone e avanzamenti. In un caso con personaggi politici: cosa facciamo, sorteggiamo anche i parlamentari? Ma questa non è la cifra delle correnti”. Qual è invece? “Hanno contribuito, con i loro confronti, ad adeguare alla Costituzione grandi parti della legislazione ereditate dal fascismo, ed anche ora sono stimolo di riflessione sui temi della giurisdizione. E la riforma non toglierà, a chi lo vorrà, il potere di inquinare la vita della magistratura: gli accordi si faranno nei circoli di potere, magari dopo le nomine invece che prima”. Forza Italia ha festeggiato la riforma dedicandola a Berlusconi. Che ne pensa? “Mi sembra normale che abbiano gioito, e in modo molto evidente. Era nel suo programma, e in quello del governo Berlusconi - oltre che di altri personaggi della storia di questo Paese - ed ha raggiunto lo scopo. Almeno nella fase che compete al Parlamento”. È dai tempi di Mani pulite che vi accusano di invadere la politica. C’è chi vuole la riforma per sanare quel “vulnus”. Che effetto le fa? “Pensare che sia un vulnus applicare le regole dei comuni cittadini anche a chi ha incarichi politici significa credere che la società debba essere organizzata in modo verticale e la giustizia riguardi solo il cittadino comune”. Di Pietro è favorevole alla riforma. La sorprende? “Non mi sorprende. A volte mi vien da pensare che, per la sua persona, avesse già anticipato la riforma ai tempi suoi”. Gratteri: “Fronte comune, questa riforma della giustizia è pericolosa e sottomette i pm” di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 novembre 2025 Il procuratore di Napoli: “Obiettivo logico di questa norma è sottoporre il pubblico ministero al potere esecutivo. La riforma è pericolosa sotto diversi punti di vista. Allontana il pubblico ministero dalla giurisdizione, equiparandolo a una parte privata. La mission del pubblico ministero non è quella di risolvere un caso a tutti i costi, ma cercare di arrivare alla verità, anche indagando a favore del sospettato, proprio perché a differenza degli altri attori processuali, non deve tutelare interessi di parte. Come ho detto più volte, i passaggi di funzione oggi sono limitatissimi e quando si verificano comportano il cambio di regione. Inoltre, non vi è alcun appiattimento dei giudici ai pm, non spiegandosi altrimenti il numero elevato di assoluzioni. Per cui l’obiettivo logico di questa riforma, non essendovene altri, è quello della successiva sottoposizione del pm al potere esecutivo, con buona pace della tutela dei cittadini”. Perché allora in molti altri sistemi giudiziari simili al nostro esiste una distinzione tra pubblico ministero e giudici? “Guardi, il nostro assetto ordinamentale, elaborato dai padri costituenti, è considerato un modello, perché garantisce in toto la separazione dei poteri. Lei pensa che sia migliore il sistema americano, dove il pubblico ministero è espressione del potere politico e persegue solo quello che il governo di turno gli indica?”. Non ritiene che in Italia sia necessaria una riforma della giustizia? “Certamente. Occorre però una riforma per snellire i tempi dei processi, civili e penali, eliminando inutili cavilli procedurali che, a nulla valendo per le garanzie effettive delle parti, rischiano solo di incrementare gli errori giudiziari, allontanando l’obiettivo di avere decisioni giuste e ponderate”. Lei non ha mai avuto buoni rapporti con l’Anm. Come è diventato il simbolo del comitato del no? “Io sono stato sempre autonomo. Non mi sono mai legato a correnti. Non fa parte del mio dna. Il che non significa che chi la pensa diversamente da me sbagli. In questo caso, però, di fronte al serio pericolo di compromissione dei principi di autonomia e indipendenza della magistratura, si deve marciare uniti”. Lei ha avuto spesso posizioni molto dure verso i suoi colleghi. Più volte ha denunciato di essere stato abbandonato, insieme con i suoi sostituti. È cambiato qualcosa? “Dal mio punto di vista non è cambiato nulla. Conservo la mia opinione”. Che giudizio ha, anche oltre questa riforma, delle politiche in materia di giustizia di questo governo? Il ministro Nordio ha promesso un intervento immediato sulle intercettazioni: “In Italia è una porcheria” ha detto. “Non crederete mica che la mafia organizza le stragi parlando al telefono”. È così? “Queste riforme che ho definito “imputatocentriche” finiranno per ostacolare, è una mia opinione, la lotta alla criminalità comune e organizzata. Vorrei capire meglio perché le intercettazioni sarebbero una porcheria, se dal 2017 non si possono più inserire brani di conversazioni irrilevanti. Vorrei che il ministro facesse esempi di violazioni di questo tipo. La seconda frase che ha citato sconta un verosimile difetto di conoscenza da parte del ministro sulle tecniche di indagine in materia di criminalità organizzata”. A proposito: è appena uscito il suo libro sulle nuove rotte del narcotraffico. Pensa si stia facendo abbastanza per combattere la criminalità organizzata? “Se penso al disegno di legge sui sequestri dei cellulari, al progetto di riforma delle perquisizioni, per cui si dovrebbe aspettare che trascorrano due ore dopo avere avvisato la parte, anche se prendo atto della smentita del ministro, direi che si sta agendo nel verso esattamente opposto”. Perché la magistratura fa così paura alla politica? Sta cominciando una nuova “stagione della tensione”, tra i due poteri dello Stato, se mai si è fermata in questi anni? “Cosa significa stagione della tensione? La magistratura non persegue obiettivi politici, ma reati. Se poi le indagini coinvolgono anche uomini politici, l’azione delle toghe è il naturale effetto del principio di separazione dei poteri”. Lei è probabilmente il magistrato che sa comunicare meglio in Italia. In televisione ha fatto record di ascolti. È una star dei social. Dia qualche consiglio ai suoi colleghi: come crede debba essere organizzata la campagna del no? “I magistrati devono spiegare per bene ai cittadini, non in giuridichese, ma con parole semplici e comprensibili per i non addetti ai lavori, che questa riforma danneggia solo loro. Devono far capire che si rischia seriamente di creare una categoria, quella dei pubblici ministeri separati, composta da persone che, persa la cultura della terzietà garantita dall’appartenenza alla giurisdizione, potrebbero accanirsi per trovare colpevoli a tutti i costi, danneggiando i cittadini”. Possono i magistrati diventare dei protagonisti “politici”, visto il carattere politico che avrà inevitabilmente questo referendum? “L’azione del comitato referendario per il no non ha obiettivi politici, ma esclusivamente uno: la tutela della Costituzione e del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”. Reggio Emilia. Morto dopo un giorno in carcere. Imputati il medico e un’infermiera di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 2 novembre 2025 Il 39enne con problemi di dipendenza si spense alla Pulce nel 2022 per “un’intossicazione acuta da metadone”. Ebbe un’esistenza travagliata, Giuseppe Convertino: usava droghe e alcol, faceva furti soprattutto per pagarsi le sostanze e aveva avuto altri guai con la giustizia. Lui morì a 39 anni, il 10 aprile 2022, nel carcere di Reggio, dov’era arrivato il giorno prima. Non emersero segni di violenza, ma la famiglia intese dare avvio a un iter per fare luce sul decesso, chiedendo che fosse eseguita l’autopsia: a depositare l’esposto in Procura fu l’avvocato Angelo Russo, che difese Convertino negli svariati procedimenti penali che lo coinvolsero nel tempo e che ha assistito i suoi parenti nella fase iniziale dell’inchiesta sulla morte. Nel frattempo l’indagine, ora seguita dal pubblico ministero Stefano Finocchiaro (nella foto), si è conclusa: è stato chiesto il rinvio a giudizio per un medico e un’infermiera, accusati di omicidio colposo, in cooperazione, nell’esercizio dell’attività sanitaria; per loro è stata fissata l’udienza preliminare in novembre. Dall’autopsia è emerso che il 39enne morì per edema polmonare emorragico dovuto a un’insufficienza respiratoria: emerse un’intossicazione acuta da metadone. Secondo la ricostruzione accusatoria, il medico gli avrebbe prescritto una terapia metadonica con dose iniziale di 100 milligrammi, “macroscopicamente errata perché enormemente superiore alle linee guida sul trattamento della dipendenza da oppiacei, pubblicate dall’Oms nel 2009”: secondo queste indicazioni, “la dose iniziale di metadone non deve superare i 20 milligrammi, a eccezione dei casi di maggiore tolleranza e anche allora non deve andare oltre i 30 milligrammi”. Il pm rileva anche altre “difformità” rispetto a quanto previsto sulla terapia metadonica dai protocolli interni del carcere reggiano nel 2013 e in vigore nel 2022. Si contesta “l’errata procedura di visita” a Convertino “quale nuovo arrivato nel penitenziario”: il dottore avrebbe fatto “una diagnosi sbagliata” quale assuntore di buprenorfina (subutex), “fondata solo su quanto riferito dal detenuto e non accertata tramite una visita che includesse anche esami tossicologici, nemmeno fatti in forma rapida (stick) bensì solo prescritti con urgenza entro 30/60 giorni” e, secondo la Procura, “omettendo pure il confronto con lo specialista tossicologo del carcere”. Non essendo stato possibile contattare il Sert per avere conferma che il 39enne fosse in carico, il medico “avrebbe dovuto fare un’anamnesi tossicologica mirata a riscontrare l’uso di oppioidi, il quantitativo assunto ed eventuali sintomi riferibili a sindrome da astinenza”. Poi, solo dopo l’eventuale conferma sul consumo, il dottore “avrebbe potuto proporre la terapia farmacologia sostitutiva con metadone e, in caso di accettazione, fargli firmare il consenso informato al trattamento, adempimento che fu omesso”. All’infermiera si contesta che a causa di “gravi condotte colpose”, l’overdose del 39enne “non fu rilevata in tempo” e “fu impossibile intervenire in tempo con somministrazione di ossigeno, ventilazione assistita e naloxone che ne avrebbero impedito il decesso”. Misurando i parametri vitali, avrebbe rilevato una saturazione del 92% “annotandola sulla cartella clinica del paziente in modo inadeguato”; nonostante la depressione respiratoria avrebbe “omesso” di verificarne la causa, di ripetere l’accertamento e di osservare o far osservare il paziente; nonché di aver trascurato di controllare la sua saturazione al momento di ingresso in carcere prima di prendere il metadone (il giorno precedente sarebbe stata nella norma) e di segnalare il tutto al turno successivo. La madre del 39enne è ora tutelata dall’avvocato Pasqualino Miraglia. L’infermiera è difesa dall’avvocato Paolo Nello Gramoli, che al momento preferisce non rilasciare dichiarazioni; il medico è seguito dall’avvocato Cosimo Zaccaria: “Il mio assistito ha agito con correttezza rispettando gli standard sanitari - afferma il legale -. Dimostreremo la sua assoluta estraneità alle contestazioni”. Reggio Emilia. Il magistrato di sorveglianza Bedini: “Grave carenza di personale” di Alessandra Codeluppi Il Resto del Carlino, 2 novembre 2025 Da tre anni ha competenza sui detenuti di Reggio, Parma e Piacenza: “In media 48 nuovi fascicoli al giorno”. “Grave carenza di personale amministrativo”. È il motivo, scritto nero su bianco in un ordine di servizio datato 16 ottobre, che ha indotto il magistrato di sorveglianza Marco Bedini a indicare “criteri di priorità” sul lavoro, “preso atto - si legge - dell’impossibilità di assicurare la tempestiva ed efficiente lavorazione della crescente mole di procedimenti”. Bedini, 34 anni, reggiano, è al suo primo incarico dal dicembre 2022 nell’ufficio di sorveglianza con sede nel “palazzo nuovo” attiguo al tribunale. Nella sede di via Paterlini al momento lavorano lui e due colleghe che hanno competenza