Il “Piano carceri” smentito dai dati: i posti si riducono di Errico Novi Il Dubbio, 28 novembre 2025 La promessa: “Entro il 2027 ne avremo 10mila in più”. C’è una notizia certa, vera, indiscutibile: si è suicidato, a Brindisi, un altro detenuto. Da inizio 2025, è il 72esimo recluso a essersi tolto la vita. A riferirlo è un dirigente sindacale della polizia penitenziaria, il segretario della Uilpa Gennarino De Fazio, che meriterebbe la nomina honoris causa di “Garante ombra delle persone private della libertà personale” (anche perché il Garante vero ha un tasso di pressione, nei confronti della politica, non misurabile). È De Fazio, e non altri, a riferire che “un detenuto originario della Basilicata si è impiccato nelle scorse ore”, e che i 72 gesti estremi verificatisi da inizio anno fra i detenuti, ai quali bisogna aggiungere “un internato in una Rems” e “4 operatori”, costituiscono un dato “indegno per un Paese che voglia dirsi civile, e confermano il tragico trend degli ultimi anni”. Del resto, aggiunge il segretario della Uilpa, “con 63.740 detenuti stipati in soli 46.183 posti, e considerate anche le carenze strutturali e infrastrutturali, le carceri sono invivibili”. A Brindisi “le condizioni sono a dir poco proibitive: 232 i ristretti, allocati in 119 posti, con un sovraffollamento del 195%”. E questo per confutare con argomenti di una certa consistenza la tesi del governo, secondo cui non vi sarebbe correlazione fra suicidi dietro le sbarre e celle pollaio. C’è un’altra notizia. Si è riunita la cabina di regia per l’edilizia penitenziaria, per la quarta volta. Si sono confrontati, ieri mattina a Palazzo Chigi, i più alti responsabili istituzionali del progetto che, nel giro di due anni, dovrebbe portare alla realizzazione di 10.692 nuovi posti, assai meno dunque dei quasi 17mila tuttora mancanti, come attestano i numeri riassunti da De Fazio. Dopo il summit sull’edilizia, il governo ha diffuso, in una nota, statistiche piuttosto ambivalenti. Da un lato si rinnova la promessa di completare, già per l’anno prossimo, oltre la metà dell’opera di ampliamento: “Il cronoprogramma prevede l’apertura di 864 posti nel 2025” e di “5.754 nel 2026”. Bene: quindi l’Esecutivo prevede un pur piccolo incremento della capienza, di 864 unità appunto, entro la fine di quest’anno. Novembre è praticamente finito, con i 72 suicidi già entrati nell’orrenda spoon river dei nostri istituti di pena, e ti aspetteresti che quanto meno una frazione di quel “Piano di Edilizia Penitenziaria” approvato, tiene a ricordare l’Esecutivo, il “22 luglio scorso”, sia stata già “consegnata” ai direttori delle carceri. Almeno qualche decina, di quegli 864, almeno come gesto di impegno nei confronti di una popolazione detenuta così sofferente. E allora vai a verificare: e parti dai dati riassunti da De Fazio che, si può aggiungere, si traducono in un tasso di sovraffollamento pari al 138% e che provengono dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e da Antigone; poi recuperi il report pubblicato un anno fa dalla stessa Antigone, dove si legge che “al 16 dicembre 2024, in Italia erano 62.153 le persone detenute, a fronte di una capienza regolamentare di 51.320 posti” ma che “di questi posti, 4.462 in effetti non erano disponibili, per inagibilità o manutenzioni, e dunque la capienza effettiva scende a circa 47.000 posti” con un “tasso di affollamento effettivo pari al 132,6%”. Antigone semplificava in “47mila”: eseguita la sottrazione, la cifra esatta sarebbe 46.858. Vuol dire che, da fine 2024, la capienza effettiva è diminuita di quasi 700 posti, anziché aumentare. Quell’incremento della capienza per 864 posti annunciato ieri dal governo, dunque, non esiste, non se ne vede neppure la parvenza di un accenno. Siamo ai numeri negativi. Forse è una minuzia. Ma contribuisce a dare il senso dello scarto fra le previsioni dell’Esecutivo e l’effettiva realtà del sistema penitenziario. Ieri a Palazzo Chigi, riferisce il comunicato, erano presenti il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, i due sottosegretari di via Arenula Andrea Delmastro Delle Vedove (di Fratelli d’Italia) e Andrea Ostellari (della Lega), il commissario straordinario per l’Edilizia penitenziaria Marco Doglio, e ancora “rappresentanti del ministero dell’Economia e delle Finanze, del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, di Invitalia, e i provveditori interregionali alle Opere pubbliche”. Si precisa che, pur assente, il titolare del “Mit” (nonché vicepremier) Matteo Salvini è tra i “promotori” della cabina di regia, la quale si riunisce “ormai” con “cadenza periodica”. Certo è che, chiunque ne faccia parte e a prescindere dalla frequenza dei summit, questa task force dà un’impressione di impotenza, velleitarismo, e suscita anche un sospetto di sostanziale indifferenza alla tragedia delle carceri, un sospetto difficile da soffocare con un sussulto di fede nelle magnifiche sorti e progressive del sistema penitenziario. Certo, sempre la nota di Palazzo Chigi ci informa che “dall’approvazione del Piano di Edilizia Penitenziaria da parte del Consiglio dei ministri del 22 luglio scorso, sono state pubblicate tutte le gare di competenza del Commissario straordinario per il recupero di oltre 4.000 posti detentivi” (puntualizzazione spiegabile alla luce di una “divisione di compiti” nell’ampliamento della capienza che annovera anche “2.636 posti a cura del Dap, 73 del Minorile e 3.314 del Mit”). Si legge ancora: “Gli interventi programmati, che comprendono manutenzioni ordinarie e straordinarie, nuove realizzazioni e ampliamenti, interesseranno la quasi totalità degli istituti penitenziari del Dap e del sistema minorile (17), per un costo complessivo nel triennio di oltre 900 milioni di euro”. Ma dichiarare la rilevanza dell’impegno finanziario rischia di essere un’aggravante anziché attenuare le responsabilità del governo. Pur a fronte di risorse evidentemente disponibili, il piano che ruota attorno al nuovo commissario straordinario Doglio, per il 2025, non è semplicemente in ritardo: è appunto “in perdita”. Mentre il conteggio di chi si è messo le lenzuola al collo o si è soffocato con un sacchetto, per la disperazione di una vita abbandonata dallo Stato, ecco, quell’asse del diagramma fa registrare cifre sempre e inesorabilmente in aumento. A fronte di una prospettiva “edilizia” sconfortante, c’è una prospettiva politica che lascia semplicemente sconcertati. Era il 26 settembre quando, al congresso Ucpi di Catania, il presidente del Senato Ignazio La Russa (tra i pochi esponenti dell’attuale maggioranza a essersi spesi per rimediare al sovraffollamento non con fantomatiche aperture di nuovi spazi ma con un intervento sulla liberazione anticipata) annunciava il naufragio della mission da lui affidata a una “sua vice”, la senatrice dem Anna Rossomando: “Non ha trovato l’accordo con gli altri gruppi. A questo punto ciascuno metterà sul tavolo una propria eventuale proposta”. Non se ne sono viste, di proposte in Parlamento. E convincersi che non si tratti di indifferenza diventa sempre più difficile. Marcia indietro del Dap sulla Circolare che bloccava le attività trattamentali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 novembre 2025 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fa un passo indietro sulla circolare che aveva scatenato le proteste di associazioni, garanti e operatori del settore. Durante l’ultima riunione tra il ministero della Giustizia e le organizzazioni che si occupano di carcere, tra cui Nessuno Tocchi Caino presieduta da Rita Bernardini, sono arrivate rassicurazioni importanti: la direttiva verrà integrata con modifiche significative che alleggeriscono la stretta burocratica imposta a ottobre. La questione era esplosa con la circolare n. 454011 del 21 ottobre scorso. Con quel provvedimento, il direttore generale dei detenuti e del trattamento (Dgdt) Ernesto Napolillo aveva deciso di accentrare su Roma tutte le autorizzazioni per gli eventi di carattere educativo, culturale e ricreativo che si svolgono negli istituti penitenziari dove sono presenti sezioni di alta sicurezza, collaboratori di giustizia o detenuti sottoposti al regime del 41- bis. Una scelta che aveva suscitato allarme perché di fatto toglieva potere decisionale ai direttori degli istituti e ai magistrati di sorveglianza, figure che per legge e per prossimità dovrebbero adeguare i percorsi trattamentali alle esigenze individuali di ciascuna persona detenuta. L’Osservatorio regionale della Campania sulle condizioni delle persone private della libertà personale, guidato dal garante Samuele Ciambriello e composto da Alessandro Gargiulo, Elena Cimmino, Paolo Conte, Mena Minafra, Anna Malinconico, Valentina Ilardi, Maria Rosaria Cardenuto e Giuliana Trara, aveva denunciato con forza questa scelta. In un documento diffuso nei giorni scorsi, l’Osservatorio aveva parlato di ‘ scelta accentratrice’ che rischiava di aumentare il già tragico bilancio dei suicidi in carcere. Ma ora qualcosa si muove. Le modifiche che ci saranno cambieranno la sostanza del provvedimento. Primo punto: è stata tolta la parola “autorizzazione”, che è stata sostituita da “nulla osta”. Non è solo una questione di termini. L’autorizzazione implica un potere decisionale pieno, il nulla osta è un parere che alleggerisce il peso burocratico centrale. Secondo: la Direzione generale dei detenuti e del trattamento ha due giorni di tempo per dare il nulla osta. Un termine stretto che dovrebbe evitare i tempi morti della burocrazia romana. Terzo: le richieste vanno presentate sette giorni prima. Inizialmente la DGDT aveva chiesto cinque giorni, ma i magistrati di sorveglianza che devono autorizzare hanno obiettato che erano troppo pochi. Quarto punto: si possono fare eventi con detenuti di media sicurezza e alta sicurezza insieme, ma in questo caso bisogna indicare i nominativi dei detenuti che parteciperanno. “Faremo una verifica tra tre mesi per verificare se si sono verificati problemi, stante la volontà del Ministro che le attività trattamentali con la comunità esterna devono moltiplicarsi anziché restringersi, naturalmente con uno sguardo attento alle ragioni di sicurezza”, commenta Rita Bernardini, che ha ottenuto le rassicurazioni durante l’ultima riunione. Ora si aspetta la nuova circolare che recepirà queste modifiche. Un passo necessario dopo settimane di tensione. Perché la direttiva di ottobre aveva fatto discutere non solo per i contenuti, ma per il messaggio che mandava: subordinare ogni esigenza trattamentale a presunte esigenze di sicurezza, in contraddizione con anni di circolari che avevano affidato proprio al mondo dell’associazionismo e del volontariato il ruolo di traino delle attività trattamentali in carcere. Associazioni come Nessuno tocchi Caino o Ristretti Orizzonti hanno costruito negli anni una rete capillare di laboratori, incontri, redazioni di giornali. La preoccupazione, espressa con forza da Roberto Giachetti nella sua scorsa interrogazione parlamentare, è che la nuova stretta burocratica finisca per paralizzare proprio queste attività, quelle che più di tutte incarnano il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena. I numeri del resto parlano chiaro. In Campania, solo per fare un esempio, c’è un solo educatore ogni 74,6 persone detenute, contro un agente di polizia ogni 2,08 persone detenute. Uno squilibrio che dice molto su dove si concentrano le risorse e le priorità dell’amministrazione penitenziaria. E la circolare di ottobre sembrava confermare questa tendenza: funzionalizzare tutti i comparti che prestano servizio negli istituti al supporto dell’attività di polizia nel governo delle sezioni detentive, dimenticando le diverse funzioni che l’area educativa è chiamata a svolgere per dare uno scopo risocializzante alla pena. Le modifiche annunciate rappresentano un segnale importante, ma sarà la pratica a dire se davvero le attività trattamentali potranno “moltiplicarsi” come auspica il ministro, o se la burocrazia centrale troverà altri modi per mettere i bastoni tra le ruote. La verifica tra tre mesi servirà proprio a questo: capire se il passo indietro è reale o solo apparente. Visitare i carcerati con metro e taccuino di Cesare Burdese* L’Unità, 28 novembre 2025 “L’architetto della prigione è il primo esecutore della pena. Egli è il primo artefice dello strumento del supplizio”, sosteneva l’Ispettore generale delle carceri francesi Louis Mathurin Moreau-Christophe già nel 1838. I “luoghi della pena” è un capitolo dell’ultimo libro di Nessuno tocchi Caino “Non giudicare!”. Sarà anche un punto all’ordine del giorno del Congresso, il 18, 19 e 20 dicembre a Milano presso il Teatro Puntozero del Carcere Beccaria. Da decenni entro nelle prigioni, per lo più per ragioni professionali. Misuro le celle, prendo appunti. Quei “muri”, violando bisogni e diritti, denunciano l’impellenza di dare dignità e umanità al carcere. Elisabetta Zamparutti e Sergio D’Elia li conosco dal 2022, Rita Bernardini l’ho conosciuta nel 2013 in Commissione ministeriale istituita dopo la sentenza “Torreggiani”. Da decenni entro in carcere, per lo più per ragioni professionali. Con Nessuno tocchi Caino la cosa è diventata sistematica e qualcosa di diverso, consentendomi di conoscere aspetti per me altrimenti impossibili da cogliere. Non ho ruolo né titolo di farmi carico delle istanze dei detenuti che, attraverso le sbarre dei pesanti cancelli, mi chiedono aiuto. Questo compito spetta al direttivo dell’Associazione, che ogni volta domanda, ascolta, illustra e spiega e dopo denuncia all’autorità competente. Per questo io converso con i detenuti in modo da evitare di creare in essi false aspettative, possibilmente su argomenti della loro esistenza, fuori dalla condizione detentiva, illudendomi così di alleviare per un attimo una condizione penosa. Dai “detenenti” personalmente apprendo le loro problematiche professionali e rivendicazioni, scoprendone valori e qualità. Entro in carcere con metro e taccuino, misuro le celle per verificarne la superficie (i muri sfiorati dal metro mi raccontano…), schizzo ciò che più mi colpisce e suggestiona in quello che vedo. Fuori scrivo dei “muri” appena veduti e delle loro istanze, intrecciate con quelle delle varie umanità presenti; il quotidiano L’Unità mi pubblica. Quei “muri”, violando bisogni e diritti, denunciano l’impellenza di dare dignità e umanità al carcere. A prescindere dalle epoche storiche di appartenenza, le carceri che visito, come peraltro tutte le restanti, palesano indistintamente gli stessi limiti, a detrimento della salute fisica e del benessere mentale degli occupanti: sovraffollamento, ventilazione insufficiente, visuali impedite, scarsa illuminazione naturale, rumore costante, igiene carente, fatiscenza e degrado, mancanza di verde, ecc., in una parola, totale disumanità. A questo si aggiunge una configurazione spaziale limitata, più improntata alla sicurezza che alla riabilitazione del condannato, funzione peraltro questa che da numerosi decenni, in Occidente, è andata in crisi. Circostanze queste che rendono la quotidianità detentiva e lavorativa in carcere indecente e improduttiva, in uno stato di ozio forzato per i detenuti e precarietà per i “detenenti”, in luoghi che sembrano destinati a cose e non a persone. Tutto ciò a discapito delle finalità costituzionali della pena, in un gioco perverso di rimpallo di responsabilità. Ogni volta rifletto sulla missione etica e politica che la riforma dell’Ordinamento Penitenziario da cinquant’anni ha attribuito al carcere quale strumento di trasformazione dell’individuo. Le carceri che visito sono però sempre altro, luoghi di afflizione che confliggono con la visione prettamente ideologica e astratta della rieducazione/risocializzazione. Una condizione che sembra irrisolvibile, viste la natura della detenzione e la sua funzione neutralizzante, la complessità dell’umanità presente e l’immobilismo strutturale della pubblica amministrazione in generale che tende a lasciare le cose come stanno. Solo se guidato dall’alto e accompagnato dal basso un cambiamento può avere successo, mai in assenza di volontà politica e conseguentemente di risorse