Carcere, il suicidio di un educatore ci interroga tutti di Ilaria Dioguardi vita.it, 27 novembre 2025 Un educatore si è suicidato nella casa circondariale di Cremona. Il fatto riaccende una luce sulle grandi difficoltà di questo lavoro, a forte rischio burnout. Davide Longhi (Sol.co Cremona): “La cura di chi cura, in un ambiente come il carcere, diventa ancora più importante”. Ulderico Maggi (Comunità di Sant’Egidio): “Il lavoro di educatore in carcere comporta uno stress emotivo altissimo, oltre il burnout”. Sonia Caronni (Cnca): “Del burnout degli educatori si ha contezza, ma non si prevedono interventi. Per esempio per i funzionari giuridico-pedagogici non è prevista supervisione”. Un educatore si è tolto la vita nella casa circondariale di Cremona. È il quarto caso di operatori penitenziari che si sono uccisi da inizio anno: due erano appartenenti alla polizia penitenziaria e due impiegati delle funzioni centrali. Ad essi si sommano i suicidi di 72 persone detenute (dati del dossier “Morire di carcere” di Ristretti orizzonti, aggiornati al 21 novembre 2025). Un fatto drammatico che spinge a riflettere intorno alle condizioni del lavoro di educatore in carcere e del rischio del burnout. Ne abbiamo parlato con Davide Longhi, presidente del consorzio Sol.co Cremona, Sonia Caronni, referente nazionale del gruppo Esecuzione pena del Coordinamento nazionale comunità accoglienti - Cnca e Ulderico Maggi, membro della Comunità di Sant’Egidio Milano e consulente pedagogico. “Come operatori del consorzio, abbiamo lavorato per 15 anni con la persona che si è tolta la vita in carcere. Come potrete immaginare, siamo molto sofferenti e profondamente colpiti da questo gesto disperato”, dice Davide Longhi, presidente del consorzio Sol.co Cremona, che con tre cooperative porta avanti delle attività sia di tipo socioeducativo sia di inserimento lavorativo all’interno della casa circondariale di Cremona. “Le nostre organizzazioni hanno iniziato a lavorare in carcere in maniera continuativa dal 2010, grazie ad una rete tra pubblico e privato che vede come capofila il comune di Cremona. Come sistema Sol.co ci occupiamo del rapporto tra carcere e territorio, ad esempio, attraverso gli agenti di rete e il case manager, figure professionali che operano in Lombardia per favorire il reinserimento sociale dei detenuti, fungendo da “ponte” tra la realtà carceraria e quella esterna. Sono operatori, che lavorano in stretta sinergia con l’area trattamentale e con tutte le aree del carcere in generale”, continua Longhi. Il ruolo fondamentale dell’area trattamentale - “Come sistema territoriale offriamo un servizio essenziale che potenzia le attività istituzionali portate avanti dalla casa circondariale. Il nostro lavoro è efficace nella misura in cui è sinergico con l’attività con tutte le aree del carcere, soprattutto quelle della polizia penitenziaria e dell’area trattamentale sono le basi del lavoro di prossimità con i detenuti: sono le due aree più preziose per noi, i collaboratori più importanti”, prosegue. “Per noi l’area trattamentale ha un ruolo fondamentale, le persone che ci lavorano sono quelle con cui ci confrontiamo quotidianamente, con cui si definiscono gli obiettivi su cui lavorare, quindi dei percorsi anche di tipo territoriale. Per questo la notizia del suicidio dell’educatore ci ha particolarmente scosso”. Il carico di lavoro molto alto - Tra le criticità maggiori del lavoro di educatore in carcere “segnaliamo sicuramente il rapporto tra le risorse a disposizione e le persone presenti, quindi tra il numero di educatori e quello dei detenuti all’interno degli istituti. La stessa criticità c’è tra il numero degli agenti e il numero dei ristretti. Questo crea un rapporto matematico che non dice tutto, non ci si può fermare a quello. Ma sicuramente il carico di lavoro che un educatore ha rispetto alla popolazione detenuta è molto alto”, dice Longhi. 613 detenuti per una capienza di 394 posti - Se prendiamo i numeri forniti dal sito del ministero della Giustizia, (aggiornati al 25 novembre 2025), relativi alla casa circondariale di Cremona, per una capienza di 394 posti regolamentari sono presenti 613 detenuti, gli educatori che ci lavorano sono sei, numero che combacia con quelli previsti. “Il numero proporzionale è evidente, c’è un educatore per circa 100 ristretti”, continua Longhi. “È un problema strutturale di molti istituti di pena italiani, non solo di Cremona. Quella degli educatori è un’area trattamentale sottostimata rispetto ai reali fabbisogni della popolazione detenuta”. Sbilanciamento tra popolazione e risorse - I detenuti “sono persone molto più complesse rispetto al passato, in particolare penso alla popolazione migrante appena arrivata in Italia, che non parla neanche la lingua e con cui è difficile entrare in relazione, e alle fragilità legate alla salute mentale e all’abuso di sostanze. Queste complessità”, prosegue, “comportano il fatto che l’educatore non può agire in autonomia, ma deve collegarsi a tutta una serie di servizi specialistici che sono presenti all’interno del carcere, come l’unità organizzativa dell’area sanitaria e l’area della psichiatria e della salute mentale. Tutti i servizi in carcere si scontrano con questo sbilanciamento tra il bisogno che presenta la popolazione e le risorse a disposizione”. Sfide sempre più grandi - “Il lavoro di educatore è a forte stress emotivo. In carcere, e non solo, sono tante le difficoltà di chi fa un lavoro di cura a 360 gradi. In un istituto di pena chi cura si trova a dover affrontare sfide sempre più grandi, che assumono anche una complessità che richiede l’intervento di altre professionalità, attraverso un lavoro di rete con enti, organizzazioni anche con culture diverse che devono mettere al centro la cura”, prosegue Longhi. “La cura di chi cura, in un ambiente come il carcere, diventa ancora più importante e le persone non possono essere lasciate da sole. Bisogna capire, anche a livello di società, che chi fa questo lavoro di cura ha bisogno a sua volta di una costante cura. Non bisogna parlare di svantaggi, certificati o meno, ma di vulnerabilità, che riguarda un po’ tutti”. Di fronte ad una vicenda drammatica come quella accaduta nel carcere di Cremona, al di là del fatto specifico, pertanto, “la domanda che dovremmo porci è: come possiamo, a livello di sistema nazionale, rendere l’ambiente del carcere migliore per chi ci lavora? Sia operatori ministeriali, che privati che volontari. Dall’altra parte, la riflessione è anche quella di come accompagnare chi cura. Dobbiamo rimettere al centro il tema del valore del lavoro di cura, l’attenzione che la società dovrebbe porre a chi fa questo lavoro. A maggior ragione in carcere, che è un ambiente dove per struttura le dimensioni educative e la sicurezza devono sempre trovare degli equilibri”. Il fallimento dell’esecuzione della pena - La notizia del suicidio dell’educatore nella casa circondariale di Cremona “segna il fallimento dell’esecuzione della pena interna, perché nel momento in cui il malessere arriva ad un funzionario giuridico-pedagogico, occorre una revisione chiara del sistema di esecuzione della pena interno al carcere. È un sistema malato, in questo momento, che colpisce chiunque, anche chi è più esterno e ci lavora per tanto tempo all’interno”, dice Sonia Caronni, referente nazionale del gruppo Esecuzione pena del Coordinamento nazionale comunità accoglienti - Cnca. Un lavoro in totale solitudine - “Il lavoro del funzionario giuridico pedagogico è un lavoro svolto in totale solitudine, in un momento in cui l’attenzione alle persone ristrette è bassissima, in cui le persone detenute si stanno uccidendo all’interno del carcere. Uso questa parola forte perché non si tratta solo di situazioni di suicidio, si tratta di etero e autolesionismo all’ordine del giorno, sono tantissimi i casi”, prosegue Caronni. “Io seguo la supervisione degli agenti di rete, figura che affianca i funzionari giuridico-pedagogici che lavorano nei vari istituti di pena. In questo momento si è tornati a morire di carcere, come lo si faceva prima della legge Gozzini. Rivolte, principi di rivolte e risse vengono gestiti in totale solitudine. I funzionari giuridico-pedagogici in Italia non hanno una supervisione, il ministero per questa professione non la garantisce”. “Il burnout è da copione” - “Riuscire a tenere assieme i bisogni dei detenuti, che in questo momento non ricevono attenzioni da parte dello Stato, i bisogni della sicurezza, quelli della direzione è molto complicato, non si riesce a rispondere a tutti i bisogni. Ad un certo punto, il burnout è da copione”, continua Caronni. “Di questo burnout degli educatori si ha contezza, ma non si prevedono interventi a livello ministeriale. Sono previsti interventi solo a livello di aumento dei numeri degli agenti di polizia penitenziaria e dei corpi speciali come il Gruppo di intervento operativo - Gio, ma non si prevedono né interventi di sostegno attraverso delle supervisioni ai funzionari giuridico-pedagogici, né un aumento del numero dei funzionari giuridico-pedagogici, di fronte ad un aumento costante della popolazione ristretta”. Una situazione di malessere cronico - “In carcere siamo di fronte a una situazione di malessere diffuso, generalizzato, direi cronico, che non può che riflettersi sulla vita delle persone all’interno. È un sistema che è malato”, afferma Ulderico Maggi, Comunità di Sant’Egidio Milano e consulente pedagogico. “Il disagio generalizzato nella vita dei detenuti e degli operatori è immediato quando si diminuiscono le possibilità e le potenzialità, costruite in anni di lavoro difficilissimo, di relazione tra l’interno e l’esterno. Mi riferisco anche alla circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a firma Ernesto Napolillo dello scorso 21 ottobre (che centralizza in capo al Dap le attività trattamentali in tutti gli istituti in cui sia presente l’alta sicurezza, ndr)”. Forte senso di frustrazione - “Non voglio dire che questo suicidio sia collegato alla circolare, ovviamente, ma voglio sottolineare che l’inasprimento dei regolamenti o delle disposizioni che arrivano dal Dap interagiscono in modo pesante con le attività trattamentali, che sono un nodo importante anche a livello costituzionale del nostro sistema penitenziario”, dice Maggi. “Limitare, impedire o rendere difficili le possibilità di agire azioni trattamentali dall’esterno verso l’interno, rende sempre più stretto il perimetro di azione di chi lavora con gli interventi di carattere trattamentale. Questa chiusura provoca forti sensi di frustrazione negli operatori”. Oltre il burnout - Il lavoro di educatore in carcere comporta uno stress emotivo altissimo, decisamente oltre il burnout. Di fronte agli atti di autolesionismo dei detenuti, gli operatori che lavorano negli istituti di pena non hanno risposte o hanno degli strumenti sempre più “spuntati”. Lo dico da consulente pedagogico, le attività in carcere permettono di introdurre un po’ di ossigeno. La detenzione deve avere un valore rieducativo: il detenuto non si rieduca da solo, il carcere di per sé non rieduca”, prosegue Maggi. “La figura educativa è centrale, dal punto di vista costituzionale, nella detenzione di una persona: in carcere c’è una parte giuridica e un’altra pedagogica e rieducativa. L’educatore non può che lavorare sulla relazione, che ha bisogno di tempo. E ci sono delle fasi della detenzione in cui l’intervento educativo deve essere forte e significativo. Ho conosciuto educatori bravissimi, che però si trovano ad avere a che fare con troppe incombenze burocratiche”. Stop ai colloqui in carcere per un video su Tik Tok: la Cassazione dà ragione al detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2025 La Corte suprema respinge il ricorso del ministero della Giustizia e autorizza la visita del figlio, anche lui recluso: l’affettività familiare può essere negata solo per ragioni concrete di sicurezza. Un video su TikTok pubblicato dai nipoti. Un detenuto al 41 bis che, durante un colloquio, dimostra di conoscerne l’esistenza. Il sospetto immediato: ha canali di comunicazione illeciti con l’esterno. La conseguenza: stop ai colloqui visivi con il figlio, anche lui detenuto. Ma la storia finisce in modo diverso da come si potrebbe immaginare. La Cassazione, con la sentenza n. 3113 depositata il 17 novembre scorso, respinge il ricorso del ministero della Giustizia e conferma il diritto di Francesco Stimoli, 64 anni, detenuto in regime di carcere duro, a vedere suo figlio faccia a faccia. È una sentenza che segna un passaggio importante nella giurisprudenza sul 41-bis, perché ribalta un principio che fino a poco tempo fa sembrava granitico: quando si tratta di regime differenziato, la sicurezza viene sempre prima di tutto, anche degli affetti familiari. Ora la Corte dice qualcosa di diverso: l’affettività è un diritto che sta nel “nucleo essenziale” della dignità del detenuto, e può essere negato solo se ci sono ragioni concrete e dimostrate che lo giustifichino. Non basta il sospetto generico, servono fatti. Il sospetto infondato - La vicenda parte da lontano. Stimoli, ristretto nel carcere duro, aveva chiesto di poter fare colloqui visivi con il figlio, detenuto in un altro istituto in regime di alta sicurezza. Una richiesta che in passato era sempre stata accolta. Poi, a un certo punto, tutto si blocca. Durante un colloquio con i nipoti, Stimoli fa capire di sapere che hanno pubblicato dei video sui social, dimostra di conoscere “tutti i loro gesti” e cosa accade in famiglia. Un’affermazione che fa scattare l’allarme nella Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, che esprime parere contrario ai colloqui con il figlio. Il timore è chiaro: se Stimoli sa cose che non dovrebbe sapere, forse ha trovato il modo di comunicare con l’esterno aggirando i controlli, magari proprio attraverso quei colloqui con il figlio detenuto. Il magistrato di sorveglianza, il 7 maggio scorso, respinge la richiesta di Stimoli. Ma il detenuto non si arrende e fa reclamo. Davanti al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila spiega la sua versione: quelle informazioni sui video dei nipoti non le ha ricevute da nessun canale segreto, le ha semplicemente lette in un provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Roma che gli era stato notificato poco prima di quel colloquio. Il Tribunale verifica, controlla gli atti, e gli dà ragione. Il 17 giugno autorizza un colloquio visivo con il figlio. A quel punto entra in scena il ministero della Giustizia, che impugna l’ordinanza davanti alla Cassazione. L’Avvocatura dello Stato sostiene che l’autorizzazione al colloquio è stata concessa senza tenere conto delle norme rigidissime che regolano il 41-bis, norme pensate proprio per evitare che i detenuti in regime differenziato possano mantenere contatti con i sodali. Quando due familiari sono entrambi detenuti, uno in 41-bis e l’altro in regime speciale, i colloqui visivi dovrebbero essere vietati per definizione, sostiene il ricorso. La semplice registrazione del colloquio non basta a neutralizzare i rischi, perché le informazioni possono passare anche attraverso la comunicazione non verbale, con gesti, sguardi, movimenti. La giurisprudenza della stessa Cassazione, del resto, aveva stabilito nel 2021 che in questi casi le esigenze di sicurezza prevalgono sempre sul diritto all’affettività. I motivi della cassazione - Ma la Prima Sezione penale della Suprema Corte, con questa sentenza firmata dal presidente Giuseppe De Marzo e dalla relatrice Paola Masi, spiega che quel principio del 2021 è superato. C’è