per le decisioni sull’intera popolazione carceraria di Reggio (più chi è alla Rems), di Parma e di Piacenza, nonché su chi è sottoposto a misura altenativa o di sicurezza in queste tre città, o agli arresti domiciliari “esecutivi” (quando diventa definitiva la sentenza nel merito). Di Reggio si occupano lui e Silvia Costantini, di Piacenza Bedini ed Elena Banchi, di Parma tutti e tre. Le competenze principali di questi magistrati includono le decisioni sulle istanze dei detenuti in materia di benefici e di reclami, la vigilanza sull’organizzazione degli istituti penitenziari, la gestione delle misure alternative e quelle di sicurezza. Giudice, qual è la situazione del personale amministrativo? “Aumentano non solo i flussi di istanze in entrata, ma anche le persone da seguire, mentre la previsione di pianta organica per i lavoratori della cancelleria è rimasta ferma a prima del 2010. Quella dei magistrati, invece, è stata portata da 2 a 5, numero a cui si è arrivati nel 2024. L’arretrato è stato molto abbattuto, ma avere più magistrati significa più lavoro per la cancelleria nelle fasi di istruttoria ed esecuzione dei provvedimenti. Al momento siamo tre magistrati, altri due arriveranno in dicembre”. Quali figure mancano? “A oggi il direttore amministrativo è distaccato in un’altra sede; in settembre una delle due funzionarie è andata in pensione, un assistente giudiziario è a tempo pieno, un altro lo sarà da novembre, ma sono rimasti in due a causa della recente morte di una figura. Questi operatori sono gli unici che possono fare assistenza in udienza e depositare i provvedimenti; sul funzionario e sull’assistente full time gravano anche le attività amministrative. Abbiamo poi tre operatori giudiziari, un conducente automezzi e due unità di polizia penitenziaria”. Quanti procedimenti dovete seguire? “Nell’ultimo anno giudiziario (giugno ‘24/giugno ‘25) risultavano 11.626 procedimenti. Significa che in ogni giorno lavorativo arrivano in media 48 nuove iscrizioni, talvolta di particolare impegno come l’accertamento della pericolosità sociale di una persona destinataria di misura di sicurezza per mafia o gravi reati. Per quest’anno a oggi risultano 9.958 procedimenti. È un carico che in termini assoluti non è dei più gravosi, se ad esempio paragonato a quelli della Procura, ma lo è rispetto all’organico ridotto e che di recente si è assottigliato con la perdita di due figure”. Quanti sono i detenuti delle tre città? “Al 30 giugno 2025 il totale era di 1.637. A Reggio, i detenuti erano 316, di cui 21 donne e 29 nella sezione tutela salute mentale (perché hanno sviluppato problemi psichiatrici dopo il reato). Qui il 43,5% è di origine straniera e 42,7% ha problemi di droga. A Parma i detenuti erano 784. Di questi 62 sono al 41 bis; 239 in “alta sicurezza 3” (criminalità organizzata o associazione finalizzata al traffico di droga) e 34 in “alta sicurezza 1” (ex 41 bis). Stanno invece in media sicurezza 449 persone. Risultano 311 stranieri e 276 con problemi di tossicodipendenza. A Piacenza erano 537 e nell’ultimo anno sono aumentati di 82 sul totale. Gli stranieri sono il 70% e il 50% senza fissa dimora”. Ai 1.637 detenuti si affiancano poi i ‘liberi’... “Seguiamo 1.604 persone in esecuzione di misura alternativa (affidamento in prova, ai domiciliari, in semilibertà). Se ne aggiungono 94 in libertà vigilata”. Quali caratteristiche accomunano gli istituti penitenziari emiliani? “Ho preso in carico il carcere di Reggio da ottobre, prima mi occupavo di Parma e Piacenza. Il tratto comune dei tre istituti è la loro grande variabilità. Ad esempio Reggio ha sia la sezione circondariale (detenuti in attesa di giudizio, in corso di giudizio e condannati sino a 5 anni), sia quella di reclusione (condannati in primo grado all’ergastolo e detenuti con fine pena superiore ai 5 anni), più la sezione femminile comune per mogli di collaboratori di giustizia, una per detenute transgender e le articolazioni per tutela della salute mentale”. È d’attualità l’emergenza dei suicidi in carcere. Quali strumenti avete per captare le persone con possibile fragilità? “Visite in carcere e verifica di situazioni specifiche. Da un lato occorre la prevenzione: vanno evitate situazioni di emarginazione e mantenuti i rapporti con le famiglie. Dall’altro serve la vigilanza per individuare evoluzioni non volute di atti dimostrativi che accompagnano talvolta le richieste all’amministrazione penitenziaria. L’osservatorio regionale permanente sulla sanità penitenziaria - di cui siamo componenti io e Letizia De Maria della Sorveglianza di Bologna - ha adottato un protocollo per la gestione del rischio suicidario che deve tenere conto delle diversità dei detenuti e della situazione del personale”. Quali reclami ricevete più spesso dai detenuti e quali diritti risultano più violati? “Ho accolto alcuni reclami dal 41 bis o dall’alta sicurezza per contatti coi familiari mediante videocolloqui; o relativi alla manutenzione delle celle, mancata erogazione di acqua calda, presenza di muffa, al trasferimento da altri istituti o al mancato accoglimento di una richiesta per avvicinarsi ai parenti o per motivi di avoro; oppure sulla collocazione dai circuiti di alta sicurezza alla sezione comune”. Il sistema penitenziario non riesce spesso a rieducare come richiesto dalla Costituzione: c’è chi rimane eternamente nel circuito reato-condanna senza essere recuperato nella società. Cosa si può fare in più? “Intanto bisogna capire quali reati il detenuto ha commesso, quali potrebbe commettere di nuovo e i fattori alla base della reiterazione. Il trattamento in carcere e anche fuori deve rispondere ai bisogni del detenuto e incoraggiare le sue competenze per il reinserimento sociale. Servono ad esempio più educatori: a Piacenza risultano 80 detenuti in più nell’ultimo anno, ma non vi è stato lo stesso aumento di personale per fare l’osservazione al trattamento”. Padova. Veto del Dap, salta consegna dei libri per i carcerati di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 2 novembre 2025 All’improvviso, da un giorno all’altro. Con inevitabili polemiche annesse: fa discutere quanto accaduto nei giorni scorsi al Due Palazzi, dove è stato annullato un evento legato al progetto Kutub Hurra (Libri Liberi), attivo da due anni e mezzo sia nella casa di reclusione che nella casa circondariale della città del Santo - oltre che in altri istituti penitenziari disseminati lungo il territorio italiano - e realizzato dall’associazione “Un Ponte Per” e dall’associazione tunisina “Lina ben Mhenn”. Si tratta di un’iniziativa che punta a creare un ambiente carcerario più inclusivo, attraverso la fornitura di libri in lingua araba alle biblioteche degli istituti penitenziaria, dando così opportunità di lettura ai detenuti provenienti dai Paesi di quella specifica area geografica usando i libri come strumento di emancipazione. L’evento in questione, al quale avrebbero dovuto partecipare in quanto già autorizzate quattro donne di cui due di origini tunisine e due di origini libiche (tutte attive nei loro rispettivi Paesi nell’ambito dei diritti civili), era stato organizzato da mesi per giovedì 30 ottobre. La “cattiva sorpresa” è invece datata mercoledì 29, ovvero solo qualche ora prima: stando a quanto riportato dalle associazioni Altracittà, Granello di Senape - Ristretti Orizzonti e Un Ponte Per, infatti, la cancellazione dell’evento “è avvenuta sulla base della di una circolare del Dap dello scorso 21 ottobre, che subordina all’approvazione dello stesso Dap la realizzazione di ogni iniziativa negli istituti in cui è presente una sezione di alta sicurezza anche se l’iniziativa non riguarda tale sezione”. Peraltro il progetto Kutub Hurra va oltre il singolo evento: ha infatti permesso alla biblioteca della casa di reclusione a inizio 2023 e a quella della casa circondariale alla fine del 2024 di acquisire 50 libri in arabo - di contenuto laico - per ogni istituto, di contenuto laico e la creazione di un gruppo di lettura in arabo, e in occasione dell’iniziativa di giovedì 30 sarebbero dovuti arrivare altri 100 libri. Non ci stanno le associazioni coinvolte nel progetto: “Questo annullamento ci preoccupa e ci interroga sul futuro della ricchezza culturale che caratterizza la casa di reclusione di Padova”. Asti. "Il carcere non è un organismo estraneo alla società", la preoccupazione del garante lavocediasti.it, 2 novembre 2025 La nuova circolare del DAP introduce una gestione centralizzata delle autorizzazioni per le attività culturali, educative e ricreative negli istituti di Alta Sicurezza. Divisiva la nuova circolare del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, che andrebbe a incidere sull’organizzazione locale degli eventi culturali, educativi e ricreativi da realizzare presso gli istituti penitenziari di Alta Sicurezza. La circolare 21/10/2025. 0454011.U, infatti, renderebbe più complicata la collaborazione tra le carceri e la società esterna, con rallentamenti dovuti alla centralizzazione delle decisioni, che dovranno obbligatoriamente passare per Roma. “Questa circolare rischia di mettere una pietra tombale sulle iniziative di inclusione sociale negli istituti, in particolare per il circuito di Alta Sicurezza”, ha spiegato il portavoce della Conferenza Nazionale dei Garanti, Samuele Ciambrello. Preoccupato degli effetti della recente disposizione anche il Garante della regione Lazio, Stefano Anastasia, che ha dichiarato: “Dalle celle chiuse alle carceri chiuse, è un attimo. Un balzo all’indietro di più di quarant’anni”. Gli effetti della circolare andrebbero a ricadere, quindi, anche sulla Casa di reclusione di Asti, presente nel circuito di Alta Sicurezza, come sottolinea il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Asti, Domenico Massano, illustrando in che modo la nuova misura obblighi di ottenere, per ogni iniziativa di carattere culturale, educativo o ricreativo, l’autorizzazione della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del DAP a Roma, con applicazione che ricadrebbe anche su progetti rivolti a detenuti in media sicurezza all’interno di istituti del circuito A.S., con la conseguenza che tutte le richieste, prima gestite direttamente dalle direzioni locali e successivamente inviate al magistrato di sorveglianza, dovranno ora passare per l’amministrazione centrale. Questa centralizzazione delle procedure, quindi, rischierebbe di produrre un inevitabile “effetto imbuto”, rallentando le autorizzazioni e complicando la realizzazione di eventi culturali, spettacoli, laboratori o progetti educativi, fino a metterne in discussione la stessa continuità. “Tra le varie prescrizioni vi è, poi, la richiesta di trasmettere con “congruo anticipo”, le istanze e, quando sia prevista la partecipazione della comunità esterna, l’elenco dei nomi accompagnato dai “titoli” dei partecipanti - comunica in una nota Massano - Al di là dell’indeterminatezza dell’indicazione di “congruo anticipo”, soprattutto se riferita alla realtà carceraria in cui il fattore tempo ha spesso una dimensione aleatoria, è di difficile interpretazione anche la richiesta dei “titoli” delle persone della comunità esterna, quando non applicata a persone che tengono un corso formativo o un laboratorio, ma a persone che entrano in carcere per assistere ad uno spettacolo o alla presentazione di un libro”. La circolare stabilisce inoltre che l’organizzazione e la gestione di ogni evento o progetto all’interno degli istituti penitenziari debbano restare esclusivamente sotto la responsabilità delle direzioni, evitando che la programmazione o le decisioni operative vengano affidate a soggetti esterni. Una disposizione che, secondo molti osservatori, ridurrebbe in modo significativo l’autonomia delle realtà esterne (associazioni, enti