Suicidi in carcere, serve una commissione d’inchiesta di Valter Vecellio Italia Oggi, 29 novembre 2025 Nelle carceri italiane si consuma una vera e propria strage. Il livello di disperazione deve essere insopportabile, il gesto è meditato: si attende il momento opportuno, quando gli altri dormono. Poi si fabbrica una corda con un lenzuolo o i lacci delle scarpe. Infine, si cerca un punto che regga il peso del corpo, fin quando non arriva la fine… Sì: occorre essere davvero disperati, non vedere più possibilità d’uscita… Vai a sapere cosa può passare nella testa di un detenuto che decide di farla finita. Fatto è che nelle carceri italiane si consuma una vera e propria strage. Solo quest’anno (e il 2025 non è concluso), si sono tolti la vita, ufficialmente, ben 72 detenuti. E per ogni detenuto suicida ce ne sono almeno dieci che ci provano, salvati dal pronto intervento dei compagni di cella o degli agenti della polizia penitenziaria… Solo negli ultimi giorni un detenuto si è impiccato nel carcere di Brindisi; un altro si è ucciso nel penitenziario di Pavia. Quasi sempre giovani, vai a sapere come sono finiti dove sono finiti. Certo, molti non erano stinchi di santo, tutt’altro. Si potrebbe essere tentati di dire: un delinquente in meno in circolazione… Epperò, se questo è il ragionamento, almeno cambiamola la Costituzione, quell’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, devono tendere alla rieducazione del condannato”. Non sono solo i detenuti a patire. Nel solo 2025 si sono tolti la vita anche quattro operatori. L’ultimo a Cremona, impiccato nel suo ufficio. Alla base di quel gesto ci possono essere mille ragioni. Tuttavia si può escludere che le condizioni in cui era costretto a operare abbiamo fatto scattare una molla disperata? Si fanno tante commissioni parlamentari d’inchiesta. Era appena finita la guerra e Piero Calamandrei propose di istituire una inchiesta sui suicidi in carcere. Non se ne fece nulla. A quasi cent’anni di distanza forse sarebbe il caso di dar seguito a quella proposta. Se il governo delegittima il garante dei detenuti di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 29 novembre 2025 L’esecutivo ha deciso di affidare al garante della privacy il monitoraggio dei diritti fondamentali previsto dal Nuovo Patto europeo su migrazione e asilo. Un segno di sfiducia istituzionale verso il garante dei detenuti, che rischia di essere relegato a un ruolo marginale. Il 21 novembre, durante un convegno promosso da Antigone, si è tornati a parlare dei garanti delle persone private della libertà, figure che spesso restano ai margini del dibattito pubblico, relegate a un ruolo percepito come “tecnico” o “di nicchia”, ma che invece rappresentano uno dei pochi argini istituzionali rimasti nei luoghi più fragili della Repubblica. E non è un caso che se ne parli proprio ora, in un momento in cui il sistema penitenziario attraversa una crisi profonda: sovraffollamento tornato a livelli allarmanti, eventi critici in aumento, una percezione diffusa - dentro e fuori gli istituti - di crescente chiusura, non solo fisica ma culturale. Carcere senza respiro, il nuovo report di Antigone - Negli ultimi anni molti segnali indicano che la vita detentiva si sta progressivamente irrigidendo, con meno spazi di attività, meno progettualità e più tempo in cella. Una tendenza che contrasta apertamente con lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione e con la prospettiva di una pena che non sia solo contenimento, ma occasione - diversa per ciascuno - di cambiamento. È in questo quadro che il ruolo dei garanti diventa ancora più decisivo: non si tratta di un orpello burocratico, ma un presidio di umanità, trasparenza e monitoraggio. Chi sono davvero i garanti - Per capire perché queste figure sono così importanti, occorre partire dalla loro natura ibrida e, in fondo, unica: non sono giudici o pubblici ministeri e neppure rappresentano l’amministrazione penitenziaria. Semmai, sono istituzioni “ponte” e la loro funzione è osservare, ascoltare, segnalare, intervenire quando necessario. Ma, soprattutto, garantire che i diritti delle persone private della libertà non restino sulla carta. Questa impostazione risponde a una logica internazionale precisa. Nel 2002 l’Onu ha approvato l’Optional protocol to the convention against torture (Opcat), che andava a integrare la Convenzione contro la tortura del 1984 e prevedeva in ogni Stato la creazione di un National preventive mechanism (Npm), un organismo indipendente incaricato di monitorare i luoghi di privazione della libertà per prevenire abusi, trattamenti inumani e violazioni sistemiche. Garantire i diritti ai detenuti Lgbt+, banco di prova del rispetto della dignità in carcere - L’Italia ha ratificato il protocollo nel 2013, quindi l’anno successivo ha istituito la figura del garante nazionale, un’autorità che svolge esattamente il ruolo previsto dall’Onu. Questo è un punto cruciale: il garante, per sua natura, non è un osservatore esterno messo lì per gentile concessione, ma parte di un sistema internazionale di controllo democratico dei luoghi meno visibili. Un meccanismo che funziona solo se è indipendente, autorevole e riconosciuto. Una storia poco raccontata - Il garante nazionale ha svolto ispezioni negli istituti penitenziari, ma anche in quei luoghi dove spesso il dibattito pubblico si ferma sulla soglia: i centri di permanenza per il rimpatrio, gli hotspot, le navi quarantena utilizzate durante la pandemia, persino il monitoraggio dei rimpatri forzati. Interventi che hanno prodotto risultati concreti. Alcune ispezioni hanno portato alla chiusura temporanea di reparti, al miglioramento delle condizioni materiali, alla revisione di procedure interne, alla denuncia di trattamenti contrari alla dignità. Piano carceri di Nordio, operazione ideologica senza strategia - Altre volte si tratta di risultati più silenziosi: un detenuto che ottiene una visita medica negata, un reparto che viene riaperto con criteri diversi, una prassi amministrativa che cambia. È un lavoro fatto di migliaia di piccoli atti, che raramente finiscono sui giornali ma che incidono sulla vita quotidiana delle persone. C’è poi l’aspetto fondamentale del racconto, fatto di report e di una relazione annuale al parlamento che approfondisce la condizione di quei luoghi di privazione della libertà, suggerendo interventi affinché la dignità non rimanga sulla porta. Lavoro che, da qualche tempo, ha iniziato a diradarsi. Italia a macchia di leopardo - Era il 1997 quando Antigone promosse a Padova un convegno per lanciare, prima fra tutte, la proposta di istituire un garante nazionale. Nei 17 anni successivi iniziarono a essere istituiti garanti regionali e comunali. Il primo nacque a Roma, dove fu Patrizio Gonnella, che poi diventerà presidente dell’Associazione, a promuoverlo. La proposta venne presentata in consiglio comunale da Luigi Nieri e Silvio Di Francia, e l’allora sindaco Walter Veltroni indicò Luigi Manconi come primo garante cittadino. Nel corso degli anni ne sono seguiti a decine, nati in tempi diversi, con competenze variabili e risorse spesso insufficienti. Un mosaico irregolare, specchio della frammentazione del Paese. Ci sono territori dove il garante è una presenza quotidiana negli istituti, capace di instaurare relazioni con volontariato, enti locali e magistratura di sorveglianza. Da altre parti, invece, il ruolo resta sulla carta, privo di personale o perfino di sede. Ci sono poi nomine che fanno discutere, per un profilo che di reale indipendenza ha poco o nulla. Una disomogeneità che pesa, in quanto la qualità della vita detentiva dipende anche dalla capacità del territorio di costruire progetti, attività, percorsi di reinserimento. Quando il sistema penitenziario si chiude, la società civile diventa ancora più essenziale. Ma per essere efficace deve poter entrare, conoscere, partecipare senza ostacoli amministrativi inutili. Un modello più aperto - dove l’ozio in cella non sia la norma, ma l’eccezione - richiede una regia locale forte, nel quale il ruolo di osservazione indipendente dei garanti, di dialogo tra persone detenute, le loro famiglie, l’amministrazione penitenziaria, il territorio, è spesso fondamentale. Questione di indipendenza - In un contesto simile è spesso l’assenza di indipendenza che rischia di pesare sulla reale efficacia di questa autorità di garanzia. Lo si evince osservando ciò che sta accadendo con il garante nazionale. Dal cambio del collegio non è stata più pubblicata una relazione al parlamento, una prassi consolidata quando a guidare l’ufficio era Mauro Palma. Le visite di monitoraggio non restituiscono nessuna informazione e le prese di posizione pubbliche sono quanto mai rare. Come ha scritto Patrizio Gonnella sul Manifesto, “L’autorità oggi è una delle tante istituzioni formali che taglia nastri, visita ma non fa visite nei luoghi di privazione della libertà, non si apre e non informa la società. È il declino di un’istituzione che si propone come una voce non dissonante rispetto a quella ufficiale”. Non sorprende così la decisione assunta poche settimane fa dal governo che, nell’individuare un’autorità nazionale che avrebbe svolto il ruolo di meccanismo indipendente di monitoraggio dei diritti fondamentali, previsto dal Nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, ha scelto il garante della privacy. Infatti, se la scelta più importante poteva essere quella di dare vita a un’autorità indipendente sui diritti umani, in linea con i Principi di Parigi del 1991, cui l’Italia non ha ancora dato seguito, in assenza di questo “coraggio” la scelta più naturale, logica e coerente avrebbe voluto vedere il garante delle persone private della libertà investito di questa responsabilità, al netto del fatto che si tratti di un’autorità che già opera quotidianamente nel monitoraggio dei diritti delle persone migranti: nei cpr, negli hotspot, nei voli di rimpatri forzati. Nelle carceri, anche i medici sono abbandonati - Competenze, esperienza e un mandato perfettamente allineato ai principi delle Nazioni Unite. E invece la decisione del governo è stata appunto un’altra: affidare il ruolo al garante per la protezione dei dati personali. Un’istituzione nata per altri scopi e senza alcuna expertise specifica rispetto al monitoraggio che andrà a fare. Questa scelta non è neutra. Trasmette l’idea, forse involontaria, ma chiara, che il lavoro del garante nazionale non sia centrale, non sia il perno su cui far ruotare la tutela dei diritti nelle situazioni di maggiore vulnerabilità. È un segnale di sfiducia istituzionale in un momento in cui la sua funzione sarebbe invece da rafforzare. Guardare avanti: cosa serve davvero - Il convegno del 21 novembre lo ha reso evidente: non basta difendere l’esistente. Serve un salto di qualità. Servono garanti con risorse adeguate, personale formato, un coordinamento nazionale forte, un rapporto stabile con la società civile. Servono procedure che garantiscano accesso agli istituti senza barriere inutili, valorizzando il ruolo del volontariato come attore del trattamento, non come presenza tollerata. Serve, soprattutto, che la politica riconosca apertamente che i garanti non sono un optional. Sono un pezzo della democrazia. Un