una giurisprudenza più recente, in particolare una sentenza di novembre 2024, che ha cambiato l’approccio. Il diritto a coltivare l’affettività familiare, anche attraverso colloqui visivi, appartiene al nucleo essenziale dei diritti del detenuto. Questo vale pure quando il familiare che si vuole incontrare è sottoposto a regime speciale. Certo, bisogna fare un bilanciamento con le esigenze di sicurezza pubblica. Ma questo bilanciamento va fatto “in concreto”, caso per caso, e non in astratto applicando un divieto automatico. Nel caso di Stimoli, poi, c’è un particolare che il Ministero sembra avere trascurato: il figlio non è sottoposto al 41-bis, ma solo al regime di alta sicurezza. Una condizione diversa, meno stringente. La questione della possibilità di concedere colloqui visivi tra detenuti entrambi in regime differenziato, quindi, non è nemmeno pertinente qui. La Corte entra poi nel merito del bilanciamento fatto dal Tribunale di L’Aquila, e lo giudica corretto. I giudici di merito hanno valutato con attenzione il parere negativo della Dda di Catania, hanno esaminato l’episodio “allarmante” del video su TikTok, hanno verificato che quella conoscenza derivava da un atto giudiziario e non da canali illeciti. Hanno anche considerato che la stessa Dda, nel suo parere, riconosceva di avere “sempre rilasciato parere favorevole” ai colloqui tra padre e figlio in passato. Una volta escluso il sospetto di contatti segreti con l’esterno, non c’erano altre ragioni specifiche di pericolosità che giustificassero il diniego. La Cassazione è molto chiara su un punto: il Ministero, nel suo ricorso, non ha indicato quali altre esigenze di sicurezza sarebbero state trascurate o mal valutate dal Tribunale. Si è limitato ad affermare, in modo generico, che gli elementi ostativi emersi dal parere della Dda erano così consistenti da giustificare il diniego. Ma quali elementi? Il ricorso non lo dice, non li descrive, non allega nemmeno il parere della Dda. Si limita a riportare lo stesso contenuto già citato nell’ordinanza impugnata, cioè quella vicenda del video che il Tribunale aveva già esaminato e spiegato. In sostanza, secondo la Suprema Corte, il Ministero ha contestato il bilanciamento tra affettività e sicurezza senza però portare elementi concreti che dimostrassero l’esistenza di rischi reali. E questo non basta. Il diritto all’affettività familiare, anche per chi è sottoposto al regime più duro del nostro ordinamento penitenziario, non può essere negato sulla base di timori astratti o di applicazioni automatiche di divieti generali. La sentenza si inserisce in un percorso che la giurisprudenza sta compiendo da qualche anno, sotto la spinta della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte Costituzionale. Un percorso che cerca di contemperare le sacrosante esigenze di sicurezza legate al contrasto della criminalità organizzata con i diritti fondamentali della persona, che non vengono cancellati dalla detenzione, nemmeno da quella più severa. Come scrive la Corte in questa sentenza, l’orientamento più recente è “maggiormente rispettoso dei diritti del detenuto, anche se sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis”. Certo, questo non significa che i colloqui visivi tra detenuti in regime speciale diventino un diritto automatico. La Cassazione è chiara: ogni caso va valutato, il bilanciamento tra affettività e sicurezza va fatto con attenzione, e quando le esigenze di sicurezza sono dimostrate e prevalenti, il diritto all’affettività deve cedere. Ma la chiave sta proprio qui: le esigenze di sicurezza devono essere “dimostrate”, “concrete”, “specifiche”. Non basta più dire: sono in 41-bis, quindi no. Bisogna spiegare perché, in quel caso specifico, con quella persona specifica, quel colloquio rappresenta un rischio reale per la sicurezza pubblica. Francesco Stimoli potrà vedere suo figlio. Un colloquio, per ora. Ma la portata di questa sentenza va ben oltre il caso singolo. Segna un punto fermo: anche nel regime più duro, l’affettività resta un diritto. E i diritti, per essere negati, hanno bisogno di ragioni solide, non di automatismi. Ingiuste detenzioni: nel 2025 lo Stato ha speso oltre 23 milioni di euro di Valentina Stella Il Dubbio, 27 novembre 2025 “Gli indennizzi liquidati per riparazione per ingiusta detenzione nell’intero anno 2024 sono pari a 26,9 milioni di euro. Dal 1° gennaio 2025 al 31 ottobre 2025 sono state accolte 535 per un importo complessivo a carico dell’Erario pari ad euro 23.850.925,00. In particolare, i dati più alti si registrano presso la Corte di Appello di Reggio Calabria con 77 indennizzi liquidati per 5.486.000,00 euro e presso la Corte di Appello di Catanzaro con 126 indennizzi per un importo di 4.311.000,00 euro. A seguire Palermo con 32 istanze liquidate per un importo di 2.905,000,00 euro e Roma con 40 istanze liquidate per un importo di 2.552,000,00 euro. Nel corso del 2025, dato aggiornato al 25.11.25, risultano pervenute al dipartimento dell’amministrazione generale del personale e dei servizi numero 913 istanze”. Così ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio rispondendo ad una interrogazione parlamentare dei deputati di Forza Italia, Tommaso Calderone ed Enrico Costa, mossi dalla consapevolezza che “è fondamentale un monitoraggio dei casi di ingiusta detenzione al fine di tenere accesi i riflettori su queste enormi criticità del sistema, che, troppo spesso, vengono liquidate come danni collaterali fisiologici”. Un argomento, quello delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari, che terrà banco in questi mesi che ci avvicinano al referendum di marzo sulla separazione delle carriere. Non a caso molti sostenitori del Sì sono convinti che grazie alla riforma costituzionale saranno evitate molte ingiuste carcerazioni perché il giudice sarà meno legato alle istanze dell’accusa. E non a caso proprio Forza Italia ha tra i suoi testimonial diverse persone vittime di ingiusta privazione della libertà personale. Nella replica Calderone si è detto “soddisfatto” della risposta del Guardasigilli e ha aggiunto: “Dobbiamo rimediare a questa situazione. In questo momento in carcere ci sono 15mila detenuti presunti innocenti, il cinquanta per cento di questi verrà assolto. E chiederà allo Stato di essere risarcito attraverso i soldi di tutti noi cittadini. Una soluzione a questo c’è ed è una riforma sulla custodia cautelare” di cui proprio Calderone è ispiratore attraverso una proposta di legge che però non ha mai preso il via, anche perché al momento al governo non conviene troppo smuovere le acque in vista del referendum sulla separazione delle carriere. Sul social X è arrivato anche il commento di Costa: dati questi numeri forniti da Nordio, “come la mettiamo con il Csm che registra il 99% di valutazioni di professionalità positive per i magistrati?”. Referendum e regole, Meloni ha fretta di Alessandro De Angelis La Stampa, 27 novembre 2025 La data del referendum indicata da Nordio è una forzatura rispetto alle norme. Se si accorciano i tempi della raccolta delle firme si rischia lo strappo col Colle. Era già tutto previsto. Annunciato nei comizi, il premierato risuscita anche nell’agenda parlamentare. Annunciata, a sconfitta ancora calda nel Sud, la legge elettorale, ecco la sollecitazione da parte del presidente del Senato. L’ultimo tassello della “grande forzatura” lo esplicita il guardasigilli Carlo Nordio: “Il referendum sulla giustizia si terrà entro la prima metà di marzo, secondo i nostri calcoli”. E allora, per capire calcoli e strappi anche su questo terreno, occorre partire dalla norma, e da una lunga consuetudine. Prevede, una volta approvata in via definitiva la legge, un processo in tre fasi. Prima: tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta per raccogliere le firme tramite parlamentari, cittadini e Regioni. Secondo: verifica della regolarità delle medesime da parte della Cassazione entro 30 giorni: Terzo: indicazione del voto da parte del presidente della Repubblica su deliberazione del cdm. La data si può fissare in una domenica compresa tra il 50esimo e il 70esimo giorno successivo al decreto. Bene, applichiamola al caso in questione. La riforma della giustizia è stata pubblicata in Gazzetta il 30 ottobre. Con tre mesi per la raccolta firme si arriva al 30 gennaio, che è un sabato. Ipotizziamo che la Cassazione vada spedita e ci metta una settimana per la verifica. Siamo al sette febbraio. Facciamo tre giorni per cdm e passaggio al Quirinale. E siamo al dieci febbraio. La prima domenica utile dopo 50 giorni è il 5 aprile. Pasqua. Ipotizziamo allora un pronunciamento lampo della Cassazione e un cdm altrettanto lampo: 29 marzo, la Domenica delle Palme. In una mano la scheda, nell’altro il ramoscello di ulivo. Sconsigliato. A logica si va ad aprile. Ora l’intenzione del governo. Interpellati sulla data di metà marzo, a via Arenula ci spiegano che le firme dei parlamentari sono già state depositate e l’ufficio centrale della Cassazione ha già dato l’ok. Quindi si può procedere, senza aspettare la raccolta delle firme popolari, anche perché, al momento, non c’è. Bene, però non si può escludere che qualcuno si possa cimentare nell’impresa, visto che ormai è possibile raccogliere le firme online. Né si può escludere che si mettano all’opera cinque Regioni, in questo caso di centrosinistra, schierato sul no. È ininfluente dal punto di vista della convocazione delle urne, ma comunque rappresenta l’esercizio di un diritto. Detta in modo un po’ grezzo: se qualcuno le raccoglie e nel frattempo viene fissata la data, la Cassazione dice “scusate, il governo ha chiuso lo sportello?”. Andiamo al punto. Giorgia Meloni ha fretta. Il calcolo politico suggerisce: “Prima è, meglio è”, per evitare rischi. Si sa, spesso, più che l’oggetto nei referendum conta il clima che si viene a creare. Lo sa bene Matteo Renzi, che nel 2016 verificò la stessa possibilità di accorciare i tempi, fissando la data a ottobre prima delle elezioni americane. Sentiva che l’aria stava cambiando e che, tra le altre cose, la prima elezione di Donald Trump sarebbe stata un amplificatore della rivolta anti-establishment. Il Quirinale, proprio in base alla norma inerente alla raccolta delle firme popolari (allora in progress), sconsigliò caldamente. E si andò al 4 dicembre. Analogo sondaggio col Colle finora non è stato fatto da palazzo Chigi ma è assai probabile che Sergio Mattarella non abbia cambiato idea. E che quindi Giorgia Meloni si troverà davanti al dilemma che investe i suoi rapporti col Quirinale, peraltro dopo le note vicende. La morale della favola è tutta politica. Tutto questo tramestio di date, sommato alla discussione sulla legge elettorale, sommato al fatto che si torna a parlare di premierato, ci racconta il punto esatto in cui si trova Giorgia Meloni. Priorità e agenda di qui alla fine della legislatura. Spariscono governo e Italia reale. Il primato è del calcolo politico attorno al potere, da mantenere e ridisegnare. Così il ministro controllerà i giudici prima dei pm di Alberto Cisterna Il Manifesto, 27 novembre 2025 La domanda delle domande è sempre quella; se la separazione delle carriere, alla fine, non sia altro che un primo passaggio per attestare la maggioranza politica di turno nella cittadella giudiziaria. Gli occhi sono sempre puntati sul pubblico ministero di cui la riforma Nordio prevede l’espulsione dall’unitario ordinamento giudiziario per dare vita a quella che il professor Ferrua ha di recente definito un’autocrazia irresponsabile. Ovviamente una provocazione, ma che punta l’indice sulle norme della legge costituzionale su cui più acuti sono i timori del fronte del No e più prodighi di rassicurazioni gli esponenti del Sì. Si vedrà. Ma guardiamo oltre. La riforma prevede che il giudizio disciplinare, per giudici e pubblici ministeri, non sia più affidato un’apposita Sezione dei rispettivi Consigli superiori come accade oggi per l’unico Csm, ma si trasferisca in capo a un’Alta Corte disciplinare; un’autorità terza, a formazione promiscua, dotata di quindici “giudici”, tre nominati dal Quirinale, tre estratti a sorte dal Parlamento, sei giudicanti e tre requirenti estratti a sorte anch’essi. Già che il nuovo articolo 105 della Costituzione adoperi il termine “giudici” la dice lunga sulla natura pienamente giurisdizionale di questo organo che assumerà il delicato compito di valutare le condotte di tutte le toghe. C’è chi guarda con favore a questa opzione, ritenendo che si possa così bonificare la giustizia disciplinare da eccessive pulsioni “domestiche”, sia chiaro non sempre pro reo, e quanti, numeri alla mano, sostengono che quella del Csm sia tra le più severe giurisdizioni disciplinari dello Stato. Si vedrà anche questa volta. Ma c’è uno snodo della riforma che appare, come dire, messo in disparte nel dibattito che si sta sviluppando e del quale invece sarebbe urgente interessarsi in vista del voto referendario a partire da una premessa: per il magistrati l’inizio di un procedimento disciplinare è la peggiore iattura che possa capitare; una sorta di possente macigno che ciascuno vorrebbe scansare sapendo bene la miriade di conseguenze negative, temporanee o permanenti, che derivano già solo dalla pendenza dell’azione disciplinare, ossia comunque vada il giudizio. Ciò chiarito, la riforma Nordio si è ben guardata da porre mano anche alla titolarità dell’azione disciplinare, ossia all’individuazione del soggetto istituzionale cui compete la funzione di esercitare l’iniziativa punitiva nei confronti dei magistrati. L’articolo 107 della Carta, esonerato da qualsivoglia manipolazione, prevede dal 1948 che “il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare”. È noto, a tutti, che analogo potere di promozione spetta sin dal 1958 al procuratore generale della Cassazione e che, di fatto, è costui che si occupa delle ragioni dell’accusa dalla fase iniziale delle verifiche preliminari sino alla sentenza definitiva. Cosa accadrà se la riforma costituzionale superasse il vaglio referendario non è chiaro; difficile che si voglia che la Procura generale possa promuovere l’azione punitiva nei confronti dei giudici che appartengono a una totalmente diversa partizione della magistratura italiana. In un autorevole, quanto isolato, contributo alla discussione su questo punto (R. Sanlorenzo in Q.G. del 12 giugno 2025), si coglie evidente la preoccupazione che la ricollocazione del potere di iniziativa esclusivamente nelle mani del ministro della Giustizia alteri la stessa natura giurisdizionale del processo disciplinare. Praticamente i “giudici” dell’Alta corte sarebbero attivabili solo da un soggetto di rango politico-amministrativo non appartenente alla magistratura e questo obiettivamente è un crinale che non può tranquillizzare. Non solo per le ragioni tecniche che pretendono sia salva l’integrità giurisdizionale dell’accertamento disciplinare (che, invero, come visto esce confermata dalla riforma Nordio), ma perché la cittadella delle toghe sarebbe stata così penetrata nel più insidioso e silente dei modi. Un ministro - non importa quale o quando - sarebbe in grado di attivare il procedimento, di coltivarlo con propri delegati davanti all’Alta corte, di proporre l’impugnazione di un’assoluzione, tenendo sotto scacco una toga potenzialmente per anni. Inutile evocare i fantasmi delle ripicche o delle vendette o disegnare futuribili scenari; la soggezione di pm e giudici a un’azione disciplinare a trazione politica è un problema già da domani. Nel procedimento di prevenzione, la separazione delle carriere è già una necessità