e gruppi culturali) che negli anni, grazie a collaborazioni consolidate e protocolli condivisi, hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo di progetti trattamentali, iniziative sociali e percorsi di inclusione capaci di generare valore sia dentro le carceri sia nelle comunità del territorio. Nell’Astigiano la circolare potrebbe incidere su diverse attività che hanno coinvolto il territorio, come incontri con le scuole, spettacoli teatrali, presentazioni di libri, incontri in redazione ed in teatro; azioni che si sono svolte in collaborazione con la Direzione e con il personale dell’Istituto e che si collocano nel solco della Costituzione e della normativa penitenziaria, che sancisce: “Il trattamento del condannato è svolto … agevolando opportuni contatti con il mondo esterno”, “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all'azione rieducativa” (artt. 15 e 17 L. 354/75 sull’Ordinamento Penitenziario); “La direzione dell'istituto promuove la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa”(art. 68 DPR 230/2000 Regolamento Ordinamento penitenziario). “Nel corso degli anni è emerso in maniera evidente il valore e la generatività delle diverse attività che nell'istituto astigiano hanno coinvolto la comunità esterna”, prosegue Masano nella sua nota, evidenziando le testimonianze di una persona detenuta e di una docente che ha accompagnato un gruppo di studentesse liceali nella partecipazione al progetto di scrittura congiunta del libro “Una penna per due mani”, arrivato a conclusione durante la scorsa primavera, ricevendo anche diversi riconoscimenti tra cui e la presentazione al Salone del libro di Torino e il 2° posto al premio Mariangela Cotto. “Particolarmente toccante è stato l’ultimo incontro, quando studenti e detenuti, scambiandosi i testi che avevano scritto a mano, si sono potuti confrontare su fatti di attualità ed esperienze personali, anche molto drammatiche - aveva dichiarato la docente, presentando la fase conclusiva del progetto - Un momento che dimostra come sia possibile, oltre che doveroso, appropriarsi di uno spazio solitamente isolato dalla città affinché i detenuti, grazie ad una relazione costante e costruttiva con il mondo esterno, possano riappropriarsi della loro vita, anche se condannati all’ergastolo”. Alle parole della docente facevano eco quelle di una persona detenuta: “Sapete qual è stato l'aspetto d'importanza fondamentale? Il ruolo di ponte. Per chi si ritrova in carcere, quindi allontanato dalla società, parlare con qualcuno che non sia solo un parente, o l'avvocato, vuol dire prima di tutto essere riconosciuto come persona, rispettato, e in un certo qual modo rinascere socialmente. Gettare via la chiave e marcire in galera sono il linguaggio di una indifferenza cronica e aberrante. Alla società giungono informazioni stereotipate sul carcere e sui detenuti; una delle tante realtà positive è questa: "Una penna per due mani”, un incontro tra studenti e detenuti, una crescita ed esperienza di vita culturale ed umana dentro il carcere di Asti”. Resta ora da capire se sarà ancora possibile portare avanti progetti di scambio e crescita culturale e umana come quelli realizzati finora nel carcere di Asti e negli altri istituti del circuito di Alta Sicurezza. Il rischio, denunciano operatori e garanti, è che vengano penalizzate proprio quelle attività trattamentali che, attraverso il coinvolgimento della comunità esterna, favoriscono il cambiamento personale e la costruzione di percorsi di reinserimento, contribuendo di fatto anche alla sicurezza collettiva. Le prime applicazioni della circolare, da questo punto di vista, non sembrano incoraggianti, secondo il garante astigiano che ha rimarcato come dal carcere di Padova sia stato bloccato un evento culturale già autorizzato da tempo e che si ripeteva da anni. “In un sistema carcerario in grave crisi, con un numero sempre più tragico di suicidi, con un ormai cronico ed inaccettabile sovraffollamento che aggrava le già difficili condizioni di detenzione, con carenze di personale e scarsità di opportunità trattamentali, questa circolare rischia da una parte di complicare ulteriormente il lavoro e l’impegno di chi, all’interno degli Istituti, cerca costantemente di proporre e promuovere iniziative ed attività con il coinvolgimento del territorio, dall’altra di disincentivare e limitare la partecipazione della società esterna - comunica Massano - Questa circolare, pubblicata tra l’altro nel cinquantenario della legge 354/75, rischia, inoltre, di spegnere, o quantomeno rendere sempre più difficile, il dialogo tra i luoghi di detenzione e la società civile, isolando ulteriormente le persone detenute e rendendo sempre più impermeabile ad ogni confronto con la società esterna la realtà carceraria”. Nel concludere, il garante ha ricordato le parole di Papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo 2025, che aveva voluto ricordare in primo luogo le persone detenute: “Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto. … Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita”. Queste parole, per il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Asti, sono da tenere a mente, mantenendo aperte le porte della speranza all’interno delle carceri e nel rapporto tra queste e i territori, in piena coerenza con i principi costituzionali. Un appello che si intreccia con le parole dell’ex Garante nazionale Mauro Palma, che ricordava: “L’ineludibile dialettica tra noi e gli altri in cui si gioca la complessa dinamica che lega identità e convivenza”. “Il carcere non è, infatti, un organismo estraneo alla società, ma ne è parte e vi è inevitabilmente collegato, interrogandola costantemente, perché, richiamando le parole del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky: “La condizione carceraria riguarda coloro che stanno dentro, ma come problema di civiltà è prima di tutto un problema di chi sta fuori”, termina Massano. Venezia. Cimici e topi in carcere: “Un’emergenza continua”. La denuncia: poco personale di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 2 novembre 2025 Cimici, topi, mancanza di personale, sovraffollamento e direzione sospesa. La situazione del carcere a Santa Maria Maggiore non migliora, anzi. Dopo i diversi interventi effettuati dallo scorso luglio per debellare le cimici, in questo periodo è emerso anche il problema dei topi. Oltre a questo l’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria) di Venezia denuncia una condizione di “grave carenza del personale nonostante la promessa del ministro della Giustizia Carlo Nordio di un incremento di dieci unità di polizia penitenziaria. “Invece altre dieci unità sono state trasferite o dimesse, aggravando ulteriormente la già delicata situazione operativa - scrive in una nota l’organizzazione sindacale -. A questo si aggiunge la mancata continuità nella guida direzionale”. Il riferimento è al fatto che dallo scorso metà ottobre il direttore Enrico Farina è stato improvvisamente sospeso, senza nessuna chiara motivazione e un anno prima della fine del suo mandato. Di fatto si trova al Provveditorato regionale con l’incarico di coprire, fino all’arrivo della nuova direttrice, la direzione del carcere di Belluno. A Venezia al suo posto provvisoriamente c’è Mattia Arba, direttore del carcere di Rovigo. Questa situazione ha destabilizzato l’intera organizzazione, come spiega la nota dell’Osapp: “Il dottor Farina si è distinto per la sua vicinanza al personale e per le iniziative di miglioramento della vita lavorativa e del trattamento dei detenuti. Una sospensione che il personale auspica possa presto risolversi, nel rispetto delle procedure e del buon senso, restituendo al carcere una guida riconosciuta per equilibrio e capacità gestionale”. Il sindacato chiede al Provveditorato regionale “un intervento urgente di rinforzo degli organici, per garantire condizioni di lavoro sostenibili e la piena funzionalità dell’istituto lagunare”. Sulla questione cimici e topi l’azienda sanitaria Serenissima “conferma il proprio impegno quanto ai controlli e alle verifiche necessarie e resta disponibile con il suo servizio di igiene pubblica e di prevenzione per supportare gli interventi che la direzione intendesse mettere in campo”. Alla richiesta del ministero di un aggiornamento sulla situazione sanitaria, non c’è stata a oggi risposta. Farina aveva acquisito una macchina speciale per disinfestare le celle, ma dal suo trasferimento non è chiaro se sia continuata la disinfestazione, per una situazione che non è stata mai normalizzata e che invece non accenna a diminuire. Aversa (Ce). Dal carcere alla rinascita: lavoro per un detenuto di Ciro Giugliano Cronache di Caserta, 2 novembre 2025 Restituire dignità attraverso il lavoro, trasformando il tempo della pena in un’opportunità di crescita e rinascita personale. È questa la filosofia che anima la Casa Circondariale “Filippo Saporito” di Aversa, impegnata da tempo in progetti di inclusione sociale che possano accompagnare i detenuti verso un reale reinserimento nella comunità una volta espiata la pena. Un obiettivo che oggi trova una nuova testimonianza concreta nella storia di uno dei detenuti dell’istituto, che ha recentemente iniziato un percorso lavorativo presso la Omc di Teverola, azienda specializzata nella costruzione di componenti di carpenteria industriale. Assunto con mansioni di saldatore nella realizzazione di nastri trasportatori, il detenuto descrive con emozione ciò che sta vivendo: “Non trovo le parole giuste per spiegare le sensazioni che provo - racconta - ma posso dire che sono felice di risentire il senso di libertà, pur se la mia condanna non è ancora terminata. Il fatto di essere parte di un gruppo, di avere un compito e delle responsabilità, mi fa sentire di nuovo vivo”. Poi il ricordo dei momenti più bui: “Il giorno in cui sono entrato in carcere mi sono sentito perso. Ho provato a reagire, a impegnarmi, ma non è stato facile. Questo progetto mi ha dato l’occasione di dimostrare chi sono e di guardare al futuro con occhi diversi. Oggi il tempo passa più velocemente e arrivo a fine giornata sentendomi una persona come le altre. È una sensazione che mi dà forza per affrontare l’ultimo periodo di detenzione. Spero di non deludere chi ha creduto in me”. Fondamentale, per questo nuovo inizio, il progetto “Seconda Chance”, iniziativa nazionale che mette in rete istituzioni penitenziarie, imprese e agenzie per il lavoro creando un ponte tra detenzione e reinserimento sociale. “Entrambi abbiamo provato emozioni forti” affermano Antonio e Carlamanuela Conte, referenti dell’azienda Omc. “Offrire a qualcuno la possibilità di ricominciare è un atto che arricchisce tutti: lui ha ritrovato una speranza e noi abbiamo avuto la possibilità di contribuire alla sua rinascita. Dopo un iniziale scetticismo, oggi si presenta al lavoro col sorriso e una grande voglia di imparare e crescere professionalmente”. A seguire il percorso è stata Orienta Agenzia per il Lavoro, in collaborazione con la referente campana di Seconda Chance, Gabriella Lanzillo. “Per me è stata un’esperienza profondamente toccante - spiega Laura Treviso, che ha coordinato l’inserimento lavorativo -. Durante i colloqui nel carcere di Aversa ho visto oltre le apparenze: ogni sguardo custodiva una storia fatta di errori e sofferenza, ma anche una forte voglia di riscatto. Sono grata di aver potuto mettere la mia professionalità al servizio di un’iniziativa che genera un impatto sociale concreto. Uscendo da quei colloqui ho compreso ancora una volta quanto il lavoro possa essere strumento di cambiamento”. La direzione del carcere “Filippo Saporito”, insieme al personale educativo, sostiene con convinzione percorsi simili, ritenendoli fondamentali per prevenire ricadute e