pezzo fragile, certo, ma fondamentale. E che proprio per questo va protetto, non indebolito. *Responsabile comunicazione di Antigone L’allarme di Apprendi sui detenuti: “Sono tutti pazienti, ma il sistema non riesce a curarli” di Sonia Sabatino meridionews.it, 29 novembre 2025 “Il carcere è un inferno per definizione”. Non usa mezzi termini Pino Apprendi, garante dei diritti dei detenuti di Palermo, che racconta una situazione quotidiana sempre più insostenibile all’interno delle carceri siciliane. A peggiorare le condizioni, spiega, non è solo il sovraffollamento, ma anche l’impatto del clima, le carenze strutturali e soprattutto “le nuove circolari ministeriali che non fanno altro che peggiorare la vivibilità dei detenuti”. “In estate si muore di caldo, in inverno si muore di freddo - racconta Apprendi. E adesso, con l’inverno alle porte, ci troviamo davanti a una circolare assurda: è stato vietato l’uso del pile. Quindi uno dei pochi indumenti utili nelle celle gelide viene proibito senza un motivo valido”. Oltre al pile, anche gli indumenti imbottiti non sono più ammessi. “Sono scelte incomprensibili, che penalizzano persone che già vivono in condizioni estreme”. Sanità nelle carceri al collasso - La questione centrale è senza dubbio la sanità penitenziaria, totalmente insufficiente rispetto ai bisogni reali. “Se all’interno del carcere Pagliarelli ci sono 1.400 detenuti, vuol dire che ci sono altrettanti pazienti - sottolinea ancora Apprendi -. Lo stesso principio vale anche altrove. Questo è il punto da chiarire”. Il garante denuncia un sistema in cui i tempi delle visite specialistiche - già difficili per i cittadini - che all’interno del carcere raddoppiano. E quando alla fine arriva l’appuntamento, spesso salta comunque: “La polizia penitenziaria è sotto organico. Anche accompagnare fisicamente un detenuto dopo otto mesi di attesa è un problema. Molte volte la visita viene persa perché non c’è personale per l’accompagnamento”. Il problema delle Rems - Nonostante le difficoltà, Apprendi rivendica il lavoro quotidiano dell’ufficio del garante per i diritti dei detenuti: “Noi nel nostro quotidiano facciamo il possibile affinché venga mantenuta la dignità della persona. È la cosa che conta di più”. Il quadro che emerge è quello di un sistema penitenziario allo stremo, in cui problemi strutturali, scelte politiche discutibili e carenze croniche di personale rendono il carcere un luogo che non punisce solo il reato, ma anche la condizione umana. La recente apertura di una nuova Rems in Sicilia non modifica la sostanza del problema. “Parliamo di gocce d’acqua nel mare. Con questa siamo a tre strutture, che complessivamente possono accogliere appena 120 persone. Ma le liste di attesa sono di migliaia. Su 6.200-6.300 detenuti in Sicilia, almeno un migliaio dovrebbe stare in una Rems, non in carcere”. Secondo Apprendi, almeno 20 mila detenuti a livello nazionale dovrebbero essere trasferiti in strutture adeguate. Parliamo dunque di inviare nelle Rems chi ha problemi di salute mentale e nelle comunità i giovani tossicodipendenti. “Il carcere potrebbe svuotarsi subito se si applicassero alternative previste dalla legge, ma non attuate per mancanza di posti e risorse”. L’emergenza idrica al Pagliarelli: un progetto sbagliato - Un problema storico, e tutt’altro che risolto, è quello dell’acqua al Pagliarelli. “Nonostante i lavori, il problema non è stato risolto. È strutturale - denuncia Pino Apprendi. Se uno fa la doccia al secondo piano, quello al primo non può farla. Il progetto era sbagliato sin dall’inizio”. Il garante per i diritti dei detenuti di Palermo ha già segnalato la situazione ai magistrati di sorveglianza, ma la soluzione non è vicina. “Speriamo che, con i 15 milioni stanziati per rifare gli impianti di riscaldamento, si colga l’occasione per intervenire anche su questo disastro”. Dap, Nordio: “Nessuna marcia indietro, coesi più che mai andiamo avanti” gnewsonline.it, 29 novembre 2025 “Nessuna marcia indietro del Dap sulla Circolare che bloccava le attività trattamentali perché mai abbiamo inteso operare blocchi di sorta. Al contrario, la circolare del direttore generale mira ad assicurare una politica trattamentale volta a garantire una migliore organizzazione degli istituti su tutto il territorio nazionale. Massimizzare il livello qualitativo e quantitativo delle attività trattamentali della media sicurezza, questo il nostro obiettivo” così il Ministro Carlo Nordio su notizie di stampa uscite stamani. “Siamo riusciti in questa meritoria opera anche grazie al confronto con la magistratura di sorveglianza e con gli Enti del Terzo settore, che ringrazio per il proficuo confronto, con i quali ci siamo dati aggiornamento a fine febbraio per valutarne gli esiti. Siamo certi che la centralizzazione del nulla osta in capo alla direzione generale, operata tramite una correzione di una circolare risalente al 1997, consentirà standard trattamentali più elevati e la diffusione di buone prassi. Assicuriamo che lo scambio di informazioni, in un costante dialogo anche con i singoli istituti, garantirà progettualità trattamentali coerenti con le iniziative territoriali”. Sì a nuovi posti nelle carceri ma pene rieducative di Cristiana Muscardini ilpattosociale.it, 29 novembre 2025 Sicuramente i più di diecimila nuovi posti, programmati entro il 2027, nel sistema penitenziario italiano sono estremamente necessari e ci auguriamo che il governo rispetti i tempi programmati. Il sistema carcerario italiano è praticamente al collasso, come molte denunce e troppi suicidi hanno dimostrato, occorrono nuovi posti, nuove strutture, occorre rimodernare le attuali carceri e recuperare altri edifici costruiti per la detenzione e lasciati più o meno abbandonati. Risolvere il sovraffollamento ed eliminare condizioni di vita indegne per un paese civile è però solo una parte del problema. Non solo è necessario che i detenuti possano, debbano, o lavorare o studiare ma vanno costruite anche strutture ad hoc per alcune problematiche che si trascinano da troppo tempo, e cioè luoghi protetti dove collocare sia le persone che hanno compiuto reati, ma sono state riconosciute incapaci di intendere e di volere, ed i tossicodipendenti, purtroppo sempre molto, troppo, numerosi, e che, per la gran parte, non dovrebbero essere collocati nei comuni penitenziari. Ad oggi i luoghi per queste persone sono talmente esigui da creare una vera emergenza, la necessità di una soluzione non può essere ulteriormente rimandata. Occorre inoltre rivedere le condizioni di vita della polizia penitenziaria, anche per loro non sono accettabili quelle attuali, sia dal punto di vista della collocazione abitativa sia per quanto riguarda la necessità di una maggior professionalità e di adeguamenti economici. La democrazia di uno Stato si vede anche per come tratta sia chi commette reati sua coloro che sono preposti alla loro sorveglianza. La prima volta che mi sono occupata di questi problemi era il 1993, l’anno nel quale, entrando come parlamentare a San Vittore per una visita di controllo, mi fu detto che Cagliari si era suicidato con un sacchetto di plastica (a me restano ancora molti dubbi). Sono passati trentadue anni e la situazione di degrado, che avevo denunciato allora, è rimasta immutata mentre nel frattempo sono aumentate le persone che commettono reati e sono aumentati anche i tipi di reato. Bene fa il governo a creare nuovi posti ma ancora non basta perché se chi sbaglia deve scontare una pena è altrettanto vero che la pena oltre ad essere remunerativa dovrebbe anche essere rieducativa. Se ci importasse davvero della libertà di Marianna Poletto* Il Riformista, 29 novembre 2025 Non fingeremmo di poterla raggiungere con l’ennesimo ritocco al codice penale. Molto sta cambiando da allora, e la libertà di autodeterminazione, anche sessuale, è finalmente un obiettivo conquistabile. Tuttavia, l’esercizio di diffidenza cui siamo ormai abituati trova, nella proposta di riforma, mille ragioni per esser praticato, con l’auspicio che il dibattito in corso al Senato ne tenga conto. La prima è di metodo e implica più ampie riflessioni. Se ci importasse della libertà, non fingeremmo di poterla raggiungere con l’ennesimo ritocco al codice penale, buono per sembrare buoni, utile alla politica per garantirsi le prime pagine, senza spendere un euro. Se ci importasse della libertà, ci renderemmo conto che di consenso si deve parlare prima e fuori dalle norme penali, per riflettere sul suo significato extra-giuridico, così sfuggente perché sfuggenti sono le umane relazioni, e perché secoli di subordinazione non hanno solo privato le donne della possibilità di esprimerlo, ma hanno troppo a lungo intriso la cultura dominante dell’idea che persino un diniego possa essere trascurato e ridotto ad atteggiamento, vezzo, gioco delle parti. Se ci importasse della libertà, parleremmo di libertà, in ogni luogo possibile (sì, anche nelle scuole). Come suggerisce Manon Garcia, dovremmo innanzitutto chiederci: “Che cos’è lo stupro? Cos’è un rapporto sessuale non consenziente? Cos’è un buon rapporto sessuale? Ancora prima di cercare di scoprire chi manderemo o non manderemo in prigione. L’urgenza non è mandare gli stupratori in carcere ma garantire che gli uomini […] smettano di stuprare”. E a proposito di carcere. Se ci importasse della libertà, ci ricorderemmo che per ogni persona che denuncia una violenza sessuale, un’altra è sottoposta a procedimento penale per un reato punito con la reclusione da sei a dodici anni, aggravanti escluse. Ci ricorderemmo che quella persona è presunta innocente dalla Costituzione e non gioiremmo, come leggiamo in questi giorni, per una norma che qualcuno vorrebbe invertisse l’onere della prova, perché non sia chi lo accusa a dover dimostrare la responsabilità dell’imputato, ma lui a dover provare la propria innocenza, contro ogni civiltà giuridica. Introdurre nel codice penale il principio dello yes means yes porta con sé tante criticità, che forse non sarebbero così dirompenti ove si optasse per l’alternativa del no means no (per cui c’è violenza quando gli atti sessuali vengano compiuti nonostante il dissenso riconoscibile dell’altra persona): come dev’essere espresso il consenso libero e attuale, perché l’altro lo possa chiaramente percepire? Sacrosanto requisito di ogni rapporto sessuale, la sua trasposizione giuridica pone grosse difficoltà soprattutto probatorie, a meno di cadere in grottesche burocratizzazioni dei rapporti personali. E se un dissenso non è stato manifestato (con parole o comportamenti), basterà la successiva denuncia a integrare ex post il requisito della mancanza di consenso? La parola della persona offesa, cui da anni la Cassazione riconosce un peso specifico notevole, ritenendola sufficiente a fondare il giudizio di responsabilità, riceverebbe una patente di credibilità difficile da scalfire, specie trattandosi di fatti che il più delle volte avvengono in assenza di testimoni. Dall’epistemic injustice, meccanismo che ha lungamente afflitto le donne, per cui chi appartenga a un dato gruppo sociale viene ritenuto, sol per questo, meno attendibile, si rischia di cadere, nel processo, nel suo radicale opposto. Eppure, chiunque abbia esperienza