di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 27 novembre 2025 L’articolo pubblicato sul Dubbio il 6 novembre, firmato da Errico Novi, dedicato alle intercettazioni emerse durante le indagini sull’allora presidente del Tribunale delle misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, offre uno spunto di riflessione che va ben oltre il singolo caso. Riporta al centro dell’attenzione un tema cruciale e spesso ridotto a sterile scontro ideologico: la separazione delle carriere tra magistrati requirenti e giudicanti. Molti, cittadini potrebbero chiedersi che nesso ci sia tra il dibattito in corso sulla necessità di separare le carriere di pubblici ministeri e giudici carriere e il procedimento di prevenzione, quello strumento che consente di disporre sequestri e confische dei beni nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, anche in assenza di condanna penale. Eppure, è proprio nelle misure di prevenzione che si manifesta con la massima evidenza la confusione di ruoli che la riforma della separazione delle carriere mira a superare ed eliminare. Nel procedimento di prevenzione, infatti, la distinzione tra pubblico ministero e giudice è di fatto inesistente e la sovrapposizione tra i due ruoli evidente. Il fascicolo del proponente, di solito Procura o Questore, viene trasmesso direttamente al Tribunale, che lo utilizza come base della decisione finale. Non c’è un “doppio fascicolo”, come nel processo penale ordinario, dove l’attività di indagine resta separata dalla fase del giudizio. Qui, invece, il giudice valuta e decide sullo stesso materiale raccolto dall’organo proponente, senza filtri, senza una netta cesura tra la fase investigativa e quella decisoria. Ma non è tutto. L’articolo 19 del Codice antimafia - che disciplina il procedimento di prevenzione - attribuisce al Tribunale poteri istruttori amplissimi, consentendogli di agire anche di propria iniziativa: può disporre accertamenti, chiedere nuove indagini, sollecitare approfondimenti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria. In altre parole, il giudice non si limita a valutare ciò che le parti portano davanti a lui, ma diventa protagonista dell’attività istruttoria, fino a sostituirsi, di fatto, al pubblico ministero. È persino previsto che possa restituire gli atti al proponente, indicando quali ulteriori accertamenti ritiene opportuni perché la misura possa essere accolta. Si tratta di un potere che, per ampiezza e natura, nega in radice il principio di terzietà del giudice, cardine del giusto processo sancito dall’articolo 111 della Costituzione. Nel processo penale ordinario, la riforma del 1988 - la cosiddetta “riforma Vassalli” - aveva segnato la fine del modello inquisitorio, restituendo equilibrio tra accusa e difesa davanti a un giudice terzo e imparziale. Nel procedimento di prevenzione, invece, sopravvive un sistema ancora fortemente inquisitorio, dove il giudice si muove insieme al pubblico ministero, spesso condividendone la prospettiva investigativa e anticipando il giudizio di merito già nella fase preliminare. Non stupisce, dunque, che la Corte Costituzionale sia stata recentemente investita della questione di legittimità dell’articolo 19, proprio nella parte in cui consente al Tribunale di sostituirsi al pubblico ministero nella conduzione dell’attività istruttoria. La vicenda, portata all’attenzione della Consulta da un ricorso presentato da un componente dell’Osservatorio sulle misure di prevenzione dell’Unione delle Camere penali, mette in luce una contraddizione ormai insostenibile: nel procedimento di prevenzione, il giudice non solo non è terzo, ma esercita un potere che travalica ogni confine tra funzione requirente e funzione giudicante. Questa commistione non è un dettaglio tecnico, ma un vulnus profondo al principio di legalità processuale ed al diritto di difesa. Se un giudice può attivarsi, disporre accertamenti, suggerire indagini e poi valutare gli stessi risultati che ha contribuito a ottenere, la garanzia di imparzialità è solo formale. E se questa dinamica è consentita in un settore così delicato come quello delle misure patrimoniali e personali, la necessità di separare le carriere diventa ancora più evidente. Il dibattito sulla riforma non può dunque limitarsi alla dimensione teorica o ordinamentale. Il procedimento di prevenzione mostra in concreto cosa accade quando l’accusa e il giudice condividono la stessa funzione di “ricerca della verità” e la stessa prospettiva investigativa. La conseguenza è un sistema in cui la presunzione di innocenza e la parità delle parti vengono meno, e in cui la figura del giudice, anziché essere garante di equilibrio, finisce per diventare parte attiva del procedimento. Separare le carriere non è, dunque, una bandiera di categoria, ma una garanzia di civiltà giuridica. Proprio le misure di prevenzione, nate come strumento straordinario di tutela collettiva, dimostrano quanto sia fragile l’equilibrio dei poteri quando i confini tra accusa e giudizio si confondono. E quanto più urgente sia restituire al giudice la sua funzione originaria: quella di arbitro terzo, non di protagonista dell’azione penale. *Osservatorio Misure di Prevenzione dell’Unione delle Camere Penali Italiane “Altro che separazione delle carriere, senza di noi giustizia al collasso” di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2025 La protesta dei precari Pnrr: “6.000 a rischio taglio”. Assunti negli ultimi quattro anni, rischiano di rimanere a casa da giugno 2026 e ora chiedono stabilizzazioni al governo Meloni. “Altro che separazione delle carriere e la creazione del doppio Consiglio superiore della magistratura. Questa riforma non è la priorità. I cittadini chiedono tempi certi, dalle cause che si fanno per il risarcimento del danno, fino ai processi penali. Ma il sistema è già sotto organico, senza di noi la giustizia sarà al collasso”. Mentre governo e forze politiche già si scontrano e si preparano al referendum sulla giustizia di marzo 2026, è il personale precario assunto con il Piano nazionale di ripresa e resilienza e ora in scadenza con la fine degli stessi progetti Pnrr, a rivendicare garanzie per il proprio futuro. Dopo le diverse proroghe arrivate negli anni, ora il governo Meloni non sembra intenzionato a trovare una soluzione, né prevede stabilizzazioni di massa. Così, come già raccontato dal Fatto Quotidiano, un totale di 20mila dipendenti pubblici precari, dalla stessa giustizia, alle Università, passando per i ricercatori degli enti di ricerca fino a Comuni e sanità, rischia di restare presto a casa. Senza lavoro. Tra tribunali e macchina amministrativa giudiziaria, sono ben 12mila i precari. Circa 8.200 sono stati destinati all’ufficio del processo, assunti in una prima ondata di 8.171 unità e poi altre 3.946 unità a tempo determinato, che hanno sostituito altrettanti che nel frattempo hanno lasciato il posto, avendo vinto concorsi altrove. Si tratta di laureati che fanno da supporto “para-giurisdizionale” ai magistrati (ricerche giurisprudenziali, bozze di provvedimenti, analisi fascicoli, schede di udienza). Ma ci sono anche tecnici informatici, statistici, edili, contabili e gli operatori di data entry, che si sono occupati della digitalizzazione massiva degli atti e del loro inserimento nei sistemi informatici. In gran parte lavorano già da 4 anni, altri sono entrati nel 2022. Nel 2024 avrebbero dovuto rifare il concorso, ma hanno ottenuto la proroga. Oggi almeno la metà dei 12mila precari della Giustizia teme per il proprio futuro. La manovra dello scorso anno prevedeva di stabilizzare 3mila precari, ma in realtà per ora non è stata attivata alcuna procedura. E anche per quest’anno ci sono, al momento, soltanto promesse, ma poco di concreto: “Dal ministero c’è l’impegno, la possibilità di stabilizzare soltanto 6mila persone, secondo una prova e dei criteri. Ancora oggi non sappiamo nemmeno quali potranno essere questi requisiti di assunzione. Ma noi lottiamo affinché, anche per gradi, ma con un impegno concreto, tutti possano venire stabilizzati”. Anche perché, rivendicano, anche con le assunzioni di tutti i precari il settore sarebbe comunque sotto organico, di almeno 15mila unità. Per questo diverse decine di precari si sono ritrovati sotto il ministero della Funzione Pubblica, insieme alla Usb, per chiedere che in manovra siano approvati gli emendamenti sulla stabilizzazione, anche graduale, di tutto il personale precario. “Al Tribunale di Modena, dove sono entrata a tempo determinato nel 2024, il personale precario è un terzo del totale. Se venisse confermata questa idea di assumere a livello nazionale soltanto metà della platea dei precari, sarebbe il collasso”, spiega una lavoratrice. Altri concordano: “Siamo tutti essenziali, utili. Ho rinunciato a un posto a tempo indeterminato per lavorare nel settore giustizia, ci credevo. Ma ora se in tanti saremo mandati via sarà un problema anche e soprattutto per i cittadini, oltre che per il nostro futuro”. “Sembra quasi che ci sia la volontà di non far funzionare la giustizia, nel momento in cui gli investimenti sono sempre minimi e la priorità del governo è formalizzare quello che è un costante attacco alla magistratura con una riforma che distrae l’attenzione dal problema del precariato”, spiega un lavoratore che si occupa di digitalizzazione. “Inutile continuare a trovare misure affinché i magistrati possano scrivere più sentenze, se non c’è personale amministrativo che poi si occupi di tutti gli adempimenti precedenti e successivi. Se una sentenza viene scritta e depositata, ma non viene messa in esecuzione è tutto tempo perso”, rivendica un’altra lavoratrice. Così, mentre il governo sembra impegnarsi quotidianamente nello scontro con la magistratura, secondo i lavoratori precari sembra essersi invece dimenticato dei reali problemi del settore: “Spendiamo soldi pubblici per le armi, ma il governo non si preoccupa di stabilizzare i dipendenti di un settore essenziale”. Per ora gli impegni sembrano essere pochi, in attesa dei passaggi parlamentari della manovra a fine anno e degli accordi interni alla maggioranza: “Hanno ricevuto una nostra delegazione, ci è stato proposto un emendamento governativo per fare una graduatoria da assorbire negli anni successivi, anche da altre amministrazioni. Ma noi, oltre alla stabilizzazione di tutti, continuiamo a spingere per mantenere una continuità del servizio”, rivendicano i precari riuniti in presidio sotto il ministero. “Grazie a noi è stato raggiunto l’obiettivo della riduzione dei tempi del processo, ora sembra ci dicano: obiettivo raggiunto, voi potete anche andare a casa. Ma così si tornerà in poco tempo alla stessa situazione di prima”. Così c’è chi pensa già di emigrare all’estero: “Perché dovrei rimanere qui? Perché dare a uno Stato che non mi riconosce la mia salute, la mia professionalità e i miei desideri?”. “Il reato di femminicidio è inutile, illogico e di difficile applicazione”. Parla la prof. Elena Mattevi di Ermes Antonucci Il Foglio, 27 novembre 2025 La giurista: “Nel nostro ordinamento non esisteva nessuna lacuna. Assistiamo all’ennesimo ricorso al diritto penale per rispondere, in termini meramente repressivi e simbolici, a fenomeni ad alto tasso emotivo, dimenticando invece di investire sulle politiche di prevenzione”. Il reato di femminicidio? Inutile, simbolico, irrazionale, ma soprattutto di dubbia efficacia e di difficile applicazione. È netto il giudizio di Elena Mattevi, professoressa di Diritto penale all’Università di Trento, sul nuovo reato introdotto dopo il via libera unanime della Camera di martedì. La notizia dell’approvazione definitiva del disegno di legge bipartisan è paradossalmente passata in secondo piano, travolta dalle polemiche politiche generate dalla decisione della maggioranza di sospendere l’esame del ddl sulla violenza sessuale. “L’introduzione del reato autonomo di femminicidio è innanzitutto inutile perché già oggi nel nostro ordinamento esiste il reato di omicidio, aggravato qualora venga commesso nel contesto di relazioni familiari o affettive o di altre manifestazioni della violenza di genere, e quindi proprio nella maggior parte dei casi che riconduciamo alla nozione di femminicidio. La pena prevista per l’omicidio aggravato è l’ergastolo, cioè quella prevista ora dal nuovo reato”, spiega Mattevi, che aggiunge: “Veramente c’è qualcuno che pensa che la previsione dell’ergastolo possa dissuadere una persona dal commettere un omicidio?”. “I femminicidi sono compiuti da soggetti che difficilmente possono definirsi razionali, maturano in contesti particolari. Non credo che un uomo, che è stato lasciato dalla sua compagna ed è incapace di accettare o gestire il rifiuto e l’abbandono, e che non è ancora riuscito a interiorizzare i valori della libertà della donna e più in generale della persona diversa da sé, possa essere scoraggiato dal commettere un femminicidio soltanto per il fatto che nel codice penale è previsto un reato che prevede l’ergastolo”, afferma Mattevi. Insomma, “nel nostro ordinamento non esisteva nessuna lacuna. Assistiamo all’ennesimo ricorso al diritto penale per rispondere, in termini meramente repressivi e simbolici, a fenomeni ad alto tasso emotivo”. Il delitto di femminicidio (articolo 577-bis) viene definito come il cagionare “la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali”. “Si pongono evidenti problemi di accertamento delle condotte - riflette la giurista - Le prime sei ipotesi di reato sono caratterizzate da una motivazione di genere (‘in quanto donna’). Ma come sarà possibile provare che una donna è stata uccisa in quanto donna oppure per altre ragioni che non attengono alla sua identità biologica? L’ipotesi relativa al ‘rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo’ fa invece riferimento a un profilo meramente relazionale, quindi risulta ancora più irragionevole la distinzione del reato di omicidio operata in base al sesso biologico della vittima. L’ultima ipotesi, infine, pone un problema di indeterminatezza: esiste un omicidio che non limiti le libertà individuali? È difficile immaginare una condotta omicidiaria realizzata con dolo intenzionale che non abbia il fine di sopprimere l’esercizio di libertà della vittima”. Per Mattevi, in definitiva, “sarebbe stato più opportuno rivedere le aggravanti del reato di omicidio e inserire una specifica aggravante neutra, anziché creare un reato autonomo”. “Ciò che preoccupa di più - prosegue la giurista - è che l’introduzione del reato si inserisce in una riforma a costo zero. Temo che sposando una logica meramente punitiva, con l’illusione di aver trovato finalmente una buona soluzione, si finisca per dimenticare l’obiettivo principale: quello di lavorare sulle politiche di prevenzione, provando davvero a intercettare in tempo queste tragedie per evitarle”. Quanto alla decisione adottata dalla maggioranza di sospendere l’iter di approvazione-lampo del ddl che cambia il reato di violenza sessuale, con l’introduzione del principio del “consenso libero e attuale”, Mattevi condivide la scelta: “Riformare la normativa è necessario perché si è creata nel corso del tempo una scissione tra legge e la giurisprudenza, ma la decisione di fermarsi e approfondire la materia è opportuna perché la tipizzazione di una fattispecie così complessa fa emergere tanti aspetti delicati, che riguardano soprattutto le garanzie delle persone accusate. Trovo giusto effettuare un supplemento istruttorio, e credo ci sia spazio per dei miglioramenti”. Legge sul consenso, maggioranza in tilt di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 