favorire un ritorno realmente positivo nella società. Secondo numerosi studi sulla recidiva, l’inserimento nel mondo del lavoro rappresenta infatti uno dei fattori più importanti per evitare il ripetersi di reati e ricostruire relazioni sane con la comunità. Un esempio virtuoso di collaborazione tra istituzioni, terzo settore e mondo del lavoro, che dimostra come il reinserimento sociale possa diventare una realtà concreta e non soltanto un principio sulla carta, capace di trasformare, davvero, la vita delle persone. Un modello che evidenzia quanto l’apertura del carcere al territorio, la fiducia delle aziende e il supporto delle agenzie specializzate possano restituire dignità, futuro e un ruolo attivo a chi, dopo aver commesso errori, desidera rimettersi in cammino e diventare nuovamente parte della comunità. Un percorso che, se replicato e sostenuto, può generare benefici non solo per i singoli ma per l’intera società, costruendo sicurezza, inclusione e nuove opportunità per tutti. Cecilia Sala: “Nel mondo ferito dalla guerra l’odio dei giovani è più radicale di quello dei loro padri” di Enrico Fisichella sicilianpost.it, 2 novembre 2025 Nel suo ultimo libro “I figli dell’odio”, presentato al Monastero dei Benedettini in occasione di uno dei Supertalks della Scuola Superiore di Catania, la giornalista ha ripercorso non soltanto i drammatici frangenti della sua detenzione nelle carceri di Teheran, ma anche condiviso le tante storie e le tante voci delle nuove generazioni raccolte in Iran, Israele e Palestina: “Se cerchi dei pacifisti in Israele probabilmente hanno 70 anni, più raramente 18. È sorprendente vedere ragazze di 13 anni andare in giro con striscioni che si oppongono ai matrimoni misti, alla presunta perdita d’identità della nazione”. Anche in Ucraina la radicalizzazione trova sempre più spazio: “Per noi è difficile immaginare cosa significhi per le persone che vivono in quei territori consegnare al nemico la propria libertà. Una vita che produce solo cicli di violenza”. E sul ruolo del giornalismo dice: “Il livello di potenza e di onestà delle conversazioni che fai con le persone che vivono in contesti molto drammatici è irripetibile. Più che fonti, spesso diventano amici a cui vuoi bene. Ma spesso commettiamo l’errore di ricordarci di alcuni luoghi solo quando c’è un picco d’emergenza, dimenticando tutti i trascorsi”. “Volevo fare la giornalista da quando sono un essere senziente”. Lo dice con il sorriso tra le labbra, Cecilia Sala, ma al tempo stesso con la determinazione di chi, in questi anni, ha messo a repentaglio persino la sua vita per raccontare alcune delle pagine più drammatiche e complesse del nostro tempo. Frangenti dai quali è scaturito anche il suo ultimo libro, I figli dell’odio (Mondadori, 2025), presentato all’Università di Catania in occasione di uno dei SUPERtalks! organizzati dalla Scuola Superiore di Catania nell’ambito del progetto Safi3 finanziato dal PNRR. Un reportage che esplora come la violenza, la radicalizzazione e l’odio stiano ridefinendo le nuove generazioni in tre contesti chiave dell’Asia occidentale: Israele, Palestina e Iran. 150 pagine di scrittura brillante e acuta, che si sforza di “raccontare le storie delle persone che vivono una guerra nella speranza che il giornalismo possa fare più che limitarsi al conteggio dei missili o delle centinaia di metri su cui sono avanzati i russi ogni giorno”. Nella conclusione del libro, spazio anche il racconto della sua detenzione nelle carceri iraniane: “Dopo quell’esperienza riesco a capire meglio le tante storie simili che ho raccolto negli anni, per esempio dei palestinesi e degli ucraini, spesso dagli esiti più tragici”. A margine della presentazione, abbiamo parlato con lei del libro, ma anche dei temi più caldi dell’attualità e di come il giornalismo dovrebbe porsi dinanzi a questi. Da quali suggestioni nasce il suo ultimo libro I figli dell’odio? “Mi sono resa conto che nei luoghi in cui viaggio per lavoro sono più interessata a quello che fanno i giovani rispetto a ciò che fanno le persone più mature. Ed è una piccola ossessione che però ha un senso, perché guardare a cosa pensano i giovani di una società aiuta a vedere dove sta andando quella comunità, e non soltanto dove già è. E in Israele, in Palestina, in Iran è stato davvero molto interessante. Vede, noi spesso lo abbiamo fatto moltissimo con le primavere arabe: raccontiamo i giovani come la parte più liberale, democratica, pura e buona di una società, ma non sempre è così. A volte i giovani sono più incattiviti rispetto alle generazioni precedenti. È sicuramente vero in Israele: la prima parte del libro, che si chiama La radicalizzazione di Israele, comincia da delle giovanissime ragazze di 13 anni che alzano uno striscione con scritto “Se tua moglie non è ebrea cacciala di casa assieme ai figli che ti ha dato”. Continuo a sorprendermi di come sia possibile che una ragazza di 13 anni nel 2025 abbia la paranoia dei matrimoni misti, della mescolanza del sangue, della perdita del carattere della nazione. Da lì comincia un discorso che poi coinvolge anche tantissimi anziani. I giovani sono all’inizio di ognuna delle tre parti del libro che accompagnano il lettore dentro un contesto ovviamente molto più complesso e più ampio. Però per me è molto interessante che il 70% dei giovani israeliani oggi siano contro la soluzione due stati, contro la possibilità dell’autodeterminazione per i palestinesi, al contrario di quello che pensavano i loro genitori fino agli anni ‘90. La radicalizzazione di una società si vede anche dal fatto che le nuove generazioni sono più radicali di quanto non lo siano i loro nonni. Se cerchi dei pacifisti in Israele probabilmente hanno 70 anni, più raramente 18”. A fronte di questa consapevolezza, quale progetto di pace secondo lei è possibile costruire in Medio Oriente? “Non ci possiamo affidare alla volontà di quei popoli di non farsi la guerra perché aspetteremo forse secoli. Non c’è alcuna speranza che gli israeliani in questi mesi smettano di occupare territori palestinesi o che i palestinesi siano pronti a convivere in tempi brevi. L’odio è profondissimo. Daniel Sear, la persona con cui parlo in quella parte del libro mi disse: “Noi 20 anni fa ci odiavamo e ci facevamo paura molto meno di quanto ci odiamo e ci facciamo paura oggi. 50 anni fa ci odiavamo e ci facevamo paura molto meno di quanto ci facessimo paura o ci odiassimo 20 anni fa.” Va tutto sempre molto peggio e le soluzioni pensate finora non funzionano. La priorità, e questo lo dice anche lui, non è la pace, la priorità è la fine dell’occupazione. Soltanto dopo la fine dell’occupazione, ma non subito dopo, non un giorno dopo, non anni dopo, forse neanche 10 anni dopo la fine dell’occupazione ci potrà essere lo spazio per una convivenza. “Quando sarà finita l’ingiustizia e avremo smaltito il rancore saremo in grado di convivere” mi disse. Ma nulla di tutto questo avverrà a breve. C’è una parte del libro che si chiama Il Divorzio dedicata a questo tema, dove sostengo che l’unica soluzione possibile sia appunto il divorzio, cioè una separazione per molto tempo... Ad oggi il governo dell’Autorità Nazionale Palestinese è una finzione. Non riscuote le tasse, non amministra la sicurezza, non gestisce moneta, non controlla i confini né regola gli spostamenti delle persone o l’ingresso delle risorse. La sicurezza dei palestinesi è cancellata per proteggere la sicurezza degli israeliani con una strategia che a quanto pare non funziona neanche per la sicurezza degli israeliani”. Crede che invece in Ucraina una pace sia più vicina? “L’unica prospettiva concreta di cui si è parlato finora è che la Russia si terrebbe ciò che ha occupato. Donald Trump, per esempio, ha già chiesto un cessate il fuoco basato sulla linea di contatto attuale, il che significa che i russi manterrebbero un pezzo di terra che hanno preso illegalmente. Quello che è importante notare è che Zelensky ha già dato il suo sì a questo compromesso. Il problema è che l’unico che non ha detto sì è Putin, che invece ha chiesto più territori di quelli che ha effettivamente conquistato, una cosa mai vista. Ha chiesto, ad esempio, l’intera regione di Zaporižžja. Per noi è difficile immaginare cosa significhi per le persone che vivono in quei territori consegnare al nemico la propria libertà, i propri averi e le proprietà. L’occupazione russa in Ucraina, infatti, funziona come l’occupazione israeliana in Cisgiordania: gli ucraini vengono espropriati delle loro case e al loro posto vengono messi a vivere dei russi trasportati chissà da dove. Una vita che produce inevitabilmente cicli di violenza”. Quali sono, secondo lei, gli errori dei media occidentali nella narrazione dei conflitti, soprattutto in aree che sembrano non riguardarci da vicino? “Penso che l’errore più grande che facciamo sia concentrarci su luoghi - che tutto sommato non sono neanche tanto lontani da noi - soltanto nel momento del picco delle emergenze. Un atteggiamento che non ci permette di capire cosa succede veramente in quei territori. Se parliamo di Afghanistan soltanto attorno ai giorni del 15 agosto 2021, quando i talebani tornano al potere, ma non abbiamo raccontato cosa è successo poco prima e ce ne scordiamo clamorosamente poco dopo, saremo sempre in affanno, sempre in ritardo e sempre incapaci di cogliere la complessità di questi luoghi. E questo vale ovviamente per la Palestina che era stata sostanzialmente dimenticata fino al 7 ottobre”. Lei è stata in alcune delle zone più complicate del pianeta e ha raccolto storie di grande rabbia e dolore. Come affronta le difficoltà di questo mestiere? “È un mestiere obiettivamente faticoso, ma che dà grandissime soddisfazioni. Il livello di potenza e di onestà delle conversazioni che fai con le persone che vivono in contesti molto drammatici - e che non hanno maschere perché per loro fingere o mentire non ha nessuna ragione - è irripetibile. Mi rendo conto che ci sono persone che ho frequentato soltanto per alcuni giorni o per alcune settimane, ma in condizioni talmente stressanti che si è creata una forza nel nostro legame che magari non riesco a costruire in anni delle relazioni che ho qui. Quindi gli incontri con le persone che vivono nelle aree di guerra o di crisi sono per me un grandissimo motore e sono anche un po’ dipendente da quelle persone che sono “fonti”, ma che poi diventano anche amicizie e persone che ti porti a casa e a cui vuoi bene. Penso che sia un lavoro faticoso, ma assolutamente che valga tutta la fatica che comporta. Non avrei voglia e non saprei forse fare nessun altro mestiere”. Cooperative: due miliardi per la sostenibilità sociale, economica e ambientale di Maurizio Gardini* Corriere della Sera, 2 novembre 2025 Venti cooperative premiate durante l’evento del 28 ottobre per avere “compreso un principio tanto elementare quanto dirimente: porre la persona al centro non costituisce un esercizio retorico, ma è il modello di sviluppo capace di garantire prospettive concrete a questo Paese”. C’è un’Italia che costruisce e non si arrende. È l’Italia delle imprese che hanno scelto la responsabilità della visione contro la rassegnazione al declino, che continuano a investire nel futuro mentre altri si subiscono le difficoltà del presente. In occasione della V Giornata della Sostenibilità Cooperativa, celebrata il 28 ottobre, abbiamo premiato venti cooperative che incarnano questa scelta di campo. Venti imprese che hanno compreso un principio tanto elementare quanto dirimente: porre la persona al centro non costituisce un esercizio retorico, ma rappresenta il modello di sviluppo capace di garantire prospettive concrete a questo Paese. La sostenibilità che queste imprese praticano trascende le definizioni convenzionali. Si tratta di un