in materia sa bene che le denunce strumentali purtroppo esistono e l’ordinamento deve consentire ai giudici di riconoscerle. Se ci importasse della libertà, affronteremmo la questione dell’errore sul consenso, spesso ingiustamente confinato dalla giurisprudenza a totale irrilevanza. Se ci importasse della libertà, ci domanderemmo se è corretto che nella stessa cornice edittale vengano compresi, in quanto “atti sessuali”, quelli cd. subdoli e repentini (il toccamento fugace, che per definizione non può essere previamente acconsentito), e se un bacio debba essere punito come una condotta ben più ripugnante, magari violenta o minacciosa. Se ci importasse della libertà, non penseremmo che la tutela dalla vittimizzazione secondaria debba passare attraverso la limitazione del contraddittorio, imponendo all’accusato una difesa menomata. Se ci importasse della libertà, ci spaventerebbe consegnare questioni come queste alla totale discrezionalità interpretativa del giudicante. Se ci importasse davvero della libertà, ci importerebbe delle libertà: quella inviolabile delle donne e quella personale di chi è sottoposto a processo, da presunto innocente. *Avvocata penalista Avellino. Choc in carcere, detenuto di 34 anni ritrovato morto in cella ecaserta.com, 29 novembre 2025 A lanciare l’allarme sono stati gli altri detenuti, inutili i soccorsi: disposta autopsia. Choc ieri mattina nel carcere “Pasquale Campanello” di Ariano Irpino. Un detenuto è stato trovato morto all’interno della propria cella. Si tratta di un uomo di 34 anni, originario di Maddaloni, ma residente a Caivano. L’allarme è scattato come già detto ieri mattina. I compagni di cella dell’uomo hanno richiamato l’attenzione degli agenti e chiesto il soccorso immediato. Dopo poco arrivavano i soccorritori del 118 che però non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. Nel frattempo si è mossa l’autorità giudiziaria. Il magistrato di turno della Procura di Benevento ha disposto il trasferimento della salma all’ospedale “Frangipane” di Bellizzi dove verrà poi svolta l’autopsia che dovrà chiarire la causa del decesso. Al momento si crede ad un malore improvviso. Roma. Giornalismo di frontiera in un carcere romano di Roberto Monteforte stamparomana.it, 29 novembre 2025 In questo periodo il sistema carcere pare fare meno notizia. Malgrado la situazione che vive la popolazione detenuta sia sempre più disumana. Gioca un suo effetto il sovraffollamento dei detenuti che cresce in modo costante. Infatti, al 21 novembre si contano già 295 presenze in più rispetto al 31 ottobre, per arrivare a superare i 17.800 detenuti in più rispetto alla capienza delle carceri italiane. Quando capienza non vuole dire soltanto meno “posti branda”, ma che saranno inadeguate le piante organiche del personale penitenziario, degli educatori, delle strutture sanitarie interne e degli psicologi. Quindi vi saranno meno attività e servizi negli istituti penitenziari. Meno ascolto, più solitudine, più disperazione, meno possibilità di futuro e meno speranza. Ed anche meno diritti, meno cure adeguate, meno attività, meno formazione professionale, meno opportunità di lavoro e meno diritto all’affettività e alla cura del rapporto con le proprie famiglie. Anche l’angoscia per il futuro, la sofferenza per il presente, la mancanza di un adeguato accompagnamento a chi ha un disagio psichico possono portare al suicidio. Un dramma nel dramma: a novembre si sono già superati i 72 casi. Sono numeri che dovrebbero far riflettere, ma troppo spesso restano solo numeri. Invece, sarebbe opportuno raccontare le loro storie, le vite di chi ha deciso di farla finita. Invece, l’attenzione mediatica è tutta ai casi di cronaca nera, pagine e pagine, e trasmissioni sull’efferato delitto che alla fine, alimentano insicurezza e spinte securitarie, bisogno di pene esemplari. Con il sensazionalismo si manipola l’opinione pubblica. E poi, solo per completezza e rispetto dei valori della nostra Costituzione, andrebbe raccontata la condizione di vita delle nostre carceri, le vite spezzate, il senso di colpa e il dolore per la sofferenza arrecata alle proprie famiglie oltre che alle vittime. Si alla sicurezza, ma no alla vendetta. Per questo è importante far conoscere la realtà del carcere e ha un altro valore se lo fa chi la vive, con il suo sguardo. In carcere ci sono persone che hanno compiuto reati e per questo pagano una pena, perdono la libertà, ma non perdono il loro diritto alla dignità, al rispetto della persona, quindi alle cure, all’istruzione, all’affetto, al lavoro, ad esprimere un pensiero. Questa lunga premessa mi è servita per spiegare le ragioni di un notiziario realizzato con e dai detenuti all’interno di un carcere. Parlo di Non Tutti Sanno che da poco più di quattro anni realizziamo all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia, con l’obiettivo di far conoscere agli altri compagni di detenzione quello che accade nell’istituto penitenziario, riflettendoci su, sottolineando la distanza tra quanto viene annunciato e la realtà dei fatti, ma anche i risultati positivi che si raggiungono, le soddisfazioni per le attività dei “laboratori” che grazie ai volontari si tengono alla Cr Rebibbia, dal teatro alla pubblicazione di libri testimonianza, agli eventi sportivi. Raccontare, tenendo conto dei limiti imposti dal regolamento penitenziario, ma cercando di verificare, di approfondire, di incrociare esperienze e saggezza di chi ha più esperienza di vita ristretta. Individuare gli spunti per accendere l’attenzione sull’umanità, sulle capacità, sulle sensibilità e sulla ricchezza di cui è ricco il mondo del carcere. In questa avventura siamo meno di una decina. Il numero varia, perché la condizione alla “Reclusione” ha una sua mobilità con l’accesso ai benefici, i permessi per buona condotta, la pena finita di scontare e i trasferimenti, oppure la maturazione di altri interessi, l’impegno per la sessione d’esame all’università. Poi, c’è anche la routine che condiziona l’attività di redazione: i colloqui con l’avvocato, l’attesa video chiamata o la telefonata alla famiglia o la visita dei congiunti, la spesa da fare, il vitto, il rispetto dei rigidi orari fissati dal regolamento del carcere. Oppure si resta in cella per un problema di salute o un momento particolarmente difficile. La redazione ha un suo spazio fisico e un suo appuntamento settimanale fisso - mai sufficiente - un solo computer senza connessione internet, con però programmi di grafica che ci consentono di impaginarlo direttamente all’interno della “Reclusione”. Questo è possibile grazie al sostegno volontario di alcuni docenti della Rufa, un’università privata di grafica e designer, che oltre ad aver fatto donare il pc, tengono un corso di grafica ai detenuti. E’ grazie a loro e all’impegno di Marco il nostro redattore “grafico”, se l’impaginazione del notiziario è così curata. In 28 o 32 pagine su carta patinata, in 300 copie che ci autofinanziamo, raccontiamo con lo sguardo da dietro le sbarre, quanto vediamo, speriamo e subiamo, dando un peso diverso, più intenso e profondo alle parole. Perché corrispondono a esperienza di vita, a un’intimità condivisa, all’importanza riscoperta di quanto è ora negato, a partire dalla libertà, dal vuoto per non poter partecipare alla vita dei propri cari, al rimorso per gli errori compiuti o per l’indignazione per i torti subiti. Non è facile mettere ordine alle emozioni, superare il pudore e condividerle, che vuol dire condividere anche il bisogno di umanità e di speranza, recuperare il significato profondo delle parole, scoprirne di nuove. Forse questo è il dono più grande che un notiziario realizzato in carcere può offrire al mondo di fuori, ad una società distratta e prigioniera dei suoi preconcetti e delle sue paure, del suo apparente benessere. Sono articoli a volte riusciti, a volte meno, che possono rivelare un mondo che può impaurire, ma è il nostro mondo, con cui bisogna fare i conti per essere tutti più umani. L’impegno del giornalista che coordina la redazione, con la sua sensibilità allenata e qualche strumento in più per raccontare i fatti. è cercare di dare la forma più efficace a un pensiero, ad un sentimento. Lo sforzo è cercare di portare lo sguardo dal sé, dalla propria sofferenza, al noi, a ciò che riguarda tutti: la comunità reclusa e la società. Ma è anche dare più forza alla dignità di ciascuno e tutelare con la propria assunzione di responsabilità il lavoro e la dignità della redazione. Per questo ci opponiamo ai tentativi dell’amministrazione penitenziaria di censura sugli articoli o al diritto del redattore detenuto di firmare, se vuole, con nome e cognome il suo articolo. Una forma di assunzione di responsabilità su quanto scritto e di rispetto nei confronti dei lettori. Abbiamo le nostre regole. La denuncia, tantopiù in questi tempi difficili segnati da pesanti dinamiche securitarie, è importante. Ma non può limitarsi all’invettiva: per essere efficacie deve essere verificata, motivata e autorevole ed essere possibilmente accompagnata dalla capacità di proposta. Anche se quella voce, al momento non verrà ascoltata, farà crescere, renderà meno passivi, più consapevoli e più responsabili. Il lavoro in redazione, pure così frammentato, attiva una sorta di educazione al senso civico e alla cittadinanza. Con uno spazio al confronto prezioso, fatto di ascolto non sempre facile, che rompe la separatezza del carcere e l’infantilismo a cui è indotta la popolazione detenuta. La sfida di Non Tutti Sanno è quella di essere ponte con la società esterna, ma anche tra le diverse realtà presenti all’interno della Casa di Reclusione, impegnate nel dare senso al tempo ristretto. Quindi associazioni che propongono laboratori teatrali o di scrittura creativa, o le opportunità di studio offerte ai detenuti dagli istituti professionali e soprattutto dall’università Roma Tre, quindi associazioni, enti e fondazioni che propongono percorsi di formazione e di avvio al lavoro. Dando conto anche dei momenti di spiritualità, davvero sentiti, o quelli sportivi, molto partecipati. La redazione cura in modo particolare il rapporto con gli uffici del Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia e di quella di Roma Capitale, Valentina Caracciolo, a cui sottoponiamo le tante emergenze dei detenuti, primo tra tutti i diritti negati a partire da quello alla salute e all’affettività e soprattutto le mancate risposte, le lungaggini burocratiche che tanto pesano nella vita dei ristretti a volte effetto della carenza di personale, altre volte dalla mancanza di rispetto per le persone detenute, come se non avesse valore il loro tempo di attesa. Così con il notiziario Non Tutti Sanno ci poniamo come me uno “sportello” virtuale della popolazione detenuta. Cercando un’interlocuzione con l’area educativa dell’istituto penitenziario, ma anche con le realtà che si occupano di carcere: da Antigone alla Caritas e alla Pastorale penitenziaria del Vicariato della diocesi di Roma e poi l’Unione Camere Penali, la Magistratura di Sorveglianza, le autorità Sanitarie, gli amministratori comunali e i parlamentari sensibili alla realtà carceraria, le istituzioni pubbliche, il mondo delle imprese e della cooperazione sociale e poi i