27 novembre 2025 Salvini fa saltare l’accordo sul reato di violenza sessuale tra Meloni e Schlein. E la premier rilancia il premierato. Matteo Salvini non aspetta nemmeno di smaltire l’adrenalina post-elettorale per impallinare la legge sulla riforma del reato di violenza sessuale. Il leader della Lega, davanti alle telecamere convocate per commentare il voto in Puglia e Campania, ha rivendicato apertamente lo stop del Carroccio a un testo che solo una settimana fa aveva incassato il via libera unanime della Camera e che Palazzo Madama avrebbe dovuto approvare in via definitiva, proprio nel giorno dedicato alla lotta contro la violenza sulle donne. Una frenata che ha sorpreso perfino parte della maggioranza, e che soprattutto ha contraddetto il patto politico che Giorgia Meloni aveva stretto con Elly Schlein: un accordo bipartisan, simbolico e politico, per arrivare a una legge condivisa. “Il principio è condivisibile”, ha osservato Salvini, prima di demolire il cuore della norma: “Ma così rischia di intasare i tribunali, lascia spazio alla libera interpretazione e a vendette personali”. Il vicepremier descrive il testo come troppo “vago”, addirittura “pericoloso”, paventando un’ondata di denunce strumentali. Parole che spingono il dibattito su un crinale scivoloso, rimettendo in discussione l’essenza stessa di una riforma che Meloni e Schlein avevano blindato con un sigillo politico raro. Tanto che ora l’Ufficio di presidenza della commissione Giustizia ha deciso di riaprire il dossier, convocando esperti e ripartendo quasi da capo. Ma il colpo di freno sul consenso non è solo una reazione a caldo ai risultati delle Regionali. Al contrario, Salvini si muove con la precisione di chi sente che, per la prima volta dopo anni e grazie a Luca Zaia, l’inerzia politica del centrodestra torna a soffiare dalla sua parte. In Veneto, la spinta del Doge ha rilanciato il Carroccio a livelli inattesi, mentre FdI ha mostrato i primi segni di riflusso politico. “Abbiamo vinto in una realtà dinamica, produttiva ed esigente”, insiste il leader leghista, elencando uno a uno i suoi pezzi da novanta: Zaia, Vannacci, Giorgetti, i sindaci. E rivendica una crescita “uniforme” anche in Puglia e Campania, con l’ennesima punzecchiatura a Conte: “Superarlo a casa sua vuol dire che la credibilità ce l’hai”. Ed è proprio in questo contesto che va letta la seconda scossa della giornata: quella che è arrivata da Montecitorio. Mentre Salvini rivendica il ruolo del “partito del Nord” (glissando su ciò che in prospettiva potrebbe creare problemi a lui stesso), il governo - attraverso la sottosegretaria Matilde Siracusano - chiede ai capigruppo di calendarizzare in Aula, già a gennaio, il ddl sul premierato. Un’accelerazione improvvisa, che nel Pd viene interpretata come la risposta nervosa di Meloni al dietrofront leghista e al nuovo equilibrio emerso dalle urne. “Meloni alza subito la voce”, attacca la capogruppo dem Braga, “e riafferma il suo modello di donna sola al comando”. Il premierato torna così in cima alla lista, con una spinta che ha il sapore della contromossa politica. Perché la verità - sussurrano in ambienti della maggioranza - è che la premier avrebbe accolto con inquietudine il combinato disposto tra l’avanzata della Lega al Nord e la performance opaca di FdI al Sud. E teme che il dossier autonomia, con gli accordi sulle materie non Lep già siglati con le regioni settentrionali, possa trasformarsi in una zavorra pesante in vista del referendum costituzionale e, soprattutto, delle Politiche del 2027. Sempre che la legge elettorale resti quella attuale. Ma questa, naturalmente, è un’altra storia. O forse no. Perché nell’attrito tra Salvini e Meloni, tutto - dal consenso sessuale al premierato, dall’autonomia alla geografia del voto - finisce per intrecciarsi in un unico nodo politico: l’agenda del centrodestra. E il dietrofront della Lega sulla legge simbolo della Giornata contro la violenza potrebbe essere soltanto il primo capitolo di un confronto che corre molto più in profondità. Perché la violenza non ammette cavilli di Fabrizia Giuliani La Stampa, 27 novembre 2025 Che il diavolo sia nei dettagli è cosa nota. I dettagli, nella battaglia per una legge che metta nero su bianco che un rapporto sessuale diventa violenza, se imposto, sono nelle parole di commento. Il vicepremier parla di eccesso di spazio interpretativo, vendette personali, di una legge che finirà per intasare i tribunali, esacerbare i conflitti, un far west. Non è il solo, ne abbiamo lette tante e in fondo non c’è ragione di stupirsi se ci voltiamo indietro: tutte le leggi che hanno restituito alle donne una libertà che il quadro normativo non ammetteva hanno visto compatte levate di scusi. Compattissime. Lo raccontavano, sorridendo, le parlamentari protagoniste. Sorridevano, nonostante la fatica, i colpi bassi - personali e politici - perché erano consapevoli delle resistenze culturali che si nascondevano dietro i discorsi solenni, fondati sulla tecnicalità giuridica. Sì, c’era chi invocava la fine della famiglia, ma i più si dichiaravano favorevoli agli obiettivi riformatori - ci mancherebbe! - salvo accompagnare l’accordo una serie di obiezioni tesi a demolirli. La forza di chi allora ha combattuto era sostenuta dalla consapevolezza della posta in gioco: se non è garantita la libertà delle donne nella famiglia, nelle relazioni, nella vita sessuale, un paese non può dirsi civile. Andate a rileggere i dibattiti parlamentari delle leggi sul diritto di famiglia, sul divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, la violenza sessuale. Rimarrete sorpresi nel vedere la riproposizione degli stessi argomenti: attenzione, così vengono minate le basi del diritto nel nome dell’ideologia, di un’onda emotiva, della reazione alla cronaca. Oggi non sorridiamo, siamo meno sagge forse, sicuramente più stanche, lo scriveva Simonetta Sciandivasci ieri su queste pagine. Sembra che non si riesca a imparare dalla storia, siamo condannati alla ripetizione. Perché è così difficile da digerire l’affermazione della necessità del consenso di una donna a un rapporto sessuale? Perché è uno scandalo? Come si può ridere delle battute sulla necessità di accordi cartacei negli appuntamenti se si pensa ai numeri che l’Istat ci rivela a proposito di violenze sessuali? Quanto è diffusa, culturalmente legittimata l’idea dell’irrilevanza del consenso? O quella di cancellarne proprio l’eventualità, riducendo le donne a corpi disponibili per ore con l’ausilio della chimica? C’è bisogno di riascoltare le parole documentate, filmate, accertate, che accompagnano gli stupri singoli e di gruppo? O ancora, le migliaia di domande processuali sulla tenuta degli indumenti, la postura, i dettagli dei referti ginecologici? Per questo molti paesi si sono già dotati di queste norme. Il diritto è rimasto vivo, pare, in Svezia, Regno Unito, Irlanda, Spagna, anche dopo aver varato misure fondate sull’accordo esplicito. Non abbiamo notizia di tribunali presi d’assalto, e regolamenti di conti. Evocare il consenso non equivale in nessuna maniera a cancellare le garanzie per l’imputato, lo hanno spiegato bene Paola Di Nicola e Fabio Roia nelle audizioni alla Camera: vi è alcuna - alcuna - inversione dell’onere della prova, che resta in capo al pubblico ministero; non viene mai meno il principio di non colpevolezza. Su questi aspetti la legge in discussione non interviene. Da tempo, peraltro la Cassazione parla di attualità del consenso: non sono dettagli se assumiamo che le donne, come ha ribadito Menditto, l’ex procuratore di Tivoli, non sono oggetti in un rapporto sessuale, ma parte attiva di esso, dall’inizio alla fine. È grave che non sia ancora un principio condiviso. Con la legge sul consenso il processo diventa un atto di fede di Marco Nigro* Il Dubbio, 27 novembre 2025 La riforma dell’art. 609-bis c.p., approvata alla Camera 19 novembre, introduce nel sistema penale italiano il paradigma del consenso affermativo, determinando una metamorfosi che non si esaurisce nel mero aggiornamento della tecnica legislativa, ma incide profondamente sul patrimonio concettuale e sulle garanzie strutturali del processo penale. L’intento dichiarato è quello di armonizzare la disciplina interna ai modelli internazionali più recenti, rafforzando la protezione dell’autodeterminazione sessuale. Intento nobile, per carità, ma non per questo immune da problematiche applicative. L’innovazione normativa, infatti, si proietta su un terreno scivoloso, nel quale la tutela della vittima e la salvaguardia delle garanzie non possono essere considerate grandezze antagoniste, ma devono convivere entro un equilibrio che non sia puramente retorico. Il passaggio da un impianto incentrato sulla violenza, sulla minaccia o sull’abuso di autorità a un modello fondato sull’assenza di consenso libero e attuale comporta uno spostamento dell’elemento tipico, dall’ambito oggettivo della condotta alla dimensione psicologica e relazionale della volontà. L’esigenza che il consenso non solo esista, ma persista durante l’intera sequenza comportamentale, accentua le difficoltà epistemiche del giudizio, poiché il nucleo del disvalore penale coincide con la sfera interna della persona offesa. La prova del dissenso, così intesa, tende a trasformarsi nella prova di uno stato mentale, con inevitabili ricadute sul piano dell’onere probatorio. osi, mentre nella disciplina previgente l’accusa era tenuta a dimostrare l’esistenza di violenza, minaccia o abuso di autorità, nel nuovo assetto la tipicità si fonda sull’assenza di consenso, con un effetto di inversione sostanziale dell’onere probatorio, a carico dell’imputato, chiamato a dimostrare non solo l’esistenza di un consenso valido, ma anche la sua permanenza nel corso del rapporto. Si tratta di un fatto positivo, interno e, per sua natura, insuscettibile di dimostrazione empirica, che rischia di incrinare il modello liberale del processo penale, tradizionalmente improntato al principio secondo cui chi formula un’accusa deve provarla. In tale prospettiva si impone una considerazione spesso trascurata: in un ordinamento fondato sulle garanzie processuali non può essere esclusa la necessità che la persona offesa, pur meritevole della massima tutela e di adeguato sostegno emotivo, partecipi all’accertamento del fatto fornendo gli elementi che le è possibile offrire. Ciò non implica, sia chiaro, un arretramento della sua protezione, né l’introduzione di filtri sospettosi, ma la consapevolezza che la verità processuale non si costruisce attraverso l’assunzione fideistica della narrazione accusatoria. Un richiamo tanto più necessario alla luce della giurisprudenza dominante, che già attribuisce alla dichiarazione della vittima un valore probatorio autosufficiente, prescindendo da riscontri esterni, referti medici o comportamenti correlati al fatto. Il giudizio sulla credibilità della vittima, infatti, prescinde da tali elementi, i quali vengono spesso ritenuti irrilevanti in base al presupposto che la vittima possa avere reazioni non lineari o condotte “normalizzanti” senza che ciò incida sulla genuinità del suo racconto. In tale contesto la dichiarazione della persona offesa diviene, nella sostanza, non solo descrizione del fatto, ma anche la prova stessa dell’assenza di consenso, cioè dell’elemento costitutivo del reato. A questo scenario si aggiunge la progressiva erosione del contraddittorio, spesso giustificata tramite il divieto di vittimizzazione secondaria. Si tratta, in astratto, di un principio ispirato a finalità legittime, ma che nella pratica produce una contrazione significativa degli spazi difensivi: domande su dinamiche relazionali, comunicazioni pregresse, condotte successive o altri elementi rilevanti vengono frequentemente escluse, con la conseguenza di privare il giudizio della dimensione dialettica che ne costituisce la garanzia fondamentale. Il contraddittorio rischia così di ridursi a formalità, mentre il giudice, privato di strumenti critici, potrà essere indotto a ratificare passivamente la versione dell’accusa. In estrema sintesi la combinazione di un onere probatorio sbilanciato, di una prova dichiarativa autosufficiente e di un contraddittorio depotenziato determina il rischio concreto che il processo penale muti la propria funzione: da sede di verifica rigorosa diventi un meccanismo di tutela anticipata della vittima, con l’effetto di snaturare la struttura paritaria del giudizio e di erodere la logica liberale che ne costituisce fondamento. In un simile contesto, il processo potrebbe progressivamente trasformarsi in una procedura di conferma dell’addebito, in aperta tensione con l’architettura costituzionale che tutela la presunzione di innocenza e assegna alla prova un ruolo decisivo e non surrogabile. Il nuovo impianto richiederà un enorme lavoro interpretativo. Sarà la giurisprudenza a dover ricostruire i confini del contraddittorio, a stabilire che cosa significhi “consenso attuale”, a impedire che il processo diventi un rito di conferma. Perché se la tutela delle vittime è un valore irrinunciabile, lo è altrettanto la tenuta delle garanzie costituzionali. E la storia del diritto insegna che quando si sacrificano le seconde per proteggere le prime, alla fine si perde entrambe. In altre parole: non basta cambiare le parole della legge per migliorare la giustizia. Serve mantenere vivo lo spirito del processo penale, che non è - e non può diventare - un atto di fede. *Avvocato Un omicidio e due colpevoli, Nordio: esiste la revisione di Valentina Stella Il Dubbio, 27 novembre 2025 L’omicidio di Lida Taffi Pamio, avvenuto il 20 dicembre del 2012 nella sua abitazione di Mestre, e per il quale sono state condannate due donne (Susanna Lazzarini e Monica Busetto), ma paradossalmente non in concorso tra di loro, arriva all’attenzione del Parlamento. Sono state infatti presentate quattro interrogazioni parlamentari: una del senatore Pd Andrea Martella, una della deputata del M5S Stefania Ascari, una del senatore pentastellato Roberto Cataldi, una del deputato di Avs Devis Dori. Tutte chiedono di far luce su una vicenda giudiziaria che ha dell’incredibile, e di rivalutare soprattutto la posizione di una delle due condannate, Monica Busetto, in carcere da 12 anni ma sempre professatasi innocente. Ieri Nordio ha risposto proprio all’atto di sindacato ispettivo promosso da Dori. Ma riassumiamo la vicenda. Tutto inizia con la morte dell’anziana Taffi Pamio. La scena del delitto si presenta povera di indizi e prove dirimenti agli occhi degli inquirenti fino a quando iniziano a puntare l’attenzione contro la vicina, Monica Busetto. L’operatrice sanitaria viene interrogata e intercettata più volte fino ad essere arrestata con l’accusa di omicidio, che sarebbe stato causato da dissapori di pianerottolo. A casa della donna viene sequestrata una catenina spezzata che, secondo gli investigatori, potrebbe essere stata strappata alla vittima. Andrà a rappresentare la smoking gun sulla quale si poggerà tutto l’impianto accusatorio in quanto su di essa sarebbe stata trovata un’infinitesima quantità di Dna della vittima, appena tre picogrammi. Ma la prova regina, hanno evidenziato, tra gli altri, il giornalista Massimiliano Cortivo e il docente di statistica per l’investigazione criminologica Lorenzo Brusattin nel libro inchiesta “Lo Stato italiano contro Monica Busetto”, si dimostrerà molto dubbia, sotto vari punti di vista. Come evidenziato anche da recentissimi servizi della trasmissione di Italia1 “Le Iene”, durante i quali è emerso che una nuova perizia potrebbe dimostrare che quel gioiello non