vincolo costitutivo con i territori, con le comunità, con l’ecosistema. È la dimostrazione empirica che eccellenza imprenditoriale e responsabilità sociale non sono antitetiche. Nell’ultimo anno, le imprese aderenti a Confcooperative hanno investito oltre 2 miliardi di euro in progetti che integrano sostenibilità economica, sociale e ambientale. Investimenti strutturali che generano valore condiviso e redistribuito sul territorio. Mentre queste realtà costruiscono, il Paese affronta tensioni crescenti generate da disuguaglianze territoriali e sociali sempre più marcate. Le venti cooperative che abbiamo premiato ieri hanno scelto di rispondere con l’azione concreta anziché con l’attesa. Hanno compreso che il futuro non si aspetta, ma si progetta. Come avviene nelle aree interne, dove le cooperative di comunità rappresentano l’argine essenziale contro lo spopolamento definitivo. Attraverso la mobilitazione della cittadinanza attiva, queste imprese ripristinano servizi dove le istituzioni si sono ritirate, generano occupazione dove appariva impraticabile, custodiscono patrimoni culturali, enogastronomici e turistici. Attendiamo ancora dal ministero delle Imprese e del Made in Italy una legge quadro che armonizzi le normative regionali sulle cooperative di comunità. Nell’attesa, però, queste realtà non stanno ferme. Operano, innovano, trasformano. Hanno compreso che il cambiamento normativo si ottiene dimostrando l’efficacia dei modelli, non attendendo autorizzazioni. I Padri costituenti riconobbero la funzione sociale della cooperazione all’articolo 45 della Costituzione. L’Italia contemporanea si interroga nuovamente su come rigenerarsi. Non dalle distruzioni della guerra, ma dalle fratture sociali e dalle crescenti disparità. Il Piano dell’economia sociale, in fase di definizione presso il Ministero dell’Economia sotto la supervisione della sottosegretaria Lucia Albano, rappresenta il primo riconoscimento strutturale di chi, nei comuni delle aree interne e nelle periferie delle città, ha continuato a praticare economia reale senza perseguire logiche estrattive. Cooperative che non delocalizzano, offrono servizi, generano valore, ricchezza e benessere tra le comunità sul territorio. La sostenibilità richiede una configurazione sistemica in cui imprese, lavoratori, territori, ambiente e cittadini traggano vantaggio da un’equa distribuzione di benefici e responsabilità. E integra tre dimensioni: economica, sociale, ambientale. Non ha senso inseguire la crescita del Pil se il Bes (Benessere Equo e Sostenibile) continua a deteriorarsi. Le venti cooperative che premiamo rappresentano l’avanguardia di un movimento cooperativo che conta migliaia di imprese e milioni di soci e lavoratori, un sistema imprenditoriale che costruisce bene comune. Queste imprese dimostrano che un modello di sviluppo alternativo è possibile: più equo, più inclusivo, più sostenibile. Ed è una realtà operativa in decine di settori e centinaia di territori. Osservando queste esperienze, possiamo ancora costruire speranza. Che i borghi non si spopoleranno irreversibilmente. Che le disuguaglianze possono essere contenute. Che il declino demografico può essere invertito se restituiamo alle persone condizioni concrete per progettare il futuro. Che il lavoro può recuperare dignità e stabilità. Tutto questo richiede una scelta economica collettiva, inequivocabile, immediata. Collocare definitivamente persone e territori al centro delle politiche economiche, imprenditoriali, sociali. Non per motivazioni accademiche, ma per necessità pragmatica: senza persone e senza territori, non esiste economia sostenibile. Un modello di sviluppo che integri queste dimensioni non è un’opzione tra altre, ma la condizione necessaria per la tenuta del sistema Paese. *Presidente Confcooperative Istruzione. Il Ministero cancella il corso di formazione per docenti “La scuola non si arruola” di Emanuela Gatti Il Piacenza, 2 novembre 2025 Sdegno della Cgil. Zavattoni: “L’annullamento del corso “4 novembre, la scuola non si arruola” giunge inaspettato, atto grave”. La Flc Cgil di Piacenza esprime profondo sconcerto e ferma condanna per la decisione del Ministero dell’Istruzione e del Merito (MIM) di annullare, attraverso il ritiro dell’accreditamento sulla piattaforma S.O.F.I.A. (piattaforma nazionale per la formazione), il corso di formazione per docenti intitolato “4 novembre, la scuola non si arruola”, organizzato dall’ente accreditato Cestes-Proteo in collaborazione con l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. Il corso, previsto per il 4 novembre, aveva registrato un’ampia adesione di docenti che avrebbero potuto usufruire del permesso per formazione. L’annullamento giunge inaspettato, costringendo i molti iscritti ad annullare i permessi già richiesti per non incorrere in conseguenze disciplinari. Giovanni Zavattoni, segretario generale Flc Cgil Piacenza dichiara che “siamo di fronte a un atto di gravissima censura politica e pedagogica che colpisce al cuore la libertà di insegnamento e la possibilità di dibattito critico all’interno della scuola pubblica. Il Mim, citando la presunta ‘non coerenza’ con le finalità di formazione professionale, sta sostanzialmente decretando che l’analisi della guerra, l’educazione alla pace e il rifiuto dell’uso delle armi - temi fondanti e attualissimi - siano estranei al dibattito educativo”. La motivazione ufficiale addotta dal Ministero è che l’iniziativa “non appare coerente con le finalità di formazione professionale del personale docente presentando contenuti e finalità estranei agli ambiti formativi riconducibili alle competenze professionali dei docenti”. La Flc Cgil di Piacenza respinge con forza questa interpretazione restrittiva e ideologica. L’Articolo 11 della Costituzione italiana, che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, rende il dibattito sulla pace, l’antimilitarismo e la nonviolenza non solo pertinente, ma doveroso in ogni contesto educativo. Il tema della guerra e della pace è un elemento cruciale della cittadinanza attiva e consapevole, parte integrante del profilo professionale di ogni docente chiamato a formare cittadini”. “L’annullamento è un tentativo inaccettabile di limitare il pensiero critico e di imporre una narrazione monodirezionale nella scuola. Chiediamo al Ministero un immediato ripensamento e la revoca di questa iniqua decisione. La scuola non deve ‘arruolarsi’ a nessuna ideologia militarista, ma deve restare un presidio di libertà, democrazia e promozione dei valori costituzionali. Tutto questo è inaccettabile e se letto con quanto accaduto nei giorni scorsi preoccupa il sindacato. A Rho (Mi), alla Fiera di orientamento Expo training, la Polizia Penitenziaria, nello stand a loro dedicato, ha fatto esercitare ragazzini con armi. Condanniamo con fermezza l’iniziativa esposta alla fiera, che ha permesso a studenti minorenni di imbracciare armi da esercitazione e simulare il fotosegnalamento e l’esperienza carceraria. Riteniamo inaccettabile che l’orientamento professionale, specialmente per i giovani, passi attraverso la spettacolarizzazione di strumenti di coercizione e di un sistema, quello penitenziario, che dovrebbe essere primariamente indirizzato alla convivenza sostenibile all’interno delle carceri, nel rispetto della dignità e dei diritti delle persone recluse. Simili pratiche banalizzano la complessità della sicurezza e del carcere, distorcendo il messaggio educativo e promuovendo una cultura della militarizzazione anziché della prevenzione e della riflessione. Siamo contro ogni forma di militarizzazione della scuola, e riteniamo che il Ministero dovrebbe promuovere come finalità Educativa la non militarizzazione e la risoluzione non violenta dei conflitti. La Flc Cgil è e sarà a fianco dell’Osservatorio e di tutti i docenti che rivendicano il diritto alla formazione libera e consapevole”. La Flc Cgil di Piacenza invita tutte le istituzioni scolastiche e la cittadinanza a riflettere “sulla gravità di questo atto, che rappresenta un pericoloso precedente per la libertà di cattedra e la democrazia nella scuola”. Istruzione. “Expo training”, la Polizia penitenziaria insegna agli studenti l’uso delle armi di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2025 Alla fiera dedicata a formazione, lavoro e sicurezza, allo stand Polizia penitenziaria ragazze e ragazzi delle scuole sono invitati a provare armi da esercitazione e conoscere le tecniche usate nelle carceri. La scena, con una Beretta M12 scarica, è stata immortalata dall’agenzia Lapresse all’evento Expo training. Il sindacalista Osapp: “Mai sentita una cosa del genere, forse sono ordini dall’alto”. “Guarda in giù, premi il grilletto, così vedrai come spara, sostanzialmente l’otturatore andrà avanti, non siamo a Fortnite”. No, non è il videogioco “sparatutto” più famoso del mondo e le armi sono vere. Un agente della Polizia penitenziaria spiega ad un pugno di studenti come fare fuoco. Siamo a Milano, Fiera di Rho, all’evento Expo Training, per aiutare i ragazzi ad orientarsi nel mondo del lavoro. Lo stand “Baschi Azzurri” è gestito dagli agenti per i detenuti ed è circondato da un nugolo di studenti. Questi ultimi non ricevono lumi sulla vita dopo la scuola, bensì su come maneggiare un’arma. In un video dell’agenzia Lapresse, si vede un agente prodigarsi in un vero e proprio tutorial dal vivo. Il titolo sarebbe: fare fuoco, istruzioni per l’uso. La prima raccomandazione è nel nome della sicurezza. “Una volta che uno si accerta che l’arma è scarica con maneggi particolari e complicati, che non sto qui a spiegarvi, allora possiamo maneggiarla, tu sei destro o mancino?”, dice l’uomo della penitenziaria, in piedi davanti a 4 o 5 ragazzi. Non sembrano affatto maggiorenni. Dall’agente li separa un tavolino, dove riposano un giubbotto antiproiettile e una mitraglietta Beretta M12, scarica. L’agente la solleva e la consegna ad uno dei ragazzi: “Usala verso il basso e fate spazio”, dice agli altri assiepati intorno. Così inizia la lezione: “Il dito medio della mano destra andrà a premere la sicura automatica al pulsante, e la lascia premuta”. Il ragazzo tuttavia ha qualche difficoltà e una compagna lo corregge. “La signorina è più ferrata”, dice l’agente prima di tornare alle istruzioni per sparare: “Tira, ok, arma, tira forte, no non metter il calcio sulla spalla, non siamo a Fortnite”. Intorno gli studenti sono eccitati dalla curiosità e c’è la fila per imparare a sparare. Dal video emerge il vociare conclusivo: “Posso provare? No dopo ci sono io, ma sono qua da mezz’ora”. L’evento Expo Training è iniziato ieri e si conclude oggi. Sul sito si reclamizza così: “30.000 metri quadri di orientamento al futuro, 5 mila colloqui di lavoro per trovarlo”. Resto oscuro il nesso tra usare armi e preparare gli studenti al lavoro. Ha espresso inquietudine Marco Grimaldi, deputato di Alleanza verdi e sinistra: “Mi mette a disagio non solo l’idea che, a Milano, a un evento pubblico come Expo Training a dei ragazzi siano messe in mano e fatte provare una pistola e delle mitragliette”. “Mi mette profondamente a disagio - ha aggiunto l’onorevole - che la Polizia penitenziaria mostri questo come il cuore del proprio compito, che dovrebbe avere a che fare in primo luogo con la tutela di una convivenza sostenibile all’interno delle carceri, nel rispetto della dignità e dei diritti delle persone recluse”. “Tutte cose - conclude Grimaldi - che non prevedono assolutamente di utilizzare una mitraglietta”. Davanti alle istruzioni per sparare, ammette stupore anche Leo Beneduci, segretario del sindacato Osapp (organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria): “Questa mi suona nuova, è la prima volta che sento una cosa del genere e non mi pare opportuna”. A Beneduci sorge un dubbio: “Sovente la responsabilità viene attribuita ai gradini bassi della gerarchia, nelle forze dell’ordine, ma siamo sicuri che l’agente non abbia ricevuto indicazioni dai superiori?”