economiche e umane. L’architettura non può redimere ciò che la politica non vuole cambiare, sostituendosi a essa per risolvere contraddizioni sociali profonde. Resta legittimo il fatto che essa possa scendere in campo per cercare di alleviare un malessere materiale ed esistenziale in essere. Le carceri che in questi anni ho visitato, rappresentano la negazione di un sogno ideologico che, pur fallendo, continua a interrogarci sulla relazione tra spazio, potere e libertà. L’auspicio, purtroppo sovrastato dall’illusione, è che l’orologio del progresso incominci a segnare le ore anche per l’esecuzione penale e la progettazione dei suoi luoghi, magari prospettando non un carcere migliore, ma qualcosa di meglio del carcere. *Architetto Innocenti evasioni da uno scandaloso internamento di Franco Corleone L’Unità, 28 novembre 2025 La fuga di Elia Del Grande dalla “casa lavoro” fa emergere una realtà aberrante che risale al codice Rocco. Bisogna essere grati a Elia Del Grande per avere denunciato la “realtà barbara” delle case lavoro che l’arcivescovo di Chieti-Vasto, il teologo Bruno Forte, chiede con forza che siano chiuse subito perché costituiscono un insulto alla Costituzione e alla giustizia. Gli articoli di cronaca purtroppo hanno dato fondo alla retorica securitaria parlando di una clamorosa evasione di un pericoloso criminale. Da dove? Non dal carcere, perché Del Grande era uscito dal carcere nel 2023 dopo avere scontato la pena di 26 anni e 4 mesi per un grave delitto. La fantasia si è sbizzarrita parlando di comunità, di casa famiglia, di Rems con il corollario del rimpianto per gli Opg, i manicomi giudiziari chiusi con una riforma civile che ha concluso il processo iniziato nel 1978 con la legge 180, conosciuta come la legge Basaglia. Finalmente è emersa la realtà: si trattava di un allontanamento dalla casa lavoro di Castelfranco Emilia, carcere a custodia attenuata. Raccontare la storia è istruttivo per fare un po’ di luce su una realtà che appartiene alla archeologia criminale del Codice Rocco e della concezione positivista-lombrosiana dedicata a persone classificate come “delinquenti per tendenza, abituali o professionali”; addirittura si aggiunge la caratteristica di individuo di “indole particolarmente malvagia”. Fra gli oltre 63.000 detenuti, circa trecento, per una bizzarra sorte (o sorteggio?) sulla base di un giudizio di pericolosità sociale, oltre alla pena detentiva subiscono una misura di sicurezza che al termine del carcere li trasformerà da detenuti a internati, sottoposti nel caso più fortunato a una misura di libertà vigilata con prescrizioni di comportamento spesso stravaganti, oppure a un periodo di permanenza in una casa lavoro o colonia agricola che da un anno iniziale si può prolungare per un tempo imprevedibile. Per due anni Del Grande aveva sperimentato la libertà e il reinserimento trovando un lavoro e una compagna, ma il sogno è svanito il 23 settembre perché in seguito a un litigio con un vicino, il magistrato di sorveglianza ha deciso un aggravamento della misura di sicurezza della libertà vigilata con l’internamento in casa lavoro. La delusione è stata sicuramente forte, e così ha resistito un mese in una struttura peggio del carcere, con meno diritti e meno opportunità. A fine ottobre se ne è andato, spiegando in una lettera al quotidiano Varese News i motivi della fuga. La denuncia è puntuale ed è uguale a quelle degli internati di Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto raccolte nel volume “Un ossimoro da cancellare”: questo è un ergastolo bianco è il grido diffuso e ancora “siamo in uno Stato democratico e dobbiamo avere la misura dei tempi di Mussolini”. L’incredulità e il senso di ingiustizia sono condivisi anche da tutti gli operatori, educatori e polizia penitenziaria, che chiedono sia approvata una riforma per chiudere la casa lavoro che non dà prospettive. La Società della Ragione ha elaborato una proposta di legge in tal senso e Riccardo Magi l’ha presentata alla Camera dei deputati. Si rimane stupefatti nel leggere che la caccia all’uomo si è avvalsa di droni e telecamere: dopo tredici giorni Elia Del Grande è stato arrestato e condotto ad Alba, in un’altra casa lavoro, secondo una truffa delle etichette che mistifica la realtà. Sarebbe davvero straordinario se questo episodio facesse esplodere lo scandalo e provocare il cambiamento. Dietro le sbarre c’è anche la salute mentale degli agenti di Polizia penitenziaria di Silvia Pogliaghi trendsanita.it, 28 novembre 2025 Nel 2024 si sono suicidati 91 detenuti e 6 agenti penitenziari: un dramma doppio che rivela il disagio psicologico condiviso dentro il carcere. È sempre argomento delicato e doloroso, parlare di salute mentale e suicidi in carcere. Farlo significa affrontare la fragilità estrema dello Stato e dell’animo umano e personalmente, con questo articolo, proverò a trattarlo con il massimo rispetto e rigore scientifico. Nel 2024, nelle carceri italiane, si sono tolte la vita 91 persone detenute, il numero più alto mai registrato. La sofferenza psicologica però non riguarda solo le persone detenute che hanno perso alcuni diritti civili e politici, ma anche coloro che sono in ambienti ristretti per via del lavoro che svolgono. Tra gli agenti di polizia penitenziaria, uomini e donne che ogni giorno vivono immersi nella tensione carceraria, si contano sei suicidi solo nel 2024 e 57 casi tra il 2014 e il 2022, secondo i dati di Cerchio Blu. Una tragedia parallela che raramente trova spazio nel dibattito pubblico. In occasione della conferenza “Suicidi dentro e fuori il carcere: strumenti psicologici e giuridici di prevenzione e cura”, tenuta a San Vittore presso la Sala Polivalente della Casa Circondariale “Francesco Di Cataldo”, ne abbiamo parlato con Maurizio Montanari, psicoanalista, studioso del disagio e autore di una riflessione profonda sul rapporto tra psiche, legge e sistema penitenziario. “Chi si occupa di salute mentale osserva il disagio evidente che alberga all’interno delle carceri nella sua doppia accezione. Ci troviamo oggi in presenza di un crescente disagio psicologico dei detenuti e anche di coloro che hanno il compito di vigilare sulla loro detenzione. Disagio che troppo spesso sfocia nella scelta di porre fine alla propria vita, dentro e fuori la cella”. Dottor Montanari, i dati sono impietosi. Come interpreta questo fenomeno crescente di suicidi dentro e intorno al carcere? “È il segno di un disagio sistemico che indica una duplice sofferenza e attraversa le stesse mura da due lati diversi. Il carcere, per sua natura, è un contesto che amplifica ogni forma di disagio: l’isolamento, la mancanza di prospettiva e le tensioni costanti, solo per citarne alcune. E col tempo, anche chi vi lavora quotidianamente finisce per interiorizzare quella logica di chiusura, quella disperazione”. Lei parla di un “disagio condiviso” tra detenuti e agenti. Può spiegare meglio? “Entrambi vivono la perdita del legame con l’Altro. Il detenuto che patisce la restrizione della libertà, ma che non appartiene ad organizzazioni esterne organizzate che lo sostengono e lo “attendono”, avverte la caduta dei flebili legami col mondo a seguito del suo reato. L’agente di polizia penitenziaria a volte si sente non del tutto sostenuto da quello Stato che serve. Dal punto di vista clinico, la dinamica è la stessa: quando svanisce la speranza di trovare una via d’uscita, la vita stessa perde significato. Ed è in quel vuoto che si insinua il pensiero del suicidio”. Il Rapporto Antigone 2024 documenta un aumento significativo del disagio psichico tra i detenuti. Cosa ci dicono i numeri? “Secondo Antigone, al 31 marzo 2024 le persone detenute erano 61.049, a fronte di una capienza di 51.178 posti. In 70 istituti su 95 il tasso di affollamento superava il 100%, e in 18 addirittura il 150%. Sul piano della salute mentale, si registrano 12,7 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti, quasi uno su cinque (20,5%) assume psicofarmaci come antidepressivi o stabilizzanti dell’umore e oltre il 43% fa uso di sedativi o ipnotici. È la prova che il carcere non è solo un luogo di pena, ma un moltiplicatore di patologie psichiche”. In che modo questa realtà influisce sul personale di polizia penitenziaria? “L’agente vive costantemente immerso in quel contesto. Otto, dieci ore al giorno a contatto con proteste, crisi, agiti violenti, anche di tipo psicologico. Uomini con le loro famiglie i loro fardelli, i loro problemi. In un siffatto contesto accade che si possa assuefare ad una tensione costante, a codici differenti da quelli osservati fuori le mura carcerarie. È una forma di assuefazione simile a quella che vivono i medici d’urgenza o gli operatori di guerra. E quando non c’è un contenitore psicologico, un luogo dove scaricare e rielaborare, la psiche vacilla”. Quindi l’assenza di spazi di ascolto è parte del problema? “I servizi di sostegno psicologico devono essere potenziati e, per quanto possibile, va favorito l’accesso a strutture di cura e professionisti che non appartengano al mondo militare. Questo perché, ed è un vulnus insito in tutte le Forze Armate, se un agente dichiara di stare male a chi come lui è inserito all’interno della struttura militare, per quanto valido e professionale sia, scatta nel sofferente il timore di essere considerato “non idoneo”, di perdere la pistola o di essere de mansionato. È per questo che molti scelgono di ingoiare il dolore. Il risultato è un silenzio che, spesso, si traduce in malessere diffuso”. E le donne in divisa? Vivono forme diverse di disagio? “Direi che la sofferenza è paritaria. Le donne non sono più protette, anzi. Durante la pandemia, ho visto molte operatrici sanitarie e agenti arrivare al collasso. Il peso del doppio ruolo, lavoro e famiglia, amplifica lo stress. La divisa, in questo senso, non fa differenza di genere”. Le linee guida del Ministero della Giustizia 2024-2026 cercano di affrontare il problema. Le ritiene efficaci? “Certo. Tuttavia, mancano risorse e continuità. Senza un piano stabile di monitoraggio clinico e prevenzione del burnout, rischiamo di limitarci alla burocrazia del disagio, non alla sua cura”. C’è chi sostiene che la selezione del personale sia un altro punto critico. È d’accordo? “I criteri di ammissione e le valutazioni psicologiche periodiche degli agenti devono essere potenziati. Non si tratta solo di escludere chi ha disturbi conclamati, ma di individuare precocemente le fragilità emotive e affettive che possono degenerare sotto stress. Servono screening regolari, spazi di decompressione, colloqui di follow-up”. Nel suo intervento a San Vittore lei ha detto che lo Stato “fallisce due volte”. Cosa intendeva? “Intendo che lo Stato fallisce con il detenuto che si impicca e con l’agente che si spara. Nel primo caso non ha saputo offrire un percorso di reinserimento; nel secondo non ha saputo prevenire un dolore che covava dentro il suo Funzionario. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: una persona che rinuncia alla vita. È la sconfitta di un sistema che non ha saputo ascoltare”. Quali passi concreti proporrebbe per invertire questa tendenza? “Vedo tre misure urgenti: Valutazioni psicologiche periodiche obbligatorie e sostegno per tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine; Sportelli di ascolto esterni e anonimi, convenzionati con lo Stato, ma gestiti anche da professionisti civili; Riconoscimento ufficiale del rischio psichico come parte integrante del lavoro penitenziario, al pari del rischio fisico. Solo così potremo prevenire le tragedie, non semplicemente commentarle dopo. Forse la vera civiltà penitenziaria comincerà quando si accetterà che la salute mentale, dietro le sbarre, riguarda tutti: chi la vive e chi la custodisce”. Più che separare le carriere si cambi il modo in cui si fanno i processi di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 28 novembre 2025 È molto difficile che la riforma della giustizia possa rivitalizzare immediatamente il modello accusatorio di processo e la cultura dei giudici e dei pm. Tuttavia, si spera idealmente che possa influire sulle consolidate percezioni del ruolo dei magistrati accusatori e giudicanti. Da anni le forze politiche tendono a strumentalizzare le leggi in materia di giustizia penale per dare segnali sul piano della comunicazione politica e/o su quello del generale orientamento culturale dei cittadini. Un recente esempio emblematico, per di più bipartisan, la progettata riforma della violenza sessuale, che la incentra sull’assenza di un consenso libero e attuale. Se la Lega non avesse richiesto un approfondimento, sarebbe stata subito varata nonostante la notevole genericità della nuova formulazione e una grave ingiustizia in termini di logica punitiva (la previsione di una stessa pena anche per ipotesi di violenza più gravi, cioè commesse su persone in condizioni di inferiorità fisica o psichica o con inganno). Ma aggiustare la pena avrebbe creato contrasti politici insuperabili. Si stava dunque per dare il via libera alla riforma anche a costo di approvare un mostriciattolo giuridico: sarebbe stato più importante veicolare senza indugi il messaggio, di valenza innanzitutto simbolica, che tutti i partiti hanno a cuore la lotta alla cultura maschilista e la protezione della libertà sessuale delle donne! La strumentalizzazione politica, a ben vedere, non è neppure esente dalla riforma delle carriere dei magistrati, oggetto principale di questo intervento. Si tratta di riforma dai contenuti discutibili, ed è controvertibile per una ragione di fondo che ben li trascende: la disciplina del rispettivo ruolo di pm e giudice è vivacemente dibattuta sin dal secondo Ottocento, perché la questione presenta una intrinseca e irriducibile problematicità. Ogni modello di regolamentazione presenta pro e contro; non è possibile la quadratura del cerchio. Non a caso, sulla riforma Nordio si è spaccata anche l’associazione dei processualisti italiani, che hanno finito col redigere due documenti separati rispettivamente firmati da studiosi favorevoli e contrari. La guerra di religione che è in atto vede contrapposti la magistratura, rappresentata dall’Anm col sostegno delle forze di sinistra, e il centrodestra insieme al mondo dell’avvocatura e si basa, ufficialmente, su motivazioni di principio. Com’è noto, i magistrati lottano per il mantenimento dell’assetto attuale in nome dell’unicità della “cultura della giurisdizione” (concetto vago, ridotto ormai a usurato slogan) e, soprattutto, per la preoccupazione che la riforma preluda a una sottoposizione del potere giudiziario al controllo del potere politico (timore invero non infondato, specie se l’esperienza dovesse dimostrare che un pm “separato”, piuttosto che venire ridimensionato, gode invece di più potere e maggiore libertà di azione). Ma è diffuso anche il sospetto, forse non troppo malizioso, che le motivazioni ufficiali celino preoccupazioni meno nobili: cioè che i magistrati vogliano soprattutto dimostrare di avere ancora un potere di interdizione delle riforme politiche loro sgradite, conservare una posizione di forza nel sottoporre a un controllo occhiuto i politici e salvaguardare la logica e il potere delle correnti. I fautori della separazione, come sappiamo, mettono in campo come ragioni di fondo l’esigenza di dare più concreta attuazione ai princìpi del “giusto” processo, la fedeltà al modello accusatorio di processo e la necessità di contrastare lo strapotere dei pm potenziando la terzietà dei giudici. Ma pure questa volta non mancano sospetti che i reali intendimenti siano altri: una rivendicazione anche simbolica di potere da parte della corporazione degli avvocati nei confronti della corporazione dei magistrati e un tentativo da parte della destra di riaffermare la supremazia della politica rispetto al potere giudiziario. Conflitti soprattutto di potere, dunque, sotto la veste ideale delle ragioni di principio. Come stanno effettivamente le cose? Forse, come non di rado accade nelle cose umane, coesistono motivazioni dell’uno e dell’altro tipo, su entrambi i versanti confliggenti. Ma, nell’ottica di chi sia soprattutto interessato all’affermazione dei valori del