è lo stesso che indossava la vittima e potrebbe essere alla base di una nuova richiesta di revisione. L’impianto probatorio sarebbe appunto la predetta collanina. Oltre a questo anche l’entrata in scena di Susanna Lazzarini. Dopo la condanna in primo grado della Busetto, la donna viene arrestata e confessa sia l’omicidio di un’altra anziana, Francesca Vianello, che quello di Taffi Pamio. Dopo un lungo interrogatorio fornirà particolari dettagliati di entrambi i delitti, sostenendo più volte di aver agito da sola. Circostanza confermata anche quando parla con i familiari e viene intercettata. Una traccia di sangue, inizialmente ignorata dagli investigatori, la inchioda al delitto Taffi Pamio. Busetto lascerà dunque il carcere per poi dovervi ritornare dopo che Lazzarini, con argomentazioni illogiche e irrazionali, la chiamerà di nuovo in causa per l’omicidio Pamio. Infatti, come ricordano Cortivo e Brusattin, “Susanna, “Milly” Lazzarini decide di cambiare “improvvisamente” la sua versione mesi dopo aver confessato ad un familiare di aver fatto tutto da sola e dopo ben tre lunghi interrogatori avvenuti a distanza di molte settimane l’uno dall’altro. Davanti ai magistrati sino a quel momento aveva sempre sostenuto di aver compiuto il delitto da sola. Solo nel quarto e poi quinto interrogatorio spunta la figura di Monica Busetto nella versione della Lazzarini”. Quello che sconvolge è che leggendo i verbali si vede chiaramente tutto lo sforzo degli inquirenti per far combaciare l’ipotesi iniziale - il coinvolgimento di Monica Busetto - con tutte le risultanze successive, emerse dalle testimonianze più volte modificate di Lazzarini. Ma veniamo a ieri e all’interrogazione parlamentare in cui Dori ha ricordato che la mancata coincidenza tra i due monili minerebbe la solidità del principale elemento probatorio alla base della condanna, insieme al fatto che in sede di richiesta di revisione della condanna, la Corte d’appello di Trento nel marzo 2024 avrebbe rigettato l’istanza “sulla base dell’assunto, errato, che Lazzarini nel suo primo interrogatorio, e quindi quello ritenuto più attendibile per vicinanza all’evento, avrebbe dichiarato la complicità della Busetto”. Su questo aspetto, il 3 marzo 2016 anche Nordio, all’epoca proprio procuratore aggiunto a Venezia, rispose al giornalista Pittarello di 7gold: “Questa confessione nulla toglie all’impianto probatorio che aveva indotto la corte d’assise ad applicare alla signora Busetto una pena molto grave”. Dori e Zanella hanno chiesto al Guardasigilli “se sia a conoscenza di quanto esposto, quali accertamenti di competenza intenda porre in essere con riferimento al caso esposto e quali iniziative di natura normativa intenda mettere in campo per scongiurare ingiuste detenzioni che ledono il principio di non colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”. Nordio non ha detto nulla di nuovo: “Io non posso entrare nell’ambito di un’indagine condotta da me 15 anni fa, anche perché non so se dovrei rispondere come ex pubblico ministero o come ministro della Giustizia. Posso soltanto dire che la legge prevede degli strumenti, come quello della revisione, che possono correggere a distanza quelli che sono gli errori giudiziari”. Deluso Dori: “Io l’ho interrogata qui in Aula come ministro, non come pubblico ministero” e nonostante i diversi elementi a discolpa della Busetto “abbiamo sentito il ministro anzitutto non dare alcuna risposta, però nemmeno attivarsi come ministro e non come pubblico ministero”. Toscana. Un passo indietro sul tema delle carceri di Sara Nocentini Corriere Fiorentino, 27 novembre 2025 La separazione delle politiche regionali per le questioni carcerarie da sanità e sociale, da lavoro e formazione, rischia di indebolire i rapporti con la giustizia e l’amministrazione penitenziaria. La definitiva composizione della giunta regionale toscana e l’assegnazione delle deleghe invita a sviluppare una riflessione su un tema apparentemente ai margini delle nostre comunità, ma in realtà pienamente parte di un più ampio ragionamento sui sistemi di welfare e sulla loro efficacia. Il tema è il carcere o, se preferiamo, i percorsi di esecuzione penale (che possono essere interni al carcere o esterni attraverso varie misure), o ancora più in generale, il legame tanto profondo quanto poco esplicitato tra il governo delle nostre istituzioni territoriali, Regione e Comuni, e l’amministrazione della giustizia. In maniera sempre più marcata quest’ultima passa da una stretta intesa con le istituzioni locali, che si trovano a ricomporre sui singoli territori i contorni di una collaborazione che viene certamente promossa dai vari livelli ministeriali, senza però che se ne esplicitino adeguatamente le forme, i percorsi e le risorse dedicate. La sanità in carcere è un diritto essenziale di assistenza e come per tutti gli altri cittadini è affidato alla competenza concorrente tra Stato e Regioni. Molti altri ambiti vedono però di fatto la necessità di una collaborazione tra giustizia e istituzioni territoriali, con vari livelli di formalizzazione: in ambito civile, gli sportelli di prossimità, che sotto un coordinamento regionale, “avvicinano” gli uffici giudiziari ai territori più distanti dai capoluoghi per pratiche semplici e di diffusa necessità; in ambito penale, per favorire il massimo ricorso alla messa alla prova, promuovendo anche il coinvolgimento del terzo settore, o per lo svolgimento di tutte le misure alternative alla detenzione, o per l’attuazione della cosiddetta giustizia riparativa, formalizzata nel nostro Paese con la riforma Cartabia e vittima di un estenuante iter attuativo. A questo si aggiunga un capitolo a parte, che discende direttamente dall’articolo 27 della Costituzione e del fine ultimo, rieducativo, della pena, ossia fare in modo che il momento dell’esecuzione penale costituisca un momento di formazione e predisposizione ad un reinserimento pieno nella comunità. Inclusione sociale e lavorativa, formazione scolastica e professionale, istruzione universitaria, accesso alle attività culturali, educazione linguistica e promozione della lettura sono ambiti di intervento delle politiche regionali e comunali, che si aggiungono a tutte le procedure legate alla regolarità o regolarizzazione dei documenti delle persone detenute, e che necessitano di un raccordo serrato e continuativo con l’amministrazione giudiziaria e penitenziaria. Gli interlocutori sono molteplici e il confronto tra più istituzioni è previsto anche da una cabina di regia che la Regione è chiamata a presiedere e coordinare. La suddivisione delle deleghe all’interno della nuova giunta suggerisce che la Regione dovrà fare uno sforzo ulteriore, rispetto al passato, per fornire un interlocutore unitario alla magistratura, agli istituti di pena, alle Asl, ai Comuni, agli uffici di esecuzione penale esterna, al terzo settore, alle aziende e alle cooperative che da tempo costituiscono una reale possibilità di impiego per le persone in uscita dall’esecuzione penale e non solo. La separazione delle politiche regionali per le questioni carcerarie da sanità e sociale, da lavoro e formazione e dai rapporti con l’università, rischia di rappresentare un elemento di indebolimento dell’efficacia e della fluidità dei rapporti con gli interlocutori della giustizia e dell’amministrazione penitenziaria, a meno che non se ne ravvisi il bisogno e non si compensi altrimenti. I due progetti pluriennali che la Toscana è riuscita ad aggiudicarsi con Cassa delle Ammende e ministero della Giustizia costituiscono un banco di prova importante, utile a mettere a punto un coordinamento adeguato, per ovviare al rischio che ciascun settore finisca per aprire una interlocuzione propria, frammentando tavoli e interventi in un contesto in cui spesso la costruzione dei percorsi vale almeno quanto le risorse ad essi destinate. Brindisi. Suicidio in carcere: “Il grido d’allarme di un sistema al collasso e sotto organico” di Valentina Farina* brindisireport.it, 27 novembre 2025 Ancora vite spezzate. Ieri mattina un detenuto della Casa circondariale di Brindisi si è tolto la vita. Dietro questo tragico gesto c’è un volto, una storia, una sofferenza umana, da Potenza a Brindisi, lontano dagli affetti. Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie. Si registrano, invece, continui e frequenti trasferimenti da carcere a carcere, e da regione a regione, i quali non sono motivati da interessi di avvicinamento all’ambiente di provenienza, ma dagli interessi interni al sistema penitenziario. Era in infermeria alta sorveglianza sotto un regime di controllo molto stretto e supervisione continua e costante a causa di un rischio elevato. Una condizione di maggiore allerta, tipica delle ormai tante storie a cui gli istituti di pena devono ormai far fronte e che necessitano di monitoraggio per la loro salute. Questo evento è il simbolo di un sistema al collasso. Le tragedie come questa sono il grido di allarme di strutture sovraffollate e sotto organico. Sul posto, non si è potuto fare altro che constatare il decesso. I numeri - La matematica è eloquente. Detenuti: 232 per 119 posti (sovraffollamento 195 percento). Personale: 120 agenti in servizio su 197 necessari (scopertura 39 percento) Situazione nazionale: 63.740 detenuti per 46.183 posti; 72 suicidi tra detenuti dall’inizio dell’anno. Si muore sempre più spesso, per suicidio o per malattia: secondo i dati della realtà penitenziaria, la proiezione attuale rischia di rendere il 2025 l’anno peggiore da quando esiste un censimento puntuale e “aperto” delle carceri italiane. I suicidi sono la voce più aspra di questo bilancio, il segnale più tragico del collasso del sistema. Nel frattempo, nelle carceri c’è sofferenza, morte, fatica. In un momento storico che si presenta feroce, si spera che almeno due cose possano accadere: le voci dei detenuti e quelle dei tanti operatori di frontiera devono moltiplicarsi, perché sia chiaro a tutti: no a un sistema che toglie dignità a custoditi e custodi. Le proposte - La Puglia rimane la regione più sovraffollata d’Italia. La situazione evidenzia l’urgenza di: ridurre il sovraffollamento; potenziare il personale; garantire assistenza sanitaria e psicologica; ristrutturare le infrastrutture; adottare riforme per condizioni detentive dignitoso. In questo contesto è maturata la necessità politica di affrontare questa situazione di emergenza delle condizioni carcerarie con iniziative legislative. Il decesso odierno non è un caso isolato: dunque, un fallimento per chi ha il dovere di custodia legale delle persone ristrette. Il parlamento e il governo devono intervenire subito: la detenzione deve rispettare la dignità umana. Si segnala l’incontro recentemente tenutosi con l’Asl di Brindisi, finalizzato al potenziamento della struttura sanitaria interna al carcere di Brindisi, con l’obiettivo di contenere gli indici di rischio e alleggerire i carichi sui ruoli e sugli organismi con funzioni di controllo e vigilanza, quali quelli della Polizia Penitenziaria già al collasso per i carichi di lavoro. *Garante dei diritti delle persone private della libertà in provincia di Brindisi Firenze. Sollicciano, protesta dei detenuti: “Manca l’acqua calda” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 27 novembre 2025 In 70 si sono rifiutati di tornare in cella fino all’arrivo della direttrice. Sventato un tentativo di evasione. Dai rubinetti non veniva l’acqua calda, come accade spesso. E quindi una settantina di detenuti, martedì sera intorno alle 21, ha inscenato una protesta rifiutandosi di rientrare nelle proprie celle. “Vogliamo che la direzione si renda conto dello stato in cui viviamo. Non possiamo neanche farci una doccia”. La protesta è andata avanti fino a che la direttrice e il comandante non si sono recati nelle sezioni del subbuglio, verificando di persona la mancanza di acqua calda con la promessa di tentare di risolvere la situazione. Una situazione ormai atavica, nel penitenziario fiorentino, dove si prolungano da anni le criticità all’impianto di riscaldamento e di raffreddamento, con conseguenze di inverni molto freddi ed estati molto calde. A dare notizia dei malumori dell’altra sera è stato Antonio Mautone, segretario generale territoriale della Uil Pa Penitenziari, che ha detto: “Siamo nuovamente alle solite. Sembra di rivedere un film già visto diverse volte. Sono anni che denunciamo lo stato di totale abbandono in cui versa l’istituto di Sollicciano e nonostante tutte le visite che ci sono state in questi anni da parte di esponenti delle amministrazioni sia locali che nazionali nulla è cambiato. Non comprendiamo - continua il sindacalista - il motivo per cui tutti concordino che ormai è il momento di fare delle scelte mirate anche alla chiusura dell’istituto ma ciò non avviene. Ci preoccupa notevolmente questa totale assenza decisionale che genera malcontento non solo tra i detenuti ma anche tra gli operatori tutti, che quotidianamente sono costretti a prestare la propria attività lavorativa in ambienti freddi insalubri e sicuramente poco decorosi”. La giornata di ieri, secondo la Uil, è stata contrassegnata anche da un altro episodio critico che è avvenuto sempre nel carcere fiorentino, quando in mattinata un detenuto di origini maghrebine ha tentato di evadere dalla struttura. L’uomo, è stato spiegato, si è arrampicato su un pilastrino, ha scavalcato le inferriate dei passeggi ed è giunto nell’intercinta (lo spazio che separa le aree detentive dal muro di cinta) e dopo essersi dotato di un giubbotto catarifrangente, ha cercato di dileguarsi sperando di non essere scoperto. Solo grazie al tempestivo intervento degli operatori della pattuglia di servizio di ronda e altri operatori presenti, il tentativo di evasione è stato sventato e il detenuto è stato nuovamente accompagnato presso il reparto detentivo all’interno della propria cella. Sulmona (Aq). “Incompatibile con il carcere” ma resta in cella: nessuna struttura disponibile ilgerme.it, 27 novembre 2025 Resta in carcere, nonostante sia stato dichiarato incompatibile con il sistema penitenziario, il 58enne di Sulmona indagato per maltrattamenti nei confronti della madre di 91 anni. La sua detenzione si sta infatti protraendo a causa dell’impossibilità di trovare una struttura sanitaria specializzata in grado di accogliere pazienti con doppia diagnosi, come richiesto dal giudice. Il caso ha registrato un importante sviluppo lo scorso 6 novembre, quando il gip Marta Sarnelli ha disposto la sostituzione della misura cautelare, ordinando il trasferimento dell’uomo in un luogo di cura. La decisione era stata sollecitata dal difensore, l’avvocato Alberto Paolini, e supportata dalla perizia del dottor Mario Di Napoli, che aveva certificato le condizioni cliniche dell’indagato. Il primo tentativo di ricovero, all’ospedale San Salvatore dell’Aquila, è però fallito: la struttura non è attrezzata per ospitare detenuti affetti dal tipo di patologie diagnosticate al 58enne. Da allora è partita una ricerca di un centro idoneo, ma finora senza esito. L’assenza di una struttura adeguata ha di fatto impedito l’esecuzione dell’ordinanza, costringendo l’uomo a rimanere in cella nonostante l’incompatibilità accertata. Secondo le accuse, l’indagato avrebbe sottoposto la madre a anni di maltrattamenti, con minacce di morte, lanci di oggetti e aggressioni fisiche. L’episodio più recente risale al 14 settembre, quando la donna avrebbe riportato contusioni a un braccio e a una gamba. All’arrivo dei carabinieri, il 58enne - in forte stato di agitazione - si sarebbe scagliato anche contro i militari, minacciandoli. Per