. In ogni caso, sparare non è certo il cuore del lavoro della penitenziaria: “La mitraglietta M12 viene usata solo per la scorta e la sorveglianza esterna, in prigione le armi neppure possono entrare perché il rischio è che le rubino i detenuti”. Certo anche gli agenti delle carceri devono sapere maneggiare armi: in dotazione hanno una beretta calibro 9. E a giudicare dal video di Lapresse, ai ragazzi non dispiace imparare a sparare. Migranti. Non era una scafista: definitiva l’assoluzione di Marjan Jamali di Simone Gavazzi Il Domani, 2 novembre 2025 Sulla base delle testimonianze dei suoi molestatori, è stata accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Ha trascorso 217 giorni in carcere, seguiti da altri 300 agli arresti domiciliari. Dopo una prima sentenza di assoluzione, la procura ha rinunciato al ricorso. L’avvocato Liberati: “Il Testo unico sull’Immigrazione va modificato”. Sono trascorsi esattamente due anni da quando, il 27 ottobre 2023, Marjan Jamali è sbarcata sulle coste di Roccella Ionica, in Calabria. Il giorno successivo è stata arrestata e da lì è iniziato il suo incubo giudiziario. Ha trascorso 217 giorni in carcere, seguiti da altri 300 agli arresti domiciliari. Il 27 marzo 2025 il Tribunale del Riesame ha revocato le misure cautelari, ma Marjan ha dovuto attendere ancora 81 giorni per la sentenza del 16 giugno, con la quale è stata assolta da tutte le accuse. Trascorsi i termini previsti dalla legge per presentare ricorso e constatata l’assenza di impugnazione da parte della Procura, la sua assoluzione è ora definitiva. A confermarlo è stato il suo avvocato, Giancarlo Liberati, lo stesso che difende anche Maysoon Majidi, anch’essa accusata di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, ma nel cui caso la Procura ha invece presentato ricorso. “Scafisti” per caso - “Oggi è una grande giornata perché la sentenza di Marjan Jamali è diventata definitiva: il pubblico ministero non ha appellato l’assoluzione”, ha dichiarato Liberati. “La storia di Marjan è la storia di tante altre persone, soprattutto uomini, che vengono incarcerati e accusati sulla base di testimonianze rese da soggetti poco credibili, che senza scrupoli li indicano come capitani o scafisti, spesso senza che ciò corrisponda al vero o che abbiano avuto un ruolo di questo tipo”. Una delle persone a cui si riferisce l’avvocato Giancarlo Liberati è Amir Babai. Lo scorso giugno ha tentato di tagliarsi la gola in una cella del carcere di Locri, dove si trova recluso da oltre 700 giorni, condannato in primo grado a sei anni e un mese di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Una condanna basata su nessuna prova certa, come già accaduto in decine di casi simili. Era sulla stessa barca di Marjan. Non era lo scafista. Era uno dei 106 migranti partiti dalla Turchia. La sua unica “colpa” è stata difendere Marjan, molestata da tre uomini durante la traversata. L’Articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, nato per colpire i trafficanti, sta colpendo invece migranti che non hanno fatto altro che salire su una barca. Il meccanismo ormai è noto: bastano le dichiarazioni, spesso ritorsive, vendicative, false, di altri migranti per innescare una macchina giudiziaria che annulla vite intere. Secondo l’avvocato Liberati, la vicenda di Marjan non si chiude qui. “Stiamo preparando la richiesta di risarcimento per la detenzione ingiusta e resta tuttora pendente l’opposizione che ho presentato contro la richiesta di archiviazione delle querele per violenza sessuale e calunnia. Il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione, ma ci siamo opposti: ora sarà il Gip di Locri a decidere. Se l’opposizione verrà accolta, si aprirà un processo nei confronti di coloro che avevano molestato Marjan a bordo e che, per coprire le proprie responsabilità, l’hanno poi falsamente accusata, portandola in carcere. Considerando che Marjan è stata assolta con formula piena, e non dubitativa, vi sono alte probabilità che ottenga il risarcimento”. Ma il caso di Marjan, di Maysoon, di Amir e delle oltre mille persone oggi detenute nelle carceri italiane con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare non è un’eccezione. È la regola. Solo nel 2025, il gruppo di avvocati di cui fa parte Giancarlo Liberati ha già ottenuto la completa assoluzione di tredici imputati. Ma nel frattempo passano mesi, spesso anni, in un’attesa che diventa essa stessa una condanna. E questa non è giustizia. È criminalizzazione. È la costruzione di capri espiatori per fingere che il problema siano i passeggeri e non chi organizza e finanzia le rotte in Libia, in Tunisia, in Turchia, e persino in Europa. Oggi Marjan sta meglio. “È provata e a volte ha ancora gli incubi”, racconta l’avvocato Giancarlo Liberati, augurandosi che il tempo possa lenire le ferite lasciate da quasi due anni di ingiusta detenzione. Alla domanda su cosa chiederebbe alla politica, l’avvocato è netto: “L’articolo 12 del Testo unico sull’Immigrazione andrebbe modificato, perché non distingue tra i trafficanti e i rifugiati politici. È una norma che punisce chi fugge, non chi lucra sulla fuga”. Una posizione condivisa anche da Amnesty, che da tempo denuncia le ambiguità della norma. Secondo l’organizzazione, l’articolo 12 viene spesso applicato anche a chi non svolge alcuna attività da trafficante, ma presta aiuto o assistenza a migranti come avviene nelle operazioni di soccorso in mare. Migranti. Memorandum Italia-Libia: tacere e acconsentire a crimini contro l’umanità di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 2 novembre 2025 Il governo italiano aveva tempo fino a oggi per fermare un accordo che dal 2017 provoca sofferenze e violazioni dei diritti umani. Non lo ha fatto e, dunque, il 2 febbraio 2026 verrà automaticamente prorogato per altri tre anni il “Memorandum d’intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere tra lo stato della Libia e la Repubblica italiana”, comunemente conosciuto come Memorandum Italia-Libia. Firmato otto anni fa durante il governo Gentiloni, il Memorandum prevede il sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica e la collaborazione nel controllo delle frontiere. Nel concreto l’accordo si è tradotto nella detenzione arbitraria di migliaia di persone in movimento e nel respingimento forzato di oltre 158.000 persone verso la Libia, dove torture, violenze, detenzioni arbitrarie e tratta di esseri umani sono documentate da Nazioni Unite, Corte penale internazionale e organizzazioni indipendenti come Human Rights Watch e Amnesty International. Nel marzo 2023 la Missione d’inchiesta delle Nazioni Unite in Libia ha accertato che nel paese sono stati commessi crimini contro l’umanità e ha chiesto la cessazione di ogni forma di supporto agli attori libici coinvolti. Anche la Corte di cassazione italiana e la Corte europea dei diritti umani hanno stabilito che la Libia non è un porto sicuro per lo sbarco delle persone soccorse. Nonostante ciò, la cooperazione è continuata: secondo dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, dall’inizio del 2025 oltre 20.000 persone sono state intercettate e riportate nei centri di detenzione libici. A quasi nove anni dalla sua firma il Memorandum, dunque, rappresenta una pagina oscura delle politiche migratorie italiane ed europee, una pagina che sarebbe stata ampiamente ora di chiudere. L’intesa ha, infatti, contribuito a consolidare un sistema di violazioni sistematiche dei diritti umani a danno di persone in movimento e rifugiate sostenendo di fatto pratiche di respingimento e detenzione illegittime, condotte pericolose e violente di intercettazione in mare da parte della cosiddetta guardia costiera libica, nonché la criminalizzazione delle ong impegnate nelle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Quanto questo Memorandum sia importante, lo dimostra quella che è passata alla storia come la vicenda al-Masri, ricercato per crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale: l’Italia, stato che ospitò nel 1998 la conferenza istitutiva dello Statuto della Corte, è venuta meno agli obblighi di cooperazione con la Corte, riconsegnando con volo di stato in Libia il latitante. *Portavoce di Amnesty International Italia Migranti. Il memorandum con la Libia si rinnova nel nome di Almasri di Mario Di Vito Il Manifesto, 2 novembre 2025 Silenzio di morte Il governo tace, l’accordo anti migranti andrà avanti altri 3 anni. Nuove deduzioni alla Cpi per giustificare la liberazione del boia. L’ambasciatore Massari parla di nuove regole per la cooperazione. E cita la questione costituzionale sollevata dai giudici: non ha sbagliato Nordio, era sbagliata la legge. Si trattava di non fare niente, e il governo è riuscito a svolgere questo compito alle perfezione: oggi si rinnova in automatico il memorandum tra Italia e Libia “sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere”. Scatta in sostanza la clausola inserita all’articolo 8: le parti possono chiedere di rivedere gli accordi solo in forma scritta e con un preavviso almeno di tre mesi sulla scadenza. Il patto venne stipulato il 2 febbraio del 2017, si intenderà tacitamente confermato il 2 febbraio del 2026 e oggi è l’ultimo giorno utile per poterlo disdire o modificare. Se ne riparlerà tra tre anni. Nessuna sorpresa: il dibattito sul memorandum non è esistito in parlamento e nel paese soltanto poche tra associazioni umanitarie e ong hanno provato, vanamente, ad alzare la voce. Dunque la collaborazione continuerà, i lager per migranti in Libia non interromperanno il loro lavoro e la famigerata guardia costiera di Tripoli proseguirà la sua sanguinaria opera di limitazione delle partenze verso le coste italiane. Tutto questo in cambio di soldi, mezzi e addestramento. Un affare. Ieri, intanto, la Corte penale internazionale ha reso pubblica l’ultima risposta di Roma alle domande della prima pre-trial chamber sul caso Almasri, nome simbolo dello stretto rapporto che c’è tra Italia e Libia. Le due paginette, firmate dall’ambasciatore italiano nei Paesi Bassi Augusto Massari e consegnate all’Aja venerdì, sono l’estremo tentativo di evitare un deferimento di fronte al consiglio di sicurezza dell’Onu per mancata cooperazione giudiziaria. E i toni, rispetto al passato quando si parlava di “mandato d’arresto confusionario” e si concionava di “interessi strategici” e “sicurezza nazionale”, sono molto più bassi. Il nostro paese quasi ammette l’errore fatto con la mancata consegna dell’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli, ricercato per crimini di guerra e contro l’umanità. Scrive Massari: “L’esperienza maturata con il caso Almasri ha portato l’Italia, in tutte le sue articolazioni (parlamento, governo e magistratura), a intraprendere una revisione delle modalità con cui deve operare il sistema di cooperazione delineato dalla legge italiana”. Il riferimento è alla decisione presa giovedì dalla Corte d’appello di Roma di sollevare davanti alla Corte costituzionale una questione sulla parte della legge numero 237 del 2012 (quella che regola appunto la cooperazione con la Cpi) in cui si parla di obbligo da parte dell’autorità giudiziaria di interloquire con il ministero della giustizia. La sponda al governo è evidente: il problema con Almasri - cioè proprio il motivo per cui il 21 gennaio il suo arresto non venne convalidato - risiedeva nel fatto che da via Arenula nessuno rispose alle sollecitazioni della Corte d’appello di Roma. Che ora dice: in fondo quella parte della legge forse era sbagliata. Non basta per coprire l’inazione del ministro Carlo Nordio e dei