garantismo penale, ciò che maggiormente dovrebbe importare è valutare, al di fuori di pregiudizi ideologici e logiche preconcette di schieramento, se e in che misura la riforma Nordio sia idonea a favorire un vero progresso in chiave di giusto processo. Orbene, esistono fondati motivi per dubitare che la riforma della separazione delle carriere, considerata in se stessa, possa produrre l’effetto magico di rivitalizzare il modello accusatorio di processo, modificare la cultura e la mentalità di pubblici ministeri e giudici anche nelle loro rispettive relazioni funzionali e contrastare lo strapotere delle procure. A parte i suoi discutibili profili contenutistici, si confida idealisticamente nella idoneità della pur sempre settoriale riforma sulla carta di una parte dell’ordinamento giudiziario a incidere sul reale funzionamento del processo e a modificare effettivamente, anche sul piano psicologico, consolidate autopercezioni di ruolo da parte dei magistrati d’accusa e giudicanti. Senonché, è senz’altro più realistico pensare che il carattere accusatorio o meno del processo dipenda, più che dalla disciplina ordinamentale dei ruoli magistratuali isolatamente considerata, dalla logica complessiva sottostante alle norme che ne regolano il funzionamento. Insomma, è la struttura del processo davvero determinante. E il processo penale italiano è da tempo non solo senza una precisa identità: l’ispirazione accusatoria, che connotava la riforma processuale Vassalli del 1988, è stata progressivamente ridimensionata se non rinnegata da interventi normativi successivi, anche abbastanza recenti, nonché da prassi giudiziarie poco coerenti col modello accusatorio. Come ha ben rilevato Paolo Ferrua, uno dei maggiori processualisti, persino la riforma Cartabia ha inferto un duro colpo alla dimensione accusatoria del processo vigente, spostandone l’asse verso l’indagine preliminare e così allontanando la fase del dibattimento. Se così è, per recuperare la logica del processo accusatorio nella prospettiva di una più coerente attuazione dei princìpi del giusto processo, occorre molto di più di una mera disciplina separata delle carriere dei magistrati penali. La spaccatura dell’Accademia sul documento pro riforma tra polemiche di metodo e sospetti sulle reali intenzioni di Valentina Stella Il Dubbio, 28 novembre 2025 Un documento contro la separazione delle carriere accende la polemica nell’Associazione Pisapia e divide studiosi e direttivo. Rivolta tra i professori di procedura penale. Come anticipato ieri l’Accademia è spaccata sulla riforma targata Nordio e Meloni. Vediamo la seconda puntata. “A seguito della pubblicazione, da parte del Direttivo dell’Associazione, del documento di adesione alla riforma costituzionale, riteniamo di esprimere il nostro dissenso, attraverso il documento allegato che verrà diffuso”. Con questa email è partita qualche giorno la raccolta firme a un elaborato di alcuni professori di procedura penale contro la riforma della separazione delle carriere e soprattutto in contrasto con quello del direttivo dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “G. D. Pisapia”. Secondo questo gruppo di processual penalisti “la separazione della magistratura, congegnata dalla riforma, non è necessaria per attuare il giusto processo contemplato dall’art. 111 Cost., né fornisce alcun contributo alla risoluzione dei problemi che affliggono la giustizia penale italiana (primo fra tutti la durata irragionevole), non apparendo una terapia adeguata al nostro agonizzante processo penale”. Inoltre “la modifica costituzionale rischia di portare a un mutamento genetico del pubblico ministero, destinato a configurarsi sempre più come organo schiacciato su mere istanze di repressione, e a un suo conseguente pericoloso rafforzamento”. In più “questa involuzione del pubblico ministero è destinata a tradursi in un progressivo indebolimento delle garanzie per indagati e imputati (soprattutto non abbienti)”. Infine lo “sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura e l’introduzione del sorteggio secco per la componente togata rischiano di indebolire i presidi di autonomia e indipendenza, tanto dei pubblici ministeri, quanto (e forse soprattutto) dei giudici”. Tra i firmatari del documento troviamo, tra gli altri, Mitja Gialuz, Giulio Illuminati (pare dimessosi dall’Associazione “G. D. Pisapia” dopo questi contrasti), Giulio Ubertis, Francesco Caprioli, Roberta Aprati, Gabriella Di Paolo, Donatella Curtotti, l’Emerito Roberto E. Kostoris. In tutto sono 41 e di questi 38 sono soci dell’Associazione Pisapia, composta da circa 160 soci ordinari e presieduta da Adolfo Scalfati. Quest’ultimo invece si era espresso a favore insieme agli altri membri del direttivo (Sergio Lorusso, Giulio Garuti, Filippo Dinacci, Mariangela Montagna, Daniele Negri con il voto contrario, espressivo di una dissenting opinion, del professor Michele Caianiello). Al di là del merito delle due posizioni in campo che divide nettamente l’Accademia sulla riforma costituzionale, a tenere banco è ancora la questione di metodo. Come vi abbiamo raccontato ieri, infatti, diversi soci hanno contestato il fatto che non sia stata convocata una assemblea, anche online, di tutti gli iscritti per discutere del paper pro separazione delle carriere dei giudicanti e requirenti. Il direttivo avrebbe scelto di renderlo pubblico senza consultare in pratica la base, ossia gli altri circa centocinquanta professori di procedura penale tra i più noti della nostra Accademia. Da lì sarebbe nata una polemica molto aspra. E ieri mattina, alla lettura del nostro articolo, gli animi si sarebbero accesi ancora di più. Paradossalmente anche qualcuno tra i sostenitori della riforma ha mosso critiche alla decisione di Direttivo di andare avanti dritto per la sua strada. “Esiste una questione di opportunità: non si può schierare una associazione come questa a favore di un referendum” ci dice un professore. Un altro aggiunge: “Qualche settimana fa abbiamo tenuto un convegno a Ferrara: perché non si è discusso della questione in quella sede? Perché si è voluta forzare la mano?”. Un altro si chiede ancora malignamente: “non è che qualcuno sta per entrare in qualche comitato per il Sì?”. E ancora un altro: “così hanno ottenuto l’effetto contrario di compattare il No interno all’Associazione con quello politico”. E infine un’altra voce dissenziente: “anche a livello scientifico, non si può giustificare un Sì alla riforma sul piano dell’indipendenza del giudice citando una sentenza della Corte Edu che riguarda una causa civile maltese del signor F. contro la signora M. che stendeva i panni nel suo cortile e da cui è nata poi una causa di incompatibilità perché un giudice era il fratello dell’avvocato che assisteva il signor F.”. Quei documenti dell’Associazione sono frutto di un fisiologico dibattito di Adolfo Scalfati* Il Dubbio, 28 novembre 2025 In qualità di Presidente dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale G. D. Pisapia, in ordine agli articoli a firma di Valentina Stella del 26 e 27 novembre 2025 - relativi a due documenti, l’uno favorevole, l’altro contrario alla legge di riforma sulla cd. separazione delle carriere - devo precisare aspetti necessari per la rappresentazione dei fatti. Il documento contrario alla legge costituzionale redatto a nome di 41 professori di Procedura penale contribuisce ad un fisiologico dibattito; trattandosi di un documento aperto alla firma ed essendo stato sottoscritto anche da non soci, esso trasferisce la dialettica all’esterno dell’Associazione. Che ben venga. Quanto al documento favorevole ai principi sottesi alla riforma, si è scritto che diversi soci hanno contestato il metodo con il quale il Direttivo dell’Associazione lo ha redatto e diffuso; la lamentela risiede nella mancata previa consultazione dell’Assemblea (o dei soci, che è la stessa cosa). Secondo lo Statuto associativo, il Direttivo è l’organo rappresentativo e di governo, composto da figure democraticamente elette dall’Assemblea in tutte le proprie espressioni culturali; il suo compito è quello di attuare gli scopi dell’Associazione - tra i quali la promozione della riforma e del perfezionamento del sistema processuale penale - tramite tutte le iniziative ritenute opportune. Di qui il primo essenziale punto: le regole interne non prevedono che la stesura e la diffusione di documenti da parte del Direttivo devono essere approvati dalla comunità. Il secondo punto è che la menzionata autonomia del Direttivo costituisce una prassi non certo nuova; anche di recente l’attuale Direttivo ha autonomamente varato, senza che nessuno si lamentasse, i seguenti documenti: 29 ottobre 2022, in tema di rinvio della cd. riforma Cartabia; 22 novembre 2022, su ergastolo ostativo; 3 aprile 2023, in materia di prescrizione del reato; 26 giugno 2024, assieme alla Associazione di Diritto penale, sull’emergenza carceri. In terzo luogo, è incontestabile che il documento esprima la prospettiva culturale di sei componenti del Direttivo su sette; la qual cosa - su un totale di 150 soci ordinari - riflette la presenza di una linea “dissidente” nella quale si concentra la rappresentanza di un gruppo. E a me pare che questo fenomeno si chiami democrazia. Restano due circostanze, volutamente omesse sinora. Il documento, dopo la sua stesura, è stato a posto a disposizione di tutti i soci tramite la mailing list, per la durata di due giorni; ciascuno era libero di formulare la propria opinione: è un fatto che la maggioranza di chi ha partecipato al dibattito ha manifestato adesione al metodo e parere favorevole ai contenuti. Il documento evidenzia valori ideali nei quali credono sei consiglieri del Direttivo su sette. L’idea che entità esterne - come qualcuno proditoriamente ipotizza - ne abbiano influenzato la stesura è del tutto priva di fondatezza e proviene da fonti disinformate se non malevoli. Spiace constatare che altri quotidiani, ideologicamente orientati, abbiano riportato al riguardo solo notizie dirette ad influenzare la popolazione verso il No alla riforma, anziché soffermarsi su tutti i contenuti del dibattito. *Presidente dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “G. D Pisapia” La guerra dei dati al ministero della Giustizia, caccia a quelli sull’allontanamento dei minori di Giulia Merlo Il Domani, 28 novembre 2025 All’ombra della campagna sul referendum della giustizia, Via Arenula ha chiesto a tutti i tribunali dei minori di fornire i dati. Anche i penalisti hanno chiesto ai tribunali la percentuale di accoglimento, da parte del Gip, delle richieste di misure cautelari personali e reali avanzate dagli uffici di procura. Si sa, sapere è potere ed è ancora più vero in politica. Soprattutto se è in corso una campagna referendaria come quella per la riforma della giustizia. Forse proprio per questo il ministero della Giustizia si sta affannando a recuperare dati statistici: l’ultima caccia riguarda i dati statistici relativi ai minori allontanati dalle famiglie d’origine. La missiva che Domani ha potuto visionare è protocollata dal ministero e inviata a tutti i presidenti dei tribunali per i minorenni, con oggetto “Rilevazione urgente”, richiesta dal Gabinetto del ministro. Via Arenula chiede a tutti i presidenti di trasmettere “entro il 1 dicembre (la mail è del 26 novembre ndr) i dati dell’ultimo triennio, relativi al numero di minori per i quali è stata disposta la misura di cui all’articolo 403 c.c., nonchè ove possibile al numero dei minori per i quali, in altri procedimenti, è stato disposto il collocamento del minore in strutture residenziali o case famiglia”. La richiesta fa evidentemente il paio con la polemica politica in corso sulla cosiddetta “famiglia del bosco”, sulla quale il ministro Nordio si è espresso con toni critici nei confronti del provvedimento giudiziario che ha allontanato i tre figli della coppia. L’allontanamento dei minori - Rispondendo a un question time, ha detto di aver chiesto con urgenza la trasmissione degli atti - non ancora pervenuti - e ha definito “il prelievo forzoso di un minore una misura estrema”, da adottare solo dopo “un difficile bilanciamento tra l’interesse futuro del minore e quello attuale al mantenimento dello status quo”. Qualora emergessero responsabilità, “eserciterò i poteri conferiti dalla legge”, ha concluso. Non ha però risparmiato la nota critica sull’operato delle toghe: “Dopo anni di bombardamento mediatico contro la civiltà dei consumi e l’eccessivo uso delle fonti di produzione elettriche o nucleari, quando una famiglia decide di vivere pacificamente secondo i criteri di Rousseau, a contatto con la natura, si arriva poi a provvedimenti così estremi”. Ecco che allora, proprio nel giorno del question time, è partita la richiesta del ministero di raccogliere i dati in tutti i tribunali. L’operazione potrebbe corroborare la tesi critica di Nordio nei confronti delle toghe, utile anche alla campagna referendaria i cui ormai sono entrati anche temi e polemiche che nulla c’entrano con il merito della riforma. A saltare agli occhi, però, è anche il metodo empirico di raccolta dei dati, che impegnerà il già scarso personale amministrativo degli uffici. Un’operazione che potrebbe tranquillamente essere automatizzata, se ci fossero i mezzi. Del resto, nonostante la riforma Cartabia allocasse buona parte dei fondi del Pnrr per l’informatizzazione degli uffici, i risultati sono ancora scarsi. Le misure cautelari - E non è solo il ministero ad essersi lanciato nella caccia ai dati. Anche l’Unione nazionale camere penali ha lanciato una raccolta dati con lo stesso metodo: scrivendo ai presidenti dei tribunali e ai coordinatori degli uffici Gip, viene rivolta la richiesta di ottenere i dati statistici del 2022, 2023 e 2024 sulla percentuale di accoglimento, da parte del Gip, delle richieste di misure cautelari personali e reali avanzate dagli uffici di procura. Chiaro l’obiettivo: capire se, come sostengono i penalisti, l’ufficio del Gip sia il più soggetto alla indebita commistione tra pubblici ministeri e giudici, con l’effetto di accogliere con eccessiva solerzia le richieste cautelari della procura. La legittima richiesta dell’Ucpi (in attesa di vedere se i magistrati risponderanno e, se sì, quali dati emergeranno) si incardina evidentemente nella campagna referendaria e potrà diventare il secondo capitolo della polemica sui dati del ministero che si è consumata la settimana scorsa. Le intercettazioni - Durante un dibattito a Bari sul referendum, infatti, c’è stato uno scontro tra il procuratore capo Roberto Rossi e il viceministro Francesco Paolo Sisto sui dati forniti dal ministero sulle intercettazioni, in risposta a una interrogazione. Secondo i dati ministeriali, i Gip accolgono le richieste dei Pubblici Ministeri di intercettazioni nel 94 per cento dei casi, di proroga delle intercettazioni nel 99 per cento dei casi; di proroga delle indagini preliminari nell’85 per cento dei casi. I Gup accolgono le richieste del Pm di rinvio a giudizio nell’oltre il 90 per cento dei casi. Rossi ha contestato i numeri, dicendo che “il dato non è vero, è una falsità, a Bari non sono mai stati chiesti. Mi quereli pure Nordio”. Il ministro ha risposto a distanza, dicendosi “stupito” dalle dichiarazioni, “probabilmente è il procuratore della Repubblica di Bari che ha dati sbagliati”. Eppure, a sostenere la tesi di Rossi, è intervenuto il consigliere laico del Csm, Ernesto Carbone, secondo cui si tratta di “numeri che non stanno né in cielo né in terra” e che sono stati male assemblati dal ministero. Carbone ha spiegato a Repubblica che “la stessa richiesta di proroga può essere autorizzata per alcuni bersagli e non per altri” inoltre “specie in indagini di mafia o narcotraffico, molte persone hanno più telefoni”, infine “una persona può avere più utenze intestate e darle in uso ad altri”. Tradotto: è impossibile ottenere dati statistici cosi netti, senza scorporarli sulla base di queste variabili. Inoltre, anche per questi dati, rimane lo scoglio ancora insuperabile della mancata informatizzazione: le intercettazioni vengono disposte con “modello 37”, che non è informatizzato ma su registri cartacei. Insomma: i dati spesso mancano, sono difficili da raccogliere perché dipende da come vengono forniti, e anche le interpretazioni possono non essere univoche. Eppure, tra tutti gli attori della campagna referendaria e soprattutto al ministero, c’è la consapevolezza di quanto siano utili a corroborare le proprie tesi. Così la caccia è cominciata. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Torture in carcere, cambia il giudice. Processo a rischio di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 novembre 2025 Pestaggio dei detenuti a Santa Maria Capua Vetere, i difensori contro la sostituzione del presidente chiedono il rinvio in Consulta. I legali: “Violato l’articolo 25 della Carta”. Le vittime temono lo stop al dibattimento. Un ricorso alla Corte costituzionale potenzialmente esiziale, per uno dei dibattimenti “più grandi e importanti della storia della nostra Repubblica”, come lo ha definito l’associazione Antigone che ne è parte civile. Dopo tre anni fitti fitti di udienze e decine di testimonianze videoregistrate, il maxi processo per le violenze e le torture inflitte il 6 aprile 2020 ai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) rischia uno stop che può tramutarsi in un affossamento. Il pericolo è rappresentato dalla questione di legittimità costituzionale che alcuni degli avvocati difensori dei 105 imputati vorrebbero venisse sollevata dalla stessa Corte d’Assise davanti alla quale si svolge il dibattimento, relativamente all’inaspettata - e anche un po’ anomala - sostituzione del presidente del collegio. I fatti: qualche settimana fa il presidente della Corte d’Assise sammaritana Roberto Donatiello ha lasciato il collegio per prendere posto presso la Corte d’Appello di Napoli, dove era già stato trasferito ad inizio 2024 decidendo però di ritardare la dislocazione proprio per la complessità del processo di primo grado che, dal 7 novembre 2022, si svolge nell’aula bunker del carcere “Francesco Uccella”. Al suo posto è arrivata a S. M. Capua Vetere la magistrata Claudia Picciotti, che non ha perso tempo e ha proseguito con un fitto calendario di udienze, e possibile sentenza nel 2026. Nell’udienza di mercoledì, però, dopo aver indetto nei giorni scorsi uno sciopero di protesta proprio contro l’avvicendamento dei presidenti del collegio, alcuni difensori degli imputati e in particolare l’avvocato Giuseppe Stellato, legale dell’allora comandante della polizia penitenziaria Gaetano Manganelli, hanno chiesto al tribunale di sollevare il caso davanti alla Consulta, per violazione dell’articolo 25 della Costituzione (principio del giudice naturale precostituito per legge). Secondo i ricorrenti, inoltre, “il processo dovrebbe ricominciare da capo anche perché le testimonianze acquisite durante il dibattimento sono state videoregistrate finora con le telecamere d’aula, e non con quelle del sistema informatico del ministero di Giustizia”, come riferisce l’avvocata Simona Filippi, che nel contenzioso rappresenta Antigone. A giudizio di molti, si tratterebbe di un espediente per tentare di rallentare il processo, sperando che il reato di “tortura” possa derubricarsi in “lesioni” nel caso di alcuni imputati, divenendo così soggetto a prescrizione. La giudice Picciotti dovrebbe decidere nel merito già lunedì 1° dicembre. Nel frattempo, gli avvocati difensori hanno formalmente richiesto alla Corte d’Appello di Napoli il provvedimento che dispone il trasferimento del giudice Donatiello, e contemporaneamente anche la Camera Penale del foro di Santa Maria ha protestato con una lettera inviata al ministro Nordio sostenendo che vi sarebbe stato un diverso trattamento tra il presidente del collegio e il pm Alessandro Milita, anch’egli nominato procuratore aggiunto a Napoli ma non ancora trasferito dalla Corte d’Assise. Vale la pena ricordare che il processo in corso vede alla sbarra agenti penitenziari, funzionari del Dap e medici Asl accusati a vario titolo delle torture, delle violenze, dei falsi e dei depistaggi messi in atto contro i detenuti (178 persone offese individuate dalla procura), oltre che della “morte quale conseguenza della tortura” del giovane algerino Lamine Hakimi, deceduto il 4 maggio 2020 nello stesso penitenziario di Santa Maria, un mese dopo le violenze subite nel corso della “perquisizione” che in realtà, secondo la definizione dello stesso Gip, fu una “orribile mattanza”. Per altri cinque imputati, assolti in primo grado con rito abbreviato, è già iniziato il processo d’Appello: prossima udienza il 4 dicembre. Cuneo. Orrore in carcere, detenuto violentato per tre giorni dal compagno di cella di Giada Lo Porto La Repubblica, 28 novembre 2025 È stato violentato in carcere per tre giorni consecutivi e nessuno se n’è accorto. È stata la vittima a sussurrare con un filo di voce ciò che accadeva in cella, nel carcere Cerialdo di Cuneo, durante un colloquio con la psicologa dell’istituto penitenziario. È una vicenda delicatissima che riguarda violenze e minacce avvenute qualche giorno fa ai danni di un detenuto con difficoltà nel muoversi, fragilità psichiche e un passato difficile, costellato da autolesionismo e tentativi di suicidio. Secondo quanto si apprende l’uomo, italiano, 61 anni, in carcere da tanti anni per reati di truffa e lesioni personali, sarebbe stato stuprato da un altro detenuto di origine africana, in carcere per questioni legate alla droga: condividevano la cella, l’aggressore era il suo “piantone” e avrebbe dovuto aiutare il compagno non autosufficiente nelle necessità personali e nelle attività che non era in grado di svolgere. Erano da poco tempo in cella insieme. Dopo aver trovato la forza di parlare dell’accaduto, qualche giorno fa il detenuto è stato portato in ospedale, al dipartimento di “emergenza accettazione” dell’azienda sanitaria Santa Croce e Carle di Cuneo. “Mi ha stuprato - ha confidato l’uomo visibilmente scosso al personale sanitario che ha riportato le sue dichiarazioni nel referto -, mi ha minacciato con un coltello e ha tentato di strangolarmi. Gli abusi vanno avanti da tre giorni”. La diagnosi del 20 novembre scorso non lascia spazio a dubbi: violenza sessuale. L’uomo è ora tornato nella stessa struttura carceraria. Lui e il compagno di cella che lo avrebbe stuprato sono stati separati dalla restante popolazione detenuta e si trovano in isolamento. La violenza è avvenuta nel padiglione “Gesso” al terzo piano, nella parte in cui non ci sono in servizio gli agenti di polizia penitenziaria. Gli ambienti si chiamano “Sezioni aperte a trattamento avanzato con sorveglianza dinamica”: c’è un solo agente che fa su e giù in un’area di tre piani. Con “sorveglianza dinamica” si intende l’apertura delle celle per i detenuti in media e bassa sicurezza per alcune ore al giorno: una misura disposta anni fa, tramite una circolare del dipartimento di amministrazione penitenziaria, che concede la possibilità di muoversi all’interno della propria sezione. La polizia penitenziaria non è più chiamata ad attuare un controllo “statico” su quei detenuti. A Cuneo riguarda un totale di 17 celle i cui detenuti possono circolare all’interno della sezione e sarebbero proprio le sezioni dove in genere avverrebbero più frequentemente aggressioni. Ma com’è possibile che nessuno se ne sia accorto? Secondo quanto emerge, le telecamere ci sarebbero, ma parzialmente rotte. Lo scorso giugno, a Genova, un episodio simile ai danni di un ragazzino seviziato e torturato in cella, aveva portato a una rivolta nel carcere Marassi: 200 detenuti erano saliti sui tetti per protestare contro lo stupro del loro compagno da parte di altri quattro reclusi: per quella vicenda sono circa 80 le persone indagate per devastazione e rivolta. “La violenza sessuale perpetrata nel carcere di Cuneo - dice il segretario generale Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Leo Beneduci - rappresenta l’ennesima sconfitta dello Stato di cui una incolpevole inerme e bistrattata polizia penitenziaria è costretta a prendere atto. Le condizioni del personale nel penitenziario di Cuneo sono, infatti tra le più disastrose in ambito nazionale, tra sovraffollamento detentivo e carenza di addetti, disorganizzazione e periodiche assenze dei vertici dalla struttura per incarichi esterni di dubbia utilità. Nei turni notturni un unico agente deve provvedere alla sorveglianza per tre piani detentivi con gli esiti che sono purtroppo evidenti. È quindi della massima urgenza che rispetto ad eventi di una gravità inaudita quale quello occorso a Cuneo in luogo delle doglianze e delle accuse di rito, si provveda per correttivi quali l’incremento del personale di vigilanza e l’avvicinamento dei responsabili scarsamente disponibili e attenti”. Firenze. Emergenza Sollicciano, Giani vedrà i volontari di Pantagruel di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 28 novembre 2025 Il presidente della Regione Eugenio Giani incontrerà oggi pomeriggio i volontari dell’associazione Pantagruel per un confronto sulle drammatiche condizioni all’interno del carcere di Sollicciano. L’incontro arriva dopo l’appello di Pantagruel e all’indomani della protesta di una settantina detenuti per la mancanza di acqua calda: “Purtroppo non manca solo l’acqua calda a Sollicciano - hanno scritto i volontari al governatore - Per i detenuti le condizioni di vita continuano a essere lontane dalla dignità, i percorsi di salute mentale sono frammentati, il reinserimento sociale è quasi inesistente e le manutenzioni strutturali del penitenziario sono portate avanti con ritardi gravi e incomprensibili. Per questo chiediamo alla nuova giunta regionale di mettere il carcere tra le priorità”. Immediata la risposta di Giani: “Raccolgo subito l’appello che è stato rivolto a me personalmente e alla nuova giunta: per questo ho fissato un incontro per impostare insieme programmi di reinserimento e sostegno all’attività formativa in carcere e affrontare le drammatiche situazioni denunciate”. Poi ha aggiunto: “È importante definire programmi formativi e di reinserimento. Focalizzare, insieme al garante dei detenuti, la situazione di Sollicciano, per rendere effettivi i progetti di ristrutturazione per rendere la struttura adeguata a garantire i diritti”. Volterra (Pi). Carcere, sì ai colloqui intimi: detenuto vince il ricorso. “L’affettività è un diritto” di Ilenia Pistolesi La Nazione, 28 novembre 2025 La battaglia legale di un uomo che non riusciva a incontrare la compagna. Ma a ottobre la coppia si è sposata cambiando le carte in tavola. Si chiude con una vittoria legale la lunga battaglia di un detenuto del carcere di Volterra per vedersi riconosciuto il diritto al colloquio intimo con la propria compagna, sancito da una storica sentenza della Corte Costituzionale del gennaio 2024 che riconosce il diritto di tutti i detenuti a fruire di colloqui intimi, senza controllo né auditivo né visivo, con la propria moglie o convivente. Con un’ordinanza dello scorso 19 novembre, il magistrato di sorveglianza di Pisa ha accolto il reclamo e ha ordinato alla direzione dell’istituto penitenziario del colle etrusco di organizzare l’incontro riservato entro trenta giorni. La vicenda, seguita dall’avvocato Pina Di Credico, ha attraversato diversi mesi di braccio di ferro con l’amministrazione penitenziaria. Tutto è iniziato a fine marzo, quando il detenuto ha presentato alla direzione carceraria l’istanza per ottenere un colloquio intimo riservato, ovvero senza il controllo visivo degli agenti di polizia penitenziaria. A supporto della richiesta, l’avvocato Di Credico aveva allegato una robusta documentazione che attestava la convivenza stabile per oltre un anno con la partner prima dell’arresto, avvenuto in Spagna, il Paese dove il detenuto e la donna condividevano regolarmente un’abitazione come una coppia. A giugno, tuttavia, è arrivato il rifiuto della direzione carceraria, che ha motivato la decisione sostenendo che la convivenza non risultava “sufficientemente provata”. Il colpo di scena è arrivato a ottobre, quando il detenuto, durante un permesso concesso per motivi familiari, ha sposato la compagna. Il matrimonio ha azzerato l’obiezione della direzione: la convivenza, non più da provare, è diventata un legame formalmente e legalmente riconosciuto. Questo elemento è stato decisivo per il magistrato di Sorveglianza di Pisa, che lo scorso 19 novembre ha accolto il reclamo, riconoscendo il diritto all’affettività del detenuto. Il detenuto è stato assistito, come detto, dall’avvocato Pina Di Credico, professionista nota a livello nazionale per le sue battaglie legali che hanno fatto giurisprudenza proprio sul tema dell’affettività e dei colloqui intimi in carcere, portando spesso le amministrazioni penitenziarie ad adeguarsi alla storica pronuncia della Corte Costituzionale. “L’affettività in carcere è un diritto, quanto lo è il vitto nelle stesse strutture penitenziarie - dice l’avvocato Di Credico al nostro giornale - la vicenda del detenuto di Volterra è l’ennesimo caso emblematico di una battaglia di civiltà e di diritti, l’affettività per i detenuti, che stiamo portando avanti in tutta Italia”. Venezia. “Io, una napoletana per dirigere il carcere femminile. Qui dentro c’è lavoro e amore” di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 28 novembre 2025 “Non vedo le sbarre tra me e loro”. Papa Francesco, visitando i carcerati, diceva: “Potrei essere qui io al posto loro”. È capitato di pensarlo anche a lei? “Sempre. Ci penso sempre. Non potrei fare questo lavoro diversamente. Mi colpì moltissimo la frase di un docente nell’anno di tirocinio in più carceri alla scuola superiore dell’esecuzione penale: “Ricordatevi che ciò che vi divide dai detenuti non sono sbarre di ferro: è carta velina”. Aveva ragione. È carta velina. Talmente sottile che...”. Tre mesi dopo essersi insediata come direttrice della Casa di reclusione femminile della Giudecca, Maurizia Campobasso, napoletana del Vomero elegante (“Sto ?e casa ncopp’o Vommero”, canta Gianni Fiorellino per smarcarsi ironico dai “vicoli”), madre penalista e padre civilista, laurea in giurisprudenza, anni di esperienza a Roma al Consiglio di Stato e poi all’Antitrust, non è ancora stata “scarcerata”. Nel senso che, ovvio, dopo aver passato tutta la giornata dalla mattina alla sera senza un attimo di respiro, può uscire quando vuole dall’antico convento-carcere. Ma è così piena di cose da fare che non è ancora riuscita a tornare nella sua casa romana. È innamorata: di Venezia. Amore a prima vista... “C’ero stata, prima di venirci a lavorare, solo una volta”. Ma come: solo una? “A maggio. Mio fratello compiva quarant’anni e decise che per fargli festa dovevamo venire tutti insieme qui, famiglia e amici. Partimmo da Napoli in venticinque col primo volo all’alba e tornammo indietro con l’ultimo a tarda sera”. Toccata e fuga: non avrà visto niente... “Tutto. Su e giù per i ponti. Una giornata campale. Pazza e bellissima. Abbiamo camminato tantissimo... Visto il ponte di Rialto, quello dei Sospiri, il vecchio mercato del pesce... Bevuto spritz mangiando un crostino di baccalà... Pranzato all’Hard Rock Cafe...”