l’anziana e per uno degli agenti intervenuti si era reso necessario il trasporto al pronto soccorso dell’ospedale di Sulmona, dove i medici hanno diagnosticato lesioni guaribili in quattro-sei giorni. Spoleto (Pg). Colloqui intimi in carcere, il ricorso del Ministero di Massimo Solani rainews.it, 27 novembre 2025 Verrà discusso questa mattina al Tribunale di Sorveglianza di Perugia il ricorso del ministero della Giustizia, il primo depositato in Italia, contro l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza di Spoleto aveva dato il via libera alle richieste di due detenuti del carcere di Sabbione di poter accedere ai colloqui intimi con il proprio partner all’interno della struttura carceraria. L’appuntamento, fissato dal presidente del tribunale di sorveglianza Antonio Minchella, è per le 9 e in quella sede verrà discusso il ricorso presentato dalla direzione generale dei detenuti e del trattamento del Ministero della Giustizia secondo il quale con l’ordinanza dello scorso gennaio il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi avrebbe applicato e interpretato in maniera non corretta la sentenza con cui la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittime le norme sull’ordinamento penitenziario che vietano colloqui privati fra il detenuto e il partner da svolgersi in strutture adatte e senza il controllo della polizia penitenziaria. Ad opporsi al reclamo del ministero della Giustizia l’avvocato Paolo Canevelli di Roma, in rappresentanza di uno dei due detenuti del carcere di Sabbione a cui il magistrato di sorveglianza, per la prima volta in Italia, aveva riconosciuto il diritto ad effettuare colloqui intimi. L’uomo, un sessantenne di origini napoletane detenuto in alta sicurezza con fine pena fissato al 2034 per reati di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, ha iniziato ad avere colloqui intimi con la compagna dall’aprile scorso e sulla scorta del suo ricorso una ventina di altri detenuti hanno potuto usufruire degli spazi appositi che sono stati ricavati all’interno della struttura di sabbione. Unica in regione, al momento, a permettere ai detenuti di poter incontrare i partner senza controllo di vigilanza. Roma. Caldaie rotte a Rebibbia, il Garante: “Situazione al limite, serve l’indulto” di Francesco Esposito fanpage.it, 27 novembre 2025 Freddo e sovraffollamento a Rebibbia. Il Garante per i detenuti Stefano Anastasìa: “Le caldaie saranno riparate, ma nuove carceri saranno pronte fra molti anni”. I riscaldamenti del carcere di Rebibbia a Roma non funzionano. I detenuti soffrono il freddo e l’unica fonte di calore sono gli altri carcerati, con cui vivono sempre più attaccati a causa della situazione di terribile sovraffollamento che affligge tutte le ‘patrie galere’ d’Italia. “Un problema che non si risolve in tempi brevi - commenta a Fanpage.it il garante dei diritti dei detenuti per il Lazio Stefano Anastasìa. O meglio, si potrebbe fare se non ci fosse un tabù sulla soluzione dell’indulto”. La denuncia delle temperature glaciali a Rebibbia, dopo quella di quest’estate sul caldo infernale, arriva da Gianni Alemanno, ex sindaco della Capitale condannato a un anno e dieci mesi di reclusione per traffico d’influenze. “Stiamo morendo dal freddo. Siamo giunti al 23 novembre e i termosifoni sono completamente spenti, mentre nevica in tutta Italia e le temperature scendono anche a Roma”, ha scritto in una lettera pubblicata ieri sulla sua pagina Facebook. Uno sfogo che trova conferma nel garante dei detenuti Anastasìa: “Non so se a Rebibbia si poteva fare un collaudo prima per verificare che tutto fosse in ordine, visto che l’incidente è avvenuto fin dall’accensione del 15 novembre. Mi sto informando per capirlo. Speriamo sia tutto risolto in tempi brevi”. Il gelo non penetra le ossa solo dei detenuti, ma anche degli agenti della polizia penitenziaria. “L’impianto è condiviso sia dal carcere che dalla caserma adiacente. Se la caldaia ha un difetto, si blocca tutto il servizio”, aggiunge. Il guasto alle caldaie si può aggiuntare in tempi brevi, ma “il problema vero è il sovraffollamento”, continua il garante per le carceri. La situazione nel penitenziario di Roma est è stata interessata anche dal crollo di una parte del soffitto avvenuto a Regina Coeli, per cui molti detenuti sono stati trasferiti in altri istituti del Lazio e non solo. “L’ultimo dato che ho su Rebibbia, del 31 ottobre, è di 1621 persone - aggiunge Anastasìa. È probabile che ora siano anche aumentate, perché con gli ingressi chiusi a Regina Coeli gli arrestati vengono portati qui. I posti regolamentari sono 1060: significa oltre seicento detenuti in più”. Una situazione al limite che va inserita nel quadro nazionale. “Oggi in Italia ci sono 16mila detenuti oltre la capienza regolamentare - sottolinea il garante -. Per queste persone in più si trova una sistemazione con le ‘terze brande’, cioè letti a castello fino al terzo livello, e occupando le stanze di socialità”. Questi luoghi, dotati di semplici tavoli da ping pong, scacchiere o biliardini, sono state trasformate in camerate. “Sei brande disposte a caso lungo i muri, i materassi arrivati dopo qualche giorno, nessun armadietto per riporre le povere cose di ogni persona detenuta, niente TV, tutto appoggiato alla rinfusa sul tavolo centrale che un tempo serviva appunto per il pingpong”, così li descrive Gianni Alemanno nella sua ultima lettera. “Qui dovrebbero passare il pomeriggio quando non ci sono attività - aggiunge Anastasìa - e, ormai in gran parte degli istituti del Lazio, il pomeriggio non ci sono più attività”. Le attività sono scomparse, secondo quanto riporta il garante, per due motivi. Primo, una recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria impone che qualunque attività con persone esterne debba essere autorizzata dal Ministero della Giustizia. “Ma la legge non lo prevede: dice chiaramente che è il magistrato di sorveglianza, previo parere del direttore, ad autorizzare”, commenta il garante. Questa procedura sta rallentando di molto le pratiche necessarie a far svolgere ai detenuti attività di apprendimento, volontariato, imprenditoria. “Abbiamo criticato molto questa circolare: noi garanti, i magistrati di sorveglianza, tutte le associazioni che lavorano negli istituti”. La seconda motivazione è di carattere strutturale: la carenza di personale della Polizia Penitenziaria. “Nel pomeriggio non ci sono abbastanza agenti per supervisionare le attività. Anche quando le associazioni ci sono, le attività non si possono fare - continua il garante per le carceri -. I detenuti potrebbero uscire per partecipare alle attività o per andare nelle sale socialità: ma le attività non si fanno e le sale socialità sono piene di letti. Risultato: oltre le quattro ore d’aria, restano chiusi in cella”. Il problema del sovraffollamento è grave, ma secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, non è legato a un altro dramma delle carceri italiane: i suicidi. “Paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella”, ha detto a luglio 2025. “Presto dirà che aiuta anche a combattere il freddo perché, accatastati gli uni sugli altri, ci riscaldiamo tra di noi”, lo attacca nella sua lettera Alemanno. Lo contraddice anche, soprattutto alla luce dei nuovi dati, Stefano Anastasìa: “Chi vuole suicidarsi ci riesce anche in una cella con altre cinque o sei persone: basta aspettare che gli altri vadano all’aria, o dormano, o siano distratti. I suicidi avvengono non solo nelle celle singole o in isolamento. Il ministro dovrebbe saperlo, o farselo spiegare”. I due fenomeni sono invece, secondo il garante dei detenuti del Lazio, strettamente collegati. “Il vero problema del sovraffollamento, che il ministro dovrebbe considerare, è che non significa solo mancanza di spazio, ma anche mancanza di personale e di cura. Polizia penitenziaria, educatori, sanitari e psicologi sono commisurati alla capienza regolamentare, non alle presenze reali. Se a Rebibbia ci sono seicento persone in più di cui occuparsi, è più facile perdere di vista qualcuno. È più facile che nessuno riesca a rispondere a una richiesta di aiuto. Questo aumenta il rischio suicidario”. Come contrastare un fenomeno che non sembra far altro che peggiorare? Il governo di Giorgia Meloni ha varato un programma di edilizia per le carceri che punta ad aumentare di diecimila unità i posti entro il 2027. Un progetto che, però, non convince il garante Anastasìa: “Innanzitutto negli ultimi tre anni la capienza è diminuita, non aumentata. Poi, la scorsa settimana il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha inaugurato un padiglione a Civitavecchia, aperto in fretta per l’emergenza di Regina Coeli e finanziato con i fondi PNRR. Fa parte del piano edilizio del governo, ma quello è un progetto del 2010, del governo Berlusconi. È stato inaugurato 15 anni dopo. Solo perché i fondi PNRR impongono di spenderli entro l’anno prossimo. Questo significa che i nuovi padiglioni, se tutto va bene, produrranno risultati nel 2030, 2035, 2040. Nel frattempo, le persone che oggi stanno in carcere cosa dovrebbero fare?”, si chiede il garante dei detenuti. “L’unica risposta efficace e immediata è un provvedimento generale di clemenza: amnistia o indulto”, aggiunge Anastasìa. Un’ipotesi che, però, non viene considerata “per una chiusura politica, soprattutto nelle forze di maggioranza, che hanno sposato il populismo penale - aggiunge -. Puntano a ottenere consenso con la repressione e quindi non vogliono dare all’opinione pubblica un segnale percepito come ‘lassista’. Ma un provvedimento che punti a svuotare gli istituti sarebbe ben accolto non solo dalle persone detenute, che vivono condizioni indegne, ma anche dal personale che lavora in condizioni impossibili”. Andria (Bat). Nella masseria il riscatto dei detenuti ha il sapore dei taralli di Margherita De Bac Corriere del Mezzogiorno, 27 novembre 2025 “Senza sbarre” è il progetto di reinserimento ideato da don Riccardo Agresti nella chiesa di San Luigi Castel del Monte. Tra i clienti anche il cantante Claudio Baglioni e l’attore Sebastiano Somma. Il valore del tarallo non si esaurisce nel gusto prelibato. Qui, è simbolo di riscatto, riconciliazione, restituzione. Così lo identifica don Riccardo Agresti, 64 anni, parroco della chiesa di San Luigi Castel del Monte di Andria, dotato di energia inesauribile e carisma, che ha saputo trasformare in realtà sociale ed economica un progetto da sognatore. Il tipico biscotto salato da forno è al centro di questa bella storia di gente dimenticata ed esclusa. Quelli tirati fuori dalle celle e “arruolati” da don Riccardo, pienamente incoraggiato dal vescovo di Andria, monsignor Luigi Mansi, ne impastano circa ottomila kg al mese, richiestissimi dai buongustai che li hanno assaggiati per contribuire alla causa del progetto “Senza sbarre”, fino a diventarne fan. Il cantante Claudio Baglioni li preferisce ai cereali. L’attore Sebastiano Somma al vino. “Senza sbarre” è un progetto di reinserimento di detenuti ed ex detenuti degli istituti di pena pugliesi e italiani ammessi, su decisione dei magistrati, a essere inseriti in programmi alternativi alla reclusione. Il fulcro di questa attività è la masseria San Vittore, 10 ettari di terreno, già gestita da don Gelmini con la sua Comunità Incontro, poi diventata preda del degrado. Restaurata con i fondi dell’8 per mille stanziati dalla Caritas nel 2017 (200 mila euro) è stata trasformata in un laboratorio tecnico agricolo e artigianale. Ospita in regime residenziale o semi residenziale quelli da avviare a una nuova vita da liberi. “Vengono a contatto con un nuovo mondo e hanno la possibilità di cambiare direzione ritrovando la speranza e il desiderio di andare avanti. Lavoro, comunità e i taralli li aiutano a trovare il riscatto”, si appassiona don Riccardo. Andria è un territorio difficile abitato da tante famiglie dove c’è un padre carcerato. “Un giorno venne da me una signora e, vedendola sempre sola, le domandai perché il marito non la accompagnasse”. Prima evasiva, poi mi confidò il vero motivo. Era dentro. Così è sbocciata prepotente la mia attenzione. Sono andato più volte in carcere, mancava tutto”. Erano gli inizi del 2000. La parrocchia si offrì come luogo di ritrovo per i detenuti in arresto domiciliare: “Ciò che gli offrivamo non bastava. Una volta fuori ricominciavano. Ero insoddisfatto, addolorato e ho pensato che la vita comunitaria sarebbe stata più efficace. Chi accettava la masseria doveva impegnarsi a lavorare, pregare e dialogare”. Nacque la cooperativa “A mano libera”, don Agresti presidente, che negli anni si è specializzata nella produzione di taralli, oggi venduti in molti supermercati del Sud e alcuni del Nord. Recidive - Chi sono i pastai? “Non so cosa questi uomini abbiano alle spalle, quali crimini abbiano commesso. L’importante è come si comportano quando sono qui, la loro voglia di trovare un’alternativa. Offrire l’opportunità del lavoro mentre sono in carcere abbassa la percentuale di recidive. Non sono d’accordo con chi ritiene che il recupero debba cominciare una volta terminata la pena”. La ricetta è segreta, non cedibile: “Ce l’ha donata la Provvidenza. Non è contenuta nei libri di cucina né svelata dai maestri pastai. L’abbiamo creata giorno dopo giorno, utilizzando materie prime naturali, modificando le quantità miscelate”. Don Riccardo è nato e vissuto a Andria, in un territorio malavitoso: “Ho sempre avuto attenzione verso gli scarti. Io mi sono sentito uno scartato e ho sperimentato l’esclusione. Vengo da una famiglia contadina, priva di strumenti culturali. Poi ho compreso che accanto a Dio valgo molto”. Belluno. “Detenuti per il sociale”, rinnovato fino al 31 dicembre 2026 il progetto di reinserimento comune.belluno.it, 27 novembre 2025 Deliberato nei giorni scorsi in sede di giunta il proseguimento del progetto “Detenuti per il Sociale”, iniziativa avviata nel 2024 e promossa dal Ministero della Giustizia per favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso attività di pubblica utilità sul territorio. Sarà valido fino al 31 dicembre 2026. Seguirà la sottoscrizione dell’accordo tra il Comune di Belluno e la Casa Circondariale di Baldenich, dando in questo modo seguito ad un’iniziativa che ha già portato buoni risultati in termini di inclusione, relazioni e reinserimento sociale. “Il reinserimento passa attraverso gesti concreti e attraverso la fiducia reciproca - commenta il sindaco, Oscar De Pellegrin -. “Detenuti per il Sociale” è un esempio di come il lavoro condiviso e l’inclusione possano trasformare percorsi difficili in nuove opportunità, generando benefici non solo per chi vi partecipa ma per l’intera Città. Belluno vuole essere una comunità capace di includere e di offrire seconde possibilità, perché è da queste scelte che si misura la maturità civile di un territorio”. Il progetto ha infatti l’obiettivo di offrire ai detenuti in regime di semi libertà occasioni concrete di formazione, responsabilizzazione e restituzione alla comunità. Al tempo stesso, rientra nel percorso pedagogico dell’Amministrazione Penitenziaria, che promuove opportunità di lavoro esterno come strumento fondamentale per il reinserimento nella società. “Questo progetto è il risultato di un lavoro calibrato e costruito con attenzione - spiega l’assessore al sociale, Marco Dal Pont -. Coinvolge persone che hanno fatto un percorso educativo e lavorativo importante e che hanno scelto di restituire qualcosa alla comunità, mettendosi a disposizione in modo volontario. È un processo virtuoso che unisce sicurezza, responsabilizzazione