colleghi, il mondo dell’informazione. Ma, pure con i nostri limiti, l’impegno a cui teniamo di più sono gli incontri con la società civile, con i giovani nelle scuole, nelle parrocchie e ovunque sia possibile. L’obiettivo è quello di far conoscere la vita ristretta per rompere il muro dell’indifferenza e del preconcetto. Quello che con una forza profetica straordinaria ci ha testimoniato papa Francesco e che, nel richiamo costante ai valori della nostra Costituzione, continua a richiamare il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Con tutti i limiti e le difficoltà che pone il carcere, sempre crescenti, realizzare Non Tutti Sanno per me giornalista di lungo corso rappresenta una vera sfida professionale. Misurandomi in un rapporto così vicino con la notizia, che è la vita stessa delle persone ristrette, con la difficoltà a fare verifiche, comunque necessarie, in un penitenziario, con la necessaria responsabilità per tutelare le persone ristrette, consapevole di agire all’interno di una realtà difficile, con un’autorizzazione della direzione del carcere su un progetto approvato dalla amministrazione penitenziaria e dal magistratura di sorveglianza, che richiama una maggiore responsabilità, facendo i conti con le normali esigenze di sicurezza ed anche però con una cultura securitaria che aleggia e spesso finisce per giustificare prassi distanti dai valori della Costituzione. Vi sono, infatti, regole non scritte, eppure molto cogenti, soprattutto in una realtà “chiusa” e fortemente gerarchizzata, che è difficile mettere in discussione, senza rischiare provvedimenti disciplinari. Ma sono anacronismi che vanno raccontati per superarli. E’ il nostro compito. Che varcare i cancelli del carcere significhi entrare in un altro mondo lo provano tutti coloro che varcano l’ingresso di un penitenziario. Depositare il proprio cellulare e poi, sentire aprire e poi chiudere i cancelli durante il percorso, corridoio dopo corridoio, nel mio caso per raggiungere la “sezione” dove trovo la redazione, è come una cesura netta, con il mondo di fuori. Ti misuri con una particolare solitudine, fatta all’inizio di timore e di fragilità, poi, con il tempo, di empatia con le persone che incontri e che ti salutano, ti riconoscono. Se l’obiettivo di un giornale penitenziario è quello di essere ponte con la società esterna, il primo ponte lo siamo noi volontari e giornalisti, che raccogliamo le domande di vita, di dignità, di giustizia e di umanità delle persone ristrette e cerchiamo di dare loro voce. Con responsabilità e autonomia, fin dove possiamo, con gli scarsi mezzi che abbiamo, spesso solo tollerati dalle autorità penitenziarie. Non puntando tanto allo scoop della denuncia sensazionale, ma raccontando cosa sia la quotidianità della vita ristretta e le condizioni di vita delle persone recluse. Già rompere il muro di silenzio che circonda la realtà del carcere è importante. Raccontando e aiutando a raccontare. Mettiamo al servizio le nostre competenze. In fondo, non è questo il nostro mestiere? Cagliari. Reparto 41 bis, detenuti in arrivo a gennaio. L’allarme della garante Irene Testa sardegnanotizie24.it, 29 novembre 2025 Uta già in difficoltà, serve una mediazione per distribuirli anche in altre regioni. La garante regionale dei detenuti, Irene Testa, esprime forte preoccupazione per l’annunciato trasferimento nel carcere di Uta di circa 90 detenuti sottoposti al regime di 41 bis, previsto per gennaio. Un arrivo che, avverte, rischia di mettere definitivamente in crisi una struttura che già oggi fatica a garantire i servizi essenziali. “Conoscendo lo stato attuale del carcere di Uta, c’è da chiedersi come si potrà gestire un aumento simile, anche se concentrato in un padiglione separato”, afferma Testa. “Le criticità sono di ogni tipo: dalla carenza di agenti di polizia penitenziaria ai problemi dell’assistenza sanitaria.” La garante denuncia in particolare la fragilità del sistema sanitario interno: “In tutta la struttura c’è un solo psichiatra, mentre molti detenuti hanno gravi problemi psicologici o dipendenze.” Durante un sopralluogo nei giorni scorsi, Testa racconta di aver trovato “una cella piena di sangue dopo il tentato suicidio di un detenuto”. Alla richiesta di spiegazioni sulla mancata pulizia, gli agenti avrebbero risposto che “non c’era personale disponibile perché tutti impegnati nel padiglione destinato al 41 bis”. “Se oggi facciamo fatica a gestire la quotidianità - avverte - immaginiamo cosa significhi aggiungere un carico ulteriore di questa portata.” Il 41 bis prevede un regime particolarmente rigido, che richiede personale specializzato, medici e operatori sanitari dedicati. “Se non siamo in grado di garantire assistenza adeguata ai 750 detenuti comuni, come possiamo pensare di sostenere un padiglione 41 bis con personale fisso?”, si chiede Testa. Anche il reparto femminile, già oggi penalizzato dalla distanza e dalla mancanza di medici, rischia ulteriori tagli: “Le donne sono già sacrificate perché il personale sanitario, peraltro insufficiente, deve fare dei turni”. La situazione, avverte Testa, ricadrà sui detenuti comuni: “Già oggi molti fragili vivono in condizioni di sovraffollamento. Un aumento dei 41 bis peggiorerà ulteriormente il quadro.” Le difficoltà non riguardano solo Uta. La garante ricorda che per accompagnare un detenuto di media sicurezza in una struttura ospedaliera servono 7 o 8 agenti, tra piantone e scorta. “Per trasferire un detenuto in 41 bis servirà personale ancora più numeroso. Dove verranno trovate queste risorse?” Anche il ruolo dei GOM (Gruppi Operativi Mobili) è ancora nebuloso: “Non sappiamo dove saranno alloggiati né come verrà organizzato il loro lavoro.” Testa denuncia anche l’assenza totale di interlocuzione istituzionale: “Non c’è stato alcun confronto con operatori, sindaci o ANCI. Il territorio è stato messo davanti al fatto compiuto e manca qualsiasi forma di mediazione.” Da qui la richiesta di un intervento politico:v”Occorre mediare con il DAP e con il ministero. Perché concentrare numeri così elevati in Sardegna e non distribuirli tra più regioni?” Secondo la garante, “il fatto di accogliere detenuti in 41 bis dovrebbe essere compensato con un potenziamento del personale sanitario e con nuove assunzioni, dato che la sanità è a carico della Regione.” Secondo Testa, la radice del problema è normativa: “L’errore politico è stato a monte perché molti anni fa la legge a suo tempo ha indicato che i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti collocati preferibilmente in aree insulari. Ma così, con numeri così elevati destinati alla Sardegna, finiamo per trasferire la Sicilia in Sardegna. Una scelta che rischia di far collassare il sistema. L’arrivo dei detenuti è previsto a gennaio, dopo che inizialmente si parlava di un trasferimento a scaglioni. “Senza una mediazione reale e una distribuzione più equa tra le regioni, l’impatto sarà devastante. La Sardegna ha già un numero alto di detenuti ad alta sicurezza, molti dei quali provenienti dal 41 bis.” Testa conclude con un appello: “Serve subito una trattativa con il DAP e il ministero. Non possiamo affrontare tutto questo senza personale, senza risorse e senza ascolto.” Brescia. Università Cattolica, le studentesse partecipano al giornale dei detenuti di Daniela Zorat Giornale di Brescia, 29 novembre 2025 I redattori di “Zona 508” sono carcerati di Canton Mombello e Verziano: “Stupite dall’umanità delle persone che abbiamo incontrato. “Non immaginavo che in un contesto simile potesse esserci così tanta umanità. L’umanità che ho sentito tra quelle quattro mura, tutti stretti e vicini gli uni agli altri, con i pensieri che fluivano liberamente, non l’avevo mai provata prima”. Sono parole di Martina, studentessa del corso di “Teoria e tecnica dell’informazione” tenuto dalla professoressa Marina Villa, all’Università Cattolica, che ha partecipato insieme ad altre coetanee al progetto ideato dall’associazione Carcere e territorio e dai redattori - detenuti - del giornale “Zona 508”, diretto dal giornalista Massimo Lanzini, già vicecaporedattore del nostro quotidiano. L’incontro - L’ultima edizione di questo periodico è frutto della collaborazione tra le studentesse Letizia Abampi, Martina Lanzetti, Kawthar Dridi, Anna Petrali e Sara Panteghini (tutte al secondo anno di Lingue) e le redazioni di “Zona 508” di Canton Mombello e del carcere di Verziano che - dopo scambi di verbali delle riunioni parallele che si sono svolte in ateneo e negli istituti penitenziari su cosa significhi la parola comunicare - si sono incontrati lo scorso mese di giugno, arrivando a capire che la comunicazione non è solo fatta di parole, ma anche di sguardi, di gesti, di emozioni provate dal corpo. L’esperienza - Come spiega Sara “lì dentro (in carcere), la comunicazione non è solo parlare, è anche ascoltare, accettare, convivere, adattarsi ed è anche un modo per non perdere se stessi, per non scomparire nel silenzio”. Una volta in aula, giovedì, per la restituzione ai compagni di corso dell’esperienza vissuta grazie a questo progetto, le giovani hanno prestato fisicamente la loro voce ai detenuti, leggendo un’antologia di pensieri e parole che i carcerati non sono mai riusciti a dire alle loro madri e ai loro padri, ai loro figli, a se stessi, o a chi hanno fatto soffrire con quei gesti che li hanno portati dietro le sbarre. “Non esiste modo migliore per entrare a contatto con la dimensione carceraria, dell’esperienza che abbiamo vissuto - aggiunge Sara -. Abbiamo sempre avuto una visione del carcere piena di pregiudizi e invece sono rimasta colpita dalla umanità delle persone con cui siamo venute a contatto nelle redazioni del giornalino. Abbiamo visto dei cuori grandi e percorsi di pentimento sinceri. I detenuti sentono proprio l’esigenza di esprimere e comunicare quel che provano dentro, anche con disegni; sono persone che si sono messe in gioco e hanno il diritto di potersi esprimere, anche se nella loro vita hanno commesso errori, di cui oggi sono consapevoli”. Le finalità - Decisivo in questo progetto è stato il contributo che hanno dato i volontari dell’associazione Carcere e territorio, presieduta dal professor Carlo Alberto Romano. “Tutti loro sono consapevoli delle difficoltà che incontrano - ha affermato - per fare in modo che Canton Mombello non resti un’ombra nella città. Il nostro compito è dare risonanza a quelle voci che spesso non riescono ad uscire da quel luogo”. Il bilancio dell’esperienza vissuta dagli studenti del corso è stato “positivo dal punto di vista formativo e didattico. E per il futuro - ha concluso la professoressa Villa - stiamo programmando altre iniziative, tra le quali anche una in collaborazione con la redazione di “Ristretti Orizzonti”, giornale scritto dai detenuti del carcere di Padova”. Teramo. Le criticità del carcere di Castrogno al centro del dibattito di Avs navuss.it, 29 novembre 2025 Lo scottante tema della situazione all’interno del carcere teramano di Castrogno è stato al centro di un incontro che si è tenuto questa mattina a Teramo a cui ha preso parte il portavoce nazionale dei Giovani Europeisti Verdi, Luca Boccoli e, in video conferenza, l’on. Devis Dori, deputato del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra. “È