. Mica tanto “venessian”... “Mio fratello (sospiro) non ama tanto la cucina italiana... Il resto però fu indimenticabile. Giro in gondola compreso”. Col gondoliere che cantava “Nineta monta in gondola” o “Torna a Surriento”? “Non ricordo. Perché?” Perché anni fa furoreggiò una polemica che finì sul “New York Times”: l’assessore alla Cultura Augusto Salvadori si lagnò che i gondolieri intonavano ai turisti “‘O sole mio”... “Ricordo solo i cori di buon compleanno. In ogni caso, per sua curiosità, ho cominciato subito prendere lezioni di dialetto veneziano”. Esempio? “‘A boca no se straca se no ‘a sa de vaca. La bocca non è sazia se non sa di vacca. Non è un buon pranzo se alla fine non c’è una punta di formaggio”. Promossa. “C’è un ispettore della matricola che ridendo mi dà ripetizioni: “Dottoressa, per dire a uno che è matto deve dire così: Ti xe fóra come un balcón”“ Funziona? “Sì. La città mi ha accolto benissimo. Tra le ipotesi di sede, quando ho fatto il concorso, c’era anche Pescara. Più vicina a Roma. Ma pensai: quale altro modo c’è per conoscere davvero Venezia se non andarci a vivere? Mai stata più felice d’essere venuta qui. Un impatto meraviglioso”. Ha una storia lunga, questo carcere, che fu un convento prima di diventare un ospizio per “prostitute redente”... “Sì, molto lunga. Del resto è in Calle delle Convertite. Ma come racconta un documentario, bellissimo, “Le farfalle della Giudecca” di Rosa Galantino e Luigi Ceccarelli (con la voce narrante di Ottavia Piccolo) presentato anche alla Mostra del Cinema Venezia, è una realtà che, grazie anche agli spazi, con camerate molto grandi dove dormono in sei, riesce a essere più “ospitale” e “accogliente” di altre”. Privacy però, pochina... “Vero. In qualche modo, però, le donne si fanno più compagnia. Si creano rapporti un po’ più forti. Sono stanze dove ciascuna ha comunque il suo spazio. In questo momento abbiamo novanta detenute adulte, per metà straniere, e due “giovani adulte”, diciamo noi, con meno di 25 anni. Non c’è, per fortuna, il sovraffollamento di altri posti. Diciamo che, anche se l’area è vastissima, è comunque un carcere relativamente piccolino”. Evasioni? “Scavare sotto i canali, scusi se sorrido, è complicato...”. Più facile gestire una realtà così femminile o maschile? “Dipende. Gli uomini sono più capricciosi, come i bambini. Quando litigano, però, magari se la fanno passare prima... Le donne forse solo più “delicate”. Anche più umorali però. Legano molto. Si innamorano. Qui dentro non c’è uno stigma negativo dell’omosessualità come nei penitenziari maschili. Non voglio sostenere le ragioni dell’omosessualità ma certo si sentono meno sole... In questo contesto poi...”. Cioè? “La Giudecca è ancora difficile da raggiungere dal resto d’Italia. E costoso. Una pena supplementare”. In un articolo del 1980 l’inviato del “Corriere” Gino Fantin raccontò che venire qui era per molte “un lusso” e che una mamma aveva detto: “I miei figli stanno coi nonni a Foggia: li ho visti complessivamente 36 ore in 5 anni”. “È cambiato tutto. Ma è vero: è ancora lunga, per le famiglie, arrivare qui. Ci aiutano i video-colloqui”. Una volta il regolamento prevedeva “una telefonata ai figli della durata di sei minuti ogni 15 giorni”. “Non è più così. Coi figli minori fanno anche una telefonata al giorno. Certo, il carcere resta un carcere. Ma rispetto a una volta...”. Bambini? “Tre. La più piccola è nata il giorno in cui sono arrivata. Un altro ha otto mesi, il più grandicello tre anni. Le poliziotte, nel loro spazio, non hanno neppure le divise proprio perché i piccoli non crescano sentendosi in prigione...”. È passata di qua anche Shakira, la scippatrice che avrebbe accumulato qui a Venezia una sessantina di denunce? “Credo di sì. Ma non da quando sono qui. Del resto, questa è una casa di reclusione non circondariale. Difficile, se fermano una scippatrice, che la portino qui”. Che ne pensa? “Mah... Certo qualcosa non va. Se per procedere nei processi occorre che la scippata torni a deporre contro la scippatrice dal Canada o dal Giappone la vedo dura...”. Quante delle vostre ospiti lavorano? “Quasi tutte. Il lavoro è dignità. C’è una lavanderia e stireria che servono anche hotel di lusso come l’Hilton e il Danieli... Una sartoria che crea abiti per le madrine del Festival del Cinema... Un laboratorio di cosmesi ed erbe officinali... Un grande orto i cui prodotti vengono venduti anche all’esterno... A volte ho difficoltà inverse”. Cioè? “Non trovo le donne da mettere a lavorare. Me ne chiedono ma sono già tutte o quasi tutte impegnate”. Anche a dipingere... “È un progetto dell’associazione “Venezia Pesce di Pace” di Nadia De Lazzari per i 300 anni di Casanova: “Dipingiamo la Libertà a Venezia”. Coinvolge una quarantina di donne. A ciascuna sono stati dati pennelli, tele e colori regalati dalla Scuola Grande di San Teodoro, che poi ha ospitato le loro opere. Anzi, dei quadri han trovato subito dei compratori”. Mancano soli i merletti... “Forse, tocchiamo ferro, arriveremo a un accordo anche su quelli con la scuola del merletto di Burano. Ci ho parlato... La scuola rilascia un attestato di “merlettaia di Burano”. Sarebbe molto spendibile per chi, poi, dovrà reinserirsi”. Non sarà facile, per tante... “C’è una ragazza che mi sta molto a cuore. È qui da dodici anni “in misura di sicurezza”. Dico: dodici anni. Ha dentro un forte disagio. Spesso ce l’ha quando si sta avvicinando l’udienza in cui si deve rivalutare la sua pericolosità sociale. È spaventata dall’idea di uscire, di riprendere in mano la sua libertà... Non ha nessuno, è disorientata. E allora fa qualcosa per ritardare questa uscita...”. Ahi ahi... “L’ho scritto anche sul Sole 24 Ore: serve un gioco di squadra che va fatto dentro e fuori le mura. Che non dovrebbe iniziare e finire in istituto. Perché anche la liberazione può diventare un “fine pena mai” per chi rientra in un contesto sociale che è stato escludente prima e può diventarlo ancora di più dopo. Bisogna conoscere la persona, le sue fragilità, i suoi problemi, le sue preoccupazioni. È un dovere di tutti, prima, durante e dopo la detenzione. Per farsene carico, è fondamentale mostrare un interesse umano e pratico che la persona sia in grado di percepire”. Insomma, lo Stato deve sentirsi responsabile anche del dopo. “Sì. L’accoglienza in carcere deve essere confermata anche dopo: chi esce non si deve sentire “un vuoto a perdere”“. E questa ragazza... “Abbiamo parlato molto. Molto. E mi ha mandato una lettera bellissima. Davvero bellissima”. Che ne ha fatto? “L’ho messa in cornice. È solo mia. Segreta. Ma in cornice”. Milano. Laura Giuliani ai detenuti: “Tra cadute e parate: così si può imparare” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 28 novembre 2025 Il portiere della nazionale di calcio e del Milan con Simone Tiribocchi nel teatro della struttura di Bollate. La fabbrica, gli allenamenti non pagati, i limiti da affrontare: “Nella vita devi sempre parare i colpi”. Il teatro del carcere di Bollate sembra una nave ferma in mezzo al buio. Tre poltrone color sabbia sul palco, un cono di luce che le isola, e sotto - in platea - decine di detenuti seduti in silenzio, come se stessero trattenendo il fiato. Quando entra Laura Giuliani, la stanza si compatta. Non è un ingresso trionfale, non ci sono musica né applausi. È solo una donna che cammina verso una sedia. Il modo in cui lo fa è già un messaggio. L’incontro - organizzato da Fiera Milano e Fondazione Feltrinelli dentro il progetto “Vite in Campo” - porta lo sport nei luoghi più fragili: scuole, comunità, istituti penitenziari, intrecciando sport, memoria, cittadinanza attiva in vista anche delle Olimpiadi di Milano Cortina 2026. A Bollate il tema diventa immediato: coraggio, cadute, ripartenze. Laura Giuliani, oggi portiere della prima squadra femminile del Milan e portiere della Nazionale italiana, racconta che a sette anni le piaceva buttarsi per terra: “Era la cosa più naturale del mondo”. Qualcuno in platea annuisce. Qui buttarsi, a volte, significa precipitare. O esserci arrivati troppo presto. Poi la Germania: “Mi davano un lavoro, un letto e la possibilità di giocare”. Turni in fabbrica dalle 7 alle 15 il primo anno, la panetteria all’alba il secondo. E allenamenti (non retribuiti) la sera. Una casa minuscola, il fidanzato, quattro gatti, e un sogno tenuto in piedi pezzo dopo pezzo. “In fondo nella vita devi sempre parare i colpi”. Detto qui dentro, ha un’altra densità. Racconta che quei due anni all’estero sono stati il suo primo salto vero: “È stato il mio modo di uscire dalla zona di comfort”. Lavoro di giorno, campo e palla la sera: l’unico modo per non spegnersi. Accanto a lei c’è Simone Tiribocchi, ex attaccante - tra l’altro - di Atalanta e Torino. Parole misurate, tono fermo. Interviene quando serve: una frase, un ricordo, un punto d’appoggio. Una volta c’è il telefono che vibra, racconta ancora Laura: “Sono Stefano Braghin della Juventus”, la squadra in cui giocherà dal 2017 al 2021. Lei pensa sia uno scherzo. “Stiamo facendo la prima squadra femminile. Ti vogliamo in porta”. Una svolta netta. “In partita non ho paura di sbagliare. Ma sento forte la responsabilità di essere la miglior versione di me”. A Bollate non suona come una frase motivazionale. Suona reale. Perché chi ascolta sa che una volta fuori dovrà ripartire da zero. Laura parla dei limiti da spostare. Delle “caverne”: “I momenti in cui non vedi niente e capisci chi sei”. Ricorda la sua laurea in Scienze motorie, gli studi sulla psicologia, la necessità di tenere la testa in piedi quanto le gambe. “Il cervello può ricreare ciò che vuoi diventare”. E della finale sfiorata quest’estate: “A caldo senti tutto il peggio. Poi capisci che non puoi cambiare niente. E allora vai avanti, ad un certo punto rialzi lo sguardo e dici che bello, c’è anche il sole”. Poi arrivano le domande. Un detenuto alza la mano, lentamente. “Io… non voglio chiedere. A me piace ascoltare”. È una frase che dice tutto: la fatica di esporsi, il timore di sbagliare, l’abitudine a non sentirsi autorizzati. Un altro si alza: “Vi sentite fortunate o più brave degli altri?”. Laura inspira: “La fortuna conta. Ma il lavoro… quello ti cambia davvero”. Tiribocchi conferma con un cenno. Nessuno qui ha avuto strade dritte. Ripartire - Poi la domanda finale: “Quando sbagli… come riparti?” Laura non guarda il moderatore, non guarda l’allenatore. Guarda loro. “Se sei arrivato fin lì, fino a quella caduta, vuol dire che lì avevi qualcosa da imparare”. Stop. Una frase secca, precisa. Bastano sei parole per smuovere il silenzio. Un applauso lungo, basso, sincero. L’applauso che non festeggia: riconosce. Sul palco restano tre poltrone illuminate, come isole. Attorno torna il buio. Ma un buio un po’ meno buio di prima. Come quando una parata ti salva la partita e cambia l’aria. Come quando qualcuno, anche solo per un’ora, ti ricorda che puoi ancora buttarti e far succedere le cose. Napoli. “Un’altra chance”, un progetto per i detenuti ansa.it, 28 novembre 2025 Ciambriello, “generare umanità, responsabilità e speranza”. Questa mattina, presso i locali della Parrocchia San Francesco Caracciolo, a Miano, si è tenuto l’evento conclusivo di “Un’altra chance”, progetto promosso dalla Cooperativa “Il Quadrifoglio”, finanziato da Cassa Ammende e dalla regione Campania in collaborazione con l’Ufficio del Garante campano delle persone private della libertà personale, l’Ufficio Uiepe ed il Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria. Il percorso, avviato lo scorso aprile si è concluso coinvolgendo 11 persone in esecuzione penale esterna presso la Parrocchia di Miano e 10 ristretti del Padiglione Firenze del Carcere di Poggioreale. “Un’altra chance” è stato strutturato in più fasi: partendo dall’orientamento e dal bilancio delle competenze individuali, sono state proposte ai partecipanti attività mirate al sostegno della genitorialità nonché al recupero/rafforzamento delle competenze informatiche di base. All’evento finale sono intervenuti: Samuele Ciambriello, Garante delle persone private della libertà personale della Campania, Lidia Ronghi, Presidente della Cooperativa “Il Quadrifoglio”, le rappresentanti dell’Ufficio Uiepe di Napoli, Ughetta Pumilia e Dora Guastella e Padre Carlo De Angelis, cappellano presso il Centro penitenziario “P. Mandato” di Secondigliano. “Mi batterò - ha detto Ciambriello - perché vengano investiti ancora fondi in iniziative che favoriscano il cambiamento dei ristretti. Sono piccole cose dal valore non quantificabile, inestimabile. Non è nei numeri che siamo soliti misurare l’importanza di iniziative simili, ma nella loro capacità di generare umanità, responsabilità e speranza. Il carcere non deve essere un luogo di sola detenzione, ma di rieducazione e reinserimento sociale. In Italia, al giorno d’oggi, 63 mila detenuti in totale, all’incirca 15 mila in più rispetto la capienza massima. Ci sono 8 mila persone nelle carceri italiane di cui 904 in Campania devono scontare solo un anno di carcere, non avendo reati ostativi o reati di sangue e 302 solamente sei mesi di carcere. Servirebbero strutture e misure alternative che fungano da ponte, come la cooperativa “Il Quadrifoglio”, dal valore inestimabile. È fondamentale dare la possibilità di trascorrere del tempo e fare al contempo esperienze di vita con detenuti ed ex detenuti, solo in questo modo si può raggiungere un reale cambiamento”. Milano. Il concerto di Natale del Coro Amici della Nave a favore di Medici con l’Africa Cuamm Corriere della Sera, 28 novembre 2025 Domenica 30 novembre nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Brera. Il coro riunisce persone con un passato di detenzione o tuttora sottoposte a misure alternative e impegnate in un percorso di reinserimento. Le voci e la musica di chi è stato in carcere, di chi lotta per uscire dalla dipendenza, e magari ora cerca un lavoro, una casa, una nuova strada per la sua vita: ma intanto canta, con i volontari e le volontarie del Coro Amici della Nave, domenica 30 novembre alle 20.30 nella chiesa di Santa Maria del Carmine (piazza del Carmine, Brera) a favore di Medici con l’Africa Cuamm. È il concerto di Natale intitolato “La musica oltre i muri” e organizzato in collaborazione con la stessa parrocchia di Santa Maria del Carmine: accanto al Coro saranno i musicisti della Piccola Orchestra Amici della Nave, in una serata a ingresso libero con possibilità di offerte il cui ricavato andrà a beneficio dei progetti promossi da Medici con l’Africa Cuamm e sostenuti dal gruppo Cuamm di Milano. Il Coro, che rappresenta una delle numerose attività dell’Associazione Amici della Nave, è composto volontari e volontarie assieme a persone con un passato di detenzione o tuttora sottoposte a misure alternative e impegnate in un percorso di reinserimento, oltre a pazienti del Servizio Dipendenze Asst Santi Paolo e Carlo: uniti dalla musica che abbatte le barriere e costruisce ponti. La seconda vita: scrivere per riconoscersi, sperare, cambiare di Ivana Di Giugno gnewsonline.it, 28 novembre 2025 “Specchio insopportabile e maledetto. Volgevo lo sguardo altrove pur di non vedere quella faccia riflessa che ogni mattina mostravi, ma tu, impietoso, mi affliggevi, esibendo il volto di un detenuto”. Sono le parole dell’Amico riflesso, uno dei tre testi vincitori della diciottesima edizione del Premio Carlo Castelli, il principale concorso letterario per le persone ristrette nelle carceri del territorio nazionale, promosso dalla Federazione Nazionale Italiana Società San Vincenzo de’ Paoli, presieduta da Paola Da Ros, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, della Camera dei Deputati, e del Senato della Repubblica. Nella cerimonia di premiazione, organizzata nella Casa Circondariale Nerio Fischione, con la collaborazione del Comune di Brescia, sono state premiate due opere realizzate dai detenuti degli istituti penitenziari per adulti e un elaborato composto in un istituto minorile. Una novità importante dell’edizione 2025 del premio è stata, infatti, l’introduzione, accanto alla categoria adulti, di quella riservata ai minori: dodici ragazzi, insieme a centocinquantatré adulti, si sono cimentati in questa prova. Il concorso, quest’anno, ha avuto come titolo “Mi specchio e (non) mi riconosco: non sono e non sarò il mio reato”, mettendo in risalto le potenzialità di rinnovamento dell’essere umano in un luogo oscuro come il carcere. La scrittura a cui i detenuti sono stati invitati è diventato un percorso di riflessione e presa di coscienza, in una prospettiva di cambiamento e riscatto. “Sono entrato in carcere poco convinto di aver commesso un reato, preferivo parlare di errore: potenza delle distorsioni mentali”, si legge ancora nell’Amico riflesso. Nel testo, che ha ricevuto il terzo premio del concorso, l’autore, “Nareto”, ripercorre i momenti di una storia intima, rileggendo il passato, umanizzando il dolore, quello inflitto, quello provato, illuminando il tormento interiore attraverso il desiderio di diventare una persona nuova: “Ho ricostruito, condiviso, rivissuto l’accaduto con sofferenza e disagio, sincerità e lacrime”. Chi si guarda dentro scopre di non essere solo e di poter fare affidamento sugli affetti più cari e su professionisti ed esperti pronti ad