e solidarietà. Ringrazio il carcere di Baldenich per la collaborazione costante e i detenuti che hanno dimostrato impegno e senso civico”. Dalla primavera 2024 sono stati quattro i detenuti coinvolti nel progetto e che hanno svolto attività affiancati dai volontari comunali e dagli operatori dell’Istituto penitenziario. In particolare gli interventi hanno riguardato pulizia di tombini e canalette lungo strade comunali non asfaltate (come via Col de Gou), sfalcio dell’erba e manutenzione del verde pubblico, pulizia di vie e marciapiedi, con rimozione delle erbacce, tinteggiatura di arredi urbani, attività di decoro in diverse zone della Città (tra cui Orzes, Cirvoi, piazza Martiri, via Barozzi e la Panoramica). Il progetto ha coinvolto detenuti che già avevano maturato esperienze lavorative dentro e fuori dal carcere e che hanno scelto di dedicare il sabato mattina a un’attività totalmente gratuita a favore della Città. La cooperativa Sviluppo e Lavoro, presente all’interno del carcere da dieci anni, ha affiancato il percorso coordinando le attività con il personale dell’Istituto penitenziario e con il referente comunale Paolo Zaltron, che Sindaco e Assessore ringraziano, incaricato di seguire il lavoro dei volontari e documentare gli avanzamenti del progetto. Con il rinnovo dell’iniziativa verranno selezionati nuovi partecipanti che potranno inserirsi nel progetto e contribuire alle attività previste dal piano di lavoro per il 2025 e il 2026. Obiettivo dell’Amministrazione è ampliare le opportunità di impiego e consolidare ulteriormente una collaborazione che testimonia la volontà della comunità di includere ed evitare l’emarginazione sociale. Potenza. “Stra.d.e.”, percorsi di reinserimento sociale e lavorativo di persone in esecuzione penale esperienzeconilsud.it, 27 novembre 2025 Favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone detenute nel sistema penitenziario della provincia di Potenza con una pena definitiva residua non superiore ai quattro anni. È l’obiettivo di Stra.d.e. - strategie di empowerment per la ricerca attiva del lavoro, il progetto che sarà presentato giovedì 27 novembre, a partire dalle ore 9.30, nell’aula Grippo del Tribunale di Potenza. Stra.d.e. intende attivare una rete propositiva e sistematizzare le esperienze di reinserimento sociale di persone detenute, sperimentando un modello di inserimento lavorativo attraverso la realizzazione di tirocini di inclusione sociale e percorsi di orientamento e rafforzamento delle competenze. “La strategia prevede una forte collaborazione tra i diversi attori privati e pubblici, con un ruolo centrale delle strutture penitenziarie che, tramite i cosiddetti punti di accesso, segnaleranno i detenuti da coinvolgere”, sottolinea Antonio Sanfrancesco, responsabile del progetto. Un’équipe multidisciplinare si occuperà di sviluppare un progetto personalizzato che interessi tutte le dimensioni della persona (famiglia, salute, housing sociale, assistenza domiciliare), promuovendo l’acquisizione di abilità cognitive, emotive, relazionali di base prima di avviare un orientamento professionale attraverso un bilancio delle competenze. Questa fase potrebbe portare direttamente alla ricerca di un lavoro, facilitato da una apposita piattaforma web di incrocio con i bisogni delle imprese locali, oppure a una formazione d’aula con l’acquisizione di qualifiche, patenti e abilitazioni che precedono specifici percorsi “on the job” dentro e fuori dal carcere con il coinvolgimento delle aziende. “Il processo di inclusione è un processo in-out - aggiunge Sanfrancesco - nel senso che le due dimensioni dentro e fuori vengono integrate nell’unico obiettivo dello sviluppo della consapevolezza che è possibile uscire da situazioni di esclusione sociale dal mercato del lavoro”. L’iniziativa di presentazione del 27 novembre sarà l’occasione per un approfondimento sul ruolo dell’amministrazione penitenziaria e dei servizi della giustizia minorile e di comunità, con gli interventi di: Michele Mirgaldi, dirigente Ufficio detenuti e trattamento Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria Puglia e Basilicata; Dorella Quarto, dirigente Centro giustizia minorile per la Puglia e la Basilicata; Paolo Pastena, direttore Casa circondariale “Antonio Santoro” di Potenza; Maria Rosaria Petraccone, direttrice Casa circondariale di Melfi; Ornella Evangelista, funzionario di Servizio sociale Ufficio distrettuale esecuzione penale esterna di Potenza. In seguito un focus sul “lavoro che include e rigenera, i vantaggi per le imprese e per la società” con: Caterina Salvia, vicepresidente Legacoop Basilicata; Giovanni Quaranta, professore di Europrogettazione per lo sviluppo territoriale all’Università degli studi della Basilicata; Isabella Urbano, responsabile servizi per l’orientamento Cpi; Giuseppe Palo, presidente Ordine degli assistenti sociali della Basilicata; Roberto Grieco, direttore cooperativa sociale Fratello Sole; Tiziana Silletti, garante regionale delle persone detenute, vittime di reato, salute e anziani Regione Basilicata. Introdurrà i lavori, moderati dal progettista e responsabile amministrativo di Stra.d.e. Vincenzo Martinelli, l’assessora alle Politiche sociali del Comune di Potenza Anna Grieco. Concluderà Cosimo Latronico, assessore regionale alla salute, politiche per la persona e Pnrr. Forlì. Cinque studentesse del liceo e 15 detenuti uniti dal teatro tra le mura del carcere corriereromagna.it, 27 novembre 2025 È andato in scena all’interno del carcere di Forlì, nei giorni scorsi, lo spettacolo “Lo specchio dell’arte: voci e colori in frantumi”, diretto dalla regista Sabina Spazzoli e interpretato da 15 detenuti della sezione maschile e della sezione femminile, che hanno condiviso il palco con 5 studentesse del triennio del liceo “Monti” di Cesena: Alice Drudi, Maria Antonieta Polichetti, Arianna Magnani, Greta Peroni, Agnese Sintoni. Gli attori, provenienti da otto paesi diversi (Italia, Ungheria, Tunisia, Repubblica Dominicana, Brasile, Albania, Tunisia, Marocco, Burkina Faso) hanno dato voce con monologhi molto toccanti, spesso scritti da loro, ad artisti folli che la società ha emarginato. Insieme a Antonin Artaud, teorico del teatro e drammaturgo che ha posto le basi del teatro contemporaneo, internato per nove anni, e sulla cui figura ruota il tema triennale proposto dal Coordinamento Teatro Carcere, hanno espresso il loro disagio raccontando la loro storia, artisti come Van Gogh, Sarah Kane, Magritte e tanti altri, sulla straordinaria scenografia di Stefano Camporesi, ispirata alle macchie di Rorschach. Lo spettacolo, che fa parte del Festival Trasparenze, organizzato dal Teatro del Pratello, in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, è il frutto dei due laboratori, quello con gli studenti del Monti e quello con gli ospiti della Casa Circondariale, tenuti in parallelo dalla regista a partire da ottobre 2024. A maggio 2025 al teatro Bonci le ragazze del Monti, insieme agli altri ragazzi del Laboratorio Teatrale e del gruppo hip hop di istituto, avevano debuttato con lo stesso spettacolo con il titolo “Fuori e dentro. Storie di colori follia muri e... libera espressione”, nell’ambito del Festival di teatro scolastico dedicato a Elisabetta Turroni. La regista - La regista Sabina Spazzoli spiega: “Tengo laboratori con i detenuti della casa circondariale di Forlì dal 2010, ma la collaborazione tra Liceo Monti e carcere è iniziata nell’anno scolastico 2014 2015: Il Coordinamento Teatro Carcere scelse come tema la Gerusalemme liberata. Quando lo comunicai ai detenuti, uno di loro in uno spiccato accento regionale mi disse: “Ma Sabina, noi una condanna ce l’abbiamo già!”. Fu allora che mi venne l’idea di coinvolgere i ragazzi del “Monti”. Tenevo un laboratorio anche al liceo, coordinato dalla prof.ssa Franca Solfrini, che abbracciò con entusiasmo l’idea. Da allora “fuori” e “dentro” non hanno mai smesso di comunicare attraverso la stesura del testo per poi incontrarsi per le prove nei due giorni precedenti e sul palco del carcere. Ci tengo a far notare che questo progetto si può realizzare grazie alla collaborazione di tante persone: il direttore del carcere Carmela De Lorenzo, la polizia penitenziaria, i volontari dell’associazione Con...tatto, tutto il personale dell’area educativa, la compagnia Malocchi e Profumi, il Coordinamento Teatro Carcere, Giulia Magnani, ex allieva del Monti, veterana del Laboratorio teatrale e attrice, lo scenografo Stefano Camporesi, ma anche il Rotary Club Cesena, che per il secondo anno ci sostiene”. Le insegnanti - Daniela Romanelli docente referente del progetto, sottolinea il grande valore educativo dell’iniziativa: ““Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, ossia “sono un essere umano, non ritengo a me estraneo nulla di umano”, è il motto del liceo “Monti”. Questo celebre verso di Terenzio è la principale finalità del nostro istituto. Da sempre la nostra scuola, infatti, ben prima che l’educazione civica diventasse materia curricolare, fa maturare nei giovani la consapevolezza che la cultura, la conoscenza, la profondità dei classici portano con sé inevitabilmente senso civico, solidarietà, apertura all’altro. Attività come questa contribuiscono allo sviluppo di questi valori nei nostri ragazzi, di cui andiamo davvero fieri”. Letizia Bisacchi, altra docente, aggiunge: “È il mio secondo anno al “Monti” e, essendomi già occupata di teatro nella scuola dove insegnavo prima, quest’anno ho deciso di prestare le mie competenze a questo progetto. Per me è stata, quindi, la prima volta che entravo in un carcere, ma soprattutto che assistevo a uno spettacolo in carcere. È stata un’esperienza inaspettata e piena di sentimento. Questo progetto dà la possibilità ai detenuti di guardare oltre i confini del carcere e accende una luce di speranza. Lo spettacolo è stato di altissimo livello e commovente”. La studentessa - Agnese Sintoni, studentessa della 4a Ac del Monti, racconta così l’esperienza fatta: “Ho scelto di aderire a questo progetto perché la mia sorella maggiore aveva già fatto questa esperienza che l’ha arricchita molto. È stato così anche per me. Quello che mi ha colpito di più è stato sentire quanto per i ragazzi del carcere sia importante lavorare con noi e realizzare qualcosa insieme. Sono stati bravissimi, siamo subito entrati in sintonia e l’emozione è stata più grande di quella provata sul palco del Bonci. Mi rendo conto dell’impegno profuso da tanti, ma ne vale davvero la pena”. La presidente Rotary e l’assessora - Ombretta Sternini, presidente Rotary Club Cesena, è stata colpita soprattutto dalla “modalità con cui è stata trattata, in un percorso ricco di riferimenti culturali, la tematica dell’arte come strumento di riscatto e di libertà”. Gratitudine alla regista Spazzoli, alla professoressa Romanelli, alle studentesse e agli studenti e ai detenuti è stata espressa dall’assessora Carmelina Labruzzo, che ha assistito all’evento: “È stata un’occasione unica di condivisione. La narrazione, portata in scena con grande passione, è piena di contenuti profondi e spunti arricchenti. Un viaggio delicato tra arte e follia. Un bel percorso che rimarrà nelle menti e nei cuori di tutti coloro che hanno recitato e che hanno avuto il privilegio di assistervi”. Roma. L’abbraccio di Papa Leone ai detenuti trevigiani in pellegrinaggio con il Vescovo trevisotoday.it, 27 novembre 2025 Il saluto al termine dell’udienza generale. In dono al Papa anche un dolce a forma di Leone di san Marco, preparato da Giovanni. Due i detenuti della Casa circondariale che hanno partecipato, e tre i giovani, già ospiti del Minorile e oggi all’esterno in misura alternativa. “Quello che mi è successo oggi è stato un dono di Dio, l’incontro più bello della mia vita”: è così che Giovanni, detenuto della Casa circondariale di Treviso, racconta l’esperienza giubilare a Roma che si è conclusa con l’udienza generale di papa Leone e l’incontro con lui, mercoledì 26 novembre. Con Giovanni, un altro detenuto del “Maggiore” e tre giovani che sono stati ospiti dell’Istituto penale minorile e ora vivono all’esterno in misura alternativa. Insieme a loro il vescovo Tomasi, la cappellania del carcere di Treviso e la direttrice dell’Ipm, con il Comandante della Polizia penitenziaria e un’educatrice. Un’iniziativa resa possibile dall’impegno delle direzioni dei due Istituti, della Caritas di Trviso, e della cappellania, con don Otello Bisetto, don Pietro Zardo e tutti gli operatori e i volontari. “Grazie di equesta esperienza unica e speciale per me. Ricevere la benedizione del Papa per la mia famiglia, che sta passando un brutto periodo per problemi di salute, è stato molto bello” racconta il giovane Stefano. E Giacomo, che ringrazia chi gli ha dato la possibilità di partecipare “a questa attività unica, che mai mi sarei aspettato”, si dice “contento di aver visto il Papa e aver passato questi giorni insieme”. I trevigiani hanno portato al Papa alcuni doni, tra cui un dolce a forma di Leone di san Marco. Dal Papa ascolto e incoraggiamento per il loro percorso e un grande sorriso quando gli hanno detto che “il leone dell’evangelista Marco proteggerà Leone”. “Sono storie di vita e di riscatto che si incontrano e si incrociano in un abbraccio e in un saluto cordiale che il Papa ha voluto fare al nostro gruppo, con un ascolto attento e prezioso delle storie e delle esperienze che sono state portate a lui dai detenuti e dagli operatori del minorile e della casa circondariale”: è così che il vescovo, monsignor Michele Tomasi, racconta “un momento davvero di intensa emozione, di accoglienza delle possibilità di ricominciare sempre di nuovo, in particolare per i più giovani, che possono costruirsi una vita migliore con l’aiuto di tanti”. E l’accoglienza del Papa, aggiunge “dice anche a noi che siamo chiamati ad accogliere, a dare nuove possibilità, a creare una civiltà dove la fraternità diventi norma, nella giustizia e nella verità, ma soprattutto nel rispetto della dignità di ogni persona”. “Accompagnare oggi tre ragazzi, che sono stati seguiti in Ipm con progetti che loro hanno abbracciato e perseguito con determinazione, e che oggi, proprio grazie a questo impegno, sono all’esterno in misura alternativa, ragazzi che perseguono obiettivi di ricostruzione e rinascita, è stata un’emozione unica” racconta a caldo la direttrice dell’Ipm, Barbara Fontana. “Vedere l’emozione nei loro occhi e la speranza di cui oggi il Papa ha parlato, speranza che è il motore della vita, soprattutto per chi è inciampato e ora cerca faticosamente di riappropriarsi di un futuro - aggiunge -, restituisce senso al lavoro, non solo, il mio, come direttore, ma a quello di tutti gli operatori della Giustizia che quotidianamente sostengono con impegno e speranza, appunto, queste giovani vite, che oggi hanno sperimentato un momento di spiritualità e comunità condivisa”. Alessandro Bonaccorsi e il “Disegno brutto” in carcere di Elisabetta Ambrosi Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2025 “Lo scopo è aiutare i ragazzi detenuti a fare pace col passato”. Il progetto scelto da Terre des Hommes: un metodo pensato per chi non sa disegnare, che libera dai condizionamenti e crea nuovi punti di vista sulla realtà: “Non si giudica e non si viene giudicati”. “C’era un ragazzo, in carcere, che si masticava i fogli, perché non gli piaceva quello che disegnava. Un giorno si è disegnato in una buca, che era come si sentiva in quel periodo. Mi sono accorto che la forma della buca che aveva disegnato non era chiusa e quindi gli ho detto, ‘vedi, stai esprimendo il fatto che