suoi uffici (che nemmeno si sono degnati di interloquire con la Corte dell’Aja), ma i giudici di fatto concedono che la norma era da considerare quantomeno discutibile. Peccato che tutti i più importanti paesi europei prevedono nei casi del genere avvenga un dialogo tra i magistrati e l’esecutivo, che ha sempre l’ultima parola: in Francia il guardasigilli filtra tutte le richieste, in Germania il ministero federale della giustizia ha potere di veto, in Spagna il governo ha facoltà di bloccare tutto per motivi di politica estera, nel Regno Unito il segretario di stato ha il pieno controllo delle procedure. Ad ogni modo, Massari assicura che qualcosa stiamo facendo. Di più, l’ambasciatore spiega all’Aja che con il diniego opposto dalla Camera alla richiesta di autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano non è affatto un colpo di mano, perché “la magistratura ha il potere di sollevare la questione del conflitto di attribuzione di poteri statali dinanzi alla Corte Costituzionale; inoltre, la questione può essere sollevata senza alcun termine prefissato. La Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibili ricorsi analoghi in diverse occasioni”. Un ricorso c’è già, l’ha presentato a nome di Lam Magok, vittima di Almasri, l’avvocato Francesco Romeo. Ma proprio questa settimana il tribunale dei ministri ha disposto l’archiviazione dei due ministri e del sottosegretario in virtù dello scudo parlamentare. Massari però insiste molto sul punto della libertà d’iniziativa della giurisdizione, e fa presente che esiste anche un’indagine aperta per false informazioni ai pm nei confronti di Giusi Bartolozzi, capa di gabinetto del ministero della Giustizia. “La procura è, ovviamente, indipendente e la durata del procedimento non è in alcun modo prevedibile”, argomenta. Nessun accenno ovviamente al clima che si respira in Italia quando si parla di giustizia: ogni decisione presa da un giudice e sgradita al governo diventa casus belli; la premier ormai manco nasconde più che la riforma della separazione delle carriere è una vendetta contro le toghe; chi ha rinviato alla giustizia europea le leggi sull’immigrazione - a ragione, viste le sentenze - è stato additato e oggetto di linciaggio televisivo per mesi e mesi. E pure sul caso Almasri nello specifico non c’è mai stata alcuna vera ammissione di responsabilità da parte dell’esecutivo. “L’Italia rinnova la sua ferma intenzione di collaborare positivamente con la Cpi”, scrive Massari prima dei cordiali saluti. Da domani, però. Scordiamoci il passato. Nella speranza che il prossimo criminale internazionale che passa da queste parti non sia un pezzo fondamentale della nostra politica estera come l’ultimo. Migranti. Medici senza frontiere: “Cacciati anche noi dalla Libia, ultimi a rimanere” di Luciana Cimino Il Manifesto, 2 novembre 2025 Intervista a Steve Purbick, responsabile dei programmi di Msf in Libia. Non c’è più nessuna ong in Libia a occuparsi della sopravvivenza dei migranti. All’ultima rimasta, Medici senza Frontiere, il ministero degli Esteri di Tripoli ha inviato lo scorso 29 ottobre una lettera con l’intimazione di lasciare la Libia occidentale entro il 9 novembre. “È stato uno shock”, racconta al manifesto Steve Purbrick, responsabile dei programmi di Msf in Libia. Quali motivazioni vi sono state date dal governo di unità nazionale guidato da Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh? Per ora nessuna. Abbiamo chiesto le ragioni di questo atto al ministero degli Affari Esteri, ma non ci ha risposto. Quando abbiamo ricevuto la lettera abbiamo chiesto chiarimenti anche alla Commissione per la Società civile e risultiamo legalmente registrati e autorizzati a lavorare in Libia. Le nostre attività lì erano state sospese già a marzo ma avevamo capito informalmente che ci sarebbe stato permesso di riaprire, quindi questa comunicazione è arrivata del tutto inaspettatamente. Tutto il processo è stato poco trasparente. L’espulsione di Mfs arriva in un contesto già maldisposto verso le organizzazioni umanitarie. Lo scorso aprile l’Agenzia per la sicurezza interna (Asi) libica aveva chiesto la sospensione delle attività di dieci organizzazioni umanitarie internazionali accusate di “azioni ostili”. Tra cui, oltre a Msf, l’italiana Cesvi e Terres des Hommes... Il governo di Tripoli ha sostenuto anche che le ong stavano cercando di “insediare migranti di origine africana” senza fornire alcuna prova al riguardo. Il procuratore generale ha emesso un parere favorevole alle organizzazioni non governative a luglio, affermando che non c’erano problemi e che avrebbero potuto riprendere le attività nel giro di qualche mese. Proprio quando abbiamo avuto la sensazione che il problema stava per essere risolto, abbiamo ricevuto questa nuova sospensione. È chiaro che si tratta di una repressione che ha motivi politici: tra tagli drastici ai finanziamenti per gli aiuti internazionali e il rafforzamento delle politiche di frontiera europee in collaborazione con le autorità libiche, non ci sono più ong internazionali che forniscono assistenza medica ai rifugiati e ai migranti nella Libia occidentale. Eravamo gli ultimi rimasti. Qual era l’attività di Msf in Libia? Nel 2024 abbiamo effettuato oltre 15 mila visite mediche a migranti e libici. Abbiamo assistito a casi molto estremi a causa della tratta di esseri umani, della ripetuta detenzione e tortura di migranti e rifugiati. Ma facevamo anche assistenza sanitaria riproduttiva e in particolare cure per la tubercolosi per la popolazione locale. In collaborazione con il ministero della Salute avevamo aperto l’unico servizio di degenza per questa malattia in diverse città. Da quando siamo stati costretti a sospendere le nostre attività a marzo, e poi a ritirarci, le unità contro la tubercolosi hanno registrato almeno 18 decessi su 40 ricoveri. Quindi, senza il nostro supporto tecnico la qualità dell’assistenza è peggiorata. E ci sono lacune sostanziali nell’assistenza sanitaria pubblica. Abbiamo anche ricevuto segnalazioni di alcuni ospedali che sono stati sommersi dai migranti che si sono presentati per le cure perché non avevano altre alternative per ricevere assistenza medica. E abbiamo report sui decessi di migranti nei pronto soccorso, sulla negligenza nelle cure e l’incapacità degli ospedali di rispondere. In definitiva, ci sono delle conseguenze per il sistema sanitario libico nel suo complesso, non solo per i migranti. Come pensate di uscire da questa situazione? Stiamo ancora cercando di interagire con le autorità di Dbeibeh e speriamo ancora di riuscire a risolvere questo problema. Anche se fino a ora non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione, né ufficiale né ufficiosa. Msf lavora in Libia dalla rivoluzione del 2011, quando conducevamo evacuazioni in barca da Misurata a Tunisi. Eravamo lì durante il Covid e durante l’alluvione di Derna che ha causato migliaia di morti e sfollati. Crediamo che Msf abbia ancora un ruolo importante da svolgere in Libia, che non è un paese sicuro per i migranti e i rifugiati. Noi siamo pronti a impegnare le nostre risorse in vista di un afflusso di almeno mezzo milione di rifugiati sudanesi mentre l’Italia e la Ue continuano a interagire con i responsabili di violenze e torture. Venezuela. Alla fine Trump attaccherà Maduro (e il fentanyl non c’entra nulla) di Lucia Capuzzi Avvenire, 2 novembre 2025 Spostata la portaerei in prossimità del bersaglio, ormai chiaro: il Venezuela. Ma Caracas è solo una tappa per rimettere piede nel Giardino di casa Usa: l’America Latina. La strategia Usa spiegata. Otto paci e una guerra. Trump “il pacificatore” - non si stanca di ripeterlo - ha messo fine ai conflitti nei punti più cruenti del globo, dal Congo a Gaza. Tanto da meritare il Nobel - precisa con una buona dose di stizza -, scippatogli alla fine “per ragioni politiche”. Nel suo Continente, però, lo stesso presidente ha deciso di avviare un conflitto di intensità inedita. Una sorta di “nuova guerra dell’oppio” - o meglio, del Fentanyl - nel mirino formalmente ci sono i narcos, “il Daesh dell’Occidente”, “terroristi ansiosi di avvelenare i cittadini statunitensi”. In gioco, tuttavia, c’è molto di più. La riconquista dell’egemonia perduta a Sud del Rio Bravo - il vecchio “Giardino di casa” - nei decenni post-Guerra fredda quando la Casa Bianca s’è lasciata distrarre da altri scenari, dal Medio Oriente all’Ucraina. Nonché, soprattutto, tanti buoni affari. Incluso il “business dei business” secondo The Donald: lo sfruttamento dei minerali critici per la transizione energetica, di cui l’America Latina ospita ingenti riserve. Il “triangolo del litio” è solo una: il Brasile, ad esempio, ha la seconda maggior concentrazione al mondo di terre rare. La “dottrina Monroe 2.0” del tycoon - riadattamento dell’adagio pronunciato dall’allora presidente James Monroe, “L’America agli americani”, presupposto di oltre un secolo di ingerenza Usa nella parte centro-meridionale del Continente - è un mix di nostalgie imperiali, ossessione anticinese - il nemico geostrategico per antonomasia - e tecniche di vendita da immobiliarista navigato. A cucirle insieme un tratto caratteriale che il presidente ha trasformato in principio guida dell’azione politica: l’imprevedibilità. “Madman theory”, la teoria del matto, la chiamano i politologi: un leader riesce a convincere gli avversari di essere capace di qualunque cosa, esercitando nei loro confronti una forma importante di coercizione. Non è la prima volta che un capo della Casa Bianca la adotta. Di nuovo - come per la guerra alla droga, ufficialmente dichiarata nel 1971 - il riferimento è Richard Nixon. Nessuno, però, l’aveva portata all’estremo trumpiano. Dopo essere partito d’assalto per la sovranità del Canale di Panama, Trump ha scelto il Venezuela per l’esordio della sua “Dottrina Monroe 2.0”. La prova di forza alle presidenziali di luglio 2024 ha screditato definitivamente Nicolás Maduro agli occhi della comunità internazionale. E, cosa ancora più importante, del resto della regione. Nonostante i distinguo, a parte i fedelissimi quanto ininfluenti Cuba e Nicaragua, il leader progressisti continentali gli hanno voltato le spalle. Nessuno è disposto a esporsi a sua difesa. Washington, dunque, ha ampi margini di manovra. E intende utilizzarli. In quale modo, però, non è dato saperlo. Finora, la Casa Bianca ha agito lungo un doppio binario, risultato anche del braccio di ferro all’interno dell’entourage presidenziale ristretto. Da una parte, il falco Marco Rubio preme per un colpo di mano finalizzato a un cambio di regime. È lui lo stratega degli attacchi nei Caraibi e nel Pacifico, avviati il 2 settembre, contro imbarcazioni accusate di trasportare droga, costati la vita finora a 57 civili senza ulteriori prova. Nonché del dispiegamento massiccio di soldati e portaerei, il via libera alle operazioni della Cina e delle esercitazioni militari. Un’aggressione che, nei piani del segretario di Stato nostalgico dei Neocon, dovrebbe preludere a un intervento per abbattere il “narco-regime” di Maduro, nonostante il ruolo marginale del Venezuela nel traffico di droga. Soprattutto del fentanyl, di cui quest’ultima non produce un grammo. Ed “esportare la democrazia”, in stile Iraq e Afghanistan, incluse fantomatiche armi di distruzione di massa. Le dispendiose “guerre eterne” contro le quali Trump si è apertamente scagliato fin dalla campagna per il primo mandato. Gli alleati ultrà, da Laura Lomer all’ex spin-doctor Stephen Bannon, non smettono di ricordaglielo. E sostengono la necessità di negoziare con Maduro per ottenere vantaggi nella produzione di petrolio senza le perdite di un conflitto. Il tycoon non esclude tale opzione. L’inviato speciale Richard Grenwell ha portato avanti per mesi colloqui