aiutarti. “Sai, specchio, ho scoperto che la speranza è più forte dei fatti: non li ignora, non li aggira, ma li attraversa, li contesta e talvolta li trasforma”. L’autore del testo citato, rivolgendosi ancora alla sua immagine riflessa nello specchio, non ha paura, al termine del suo viaggio nella scrittura, di vedere “un uomo diverso, punito e detenuto, ma consapevole e rinato”. Sa quello che lo attenderà una volta uscito dal carcere: “Sarà dura. Molto dura. Quasi sessantenne ed ex detenuto: un appestato”. È lo spettro dello stigma che accompagna chi ha pagato il conto con la giustizia, di fronte al quale si può scegliere, ancora una volta, di non arrendersi: “Ci voglio provare e affrontare la seconda vita a muso duro. So di potercela fare”. Al premio all’autore - una somma di denaro per il partecipante vincitore - è abbinata una seconda donazione, destinata a progetti volti al reinserimento sociale di detenuti di altri istituti penitenziari, o di persone in misura alternativa alla detenzione. Antonella Caldart, responsabile del settore Carcere e Devianza della società promotrice del concorso, racconta a Roberta Barbi di Radio Vaticana che “l’obiettivo è far entrare in un circuito educativo anche altri”, dilatando il processo di riabilitazione. I testi vincitori, insieme ad altri undici scritti riconosciuti “meritevoli” dalla giuria, sono stati raccolti in un’antologia, distribuita ai partecipanti della cerimonia di premiazione, e allegati alla rivista della Federazione Nazionale Vincenzo de’ Paoli, “Le conferenze do Ozanam”, uno degli strumenti attraverso cui l’organizzazione di volontariato diffonde la cultura della legalità e della solidarietà. La vocazione del concorso letterario è testimoniata, fra l’altro, dalla lettura dei racconti dei detenuti in diverse scuole italiane, dove gli scritti divengono strumento di educazione civica. Come chiarisce a Gnews Matteo Pedroni, Capo area educativa dell’istituto bresciano, che ha seguito in prima persona l’organizzazione della giornata conclusiva del concorso, la preparazione dell’evento è avvenuta a partire dalla scorsa estate. Alla cerimonia di premiazione, alla presenza della Direttrice del carcere, Francesca Paola Lucrezi, erano presenti rappresentanti del mondo penitenziario e autorità civili. Tra gli altri, il Prefetto di Brescia, Andrea Polichetti, da sempre attento al mondo penitenziario. Il filo conduttore dell’iniziativa non è solo il riconoscimento, da parte della persona privata della libertà, del proprio percorso di vita, delle ragioni che lo hanno condotto alla condanna, ma anche la volontà di non identificarsi con il reato. Chi riflette sulla propria esperienza scopre aspetti della personalità che sostengono la reintegrazione nel contesto sociale esterno, favorendo l’attestazione della propria dignità. L’elemento costante di questo viaggio, volto all’affermazione di sé e alla trasformazione, è la speranza, “una speranza che nelle opere premiate è sempre da costruire e ritrovare”, come evidenzia Maria Cristina Failla, Presidente della Giuria del Premio. Ogni anno la Federazione sceglie un istituto penitenziario per ospitare la cerimonia in cui vengono letti e premiati i testi selezionati dalla giuria del concorso. Ed è proprio nelle sedi istituzionali che il Premio Carlo Castelli concorre a sostenere l’immagine di un carcere come parte della comunità, e di una pena improntata alla rieducazione, cosa che ha consentito al concorso di ricevere, da Sergio Mattarella, l’onorificenza della Medaglia del Presidente della Repubblica. Il collegamento tra un premio ai detenuti e Carlo Castelli, a cui il riconoscimento è intitolato, ha un alto valore simbolico. Non si tratta semplicemente di onorare una figura centrale del volontariato vincenziano nelle carceri, nonché uno degli ispiratori della riforma dell’ordinamento penitenziario, promossa da Mario Gozzini (legge10 ottobre 1986, n.663), ma anche di portare avanti la sua opera, dando voce a chi è privato della libertà. Il premio letterario promuove i valori della solidarietà e dell’inclusione sociale, che attraversano la cultura della pena e i principi di cui Carlo Castelli si è fatto portavoce ed esempio. Grazie ad Alessandro Ginotta, caporedattore della rivista Le conferenze di Ozanam, che ha risposto a Gnews, mettendo a disposizione tutto il materiale relativo all’evento, possiamo leggere le parole dei detenuti che si sono distinti nel concorso. Come si legge nel comunicato stampa della federazione promotrice, “Il Premio Castelli non è solo un concorso letterario. È un gesto concreto di rinascita”. E un percorso di trasformazione è quello raccontato da “Liberato”, della categoria minori, che ha guadagnato il primo premio con il testo Lib(e)ro dentro, nel quale, come si legge ancora nel comunicato, la giuria ha rinvenuto “il buio e la solitudine dei primi tempi di detenzione, ma anche la lenta rinascita, resa possibile dagli incontri, dallo studio, dalla musica, dal teatro, e soprattutto dai libri, strumenti di libertà interiore”. Nello scritto l’autore riflette sul reato commesso: uno spartiacque tra un “prima”, carico di immaginazione, e un “dopo”, quando ogni aspirazione viene inghiottita. “Un attimo e mi sono ritrovato nel buco più buio del mondo a scontare un errore grosso”, racconta il giovane autore. “Mi affacciavo alla finestra, ma non vedevo niente, solo un muro enorme che mi impediva di guardare fuori. Mi sentivo perso, senza speranza”, ricorda, ripensando agli inizi della reclusione. “Il mio unico compagno era il tormento”, confessa. Ma il percorso di emancipazione comincia a farsi strada, grazie al dialogo con gli operatori penitenziari e con i volontari. Una persona, in particolare, lo sprona a leggere e a scrivere. “Ho imparato che la prigione non è solo quella fisica, ma quella che ti costruisci dentro. E con i libri sono riuscito a liberare un angolo di me stesso, e sentirmi libero, anche qui dentro”. E ai libri si aggiungono le altre attività artistiche e culturali, “raggi di luce in un’oscurità senza fine”. L’autore scopre di nuovo la capacità di sognare, di gioire, di assaporare la bellezza e l’armonia, di provare felicità. “Ho commesso un crimine che mi vergogno di aver commesso, ma che so di aver fatto, e che mi ha legato a una versione di me stesso che oggi, guardandomi allo specchio, non riconosco. Quando l’ho fatto, la testa era piena di disperazione, gelosia e rabbia”, scrive, ripercorrendo la sua esperienza. Giunge, come una conquista, la determinazione di non voler rinunciare a vivere. “Voglio essere semplicemente “Liberato”, un ragazzo che ha sbagliato, ma che non si arrende alla sua storia e vuole scriverne un’altra. Una storia di riscatto, cambiamento, speranza e perdono […]. Ogni giorno, guardandomi allo specchio, vedo una persona diversa, anche se il dolore non può mai completamente svanire”. L’idea della detenzione come opportunità di crescita e responsabilizzazione attraversa anche Riflesso, il secondo testo premiato, scritto da Nicola Alberti. Anche in questo caso l’autore si interroga sulla propria identità, cercando di scorgere un’alterità rispetto al proprio passato, rispetto al reato. “Mi guardo allo specchio. Ma non mi riconosco. La figura che vedo riflessa sembra straniera, come se fosse un altro uomo che indossa il mio stesso corpo […]. È difficile spiegare questo senso di disconnessione, questa distanza tra ciò che sono e ciò che vorrei essere, tra ciò che sono stato e ciò che posso diventare”. Inizia così la riflessione dello scrittore, in cammino verso un recupero compassionevole della propria umanità, un sentiero che rivendica ad ogni persona “il potere di reinventarsi, di costruire una nuova versione di sé”. Anche in questo testo lo scrittore matura la consapevolezza di doversi impegnare per distaccarsi da quello che si è stati, “senza rimanere intrappolato nel rimorso”, aprendosi a “quella voce silenziosa che ci dice che possiamo fare meglio, che possiamo essere migliori”. Non essere vittime del passato, di ciò che non si può modificare, ma proiettarsi verso il futuro, con la coscienza del male fatto, ma anche del bene che si può ancora operare. “Nessuna persona è irrimediabilmente dannata, nessuna vita è davvero finita. Anche nelle situazioni più disperate, anche quando sembriamo aver toccato il fondo, c’è sempre la possibilità di rialzarsi. C’è sempre una fioritura che può emergere da un terreno in apparenza sterile. Non importa quanto oscura sia stata la notte, c’è sempre una nuova alba pronta a sorgere”. Failla, commentando il concorso letterario, rivendica il forte impatto dell’iniziativa in termini di “formazione culturale e morale”, sottolineando come “la società civile, con le sue istituzioni e con la grande forza del volontariato, può concorrere davvero nella trasformazione di una persona che ha sbagliato, talvolta anche gravemente, in una persona nuova, accompagnandola in un processo di ricostruzione della sua personalità”. “Serviens in spe”, servire nella speranza, è il motto della Società di San Vincenzo de’ Paoli, l’organizzazione di volontariato che condensa la sua attività nell’offerta di “aiuto, vicinanza ed amicizia”, buoni semi per costruire un futuro migliore”. In un podcast le carceri dei ragazzi viste da dentro di Sofia Antonelli L’Unità, 28 novembre 2025 Il governo usa il pugno di ferro. I media gridano all’allarme. Ma quando si parla di giustizia minorile, a restare in silenzio sono proprio i diretti interessati. Confinati dietro statistiche e slogan. Nasce così “Cattivi. Le carceri dei ragazzi viste da dentro”, il podcast che racconta il sistema penale minorile attraverso le storie, e la voce, di chi l’ha vissuto. Si parla molto, in questi tempi, di giustizia minorile. Ne parla il Governo, sostenendo politiche dal pugno duro, spingendo per una deriva sempre più punitiva. Ne parla la stampa, adottando toni allarmistici e semplificazioni, contribuendo a creare un clima di crescente insicurezza. Come spesso succede, a rimanere in silenzio sono i diretti interessati. I ragazzi e le ragazze coinvolti nei percorsi di giustizia penale, lasciati ai margini della conversazione, dietro statistiche e slogan, ridotti a categorie astratte. Coloro che più di tutti vivono le conseguenze delle scelte politiche e del racconto mediatico, raramente trovano spazio per esprimersi, per condividere ciò che significa davvero entrare in contatto con il sistema penale in giovane età. Da qui nasce “Cattivi. Le carceri dei ragazzi viste da dentro”, un podcast di Antigone e Next New Media pensato per raccontare il sistema penale minorile partendo dalle storie di chi l’ha vissuto. Attraverso le testimonianze di cinque ragazze e ragazzi, Cattivi racconta gli effetti che il carcere ha avuto su ognuno di loro. Effetti che fanno fatica a scomparire, anche al termine della detenzione. Così racconta A. nella prima puntata “Se fai anni di carcere la tua adolescenza l’hai passata in carcere, quindi la tua educazione l’hai presa lì. In carcere l’educazione che puoi imparare è un’educazione da carcere. Il problema più grosso è che dopo qualche anno ti abitui al carcere e solo quando esci ti accorgi che è stato un problema”. Diventare adulti in carcere, lontani dal mondo esterno, dai propri cari, significa costruire la propria identità in un ambiente chiuso, regolato da ritmi imposti e da relazioni complesse. La battitura, la sveglia alle 6 del mattino, le lunghe ore in celle sovraffollate, le perquisizioni: sono tutti aspetti che lasciano segni evidenti. Se la privazione della libertà genera un forte impatto su chiunque la sperimenti, quando avviene in fase di crescita l’impatto può avere effetti enormi. Per questo il sistema penale minorile ha sempre visto la detenzione come ultima ed estrema ratio. Recentemente, però, questa consapevolezza sembra essersi incrinata. Con l’entrata in vigore del Decreto Caivano, ad ottobre 2023, il Governo ha spinto per un ricorso più frequente al carcere anche nel sistema minorile, riducendo di fatto lo spazio per strumenti alternativi. Una politica che ha rapidamente mostrato i suoi effetti, con un aumento di circa il 50% delle presenze negli Istituti penali per minorenni (IPM) in soli due anni. Per la prima volta il sovraffollamento è arrivato anche nel sistema minorile, portando all’utilizzo di materassi a terra, a sezioni sempre più fatiscenti, alcune volte in stato di puro abbandono. Molti immaginano che a riempire le carceri minorili siano i ragazzi più pericolosi, quelli che hanno commesso i reati più gravi, i più violenti. La realtà è però diversa. Come si racconta nella seconda puntata, gran parte dei ragazzi finisce in carcere a causa di condizioni di fragilità e marginalità sociale. La mancanza di risorse e di alternative facilita l’ingresso negli IPM, anche a fronte di reati di minore entità. È ad esempio quanto accade nel caso dei minori stranieri non accompagnati. Ragazzi arrivati in Italia dopo lunghi viaggi migratori, spesso costretti alla vita di strada e, in assenza di sostegni e tutele, a incorrere in episodi di piccola delinquenza. Affrontano povertà, isolamento e in molti casi sviluppano dipendenze da psicofarmaci. Portano sui corpi i segni della sofferenza, parlano come se ormai non avessero più nulla da perdere, come se non nutrissero più nessuna speranza per il futuro. Sono i ragazzi che avrebbero bisogno di più supporto, e che invece ricevono poco o nulla dal sistema. In queste situazioni in particolare, il carcere, per gli adulti così come per i minori, finisce per trasformarsi in catalizzatore di sofferenze. Situazioni già di per sé complesse assumono forme più acute e difficili da gestire, amplificando fragilità psicologiche, isolamento sociale e senso di disperazione. F., protagonista della terza puntata, è una giovane donna con alle spalle un lungo percorso tra IPM e comunità. Ha affrontato momenti difficili tra autolesionismo e abuso da psicofarmaci. F. racconta come l’ambiente carcerario abbia influito sulla sua condizione, portandola vicina a conseguenze estremamente pericolose. “In carcere ti senti proprio in gabbia, sei buttato dentro e gettata la chiave [..] Ero depressa nel vedere altri depressi. Altrimenti non mi sarebbe venuto in mente di provare a tagliarmi, di provare a impiccarmi. Uno non ci pensa, ma quando sei con persone che fanno questo, e tu già stai male, ti viene di farlo”. Il contesto che vivono molti ragazzi negli IPM, secondo F., è un peso enorme da gestire: “Lo diventi (depresso) a stare lì dentro, ed è lì che dopo uno arriva a fare cose per cui rischia di morire e di non uscire più da là”. Le parole di F. non possono non far pensare alla tragica storia di Danilo Rihai, deceduto lo scorso agosto nell’IPM di Treviso. Minore straniero non accompagnato proveniente dalla Tunisia, il 9 agosto Danilo viene arrestato a Vicenza dopo alcuni tentativi di furto. Fonti di stampa raccontano come al momento dell’arresto, nonostante un evidente stato di agitazione, Danilo sia stato immobilizzato con l’utilizzo del taser e successivamente condotto nell’IPM di Treviso, uno degli Istituti più sovraffollati d’Italia. Dopo poche ore si è impiccato con i suoi jeans all’interno di una cella del centro di prima accoglienza. Danilo è poi deceduto il 13 agosto, dopo un ricovero di alcuni giorni. La storia di Danilo Rihai è testimonianza profonda della crisi di un intero sistema, incapace, oggi più di ieri, di proteggere i più fragili. L’ultimo episodio di un ragazzo che si era tolto la vita in IPM risaliva al 2003. “Cattivi. Le carceri dei ragazzi viste da dentro”, si chiude con la storia di Y., entrato per la prima volta in carcere a soli quattordici anni. Y. ha poi girato numerose carceri per minori e per adulti, trasferito da un istituto a un altro, a volte a centinaia di chilometri dalla sua famiglia. Negli ultimi mesi di detenzione ha avuto accesso a un percorso fuori dal carcere in un appartamento con altri ragazzi, dove si è diviso tra studio e volontariato. “Nel mio percorso sono stati gli incontri che mi hanno aiutato - racconta - ho provato a cogliere quello che si stava facendo per me, ma non è stato facile e non lo è ancora”. In un carcere sempre più affollato e sotto