assolutamente inaccettabile che all’interno delle carceri ci siano condizioni disumane in cui le persone detenute addirittura si tolgono la vita come è successo l’anno scorso a un ragazzo di vent’anni. Io penso e noi pensiamo - spiega il portavoce nazionale dei Giovani Europeisti Verdi, Luca Boccoli - che il carcere, come dice la nostra Costituzione, le pene devono essere rieducative, purtroppo in questo paese per troppi anni ormai siamo entrati in una fase totalmente giustizialista in cui la pena non è più rieducativa ma è soltanto per punire e non per reinserire all’interno della società queste persone e quindi noi crediamo che sia fondamentale investire denaro affinché queste strutture siano ammodernate e al cui interno possano vivere una vita dignitosa affinché poi queste persone possano tornare nella realtà in cui abitavano in una maniera che sia giusta”. Del resto sono noti i principali problemi del carcere di Castrogno: riguardano il sovraffollamento, con quasi il doppio dei detenuti rispetto alla capienza, la carenza di personale, sia di polizia penitenziaria che sanitario, problemi strutturali come infiltrazioni, carenze igieniche. Tutto questo sarebbe alla base di episodi di elevata tensione e violenza, e un aumento dei tentativi di autolesionismo e suicidio. Del resto sono noti i principali problemi del carcere di Castrogno, riguardano il sovraffollamento con quasi il doppio dei detenuti rispetto alla capienza, la carenza di personale sia di polizia penitenziaria che sanitario, problemi strutturali come infiltrazioni, carenze igieniche, tutto questo sarebbe la base di episodi di elevata tensione e violenza e un aumento dei tentativi di autolesionismo e suicidio. “Perché è assolutamente inaccettabile - conclude Boccoli - che vengano trattati in condizioni davvero disumane e lo stesso succede anche per gli operatori carcerari, per chi lavora e quindi per gli agenti di polizia perché ricordiamolo anche all’interno delle carceri italiane anche gli agenti di polizia si tolgono la vita”. Roma. Il 2 dicembre al Cnel convegno Agci su cooperazione e reinserimento sociale infoparlamento.com, 29 novembre 2025 L’Associazione Generale Cooperative italiane ha aderito a Protocollo “Recidiva Zero”. Martedì 2 dicembre, a partire dalle 9.30, si svolge presso la Plenaria Marco Biagi del Cnel il convegno “Il lavoro che ricostruisce vite. La cooperazione e il reinserimento socio-lavorativo di persone sottoposte a provvedimenti di giustizia”, promosso dall’Associazione Generale Cooperative Italiane (Agci) che ha aderito al Protocollo d’intesa sottoscritto il 17 giugno scorso tra il Cnel e 19 organizzazioni datoriali, in occasione della II edizione di “Recidiva Zero. Studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”, svoltasi presso il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). Aprirà i lavori il presidente del Cnel Renato Brunetta, cui seguiranno i saluti istituzionali del presidente del Senato Ignazio La Russa. Interverranno: Andrea Ostellari, sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia; Ernesto Napolillo, dirigente responsabile della Direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nel corso dell’evento è previsto, inoltre, un panel con un focus sulla sinergia tra l’amministrazione penitenziaria e la comunità territoriale nei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti. Prenderanno parte al dibattito: Emilio Minunzio, consigliere Cnel e presidente del Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà e Rita Cerino, dirigente penitenziario. Ampio spazio sarà poi dedicato alle testimonianze delle cooperative Agci. Chiuderà i lavori Massimo Mota, presidente dell’Associazione Generale Cooperative Italiane. Modera il convegno Maria Soave, giornalista Rai TG1. Gli accrediti degli organi di informazione dovranno essere richiesti tramite mail a mascia.garigliano@agci.it. Si prega di indicare eventuali attrezzature video e fotografiche. Trento. Amedeo Savoia presenta “Se li guardi. Racconti di persone finite in carcere” In dialogo con Lucio Matteotti rivadelgarda.tn.it, 29 novembre 2025 Per la rassegna “Autori tra noi”, mercoledì 10 dicembre alle 20.30 la Biblioteca civica Riva del Garda (Tn) ospita Amedeo Savoia, insegnante di Lettere e ideatore di eventi culturali e artistici, che ha svolto per molti anni della sua vita attività di insegnamento, teatro e scrittura in carcere. Proprio da queste esperienze ha tratto il recital “Dalla viva voce e il libro Se li guardi: Racconti di persone finite in carcere”. (Il Margine, 2021). Di questo libro parlerà insieme a Lucio Matteotti, attualmente volontario nel carcere di Spini di Gardolo e con alle spalle un’esperienza trentennale come educatore in comunità terapeutiche per persone con dipendenze patologiche. In questo volume l’autore presenta brevi racconti di vita, storie diverse con un particolare in comune: tutti i protagonisti di queste storie sono stati in carcere, ma tutte riescono a oltrepassare quella barriera che, d’istinto, una persona “libera” mette tra sé e chi si trova ad abitare un istituto penitenziario. “Se sono finiti in galera, se la sono cercata” siamo abituati a pensare. Sapere i colpevoli rinchiusi lontani da noi porta a un senso di sicurezza. Ma è solo incontrandoli, anche soltanto attraverso un racconto, che possiamo capire quanto sia necessario concepire il carcere come un luogo teso a riabilitare e non a punire. Tutti proventi della vendita del libro vanno all’associazione Dalla Viva Voce, che ha come finalità principale quella di aiutare e sostenere le persone ex detenute che si trovano in condizione di fragilità e svantaggio, promuovendone l’autonomia e la crescita personale al fine di favorirne il reinserimento nella società civile e prevenire la ricaduta nell’illegalità. Castrovillari (Cs). Nel carcere è stato proiettato il film “In viaggio con lei” ecodellojonio.it, 29 novembre 2025 L’evento si è tenuto in occasione della Giornata mondiale dedicata alla eliminazione delle violenze contro le donne. Presenti anche il regista Gargano e due delle principali attrici del film che hanno svelato alcuni retroscena delle riprese. Nella giornata mondiale dedicata alla eliminazione delle violenze contro le donne nel Penitenziario di Castrovillari è stato proiettato il film “In viaggio con lei” del regista Gianluca Gargano. Particolarmente ricco e significativo il parterre degli ospiti. La presidente della Commissione regionale delle Pari opportunità Anna De Gaio che ha patrocinato l’evento che ha espresso parole di grande apprezzamento per l’opera cinematografica e per l’attività di recupero e rieducazione che viene svolta nella casa circondariale di Castrovillari. La presidente dell’Associazione Emi&Lia, Avv. Maria Domenica Maiuri, che ha contribuito all’organizzazione della manifestazione e nel suo intervento ha voluto specificare attraverso la legislazione nazionale l’attenzione del legislatore a parlare sempre di genere e non di uomo o donna, dunque, persone e ha trattato il c.d. codice rosso ovvero la legge n. 69/2019 che rafforza la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, che mira a garantire una risposta più rapida ed efficace del sistema giudiziario, accelerando i tempi d’intervento, inasprendo le pene per reati come maltrattamenti e stalking, e introducendo nuovi reati come il “revenge porn” e la costrizione o induzione al matrimonio. Il Comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Crotone, Col. Raffaele Giovinazzo, ha arricchito il dibattito sulla condizione femminile, nella duplice lettura umana e giuridico/sociale. Il colonnello ha infatti voluto porre l’attenzione sulla figura della donna quale “Secondo Sesso”- per dirla con le parole di Simone De Bouvoir - non inferiore, né complementare né speculare né subordinata - ma “altra” rispetto all’uomo: nel sentire, nell’amare, nell’emozione di esistere. “Ed è l’amore in senso ampio e universale il fil rouge che lega la donna ad una esistenza fatta di dignità e bellezza, nella dimensione sia emotiva e di appagamento del sentire. Il compendio è nelle parole Kantiane - ribadisce - l’inclinazione all’amore rappresenta la dimensione emotiva, soggettiva e contingente dell’amore, il dovere (legato all’esistenza, agli affetti generati) ne costituisce il fondamento morale, universale e necessario”. Presente, ovviamente il Direttore della casa Circondariale, Dott. Giuseppe Carrà, che ha spiegato come “l’esecuzione penale vada suddivisa in tre fasi ovvero un “prima”, un “durante” e un “dopo” e ciascuna di queste componenti ha una diversa rilevanza. Il “prima” è costituito dall’attività di intelligence mirata alla repressione, che non può e non deve mancare, e dall’analisi dell’ambiente di provenienza; il “durante” è la permanenza in carcere fondata su due direttrici: il lavoro e le attività culturali, come quella di oggi perché è con le iniziative curate dall’amministrazione penitenziaria che devono essere realizzate le fondamenta per il “dopo” ovverossia per il momento della scarcerazione in quanto grazie al lavoro è dimostrato che si abbatte la recidiva del 98% che significa concretamente che su 100 detenuti scarcerati che hanno un lavoro stabile ben 98 di essi non torneranno a delinquere”. Anche il Comandante di reparto, Dott. Carmine di Giacomo, ha spiegato le funzioni della Polizia Penitenziaria nella concezione attuale dell’esecuzione della pena in cui si garantisce sicurezza e trattamento rieducativo. Presenti anche il regista Gargano e due delle principali attrici del film che hanno svelato alcuni retroscena delle riprese. Alla proiezione nella sala del penitenziario hanno partecipato praticamente tutte e detenute della sezione femminile che non solo sono state particolarmente coinvolte emotivamente avendo riconosciuto le loro ex compagne ma, alcune di esse, hanno raccontato le proprie vicissitudini lasciando intendere che hanno ricevuto una fortissima spinta a ribellarsi ad eventuali stati di soggezione psicologica o, addirittura, di violenza familiare in ciò confortate anche dalla presenza del Sostituto procuratore della Repubblica, D.ssa Flavia Stefanelli, che ha portato ulteriormente la vicinanza dello Stato alle problematiche della violenza sulla donna. Udine. Successo campagna “Raccolta Codici per i ristretti”, per il diritto allo studio nel carcere friulisera.it, 29 novembre 2025 Si è conclusa con successo l’iniziativa di solidarietà promossa da Sisifo Odv a favore di Icaro Volontariato Giustizia Odv, l’associazione che da anni gestisce la biblioteca all’interno della Casa Circondariale di Udine. La campagna, intitolata “Raccolta Codici per i Ristretti”, si è focalizzata sulla donazione di strumenti fondamentali per l’accesso alla giustizia e lo studio: Codici di Diritto e di Procedura, sia penale che civile, aggiornati alla Riforma Cartabia del 2022. La raccolta si è svolta a partire da lunedì 20 ottobre al venerdì 24 ottobre presso due importanti sedi: la Biblioteca Civica “V. Joppi” - Sezione Moderna e la Biblioteca Economica e Giuridica dell’Università degli Studi di Udine. “L’articolo 27 della Costituzione sancisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità,” ha dichiarato Melissa Stella, Presidente