riservati con i rappresentanti di Caracas, propensi ad aprire a ingenti investimenti Usa in ambito energetico. La trattativa si è interrotta a settembre. Uno stop definitivo che anticipa un’invasione? Con “Madman Trump” non si può mai dire. Già nel 2019, dopo aver appoggiato la proclamazione presidenziale dell’oppositore Juan Guaidó, il leader repubblicano aveva fatto marcia indietro. Il “pugno di ferro” di Washington si estende ben oltre Caracas. Il Brasile - colpevole di avere consentito ai giudici di perseguire per tentato golpe Jair Bolsonaro - è stato punito con daci extra sulle proprie esportazioni. Nei confronti di Luiz Inácio Lula da Silva, simbolo della sinistra mondiale, tuttavia, Trump nutre una simpatia istintiva, come dimostrano gli elogi all’Assemblea generale e l’incontro “positivo” in Malaysia di questa settimana. Il contrario dell’avversione per il presidente colombiano Gustavo Petro suo nemico personale, come dimostrano le sanzioni comminategli con toni particolarmente aspri . Anche in questo caso, la ragione ufficiale è la droga: Bogotà è accusata di poco impegno nel contrasto alla produzione di coca. Nel 2024, in effetti, si è registrato un incremento record: 2.600 tonnellate, il 53 per cento in più rispetto all’anno scorso. Sono, però, schizzati anche i sequestri: 1.764 tonnellate tra agosto 2022 e novembre 2024. Oltretutto, è il Fentanyl non la cocaina la priorità degli Usa per l’impatto in termini sanitari. E quest’ultimo è appannaggio dei cartelli messicani, i registi del narcotraffico globale. Sinaloa, Jalisco, Familia Michoacana, Golfo e Nord Est: le cinque mafie più potenti che si spartiscono il Paese sulle rive del Rio Bravo, sono state definite “organizzazioni terroristiche”. Il Pentagono, dunque, è autorizzato a impiegare la forza nei loro confronti. Finora, però, non l’ha fatto. Né sembra intenzionato a farlo nel prossimo futuro. Al contrario: con la presidente Claudia Sheinbaum - “una persona fantastica”, ha detto anche di recente -, i rapporti sono ottimi. Sono politicamente lontani i tempi delle provocazioni virulente del tycoon durante la campagna elettorale. Il Messico, governato dal centro-sinistra, si è dimostrato un partner efficiente nel contenimento della migrazione dal Continente, calata al livello più basso degli ultimi anni. Al contempo, le autorità hanno intensificato le operazioni anti-narcos con 35mila arresti - più del quadruplo rispetto alla precedente Amministrazione di Andrés Manuel López Obrador - e 1.600 laboratori di fentanyl distrutti. Di fatto, poi, retorica a parte, il magnate Trump sa che il Messico è un “alleato inevitabile”: gli scambi commerciali fra i due Paesi, che condividono 3.200 chilometri di confine terrestre, generano 950mila milioni di dollari l’anno. Una cifra irrinunciabile per entrambi. Al “bastone” di dazi, minacce, attacchi armati, sanzioni, The Donald abbina la “carota” di vantaggi, economici in primis. L’ultimo, clamoroso esempio è stato il salvagente da venti miliardi di dollari - più altrettanti in finanziamenti attraverso istituti privati - per “l’amico” argentino Javier Milei, in calo nei sondaggi a causa degli scandali di corruzione e della svalutazione della moneta. Come i due leader hanno riconosciuto, l’aiuto Usa è stato determinante per capovolgere i prognostici della vigilia e consegnare a Milei una “vittoria schiacciante” alle legislative di domenica scorsa. Il leader della Casa Rosada, dunque, può riaccendere la motosega e proseguire con i tagli draconiani nonché con la riforma ultraliberista del mercato del lavoro. Gli Usa, nel frattempo, “hanno guadagnato molti soldi grazie a queste elezioni. I titoli sono aumentati mentre il rischio Paese dovuto all’indebitamento è diminuito”, ha commentato il capo della Casa Bianca. Un messaggio ai politici dell’intero Continente: l’appoggio del tycoon conviene, in tanti sensi. Lo sanno bene Nayib Bukele e Daniel Noboa, presidenti millennial di El Salvador e Ecuador, emuli di Trump. La loro “generosità” nel ricevere i migranti espulsi dagli Usa fa sorvolare l’Amministrazione sui metodi sbrigativi adottati nella battaglia al crimine. El Salvador, in particolare, vive in stato d’assedio dall’entrata in carica di Bukele, nel 2019, che l’ha rinnovato 41 volte. Su quasi 89mila arrestati con l’accusa di appartenere a una gang, due terzi sono ancora in attesa di sentenza. Il leader, intanto, ha smantellato il sistema giudiziario e cambiato la Costituzione per potere essere rieletto senza limiti, tanto da aggiudicarsi il titolo di “dittatore cool”. Maldicenze infondate, secondo una dichiarazione del dipartimento di Stato. Nel “Giardino di casa”, spesso, a fare a differenza tra regimi e democrazie è il punto di vista. Del Nord. Venezuela. Un nuovo incubo per Trentini: preoccupano i venti di guerra di Mitia Chiarin La Nuova Venezia, 2 novembre 2025 Al Lido di Venezia in ansia per le sorti del cooperante Alberto Trentini a causa dell’escalation militare tra Usa e Venezuela. La Farnesina monitora. Solo qualche settimana fa si era parlato di una possibile svolta, i genitori preferiscono non parlare. Tra due settimane, il 15 novembre, sarà un anno che, senza accuse specifiche, Alberto Trentini, il cooperante del Lido di Venezia, si trova incarcerato nel duro penitenziario di Caracas, El Rodeo I, in Venezuela. Solo poche settimane fa sembrava vicino un concreto spiraglio per la sua liberazione. Ma ora tutto è in discussione per i venti di guerra tra Usa e Venezuela. Roma e Caracas, infatti, solo lo scorso 19 ottobre avevano vissuto un’importante fase di disgelo. Sancito dalla stretta di mano fra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la rappresentante venezuelana Yelitza Santaella. Un gemellaggio tra il terzo municipio di Roma e il Libertador di Caracas con un concerto dell’orchestra sinfonica nazionale venezuelana in occasione della canonizzazione dei santi venezuelani José Gregorio Hernández Cisneros e Maria del Monte Carmelo Rendiles Martínez, decisa da Papa Leone XIV. Segnali importanti. Dietro le quinte c’era stato il lavoro di tessitura dell’inviato speciale Luigi Maria Vignali. Ma in pochi giorni lo scenario si è nuovamente complicato. Sul paese governato da Maduro incombe l’assedio Usa al largo del Venezuela. Gli Stati Uniti hanno inviato la portaerei Uss Gerald Ford che dovrebbe arrivare a destinazione la prossima settimana. Accompagnata da altre tre navi da guerra, per un totale di 4.000 militari a bordo. Un’azione decisa dal presidente Usa Donald Trump contro il narcotraffico. Per il ministro della Difesa Crosetto, “l’intervento contro il narcotraffico che arriva principalmente dal Venezuela sarà molto duro da parte degli Stati Uniti”. Una situazione che rischia di rendere di nuovo un incubo il lavoro diplomatico per liberare i prigionieri politici come Alberto Trentini. Che non è il solo italiano detenuto. In cella c’è anche Biagio Pilieri, sessantenne giornalista italiano con doppio passaporto, che vive da un anno e due mesi recluso in un altro carcere venezuelano, l’Helicoide. Una situazione difficilissima, quindi. Al Lido i genitori di Alberto preferiscono non parlare. Così come gli amici impegnati perché la vicenda di Trentini si chiuda con la sua liberazione. Anche la Farnesina è alla finestra: dal ministero degli Esteri riferiscono che il ministro Antonio Tajani sta seguendo con grande cautela il dossier Venezuela: “Vediamo quale sarà la reazione dei venezuelani”. L’ultima telefonata della presidente del Consiglio Meloni alla famiglia Trentini è di un mese fa. La scelta del silenzio è l’unica strategia per sperare in una soluzione positiva. Lo ammettono anche Ottavia Piccolo e Beppe Giulietti che con l’associazione “Articolo 21” si sono subito mobilitati per la liberazione di Trentini. “Il momento è delicato, non è il tempo di parlare”,taglia corto l’attrice. “Sono ore di attesa, ansiosa. La famiglia sceglie il silenzio. Lo comprendiamo. Io davanti a questa situazione internazionale sono molto preoccupato perché, va detto, sia Trump che Maduro non mettono al primo posto il rispetto dei diritti umani”, incalza il giornalista Beppe Giulietti. E di situazione delicatissima parla il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia dopo l’omelia per Ognissanti al cimitero di Mestre. “Noi cittadini, amici, conoscenti possiamo fare in questo momento solo una cosa: pregare” ha sottolineato Moraglia. “Sono situazioni politiche molto complicate, molto complesse, in cui giocano elementi in cui un passo sbagliato significa danneggiare la persona. Noi quello che è possibile fare, e noi siamo a conoscenza di quello che si può fare, lo si fa. Ma occorre evitare di danneggiare. Quando ci sono persone private della libertà, in mano a ordinamenti giudiziari che sono lontano anni luce dai nostri, occorre fare questo. Io prego per Alberto, per la mamma. Per chi soffre del protrarsi di questa situazione. Sapessimo di un gesto possibile da fare che non lo danneggi, lo faremmo subito”, ha concluso il patriarca Moraglia rispondendo alle domande dei giornalisti. Intanto gli amici continuano a tenere alta l’attenzione sulla necessità di liberare quanto prima Alberto. Con una mobilitazione estesa: il primo novembre è stato il 240esimo giorno di digiuno a staffetta e oltre 110.560 le firme su Change.org, per chiederne la liberazione. Migliaia i volti nel “muro della speranza”, per chiederne il rilascio. La Regione Piemonte è scesa in campo chiedendo al governo di “intervenire con urgenza” per il rilascio del cooperante e degli altri detenuti. Venezuela. Caso Trentini: Trump gioca con le bombe, Maduro con la paura, Roma con le parole di Andrea Fiore L’Identità, 2 novembre 2025 Mentre il mondo non ha ancora metabolizzato le guerre in Ucraina e Gaza, Donald Trump sembra pronto a spostare il baricentro del conflitto verso sud. Il Venezuela, dilaniato da anni di crisi, fame e repressione, rischia di diventare il nuovo bersaglio della politica estera americana. Ufficialmente si parla di narcotraffico, ma il vero obiettivo è chiaro: Nicolás Maduro, il leader boliviano che da anni sfida Washington e si rifugia in alleanze tossiche con regimi autoritari. Nel frattempo, un cittadino italiano, Alberto Trentini, è detenuto da oltre un anno in un carcere venezuelano. Un ostaggio silenzioso, dimenticato da tutti, strumentalizzato in un gioco geopolitico che non guarda in faccia nessuno. Diplomazia a intermittenza: l’Italia che non osa - Il copione è già scritto: portaerei americane nel Mar dei Caraibi, bombardieri in volo, la CIA che opera nell’ombra. Trump nega, ma intanto il Pentagono prepara. Maduro minaccia, ma intanto scrive lettere a Putin, Xi Jinping e Teheran. E l’Italia? Intrappolata tra i suoi miliardi di crediti verso Caracas e la sorte di un connazionale, si muove con la grazia di un elefante in una cristalleria. Non riconosce Maduro, ma spera che proprio lui liberi Trentini. Una diplomazia schizofrenica, che non ha il coraggio di scegliere. Nel frattempo, Trentini resta in cella, senza accuse chiare, senza processo, senza voce. Il prezzo dell’indifferenza: civili e pedine - Il Venezuela è diventato una scacchiera globale. Russia, Cina e Iran osservano, pronte a muovere le proprie pedine. Se gli Stati Uniti decidessero di colpire, non sarà per giustizia o democrazia, ma per una nuova partita di potere. Trump gioca con la tensione, Maduro con la disperazione, e il mondo, come sempre, guarda e tace. A pagare saranno, come sempre, i civili. E forse anche un italiano dimenticato da tutti. Alberto Trentini non è solo un nome: è il simbolo di quanto poco conti una vita quando i governi si voltano dall’altra parte. E noi, che dovremmo difenderlo, ci limitiamo a sperare. Ma la speranza, senza coraggio, è solo un modo elegante per lavarsene le mani.