pressione, dove le risorse scarseggiano e le chiusure abbondano, le possibilità di incontro rischiano di perdersi, rendendo più difficile la costruzione di legami, di momenti di ascolto e di accesso a nuove opportunità. In queste condizioni, non può che crescere nei ragazzi il senso di abbandono, il senso di sfiducia. Se continua così, non ci crederanno più. “Riguarda tutti noi”, il docufilm che svela il valore dell’istruzione per il futuro dei detenuti di Benedetta Marchetti triesteallnews.it, 28 novembre 2025 Le strutture carcerarie italiane sono notoriamente segnate da criticità storiche: sovraffollamento, infrastrutture obsolete e carenze nei percorsi trattamentali instaurano in molti casi un clima di disagio e tensione, che investe tanto i detenuti quanto il personale. Una situazione d’instabilità diffusa, che frequentemente degenera in episodi violenti o, nei casi peggiori, in tragedie quali suicidi e rivolte. Preoccupanti i dati emersi dal rapporto “Space I” del Consiglio d’Europa: nel 2024, la popolazione carceraria italiana è cresciuta del 7,8%, per una media di 118 detenuti a fronte di 100 posti disponibili. Ma il nostro Paese, oltre a registrare un tasso di crescita dei detenuti tra i più elevati in Europa, deve rendere conto di un altro allarmante fenomeno: l’incremento dei suicidi in carcere. Secondo i dati raccolti da Antigone, nel 2024 si sono verificati almeno 91 casi di suicidi all’interno dei penitenziari, per una media di 14,8 casi ogni 10 mila persone detenute: tra gennaio e maggio 2025, almeno 33 carcerati hanno compiuto l’estremo gesto. Un quadro particolarmente critico, considerando che il 30,3% dei detenuti nelle carceri italiane devono scontare condanne superiori ai dieci anni, mentre per un altro 30% la pena detentiva varia dai cinque ai dieci. Anni interminabili, vissuti in condizioni spesso denunciate come inumane e degradanti: è in questo contesto che si individua l’urgenza di un sostanziale ripensamento della realtà carceraria. Da tali premesse nasce un docufilm, intitolato “Riguarda tutti noi”, pensato per mettere in luce e rendere tangibile la realtà delle carceri, andando oltre stereotipi e stigmatizzazioni e, contestualmente, riflettendo sul tema della giustizia e della responsabilità sociale. In particolare, “Riguarda tutti noi” di Giovanni Panozzo è nato da un’idea di Emilia Colella e Laura Pacini, ed è stato realizzato dall’associazione DOC - Docenti per l’Istruzione in Carcere APS grazie al contributo straordinario della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, in collaborazione con il Comune di Trieste, il Provveditorato Regionale per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, La Casa Circondariale “Ernesto Mari” di Trieste e il Tribunale di Sorveglianza di Trieste. Il film racconta in particolare i percorsi di istruzione e formazione che si svolgono all’interno della Circondariale di Trieste “Ernesto Mari”: le voci protagoniste sono quelle dei detenuti, dei docenti e degli operatori che s’impegnano quotidianamente per promuovere, attraverso il valore dell’istruzione, il reinserimento sociale e lavorativo di chi vive “dietro le sbarre”. Sono tante le iniziative portate avanti nell’ambito di questo progetto: dal laboratorio “Slow Gusto: tecniche di cucina marinara”, condotto da Umberto Zerbo e Antonia Didonè, al corso di serigrafia a cura della Cooperativa Centro Solidarietà Giovani “Giovanni Micesio” di Udine, dal corso di yoga della docente Anna Ciconali al corso di fumetto curato dal CPIA (Centro Provinciale Istruzione Adulti di Trieste) assieme al docente Federico Fumolo. Si citano inoltre il laboratorio di Manutenzione di interni e il corso di Sala e Bancone, entrambi coordinati da IAL Trieste, nonché il Corso di scrittura creativa a cura della Cooperativa Basaglia. Rilevante anche il progetto “Oltre le sbarre, sotto la sabbia”, realizzato dallo psicopedagogista Stefano Bertolo, che ha coinvolto le detenute del Coroneo in un percorso riguardante le possibilità di narrazione dell’”Antigone” di Sofocle. Il docufilm non manca di dar voce anche a coloro che, da dietro le quinte, si adoperano per costruire, grazie all’istruzione in carcere, un ponte fra il “dentro” e il “fuori”: la Presidente di DOC Emilia Colella, insieme agli interventi puntuali di altre voci autorevoli, tra cui quelle di Mitja Gialuz (Presidente della Barcolana e professore ordinario di Diritto processuale penale dell’Università di Genova) e Patrizio Bianchi (ex Ministro dell’Istruzione e già rettore dell’Università di Ferrara). “Tra gli obiettivi che ci siamo prefissati con la creazione di questo docufilm c’è quello di sensibilizzare non solo la società civile, ma anche le Istituzioni competenti affinché si possa costruire un vero asse dell’istruzione carceraria, in grado di riconoscere una specificità professionale al docente che lavora in carcere”, ha dichiarato la Presidente di DOC. “Il docente carcerario non può più essere considerato un semplice ospite nel sistema penitenziario, ma deve diventare un ponte stabile tra il carcere e il mondo esterno.” Insomma, il messaggio promosso da “Riguarda tutti noi” è chiaro: “Se l’istruzione fallisce o non arriva in quei luoghi chiusi e totalizzanti, a pagare non è solo chi sta dentro. A pagare siamo tutti noi”. Il docufilm verrà presentato mercoledì 10 e 17 dicembre alle 9.30, presso la sala Luttazzi del Magazzino 26 del Porto Vecchio di Trieste: a coordinare l’evento sarà DOC - Docenti per l’Istruzione in Carcere APS, associazione formata da docenti e operatori che lavorano nei contesti detentivi. Inoltre, numerosi ospiti ed esperti che hanno preso parte al progetto saranno presenti ai due incontri: l’obiettivo è quello di valorizzare, insieme alle scuole del territorio, l’importanza dell’istruzione come strumento di rinascita sociale. Proprio per questo, durante i dei due incontri in Sala Luttazzi ci si rivolgerà ampiamente anche agli studenti, al personale docente e, più in generale, a chi opera all’interno degli istituti scolastici. I due appuntamenti si inseriscono nella rassegna “Una Luce Sempre Accesa” promossa e organizzata dal Comune di Trieste, e la partecipazione è gratuita. Un’occasione mancata di Dacia Maraini Corriere della Sera, 28 novembre 2025 Violenza sulle donne e il rinvio della legge sul “consenso libero e attuale”. Perché il timore delle false denunce è solo un pretesto. L’argomento con cui si rifiuta il voto per il “consenso libero e attuale”, consiste nell’idea che questa legge comporterebbe abusi non riconoscibili. Salvini ha ipotizzato vendette su vendette di donne offese che denunciano stupri mai avvenuti per rivalersi di una offesa sentimentale. Intanto cominciamo col dire che una legge stabilisce un principio. Poi caso per caso, ci saranno i giudici, gli avvocati e chi per loro a decidere se la denuncia sia vera o falsa. Ma il fatto di rifiutare una legge perché potrebbe comportare degli abusi è chiaramente pretestuoso. Sarebbe come dire che non dobbiamo fare una legge sulla assistenza ai disabili perché qualcuno potrebbe fingere di essere disabile per rubare soldi dallo Stato. E in effetti di imbroglioni capaci di fingere e mentire ce ne sono. E anche tanti. Pensate a quell’uomo che per ottenere la pensione della madre morta, si travestiva da donna per andare a ritirare i soldi alla posta. Ma il fatto che ci siano dei mascalzoni che truffano e rubano non vuol dire che una legge vada rifiutata. D’altronde basta leggere la cronaca. Ogni giorno ci racconta di stupri che avvengono in luoghi pubblici, e magari vengono pure filmati e quindi sono facilmente riconoscibili. Certo è più facile giudicare e condannare uno stupro fatto in luogo pubblico, con testimoni presenti e prove filmate. Un abuso sessuale commesso fra le mura domestiche fra un uomo e una donna che vivono già in una situazione di intimità, o fra due fidanzati che hanno conosciuto la relazione sessuale, è molto difficile da stabilire. Ma la logica ci porta a pensare che se ci sono tanti stupri che avvengono per le strade, ce ne saranno altrettanti che vengono fatti in luoghi privati. Se ci rendiamo conto che lo stupro è un atto di dominio feroce e rabbioso su un corpo che si vuole sottomettere e che il piacere sessuale è una derivazione e non il principio scatenante, possiamo capire quanto la pratica si inserisca in quella zona oscura e storicamente spinosa del rapporto uomo-donna. Se pensiamo in termini simbolici diventa chiaro che lo stupro, come era ritenuta una legittima invasione carnale nel mondo del nemico di guerra, oggi possiamo interpretarlo come una invasione prepotente e rassicurante nel mondo femminile visto come un insidioso avversario. Lo stupro, ricordiamolo, non esiste nel mondo animale. Lo stupro è una invenzione puramente umana ed è stato sempre utilizzato in guerra per umiliare il nemico. C’è nello stupro un’arcaica intenzione: quella di inserire nel ventre del vinto il proprio seme. “Io invado le tue terre, mi prendo le tue case, i tuoi terreni fertili e lascio la mia impronta nel ventre della tua donna perché il futuro appartenga a me e non a te, così la mia vittoria sarà completa”. Oggi naturalmente nessuno pensa in questi termini. Ma l’origine dell’atto ha radici lontane. Molti, osservando il fatto che a volte le donne stuprate continuano la vita di tutti i giorni, si chiedono che danni possa avere fatto: “non l’ha mica presa a coltellate!... non l’ha mica ferita!”. In effetti lo stupro raramente produce ferite visibili. Le lesioni sono profonde e riguardano il rapporto che una donna ha col il proprio corpo. L’effetto della violenza subita può provocare delle vere catastrofi psicologiche. Oggi le donne sono più consapevoli, tendono a non accettare l’imposizione sessuale e questo per certi uomini costituisce una diffida a cui rispondono con la violenza per punirle della loro pretesa libertà. Di questo terrà conto la legge, che è prima di tutto un atto di giustizia. Figli: proprietà di nessuno e responsabilità di tutti di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 28 novembre 2025 Il potere comincia quando l’uomo (maschio e femmina: l’essere umano) dice: “È mio”. Il Signore degli Anelli, caro alla variopinta destra di governo, è la storia di uomini e mostriciattoli che, uno dopo l’altro, ammaliati dall’anello del potere che li fa sospirare e dire “è mio, il mio tesoro”, fanno guerre e scelleratezze solo per poterselo accaparrare, infilare al dito, e usarlo per fare qualunque cosa, illudendosi di esserne padroni, senza rendersi conto di esserne schiavi. Tolkien, per quasi mille pagine, non racconta che questo: lo sconquasso che succede quando qualcuno o qualcosa dice “è mio”. Noi diciamo “è mio” di tutto: della persona che amiamo, del Paese che abitiamo, del corpo che abbiamo, e naturalmente dei figli che mettiamo al mondo. Da giorni, la vicenda della “famiglia del bosco”, ci porta a chiederci di chi siano i figli, se dei genitori o dello Stato o di tutti e due, e, se di tutti e due, con quali limiti per gli uni e per l’altro, come se i genitori e lo Stato fossero un marito e una moglie che hanno appena divorziato e devono dividersi il tempo da trascorrere con i bambini che hanno generato insieme. E, presi da questa finissima disquisizione, dimentichiamo che ci siamo tempo fa dotati di una norma che taglia la testa al toro e stabilisce che i figli non sono di nessuno, né dello Stato, né della famiglia: dal 2012 è stato eliminato l’istituto della potestà genitoriale, introdotto dal Diritto di Famiglia del 1975, quello che stabilì la parità tra i coniugi abolendo la patria potestà. Dal 2012, al posto della potestà genitoriale, è stata introdotta la responsabilità genitoriale, che deve essere improntata a mantenere, educare, istruire e assistere moralmente i figli, tenendo conto delle loro capacità, inclinazioni e aspirazioni. Che bella cosa sono, a volte, le norme: io vorrei un artista, una musicista, una scrittrice (Nora Ephron o Dorothy Parker, se solo fossero vive) che raccontassero con parole non giuridiche ma carnose e vivaci che uno dei comfort della democrazia è che a volte pensa al posto tuo, che non sempre devi prendere tu decisioni, che non sempre la cosa giusta o migliore dipende da te: a volte, quando non sai deciderti perché non puoi deciderti, lo Stato ti aiuta a farlo. Non significa che tutte le leggi e tutte gli istituti di cui lo Stato si dota siano giusti, eterni, immodificabili, naturalmente, ma nel caso specifico come possiamo recidere completamente il grandioso buon senso che ha fatto decidere alla nostra collettività che i figli sono soggetti di diritto e che la sola cosa che noi possiamo fare, da genitori e società che vivono con loro, è aiutarli a diventare chi sono? Quando lo abbiamo deciso, sapevamo che c’è un solo modo per aiutare qualcuno a diventare chi è: farci da parte. Fare il genitore è difficile per molte ragioni, la più colossale delle quali è cercare di trasmettere codici di interpretazione della realtà senza imporne una. La scuola, da questo punto di vista, è uno spazio neutro, dove ogni bambino riceve un’istruzione che lo rende cittadino, e non figlio di qualcuno o di qualcosa: cittadino, e non erede. Tanto la scuola (quindi lo Stato) quanto la famiglia sono, nei confronti dei bambini, responsabili, e non padroni: tra loro deve esistere una relazione equilibrata, che miri non a suddividersi gli spazi di intervento ma a far germogliare nuovi individui liberandoli il più possibile dalla loro impronta. Magda Szabò, una delle più grandi scrittrici ungheresi, ha scritto che i figli vanno civilizzati, non educati. Mi rendo conto di quanto sia difficile accettare tutto questo nel Paese del familismo amorale, dove la famiglia è una cosca che si pensa enclave, ma invito a riflettere sul fatto che tra le ragioni per cui non si fanno più figli c’è anche che le madri e i padri sono soli, isolati, ignorati da una società assurdamente convinta che un bambino sia figlio solo di chi lo mette al mondo, e non del villaggio che lo vede crescere. Minori e violenza a Milano, interviene il Parlamento di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 28 novembre 2025 La missione di Brambilla a San Siro, Corvetto e Rogoredo. La presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza ha incontrato i vertici delle istituzioni e visitato i quartieri più difficili: “Serve prevenzione, sport e cultura”. Gli sforzi in campo sono tanti ma “il disagio e il fenomeno della devianza giovanile sono talmente complessi, radicati e profondi, che quegli sforzi non bastano ancora”. La pressione si sente a maggior ragione nelle metropoli: “Milano è ormai un hub internazionale dell’accoglienza, del turismo e dell’istruzione, con nove università, oltre che dell’economia. L’attrattività fa lievitare i numeri e non possiamo che rallegrarcene. Ma i cittadini non devono pagare il costo sociale dello sviluppo, soprattutto in alcuni quartieri: degrado, mala movida, spaccio, criminalità. I minorenni risultano purtroppo sempre più nel ruolo di protagonisti”. Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, entra così nel cuore della sua missione nel capoluogo lombardo con pragmatismo e ostinazione, in giro fino a sera. Una giornata fitta tra istituzioni e periferie per raccogliere elementi su baby gang, criminalità minorile, misure alternative alla detenzione e percorsi di recupero. La mattina è un giro serrato di incontri: il sindaco Giuseppe Sala, il prefetto Claudio Sgaraglia, e ancora il comandante provinciale dei Carabinieri Rodolfo Santovito, il colonnello della Guardia di Finanza Giuseppe Molorolo, la presidente e il procuratore capo del Tribunale per i minorenni. La fotografia che ne emerge è nitida: la criminalità minorile cresce in forme nuove, più veloci, più dure. “Ciò che colpisce - osserva Brambilla - è la pervasività della devianza giovanile”. I dati lo confermano: il 20 per cento dei reati predatori è commesso da minorenni e con modalità sempre più violente. Il sommario comprende le malattie mentali, “per le quali vanno aumentate le risorse”, anche al di là degli 80 milioni previsti dalla Manovra. Lame e coltelli che circolano come fossero figurine e si associano non raramente all’assunzione di vecchie e nuove droghe. A complicare il quadro, la difficoltà dell’integrazione di ragazzi arrivati da poco: Milano ospita da sola circa 1.300 minori stranieri non accompagnati, il 10 per cento del totale nazionale: se lasciati a se stessi, rischiano di ritrovarsi coinvolti in episodi delittuosi. “In questo contesto - sottolinea la presidente - è essenziale rafforzare gli organici delle forze dell’ordine: più presenza sul territorio significa più prevenzione”. Nel pomeriggio, la delegazione entra nelle zone più fragili: San Siro, Corvetto, Rogoredo. A San Siro, il quartiere più giovane, emerge un nodo fisso: manca un centro di aggregazione giovanile. Nei cortili ci sono gruppi spontanei, poche alternative accessibili, famiglie che faticano a integrarsi, case occupate. Le associazioni confermano: la frattura si apre nell’adolescenza. I bambini si agganciano ancora. I più grandi, soprattutto i minori stranieri non accompagnati, fanno molta più fatica: storie complicate, assenza di reti, nessuna lingua comune. Qui la richiesta è unanime: investire sull’integrazione e prevenzione, quella che intercetta prima della deriva. “Sport e cultura, nelle forme più vicine ai ragazzi, restano la risposta più efficace”, insiste Brambilla. Ultima tappa Rogoredo, qui i ragazzi si avventurano tra i binari per comprare a pochi euro una dose. Brambilla arriva che è buio, ai margini del boschetto il clima è spettrale, l’umido entra nelle ossa, lei guarda al futuro: “Milano sta lavorando. Si vede strategia, sinergia, impegno. Anche il Governo ha grande attenzione su questa città. C’è ancora molto da fare, ma siamo sulla strada giusta”. Donne in carcere in aumento, i dati globali raccontano una crisi ignorata di Giulio Cavalli La Notizia, 28 novembre 2025 L’incarcerazione femminile cresce più degli uomini, nel mondo e in Italia. I dati dell’Onu mostrano un sistema che ignora le sue vulnerabilità. Il numero di donne incarcerate nel mondo sta correndo più veloce di qualunque previsione. Gli esperti parlano apertamente di una “crisi globale”: secondo le serie statistiche dell’Unodc e della World Female Imprisonment List dell’Icpr, le detenute crescono a un ritmo quasi triplo rispetto agli uomini. Se la curva resterà invariata, si supererà la soglia del milione. Dal 2000 a oggi la popolazione detenuta femminile è aumentata del 57%, contro il +22% di quella maschile, con un impatto enorme su violenze sessuali, salute, lavoro obbligato e condizioni materiali. Un’emergenza che non riguarda soltanto paesi lontani. L’Italia ne è parte, benché continui a rappresentarsi come un’eccezione. I numeri del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) raccontano invece un’altra storia: le donne dietro le sbarre aumentano lentamente ma costantemente, mentre il sistema resta inadatto a rispondere ai loro bisogni specifici. Il caso italiano dietro le statistiche - Secondo gli ultimi dati Dap del 2025, le donne costituiscono circa il 4,4% della popolazione detenuta. Un dato basso solo in apparenza. Le sezioni femminili sono spesso ricavate dentro istituti maschili, con spazi ridotti, servizi sanitari limitati e accesso disomogeneo ai percorsi trattamentali. Le misure alternative mostrano il divario più evidente: mentre gli uomini registrano un lieve aumento nei percorsi fuori dal carcere, per le donne la crescita è quasi nulla. Le madri detenute sono ancora una quarantina, con una decina di bambini in Icam o sezioni ordinarie. La legge 62/2011, che dovrebbe evitare il carcere alle madri con figli piccoli, resta applicata in modo irregolare. I tribunali di sorveglianza segnalano difficoltà strutturali: mancano comunità, mancano case famiglia protette, mancano percorsi dedicati. La salute mentale è l’altra grande zona d’ombra. Le relazioni annuali del Garante nazionale delle persone private della libertà mostrano indicatori di autolesionismo sensibilmente più alti per le donne rispetto agli uomini. Nei reparti di osservazione psichiatrica non esistono sezioni femminili autonome: un’assenza che produce isolamento, regressione, cure frammentate. “Le donne continuano a essere trattate come eccezioni dentro un modello pensato per gli uomini”, ha scritto il Garante nella relazione 2024. Una deriva globale che parla anche a noi - I dati raccolti da Un Women, Unodc e dai monitoraggi regionali del Council of Europe - Space I mostrano un quadro sovrapponibile: violenza sessuale, assenza di cure ginecologiche adeguate, lavoro sottopagato o non retribuito, infrastrutture insufficienti, lunghe detenzioni cautelari. In molti paesi le donne finiscono in carcere per reati minori legati alla sopravvivenza economica: microfurti, piccoli traffici, violazioni amministrative. In Italia la prevalenza dei reati minori è altrettanto marcata. I dati di ingresso Dap mostrano una predominanza di furti, piccole quantità di stupefacenti, violazioni legate all’immigrazione. Si tratta di fattispecie che potrebbero essere affrontate con misure non detentive, e invece la custodia cautelare continua a essere favorita. Da anni gli esperti italiani chiedono un rovesciamento di prospettiva: più comunità, più misure di protezione, più percorsi esterni, soprattutto per le donne con figli. Non sono opinioni ma raccomandazioni contenute nelle relazioni Dap, nelle ispezioni del Garante e nei pareri parlamentari. La “crisi globale” non è un fenomeno esterno. È un avvertimento che riguarda anche noi: una crescita delle detenute che non parla di sicurezza, ma di fragilità punite. E che produce effetti che travalicano il carcere: bambini senza madri, famiglie spezzate, territori più vulnerabili. Il mondo corre verso un milione di donne dietro le sbarre. L’Italia non potrà fingere ancora a lungo di viaggiare su un binario diverso. Il punto è capire quando sceglierà di guardare davvero questa realtà. Gran Bretagna. Londra si affida all’IA per evitare scarcerazioni “errate”. E la clemenza? di Redazione Radio Rebibbia Il Dubbio, 28 novembre 2025 Saranno gli algoritmi a decidere chi può uscire e chi no dopo, mentre si costruiscono nuove celle per far fronte al sovraffollamento. Quando le soluzioni sono ben altre. Oggi ce ne andiamo in giro, viaggiamo. Per provare a capire cosa potrà accadere qui da noi, dentro questo carcere. Partiamo - ovviamente non facciamo sul serio - ed arriviamo a Londra, esattamente in un quartiere a sud-ovest del centro: Wandsworth. Lì c’è un carcere. Grande, enorme. Non orrendo come Rebibbia ma anche lì c’è uno spaventoso sovraffollamento. Secondo i giornali inglesi, tre settimane fa, in quell’istituto sarebbe accaduto un fatto che loro definiscono gravissimo: “per sbaglio” due detenuti sono stati rilasciati anticipatamente. I media scrivono proprio così: per errore. Non ne avrebbero avuto diritto. I media hanno gonfiato il caso, l’opposizione ha fatto fuoco e fiamme. La soluzione l’ha trovata pochi giorni fa, il ministro laburista, il segretario alla Giustizia. Così ora, nel carcere a qualche chilometro da Trafalgar Square, sarà sperimentata l’uso dell’intelligenza artificiale. Saranno gli algoritmi insomma a immagazzinare e a leggere i documenti di carta, i certificati medici, le vecchie sentenze. Tutto. Perché una velocissima indagine ha stabilito che gli errori nel rilascio erano dovuti al fatto che i funzionari non avevano letto i documenti di vecchie sentenze. Non le avevano trovate. Ora invece sarà l’intelligenza artificiale a elaborare tutti i dati e a decidere chi potrà uscire e chi no. Chi sono i due rilasciati per sbaglio? Uno stava scontando una pena per un furto, l’altro per frode. Il primo è stato (ri)arrestato a casa sua, l’altro si è consegnato spontaneamente, quando ha letto la notizia. Il risultato sarà che d’ora in poi una “macchina” deciderà il loro destino. Contemporaneamente, il governo ha annunciato che per far fronte al drammatico sovraffollamento costruirà altri 14 mila posti nelle carceri. Un po’ come dice il nostro governo. A nessuno viene in mente che le “soluzioni rapide”, le soluzioni automatizzate al dramma delle carceri non sono né un algoritmo, né nuove celle. Le soluzioni sono amnistia, indulto, rispetto della Costituzione, percorsi di reinserimento. E per realizzarli non ci vuole l’intelligenza artificiale. Esecuzioni, assedi e demolizioni in Palestina. Amnesty: “Il genocidio è ancora in corso” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 novembre 2025 Tra Cisgiordania e Gaza le violenze di soldati e coloni. E l’Europa immobile chiede “stabilità”. I militari israeliani ripresi in un video mentre uccidono due palestinesi con le mani alzate. Una moschea data alle fiamme nel villaggio palestinese di Biddiya, città sotto assedio (Tulkarem, Tubas, Jenin), migliaia di sfollati e decine di arrestati, cento ulivi sradicati nella comunità di Kafr Malik e raid aerei: la giornata di ieri in Cisgiordania è specchio fedele delle politiche ufficiali e ufficiose con cui (da due anni con maggiore intensità) Israele avanza metro per metro nel territorio occupato. Un mix di azioni affidate ai due bracci esecutivi, l’esercito e il movimento dei coloni, e che ieri il ministro della difesa Israel Katz diceva necessarie a impedire un’escalation in Cisgiordania. Lo stesso ministro che due giorni fa definiva gli attacchi dei coloni “disturbo dell’ordine pubblico”, non atti di terrorismo quali sono. Con i palestinesi terrorizzati e abbandonati alle aggressioni feroci dei coloni, il governo non prende misure perché la simbiosi è ormai totale e la strategia unica. Lo si vede da 48 ore nel nord della Cisgiordania dove, con l’etichetta di “operazione anti-terrorismo”, l’esercito ha posto sotto assedio le città di Tubas e Tulkarem per poi allargarsi ieri, di nuovo, a quella di Jenin. Le scuole sono chiuse, le serrande dei negozi abbassate, nessun movimento è autorizzato pena il pestaggio: ieri almeno dieci palestinesi sono stati ricoverati per le pesanti percosse subite a Tubas. Mentre i soldati occupano abitazioni anche nei villaggi circostanti e le tramutano in centri di interrogatorio e Tel Aviv ordina il dispiegamento di altre truppe, ad avanzare sono i bulldozer. Nel mirino le strutture ancora in piedi nei campi profughi di Jenin e Tulkarem, già svuotati mesi fa dai loro abitanti: “Un’opera di re-ingegneria della topografia dei campi rifugiati”, l’ha chiamata ieri Roland Friedrich, direttore dell’Unrwa in Cisgiordania, mentre l’agenzia dell’Onu ricapitolava i numeri. Ventitré edifici demoliti a Jenin solo questa settimana, che seguono ai 200 ordini di demolizione eseguiti tra marzo e giugno di quest’anno. Ieri, nella città simbolo della resistenza armata, l’esercito ha sparato, ucciso un uomo e ferito gravemente due bambini di 14 anni, per poi impedire per ore alle ambulanze di soccorrerli. Ora sono ricoverati in ospedale, entrambi gambizzati. Ieri è giunta la reazione di Italia, Francia, Germania e Regno unito che, lontanissimi dall’assumere alcuna misura, hanno condannato “il massiccio incremento della violenza dei coloni” e chiesto “stabilità in Cisgiordania…Attività di destabilizzazione rischiano di minare il successo del piano in 20 punti per Gaza”. Chissà che tipo di stabilità ha in mente l’Europa, di fronte alla strategia chiarissima (perché ampiamente rivendicata) di pulizia etnica dei palestinesi, in Cisgiordania e a Gaza, e di negazione strutturale del diritto ad autodeterminarsi. Una negazione a cui i paesi europei hanno dato il via libera votandolo quel piano, in Consiglio di Sicurezza. Amnesty International, al contrario, torna a dare un nome alle cose: il genocidio è in corso, non è mai cessato e prosegue oggi con identici mezzi. Con i raid (ieri nuovi bombardamenti a Rafah), la demolizione di case (a Khan Younis, in particolare) e il blocco degli aiuti ai valichi che, ha denunciato ieri la protezione civile di Gaza, tengono fuori anche il carburante costringendo a dimezzare le operazioni di recupero di dispersi e feriti e di rimozione delle macerie. Oltre 500 le violazioni della tregua in sette settimane, scrive Amnesty, 347 palestinesi uccisi e 890 feriti, oltre al mancato ritiro dell’esercito: “A oggi non ci sono indicazioni che Israele stia prendendo misure per invertire l’impatto mortifero dei suoi crimini e non ci sono prove che il suo intento sia cambiato…imporre deliberatamente condizioni calcolate per distruggere fisicamente i palestinesi a Gaza”, ha detto la segretaria dell’associazione, Agnes Callamard. Venezuela. Trentini riceve in carcere la visita dell’ambasciatore italiano. “Sta meglio” La Repubblica, 28 novembre 2025 “L’Ambasciatore d’Italia a Caracas Giovanni De Vito ha effettuato oggi a Caracas una visita consolare al cittadino italiano Alberto Trentini durante la quale ha potuto incontrare anche un altro detenuto, Mario Burlò”. Lo fa sapere la Farnesina in un comunicato. “L’Ambasciatore ha riferito alla Farnesina di aver trovato il signor Trentini in condizioni di umore migliori rispetto alla volta scorsa. La visita è stata effettuata nell’ambito dell’azione politica e diplomatica che il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Ministro degli Esteri Antonio Tajani stanno costruendo da mesi per portare alla liberazione di tutti i cittadini italiani detenuti”. L’appello del parlamento europeo - Proprio oggi è stato lanciato un appello bipartisan per la liberazione di Alberto Trentini dai banchi del Parlamento europeo. A firmarlo sono 39 deputati del Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra e Fratelli d’Italia. “Con uno spirito che guarda alla pace come orizzonte comune”, si legge nel testo come riferisce il Corriere del Veneto “rivolgiamo un appello alle autorità della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Con rispetto per la sovranità del Paese, ma con altrettanta fermezza nel richiamare i valori universali dei diritti umani, chiediamo un atto di umanità: la liberazione di Alberto Trentini. Un gesto di clemenza e di apertura, in questo momento segnato da tensioni regionali e da minacce di escalation militare, avrebbe un significato profondo”. I rapporti molto tesi fra il presidente venezuelano Maduro e l’omonimo degli Stati Uniti Donald Trump, infatti, non favoriscono un clima favorevole al rilascio. E come Trentini sono tanti i cittadini stranieri che rischiano di trascorrere il Natale dietro le sbarre (per il lidense sarebbe il secondo). La liberazione del cooperante, arrestato il 15 novembre di un anno fa, “sarebbe un segnale di volontà dialogante, un contributo alla costruzione di un clima più sereno e cooperativo” secondo gli europarlamentari. Pd: Governo intensifichi azione per riportarle Trentini a casa - Per il Pd il governo italiano non ha fatto abbastanza per riportare il cooperante a casa. “Ad oltre un anno dalla ingiusta detenzione in Venezuela del cooperante Alberto Trentini, il Partito Democratico ha presentato in commissione esteri un’interrogazione urgente al Ministro degli Esteri Tajani, sottoscritta dai suoi membri Provenzano, Amendola, Boldrini, Porta e Quartapelle, denunciando la lentezza dell’iniziativa politica e diplomatica italiana anche alla luce della recente liberazione del cooperante francese Camilo Castro”. Con l’interrogazione - spiega una nota - i deputati democratici in commissione esteri hanno chiesto “chiarimenti sulle criticità che hanno accompagnato la mancata missione in Venezuela dell’inviato del governo italiano Luigi Vignali, invitando il Ministro degli Esteri a mettere in atto con urgenza nuove iniziative sul piano politico-diplomatico, compresa una nuova missione dell’inviato speciale se questa fosse utile a facilitare il rapido rientro in Italia di Trentini”. “Il governo, rispondendo all’onorevole Porta che è intervenuto a nome dei colleghi del Pd - riporta sempre la nota - ha confermato attraverso la Sottosegretaria Tripodi l’impegno per la liberazione di Alberto Trentini anche riprogrammando la missione in Venezuela dell’ambasciatore Vignali; abbiamo ribadito la nostra disponibilità a sostenere questa e ogni altra iniziativa che l’esecutivo e il Parlamento vogliano mettere in campo con l’unico obiettivo di riportare a casa e all’affetto dei suoi familiari il nostro cooperante”.