di Sisifo ODV. “Donare codici aggiornati significa garantire un fondamentale diritto allo studio e alla conoscenza del proprio percorso giudiziario, un elemento cruciale per la rieducazione e la reintegrazione. La risposta del pubblico e delle istituzioni ospitanti è stata eccezionale”. I volumi raccolti, essenziali per la consultazione legale, andranno ad arricchire la sezione giuridica della biblioteca carceraria, gestita con dedizione da Icaro Volontariato Giustizia ODV. “Questi codici non sono semplici libri, ma strumenti essenziali per l’autodeterminazione e la dignità. Rispondiamo a un’esigenza concreta dei detenuti: quella di comprendere a fondo il proprio percorso legale e poter esercitare pienamente il diritto alla difesa e alla conoscenza. Ringraziamo Sisifo ODV per aver organizzato un’iniziativa così mirata e cruciale, che rafforza il nostro impegno quotidiano nel carcere di Udine, realizzato anche grazie al patrocinio dell’AIB FVG”. L’iniziativa ha goduto inoltre del patrocinio di: Università degli Studi di Udine, Dipartimento DISG 30, Comune di Udine (Assessorato alla Cultura) e AIB FVG. Questa sinergia tra associazioni, università e istituzioni cittadine sottolinea il ruolo attivo della comunità nel promuovere percorsi di reintegrazione sociale e nel garantire il rispetto dei principi costituzionali. “Io non sono qui”: voci che bucano il muro del carcere di Angelo Palmieri vita.it, 29 novembre 2025 Racconta la Casa di reclusione di Orvieto come un pezzo vivo della città la serie podcast “Io non sono qui”. Un’iniziativa della radio web locale, ai margini del mainstream, per liberare le storie di chi non ha uno spazio pubblico e accendere una luce sul sistema penitenziario. Un filo tra il dentro e il fuori in cui i detenuti non sono figuranti di una narrazione già scritta, ma diventano co-autori. C’è un contatore che gira in silenzio, lontano dai talk show: è quello dei suicidi in carcere, cifra muta di una crisi che non riusciamo più a ignorare. Dentro questo orizzonte si colloca una storia piccola, artigianale, nata dopo una cena tra amici, che prova a scalfire l’idea di carcere come discarica sociale, come “istituzione totale”. Questa esperienza ha un titolo semplice e disarmante: Io non sono qui. È la nuova serie di podcast di Radio Orvieto Web che porta i microfoni dentro la Casa di reclusione della città. L’idea non nasce in un ufficio stampa, ma su un terrazzo. Andrea Caponeri, con Emilio Burli, aveva appena chiuso Busso co’ le piede, podcast di conversazioni informali con i candidati sindaco. In quel clima di fiducia, Selia Castellani, counselor, racconta la sua esperienza dietro le sbarre. Qualcuno butta lì una domanda: “Perché non facciamo qualcosa di simile con i detenuti, ma dentro la Casa di reclusione?”. Non un’inchiesta giudiziaria, non l’ennesimo speciale sul “crimine”, ma un microfono dove la parola è sorvegliata, interrotta, fraintesa. Raccontare il carcere di Orvieto per quello che è: un pezzo vivo della città, abitato da persone private della libertà, agenti, educatori, amministrativi. La scelta politica passa dal metodo: le domande non ruotano attorno al reato, ma alla persona. Non “Che cosa hai fatto per essere qui?”, ma “Chi sei?”. I detenuti non sono figuranti di un racconto già scritto: diventano co-autori. Decidono cosa raccontare, con che tono, quali parti di sé lasciare entrare in quella capsula sonora che uscirà dal carcere. Essere ascoltati senza essere interrogati - Il coinvolgimento parte in piccolo, poi cresce. D’estate Selia entra nella struttura, incontra, spiega, rassicura. Questa esperienza sonora è presentata come il lusso di essere ascoltati senza essere interrogati. Quando le puntate prendono forma, subentra il lavoro di Caponeri: montaggio, pause, una cornice sonora che fa respirare le parole. Ogni episodio, prima di andare in onda, viene fatto riascoltare a chi ne è protagonista: un momento di ascolto di sé e di riconoscimento. Sapere che “là fuori” qualcuno ascolta è, per chi vive in cella, un varco simbolico: il muro non crolla, ma si lascia attraversare. Poter parlare diventa allora un gesto riparativo: per qualche minuto si esce dal ruolo di fascicolo e matricola e si torna a essere una persona con una storia. Il microfono non cambia le sentenze, ma apre una piccola fessura di riconoscimento, dove la vita non coincide più solo con la colpa. Là dove il carcere sorveglia, schedando e normalizzando, il podcast rovescia l’ottica: invece di controllare la voce, la libera; invece di moltiplicare lo sguardo dall’alto, restituisce un ascolto laterale, non giudicante. È un gesto minoritario, ma gli spostamenti di sguardo cominciano spesso da pratiche minuscole che si sottraggono all’ovvietà del “si è sempre fatto così”. Una contro-narrazione ostinata - Il primo effetto di Io non sono qui si vede dietro le mura: le registrazioni diventano occasioni di incontro autentico e chi vive dentro smette di essere solo “oggetto” di trattamento per diventare soggetto narrante. Ma il passaggio decisivo avviene fuori: chi segue la serie audio non percepisce più un contesto astratto, bensì volti e storie. Così il podcast diventa una contro-narrazione ostinata, una crepa nell’immagine del carcere come luogo soltanto di punizione e silenzio. Il progetto non si chiude qui: Andrea e Selia lo vivono come l’avvio di un racconto più lungo. Tra le prossime tappe immaginate: dare voce anche agli agenti di custodia, per raccontare la complessità di chi “vive dentro” dall’altra parte del corridoio; aprire una rubrica in cui le persone detenute rispondano alle domande del pubblico, creando un filo diretto tra chi è dentro e chi è fuori. Dietro tutto questo c’è una radio di provincia che lavora ai margini del mainstream: Radio Orvieto Web, ecosistema di competenze, affetti, militanza culturale. In un Paese in cui la discussione sul sistema penitenziario si accende quasi solo davanti a una rivolta o a un suicidio, iniziative come Io non sono qui sono un gesto politico silenzioso, che ridà dignità alla voce di chi non ha più spazio pubblico. Un podcast, da solo, non cambia il mondo, ma in un meccanismo che produce afonia sociale, ogni biografia che buca il muro è già una forma di disobbedienza. Forse è da qui, da una radio di provincia e da un terrazzo che guarda Orvieto, che può ripartire un’idea di giustizia meno spettacolare e più umana, che comincia da una domanda semplice: chi sei? Muovere il popolo contro le élite: un metodo infantile ma potente di Siegmund Ginzberg Il Foglio, 29 novembre 2025 Così si spiega Trump, e pure Hitler e Stalin. Si fa presto a dire populismo. Molto più difficile accordarsi su una definizione del termine. Non è un movimento politico, non è un’ideologia, non è, a ben vedere, nemmeno una strategia, un insieme di tattiche per raccogliere consensi politici ed elettorali. I populisti pretendono di rappresentare indistintamente il popolo, di esserne la voce autentica. Si ergono a interpreti inappellabili di una maggioranza assoluta, anche quando in realtà sono minoranza. Sono una parte che pretende di rappresentare il tutto. Mal tollerano opposizione e concorrenza. Se gli capita di arrivare a governare sono strutturalmente infastiditi da stato di diritto, divisione dei poteri, tutele delle minoranze. “Parzialità radicale” la definisce Nadia Urbinati in “Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia” (Il Mulino, 2020). Il populismo può essere quindi considerato “un modo per fare politica”. Nella definizione più frequentemente citata (ce n’è una miriade), populismo sarebbe un modo per denotare una separazione tra due gruppi omogenei e antagonistici: il popolo e le élite del potere, quel che si dice l’establishment. Non più un conflitto classe contro classe, ma tra due modi di atteggiarsi verso la politica. Un pensatore canadese, Joseph Heath, va anche oltre, lo considera “una ribellione cognitiva” contro le classi dirigenti: intuizioni viscerali del “senso comune” contro le inevitabili complicanze della “razionalità” necessaria per governare. Il senso comune è quello che fa dire alla gente che l’immigrazione è una sciagura, che gli immigrati portano via i posti di lavoro, stravolgono il nostro modo di vivere, che la politica è sporca e i politici sono corrotti, che la sicurezza può essere garantita solo punendo più severamente i delinquenti, che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, che le tasse sono un’esazione odiosa nei confronti dei “soliti noti”, i quali non sono in grado di evaderle, che le strutture internazionali - tipo l’unione europea - sono punitive verso gli interessi nazionali, che le banche ci succhiano il sangue, che i dazi sulle importazioni sono un modo per difendere le nostre fabbriche, e così via. Le intuizioni viscerali del senso comune sono forti del fatto che hanno un fondo di verità. Ma vai a spiegare che le cose non stanno così, sono molto più complicate. Peggio che andar di notte se lo spieghi in modo da non farti capire. Il senso comune del popolo diffida degli intellettuali. Gli piacciono i propagandisti, le semplificazioni. “L’aspetto che più confonde del populismo è che più viene criticato dagli intellettuali, più si rafforza”, dice Heath. Intuizioni e senso comune di pancia contro ragionamento analitico. Duello impari che potrebbe spiegare perché i movimenti populisti, di destra o sinistra che siano, hanno qualcosa in comune che spariglia le ideologie, anche quelle più consolidate, perché i populismi diffidano di chi governa e dell’establishment in generale, dei “tecnici” e della burocrazia, delle istituzioni rappresentative e della giustizia, delle banche centrali e dei loro moniti, delle autorità di controllo. Diffidano altresì dei mezzi di informazione. Per i nazisti i giornali erano “bugiardi”, Lügenpresse per definizione, finché non si impadronirono loro della radio e di tutti i giornali, sopprimendo quelli di opposizione, comprando una dopo l’altra anche le testate indipendenti e quelle degli alleati che li avevano portati al governo. Intimidirono le famiglie ebraiche proprietarie dei giornali più prestigiosi, costringendole prima a licenziare le firme scomode, poi a cedere tutte le testate. Lo stesso successe, a stretto giro di posta, pezzo per pezzo, anche all’impero mediatico di Alfred Hugenberg, ministro e asse portante del primo governo di coalizione di Hitler. Non lo salvò che i suoi giornali fossero più beceri, più antisemiti, più filonazisti dei nazisti. C’è un’affinità elettiva tra populismi e disinformazione. Su cui ha un effetto moltiplicatore il fatto che ai giornali e alle radio, e ormai anche alle tv, si siano sostituiti altri media assai più potenti e capillari. Instagram, Tiktok, X, l’ormai vetusto Facebook, sono assai più attrezzati a offrire una cacofonia di semplificazioni, intuizioni viscerali, anziché un confronto di ragionamenti articolati e razionali, nel merito. Offrono un ambiente di comunicazione pubblica “drammaticamente ostile allo stile analitico” - così la spiega Heath. Non concepiscono contraddittorio. Sono il medium ideale per chi, come Trump, un giorno dice una cosa e il giorno dopo un’altra. Sono anche incomparabilmente più “veloci” della carta stampata, e persino dei talk show. Un geniale ed eclettico studioso americano di origine russa, Peter Turchin, specializzato nell’analisi dei “cicli lunghi”, nel suo End Times: Elites, Counter-elites and the Path of Political Disintegration (Penguin, 2023) presenta un’affascinante (quanto spaventosa) carrellata millenaria sulla storia interpretata, fino ai giorni nostri, in termini di conflitto tra élite e contro-élite. Offre una possibile spiegazione del perché Trump. Ma anche del perché Hitler, del perché Stalin (che notoriamente aveva fondato il suo enorme potere sulla nomenklatura sovietica, sterminando intellettuali e dissenzienti), del perché Mao. Quest’ultimo aveva cavalcato l’avversione popolare ai mandarini rossi. La rivoluzione culturale fu una spietata resa dei conti al vertice. Qualcuno, anche tra i migliori cervelli della sinistra occidentale, si era bevuto la favola della “ribellione delle masse”. La “sovrapproduzione” di élite (elite overproduction) spiegherebbe, tra l’altro, tutte le crisi che hanno travagliato, nei millenni, le dinastie cinesi e l’impero romano, le guerre di religione e l’ancien régime in Francia, e via dicendo, fino a quelle del nostro nuovo millennio. Turchin si avventura, sulla base di modelli matematici, in previsioni tutt’altro che rassicuranti sul futuro della democrazia. Aveva previsto, in tempi non sospetti, gli sconvolgimenti dell’èra Trump negli Stati Uniti. Si spera che sbagli i calcoli, ma c’è da far venire i brividi. L’unica consolazione è che i catastrofismi di ogni genere si sono rivelati quasi sempre fallaci. È una vecchia storia. I capisaldi del discorso populista che abbiamo appena elencato nella versione contemporanea, che leggiamo e vediamo ogni giorno nei notiziari, sono gli stessi che portarono Hitler al potere in Germania negli anni Trenta. Sostituite ebrei con immigrati, bolscevismo con sinistra, plutocrati con ricchi, corruzione del regime (democratico) di Weimar con regime parlamentare, quelli che proteggono i criminali e i depravati, quelli che vogliono male alla Germania, che ne soffocano l’economia, che le negano lo spazio vitale, che vogliono sostituire il popolo tedesco, e via dicendo, con i discorsi dell’attualità, e avrete una copia carbone. Il Terzo Reich era un’orgia sfrenata di popolo, Volk, Volkisch, in contrapposizione al tradimento e alla perfidia delle élite. In un libro che scrissi qualche anno fa, Sindrome 1933 (tuttora in commercio per Feltrinelli) elencavo una serie di analogie che potevano far venire in mente al lettore quel che si sente dire oggi - e pensare che il fenomeno Trump allora era solo in boccio. Confessavo anche la difficoltà nel definire con un solo termine la versione contemporanea. Fascismi, mi pareva incompleto, inesatto, inefficace. Populismi, appena un po’più adeguato. Ancora non ne sono venuto a capo. Le analogie possono aiutare a riflettere e comprendere, ma ovviamente non dicono tutto. Non sono tuttora in grado di proporre un termine soddisfacente per quel che sta succedendo. Unfatto è che il populismo aiutò il nazismo ad affermarsi. Così come è un fatto che le destre sono andate al governo in mezzo mondo suscitando e poggiandosi a un’ondata di populismo, di “senso comune”, di mal di pancia e risentimenti popolari. E temo non sia finita. E allora? Che fare? A populismo, populismo e mezzo? Non funzionerebbe. Lo slogan semplice, l’appello al senso comune di pancia, negli attuali frangenti, funziona meglio per i populismi di destra che per i populismi di sinistra. Il senso comune è intrinsecamente conservatore, diffida per sua natura dei riformatori e dei discorsi troppo complicati. E’ più facile cavalcare ansie e malcontento. Trump si è fatto eleggere promettendo una rivoluzione, l’abbattimento del sistema vigente e di tutti i valori consolidati. Ha cambiato da cima a fondo la “narrazione”. Ma anche la sostanza. Niente più solidarietà sociale e solidarietà internazionale. Via la vaccinazione obbligatoria che protegga tutti. Niente più sprechi per il clima. Niente più difesa dei più deboli, dei diversi. Ha cavalcato quella parte del senso comune che diceva: abbiamo già dato fin troppo, ora pensiamo a noi americani. Al diavolo tutti gli altri, amici e alleati compresi. Se poi qualcosa non va per il verso giusto, è più facile dare la colpa di tutto alle élite in blocco e additarle come capro espiatorio. Non è un caso che le destre, in America come in Europa, siano giunte al potere dando la colpa di tutto a chi governava prima di loro, e continuino a farlo anche laddove ora governano loro. Non è un caso che di fronte a difficoltà di qualsiasi tipo, Trump continui a incolpare Biden e Obama. Così fanno ormai sistematicamente anche le destre nostrane. I dazi non stanno facendo di nuovo grande l’America come promesso, non creano più posti di lavoro e più fabbriche, le entrate non coprono il deficit fiscale, i prezzi continuano ad aumentare? Colpa dei democratici e dei giudici che si sono messi di traverso. Le retate dei migranti non in regola stanno creando più problemi di quanti ne risolvano? Idem. Non funzionano i centri in Albania? Idem con patate: è colpa della Schlein. E così via andare con lo scaricabarile delle responsabilità. Non più: “Piove governo ladro!” Ma: “Piove, ladro il governo di prima!”. Le destre vincono certo perché parlano alla pancia, e in modo da farsi capire dai più. Vincono perché hanno un’ideologia (il Maga nell’America di Trump, qualcosa di ancor più anacronistico e impresentabile dalle nostre parti). Mentre la sinistra l’ideologia, per tutta una serie di circostanze storiche, l’ha persa per strada. Vincono perché indovinano una leadership forte. Ma soprattutto vincono se riescono a mettere insieme una coalizione che tiene, o riescono a farsi accettare in una coalizione (in Italia la destra estrema c’è riuscita, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania non ancora). La “coalizione”, il mix che ha portato Trump alla Casa Bianca andava dai super ricchi di Wall Street e della Silicon Valley agli operai delle fabbriche dismesse, agli immigrati di più vecchia data che ce l’hanno coi nuovi immigrati irregolari, dai red necks del Sud a parte dei neri e degli ispanici delusi dai democratici. Mamdani ha vinto a New York grazie anche a un populismo “ragionante”. Ma i democratici americani avranno bisogno anche di altri spezzoni di consenso per costruire un blocco per la rimonta. Nessuno ce la può fare se non coinvolge anche altri, i non affini. Il discorso analitico non è evidentemente rinunciabile. Qualunque forza politica che si affidasse al solo discorso populista, di propaganda, si darebbe la zappa sui piedi, si condannerebbe a un’opposizione senza fine. Acquisirebbe magari qualche merito presso il proprio zoccolo duro, qualche consenso elettorale in più (e neanche questo è detto), ma finirebbe per mettersi contro un’altra parte decisiva per acquisire legittimità a governare. Perderebbe le élite “ragionanti”. Partito di lotta e di governo si diceva una volta. I partiti di lotta e basta non vanno da nessuna parte. In democrazia non vince chi grida di più o chi porta più gente in piazza. E nemmeno chi ha le proposte migliori, le idee più ragionevoli e più giuste. Vince chi sa fare politica, riesce a mettere insieme un blocco maggioritario, fatto di componenti diverse, a volte magari contraddittorie tra loro. Di un poco di populismo ha bisogno anche la sinistra. Purché non scolli, non sfracelli la possibile, indispensabile, “coalizione”. Che i lavoratori, le cui buste paga sono rimaste indietro rispetto agli operai del resto d’europa, rivendichino aumenti salariali non è per niente scandaloso. Lo sarebbe se non gli importasse nulla del rischio di imporre a tutti, loro per primi, la tassa più iniqua e devastante di tutte: l’inflazione. Se ci si dimenticasse di battersi per una crescita credibile. Non vedo cosa ci sia di così scandaloso nel chiedere una redistribuzione del prelievo fiscale, un contributo da parte di tutti, e non solo di buste paga e cedole di pensione. Sul come, se non piace il modo in cui lo fa Landini, dovrebbe pensarci qualcun altro. E’ un’iniziativa politica come un’altra. La cosa imperdonabile è un’altra: farlo a ranghi sparsi. Mobilitare gli stanchi, i disillusi, i disaffezionati della propria parte è una necessità. Farlo spaventando, allontanando tutti gli altri, i più, chi risparmia, chi è proprietario della propria abitazione, è peggio di una promessa populista che non si può mantenere, è un autogol. La sinistra italiana ha una lunga tradizione di dissociazione dal populismo. Lama, Trentin, De Carlini, Pizzinato, i leader sindacali della sinistra della mia generazione erano tutt’altro che populisti. Ricordo Luciano Lama e Giorgio Amendola che avevano la pazienza di spiegare a me, giovanotto di ingenui entusiasmi, perché sarebbe stato esiziale impuntarsi sulla scala mobile. Già Gramsci (in carcere dopo una sconfitta epocale della propria parte) si interrogava sull’argomento populismo: “È da vedere se anche un fenomeno di questo genere non sia molto significativo e importante storicamente e non rappresenti una fase necessaria di transizione e un episodio dell”educazione popolare’ indiretta. Una lista delle tendenze ‘populiste’ e un’analisi di ciascuna di esse sarebbe interessante: si potrebbe ‘scoprire’ una di quelle che Vico chiama ‘astuzie della natura’, cioè come un impulso sociale, tendente a un fine, realizzi il suo contrario”. I bambini del bosco e il dovere della tutela: quando politica e giustizia si scontrano di Sarantis Thanopulos huffingtonpost.it, 29 novembre 2025 Il dibattito, amplificato da reazioni politiche improvvisate, mette in luce la delicatezza delle scelte sulla potestà genitoriale, i rischi di strumentalizzazione emotiva e il ruolo essenziale della scuola come spazio democratico di crescita. In un contesto culturale fragile, la tutela dei minori richiede conoscenza, prudenza e responsabilità condivisa, evitando contrapposizioni ideologiche e semplificazioni dannose. Ha fatto scalpore il caso dei tre bambini di una famiglia anglo-australiana allevati in una casa nel bosco di Palmoli, vicino a Chieti. In seguito a un’intossicazione da funghi dell’intera famiglia e la richiesta di aiuto medico presso un ospedale della zona sono stati allertati i servizi sociali e successivamente la magistratura competente: si paventava il rischio di danni fisici e psichici per i bambini a causa delle loro condizioni materiali di vita considerate precarie e dell’isolamento sociale. I magistrati hanno deciso l’allontanamento provvisorio dei bambini (una femmina di 8 anni e due maschi di 6 anni) dai genitori. La decisione ha provocato l’ennesimo scontro del governo con la magistratura. Sul caso sono infatti intervenuti la presidente del consiglio e il ministro della giustizia che hanno espresso sconcerto nei confronti della decisione. Sono scesi in campo in difesa della famiglia e contro l’operato dei giudici, giudicato illegittimo moralmente. Hanno commesso un errore istituzionale serio perché nell’esercizio della loro funzione (quando non stanno tra amici o in famiglia) il loro dire e agire deve sempre muoversi nel rispetto del nostro ordinamento giuridico e della costituzione. Nell’ambito giuridico di ogni paese democratico i diritti dei bambini prevalgono sempre sul potere decisionale dei genitori. Sia questi diritti sia la regolazione del loro eventuale conflitto con le decisioni dei genitori sono definiti dalla legge. Il potere esecutivo non deve interferire con l’autonomia del potere giudiziario nell’interpretazione e applicazione delle regole sulla tutela dei bambini. Se ritiene che queste regole non siano adeguate può emendarle ottenendo il consenso del potere legislativo. Se ha dubbi, motivati da una adeguata conoscenza dei fatti, su una sentenza che prescrive una separazione (permanente o provvisoria) di uno o più bambini dai genitori, ha tutti gli strumenti istituzionali necessari per promuovere verifiche approfondite. Non interviene a caldo, sulla base di un inseguimento dell’atmosfera emotiva del momento, per dire la sua improvvisando. Diversamente alimenta contrapposizioni puramente ideologiche che dividono e disorientano i cittadini. È dannosa e avvilente la speculazione sui problemi e sulle disgrazie delle famiglie che oggi attacca (nel nome dell’unità familiare) la decisione di separare tre bambini dai loro genitori, mentre ieri attaccava (nel nome della sicurezza) la decisione opposta: il permesso a una madre di riavere un contatto privato con suo figlio che ha avuto come esito infausto un infanticidio (il tristissimo fatto accaduto a Trieste). La decisione di togliere o meno la potestà genitoriale è difficile: non può poggiare su criteri infallibili, si basa sempre sulla migliore approssimazione possibile e non può avere un approdo finale prestabilito. Ci vuole una conoscenza buona del contesto sociale e psichico e una valutazione attenta delle risorse affettive in campo. La disgiunzione tra figli e genitori è un rimedio estremo e non può mai prescindere dalla prospettiva della cura del dolore che genera e di una possibile riparazione della lacerazione. Inesperienza o schematicità di pensiero da parte di alcuni esperti, pregiudizi culturali, politici, religiosi e psicologici sono sempre possibili. Perciò il percorso da seguire deve evitare la logica procedurale e dei protocolli, essere valutabile e modificabile nel tempo tenendo conto di prospettive e di conoscenze diverse e, a meno di casi estremi, non può mai essere deciso una volta per sempre. Bisogna tenere sempre conto del fatto che la legge nel campo degli affetti può definire solo le situazioni più tipiche e mai coincide del tutto (a volte non coincide per nulla) con il senso della giustizia (la parabola del Re Salomone ci insegna molto). La tendenza a affidare a una valutazione dei giudici, supposta dirimente, ogni questione riguardante i nostri scambi affettivi, il senso della nostra identità o la regolazione dei nostri legami sentimentali sortisce due effetti altamente indesiderati: carica l’apparato giudiziario di una responsabilità impropria; ci deresponsabilizza emotivamente e mentalmente. Il lavoro dei giudici e degli esperti nel campo della famiglia e dei rapporti di coppia è ingrato se è privo del sostegno di una società civile viva e culturalmente feconda. Gran parte dei problemi si risolvono o diventano politicamente e giuridicamente risolvibili attraverso la mediazione di una cultura comune di rispetto delle diverse posizioni, funzioni e prospettive nelle relazioni familiari. Le buone leggi e la correttezza e competenza dei magistrati hanno la strada in salita in un clima di involuzione culturale. Della situazione della famiglia anglo-australiana che vuole vivere lontano dal consumismo sappiamo poco sul piano affettivo e delle sue condizioni sanitarie (forse non tutto va nel migliore dei modi ma, molto probabilmente, neanche nel peggiore). Tuttavia, sulla moda dell’”istruzione parentale” (la scuola in casa organizzata dai genitori con o senza un insegnante esterno) le perplessità sono giustificate. Quando esiste un reale impedimento ad andare a una scuola si fa della necessità virtù. Se questo impedimento non c’è, il rischio di un apprendimento casalingo è un eccesso di influenza delle credenze e delle ideologie genitoriali e la crescita dei figli in un clima di autarchia culturale, chiusa agli stimoli che loro possono ricevere e alle esperienze che possono fare fuori dalla famiglia. È fuorviante, peraltro, pensare che la scuola sia per definizione un luogo di alienazione delle coscienze mentre la famiglia sarebbe un luogo incontaminato di libertà (è invece tanto più vulnerabile a pensieri settari, impersonali e alienanti, quanto meno si confronta con la realtà). Nella Polis democratica la scuola rappresenta uno spazio di libertà e di emancipazione dei figli dai genitori, un luogo in cui essi acquisiscono il senso della comunità e del rispetto nei confronti degli altri, un momento di passaggio formativo fondamentale dalla logica endogamica dei legami di sangue, dell’Oikos, alle relazioni paritarie di scambio tra soggetti desideranti. Nel dialogo necessario tra le istituzioni e la coppia che ha deciso di vivere con i suoi bambini nel bosco è importante mettere al centro di tutto il diritto dei figli alle relazioni extrafamiliari, soprattutto con i loro pari, ma anche con figure genitoriali esterne che allargano la loro percezione e concezione dell’adultità. L’inquinamento atmosferico è il nuovo tabacco: ridurlo è questione di giustizia sociale di Antonio Marfella* Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2025 Ad ottobre 2025 Napoli registra la cifra impressionante di 168 giorni oltre soglia di biossidi di azoto. È un dato di una gravità eccezionale. “L’inquinamento atmosferico è il nuovo tabacco. Non è una metafora estrema, ma un’evidenza scientifica. Ogni giorno di ritardo nel ridurlo costa vite umane.” Con queste parole, Maria Neira - direttrice dell’Area Environment, Climate Change and Health dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e co-chair del Lancet Countdown - ha aperto una delle sessioni più attese del Congresso Isde Italia 2025, dedicato alla tripla crisi planetaria: clima, inquinamento e perdita di biodiversità. Nella sessione “Science and Advocacy” della terza giornata del Congresso, Paolo Bortolotti (Isde Trento) e Marco Talluri (Isdenews/ Ambientenonsolo) hanno presentato i risultati del primo anno di attività del Progetto Nazionale “Salute e Inquinamento Atmosferico nelle Città Italiane”, un monitoraggio sistematico che rappresenta oggi uno degli strumenti più avanzati e trasparenti per valutare lo stato della qualità dell’aria nelle aree urbane italiane. Un intervento che ha offerto un quadro chiaro e scientificamente fondato di come l’aria che respiriamo nelle città italiane rimanga lontana dagli standard di sicurezza fissati dall’Oms e - sempre più spesso - anche dai nuovi limiti della Direttiva europea 2881/2024. Un progetto nato per colmare un vuoto: dati omogenei, aggiornati, accessibili. Bortolotti ha spiegato che l’obiettivo del progetto è semplice ma rivoluzionario: monitorare ogni mese, con criteri uniformi, i dati delle 27 città italiane più popolose, attraverso le stazioni Arpa/Appa e il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente. Per il 2025 in corso, Napoli mostra i dati peggiori di inquinamento dell’aria rispetto a tutto il resto di Italia, Pianura Padana compresa, in particolare per i micidiali biossidi di azoto! Ad ottobre 2025 Napoli registra la cifra impressionante di 168 giorni oltre soglia! È un dato di una gravità eccezionale che determina un eccesso di cittadini napoletani uccisi ogni giorno dall’inquinamento della sola aria non inferiore a 4.5 cittadini al giorno! Questo dato è direttamente correlato non al traffico automobilistico privato ma alla presenza di uno sviluppo eccezionale e del tutto fuori controllo del Porto di Napoli e dell’aeroporto intracittadino di Capodichino. Neira ha ricordato che l’inquinamento atmosferico è responsabile ogni anno di oltre 8 milioni di morti premature nel mondo, con effetti sanitari che colpiscono in modo sproporzionato bambini, anziani e persone fragili. Le patologie più associate all’esposizione cronica a polveri sottili (PM2.5 e PM10), ossidi di azoto e ozono includono malattie cardiovascolari, ictus, tumori, diabete, complicanze in gravidanza e disturbi dello sviluppo cerebrale nei bambini: “L’aria inquinata attraversa la placenta e condiziona la salute dei futuri adulti fin dal grembo materno”, ha sottolineato. Napoli registra nel 2024 il record nazionale di ictus, infarti e cancri del polmone rispetto a tutta Italia con circa un terzo in più di mortalità evitabile rispetto alla pur inquinatissima Milano! Il quadro italiano, ha ricordato Neira, rimane critico. Le aree urbane - in particolare Pianura Padana, Campania e grandi città come Napoli - presentano livelli di particolato e biossido di azoto stabilmente oltre gli standard europei. “L’Italia ha capacità scientifiche straordinarie, ma resta intrappolata in un grande paradosso: conoscere benissimo il problema senza ridurre abbastanza le emissioni”, ha affermato. Il legame tra inquinamento e disuguaglianze è un altro punto chiave della sua analisi: chi vive nelle aree più povere, in case meno efficienti, vicino a strade trafficate o zone industriali, è più esposto e paga il prezzo più alto in termini di salute. Per questo, ha aggiunto, “le politiche per l’aria pulita sono anche politiche di giustizia sociale”. Napoli est Porto non riesce neanche ad avere dati per distretto dal registro tumori Asl Napoli 1. Il danno alla salute da inquinamento dell’aria è un problema prevenibile, non un destino biologico. Neira ha insistito sul parallelismo tra inquinamento e tabacco: entrambi sono rischi sanitari prevenibili, legati a scelte economiche e politiche. “Le persone non scelgono l’aria che respirano. È una forma di esposizione involontaria, che come nel fumo passivo danneggia tutti, soprattutto chi ha meno voce […] È fondamentale superare l’approccio fatalista e agire sulle fonti…. Ogni intervento sulla qualità dell’aria produce benefici immediati: meno infarti, meno ricoveri, meno assenze dal lavoro, meno costi sanitari”. Napoli non ha mai registrato negli ultimi decenni, che pure hanno determinato l’aspettativa di vita più bassa di Italia anche per il 2024, dati così gravi e cosi chiari di inquinamento dell’aria con una tale precisa indicazione delle fonti principali: Porto ed Aeroporto intracittadino. Intervenire solo sul traffico automobilistico privato che colpisce solo la già pessima qualità di vita dei cittadini ancora residenti e tra i più deprivati di Italia risulta così non solo del tutto inefficace per tutelare la salute dei napoletani, ma soprattutto offensivo per la loro intelligenza rispetto a dati scientifici cosi chiari e così gravi! Diventa un preciso dovere deontologico per tutti i Medici, non solo per i Medici dell’Ambiente, intervenire con estrema decisione a tutela della salute pubblica per migliorare immediatamente questa situazione al fine di ottenere precise garanzie per la immediata installazione delle banchine elettrificate nel Porto previste dal Progetto Pnrr entro marzo 2026, e con la immediata delocalizzazione di almeno il 50% del traffico aereo intracittadino verso l’aeroporto di Grazzanise, già pronto ma desolatamente vuoto. *Presidente medici per l’ambiente, Napoli