puoi uscirne’. Il disegno è parte di noi, e spesso rappresenta un pensiero o una sensazione”. Alessandro Bonaccorsi vive a Ravenna ed è un disegnatore, autore, formatore e facilitatore grafico. È anche l’inventore del “Disegno Brutto”, un metodo pensato per chi non sa disegnare, che libera dai condizionamenti e crea nuovi punti di vista sulla realtà. “Uno strumento incredibile per pensare meglio, rilassarsi, divertirsi, capire, comunicare, con un’apparenza scherzosa che nasconde un percorso filosofico di crescita personale”, lo definisce Alessandro. Che lo ha messo a punto dopo anni di ricerca su di sé, passando per diversi fallimenti universitari, per un periodo da allenatore di pallavolo semiprofessionista e di grafico-operaio in una grande industria grafica, fino a diventare un creativo freelance vent’anni fa. A un certo punto, arriva l’idea di un nuovo modo di disegnare, il Disegno Brutto, appunto. Esploso sui suoi social network ben prima della pandemia (nel 2017). Da quel momento lo ha insegnato in tutta Italia, in decine di corsi, agli infermieri come ai manager, ai docenti come agli impiegati, in associazioni, festival, musei, aziende, persino università. Un anno fa è stato chiamato dalla Fondazione “Terre Des Hommes” per un progetto nel carcere Beccaria di Milano. “Cercavano delle attività per far capire ai ragazzi che c’è un altro modo di pensare e che avessero un approccio originale”, racconta. Il Disegno Brutto è uno dei laboratori proposti da Terre des Hommes con il progetto Chance (avviato con il sostegno di Enel Cuore). Un progetto che mette al centro la persona, a prescindere dal reato, o dalla divisa e che vuole favorire il dialogo tra minorenni detenuti, agenti e operatori offrendo nuove possibilità di espressione, crescita e comprensione reciproca. Alessandro ha iniziato un primo laboratorio, a gennaio di quest’anno, fatto da sette incontri, che si ripeteranno poi per altri due corsi. “Si lavora nel refettorio della sezione, una quindicina di ragazzi ogni volta, li chiamo dall’uscio delle celle. Mi aiuta una mediatrice culturale di lingua araba, perché molti detenuti sono arabofoni. L’obiettivo è dare la possibilità di creare un nuovo racconto di sé, lavorare sulla loro identità così come sulla relazione con l’altro. Qualunque cosa disegnano va bene, lo scopo è far sì che si lascino andare, farli entrare in comunicazione attraverso il segno, ancora lavorare sulla memoria del luogo da cui sono venuti e sull’immaginazione di un possibile futuro”. Il Disegno Brutto è un metodo che favorisce questi aspetti. In particolare, aiuta il racconto del tempo, e quindi della vita, un tema venuto fuori fin da subito, spiega Bonaccorsi. “Fin dalla prima sessione è venuta fuori l’insofferenza di essere chiusi lì dentro, il fatto che il tempo si ripeta uguale. Un ragazzo ha disegnato un serpente che si mangia la coda e delle persone chiuse dentro il serpente”. Un altro aspetto positivo del Disegno Brutto è l’effetto calmante, “anche i ragazzi che avevano problemi di attenzione, che normalmente non riescono a stare fermi un attimo, sono stati seduti per un’ora a disegnare. Ho scoperto anche che molti sono analfabeti graficamente, per dire, hanno difficoltà a fare cerchi concentrici, e non hanno dimestichezza con la scrittura e il disegno. Hanno abilità di disegno rimaste a quando avevano dieci anni, eppure riescono con quei tratti e quelle figurazioni incerte o infantili a esprimere pensieri complessi”. Durante le due ore, il “maestro” fornisce poche indicazioni essenziali, propone piccoli esercizi, e comunque non dice mai frasi come “potevi farlo meglio”. Non ci si giudica e non si viene giudicati. Il Disegno Brutto è un metodo attraverso cui, anche sbagliando, nell’errare, ci si esprime, e questo crea fiducia, ma anche “un rapporto, anche fisico, i ragazzi mi abbracciano, siamo in un habitat di tranquillità e calma, riusciamo a creare un giardino interiore”. Durante il percorso “emergono emozioni forti. C’è un ragazzo che dopo il secondo incontro mi ha detto che non sarebbe più venuto, perché tutto quello che disegnava lo riportava a un passato, un passato dove stava bene e che ora non c’è più. Però passa sempre a salutare, anche se non si siede. Anche questo è, comunque, un rapporto”. “Saggezza e follia”, l’autobiografia di Don Antonio Mazzi di Maria Giuseppina Buonanno Oggi, 27 novembre 2025 “Se fossi stato saggio, non avrei fatto tutto quello che ho fatto”, dice il sacerdote. “Papà mi ha lasciato a 13 mesi: spero di rivederlo in paradiso”. “Sono nato in una stalla, come Gesù Bambino. Quello era il luogo più caldo della casa”. Così ricorda don Antonio Mazzi, venuto al mondo il 30 novembre 1929 a Verona, nella cascina dei nonni senza riscaldamento. E così il fondatore della Comunità Exodus, che si occupa di dipendenze, accoglienza, prevenzione e formazione, fa memoria della sua vita di uomo e di prete ora anche nell’autobiografia “Saggezza e follia”, appena pubblicata da Piemme. “In verità, non ho mai condotto una vita saggia. Sono un caratteriale”, mette le mani avanti il don con il suo stile sempre poco canonico, seduto alla scrivania del suo studio nella Cascina Molino Torrette, sede nazionale di Exodus, a Milano, davanti al Corriere della Sera. “Tutte le cose che mi sono capitate hanno poco a che fare con la saggezza. Certo, durante l’alluvione del Po, a Ferrara, nel 1951, ho dato una mano. Poi quando sono venuto a Milano perché dovevo dirigere una scuola professionale fondata da don Luigi Verzé, mi sono occupato prima di educazione e poi di tossicodipendenza e terrorismo. Comunque, se non fossi stato un caratteriale, non avrei fatto tutto quello che ho fatto. E senza la disperazione degli oltre 200 ragazzi colpiti dall’alluvione, forse non avrei scelto di diventare prete”. Qui si tocca un punto cruciale: la paternità, condizione che attraversa la missione sacerdotale di don Mazzi e anche il libro. Figlio di Guglielmo, ferroviere, morto lasciandolo a 13 mesi, e di Maria, casalinga, rimasta vedova a 24 anni mentre aspettava un altro bambino, don Antonio ha sentito intensamente l’assenza del padre. Un’assenza e un dolore che hanno segnato la sua vita. “Non ho mai accettato la sua morte. Spero di trovarlo in Paradiso. Mi è mancato molto. E mi è mancata anche la mamma, sarta e ricamatrice, perché eravamo poveri e lei ha dovuto sempre lavorare tanto per crescere me e mio fratello”, dice. E riflette sulla “pazzia” evocata dal titolo del libro. “Non so se è stata follia, ma sicuramente la cosa più rischiosa che mi è capitata è stata quella di accogliere in comunità Erika”, ragiona don Antonio. Si riferisce a Erika De Nardo che nel 2001, a 16 anni, aveva ucciso con il fidanzato, a Novi Ligure (Alessandria), la mamma e il fratellino. Nell’autobiografia racconta che inizialmente di fronte a lei si era sentito “spaventato”. Poi il rapporto col padre della giovane, che è stato sempre vicino a sua figlia, ha cambiato il suo atteggiamento. “L’ho poi seguita nella tesi, nella laurea, nel suo mettere su casa. Il suo percorso mi fa ben sperare”, scrive nell’autobiografia. E aggiunge: “Mi piacerebbe rivedere il padre perché lui è stato ammirevole, è lui che l’ha salvata”. Nel libro trovano casa tanti giovani che don Antonio ha accompagnato lungo strade complicate. Tra loro c’è Fabrizio Corona. “Con lui c’è stato un rapporto un po’ difficile. L’impresa con lui mi è riuscita meno bene”, spiega il fondatore di Exodus. Il sacerdote ha sempre accolto tutti, persone in debito con la giustizia, tossicodipendenti, assassini, terroristi, ragazzi fragili. Ha raccolto ceste di dolore. Ha ospitato, tra molti altri, Marco Donat-Cattin (1953-1988), esponente di Prima Linea coinvolto, nel 1979, anche nell’omicidio del magistrato Emilio Alessandrini, figlio di Carlo (1919-1991), politico della Democrazia cristiana. Il padre chiese a don Antonio di aiutare il figlio, che poi si impegnò nella comunità. E andava “a trovarlo di notte, visto che era agli arresti domiciliari e quindi si sarebbe sempre dovuto chiedere un permesso al magistrato”, si racconta nel libro. “È morto in un incidente stradale senza riuscire a chiedere perdono a chi aveva provocato dolore. Ricordo che il padre mi chiamò di notte perché andassi da suo figlio in ospedale, a Verona, perché lui non aveva il coraggio di farlo. Marco aveva un carattere difficile, un rapporto conflittuale con lui”, spiega don Antonio. La paternità è un filo rosso che attraversa il libro: il tormento su papà Guglielmo, i giovani che ha accompagnato e sollevato da vite difficili. Ma un figlio suo non gli manca. “Considero figli miei tutti i ragazzi che ho incontrato e che tuttora incontro nelle mie comunità. Per il resto, nella mia esperienza a Primavalle, a Roma, da prete giovane, qualche ragazza ha mostrato entusiasmo verso di me. Ma io ero concentrato sul mio impegno”. Nello studio di don Mazzi ci sono tante foto che lo ritraggono con personaggi dello spettacolo: per esempio con Renato Zero, con Mara Venier, che lo ha ospitato dal 1993 al 1997 a Domenica in. Don Antonio non è pentito di essere stato per tanti anni il “prete della tv”. “Alla fine ho sempre avuto fortuna: tante scelte le ho fatte perché avevo “poca testa”. Prima di andare a Domenica in avevo chiesto consiglio al cardinal Carlo Maria Martini (1927-2012). “Vai, ma stai attento”, mi aveva detto. Oggi con Mara ci sentiamo spesso”. Dalla libreria dello studio, dove ancora ci sono le macine di un antico mulino, spunta anche il Tapiro d’oro, il premio che porta a Striscia la notizia e ad Antonio Ricci. “È un amico. Ed è sempre vicino alle iniziative di Exodus”, sottolinea don Antonio. E se gli si chiede come ripensa a quello che ha realizzato, alle buone battaglie combattute, riflette così: “Posso solo dire che sono stato un folle. Se guardo indietro, vedo che ho rischiato la vita sei o sette volte perché ero considerato uno che dava fastidio e c’era chi voleva farmi sparire”. A don Antonio, nella fragilità della sua età, non manca di immaginare il futuro: “Ho deciso di accettare quello che viene. E se penso all’incontro col Padre Eterno, mi ritrovo di nuovo a soffermarmi sulla paternità. E spero di incontrare il mio papà”. Dal papà al Papa: “Leone XIV dice parole giuste. Ma forse manca un po’ di empatia. Ascoltandolo, sei sicuro che parla alla testa, ma non sei sicuro che parli al cuore”. Lo dice affettuosamente, lui che ama le vie del cuore. Libertà di sbagliare di Serena Sileoni La Stampa, 27 novembre 2025 Il controverso caso dell’imam di Torino espulso dal governo. O difendiamo sempre la possibilità di esprimersi, o accettiamo che il discorso d’odio possa essere limitato. Fino a che punto le frasi, anche le più indecenti, possono essere pericolose? Come sempre, la risposta è facile a dirsi, difficile a realizzarsi. A parole, esiste una differenza fra un discorso odioso e un discorso d’odio, che inciti alla violenza e che sia fonte diretta di pericolo. La differenza è nel fatto che le parole, per quanto odiose, non possono da sole essere esplosive. Per essere tali, per compromettere la sicurezza degli altri, devono essere accompagnate da un elemento di violenza che è estraneo alle sola forma verbale. Nei fatti, stabilire però se manifestare un pensiero carico di odio induce a praticarlo, mettendo in pericolo l’ordinato vivere civile, è davvero complicato. Nei giorni scorsi, l’imam Mohamed Shahin di Torino è stato espulso con provvedimento del ministro dell’Interno Piantedosi per aver dichiarato e ribadito la non violenza delle atrocità del 7 ottobre 2023 contro gli israeliani, di sostenere Hamas e di “essere d’accordo con quello che è successo”. L’espulsione amministrativa, introdotta dal testo unico sull’immigrazione del 1998, è consentita per motivi di ordine pubblico e sicurezza dello Stato ed è disposta dal ministro dell’Interno. Specie dopo gli attentati ispirati dall’integralismo musulmano, gli interventi di espulsione hanno anticipato la concretezza del pericolo per l’ordine pubblico, fino a diventare una misura di prevenzione difficilmente contestabile. Il ministro, infatti, gode di ampia discrezionalità nel valutare le esigenze di sicurezza nazionale e un eventuale ricorso al giudice di norma soccombe rispetto all’esercizio di una funzione di alta amministrazione, in quanto direttamente imputabile al ministro stesso. L’espulsione dell’imam di Torino è l’ultima di una ormai lunga serie di provvedimenti simili, in particolare verso esponenti di religione musulmana. Anzi, dopo l’attentato alle Torri Gemelle è divenuta lo strumento di principale uso per contrastare la radicalizzazione religiosa di matrice islamica. È da quella infausta data, infatti, che la categoria della sicurezza è entrata nella quotidianità del lessico e della pratica giuridica. Da allora, religione e sicurezza hanno smesso di essere l’una il sostegno dell’altra e hanno iniziato un lungo conflitto faticosamente gestito dai governi. Il terrorismo di matrice islamica, in particolare, ha messo in contrapposizione religione e protezione della democrazia, in un contesto di difficile dialogo anche per la mancanza di un’organizzazione confessionale di questa religione e per l’emersione (e l’emergenza) del terrorismo incubato nelle sue forme deviate. L’appartenenza alla religione musulmana è diventata così una specie di elemento indiziario di pericolosità, che, sommato a dichiarazioni odiose come quella dell’Imam di Torino, può bastare a giustificarne l’allontanamento dal suolo italiano. L’espulsione infatti, a meno che non vi siano elementi che conoscono i servizi italiani e che noi non possiamo conoscere, pare motivata esclusivamente dalle parole prima citate. Parole inascoltabili, certo, ma se fossero solo queste dovremmo porci la domanda fino a che punto si può alzare il livello di allerta e prevenzione. La sicurezza è un limite ai diritti di libertà. Le manifestazioni possono essere impedite, le libertà di circolazione, soggiorno, associazione possono essere limitate per motivi di sicurezza. Ma è dannatamente complicato decidere, prima che sia troppo tardi, se l’ordinato vivere civile sia sotto minaccia. Se vogliamo che le nostre democrazie e le libertà che ogni giorno vi esercitiamo non siano solo riparate quando vengono offese, ma protette dall’essere offese, dobbiamo accettare un grado di prevenzione che porta, inevitabilmente, una forma di controllo di quello che facciamo e diciamo. Se questo è il compromesso teorico da accettare, la vicenda di Torino è tuttavia frutto di due errori, molto lontani tra loro. Il primo è un errore “a destra”. Con la sua deriva securitaria, il governo non ha solo inventato nuovi, inutili reati. Ha anche mostrato un atteggiamento di chiusura verso ciò che non è cultura tradizionale e che, con particolare riferimento alla religione musulmana, ha avuto il suo picco nelle dimissioni, un anno fa, dell’intero Consiglio per le relazioni con l’Islam, dopo che il ministro Piantedosi ne aveva congelato la decennale attività. Non sempre il dialogo è proficuo e utile, ma certo averlo interrotto non è stato un buon segnale di volontà di integrazione. Il secondo è invece un errore “a sinistra”. Da anni, le sinistre - non solo quella italiana - hanno alzato il livello del discorso d’odio ridefinendo, o volendo ridefinire, i limiti della libertà di espressione e il concetto di vittima. L’espansione dell’hate speech è tale che vi si includono opinioni e critiche, persino sberleffi e motti che un tempo erano considerati tollerabili. Se l’asticella di ciò che è accettabile dire si abbassa, allora non importa che le parole odiose siano dette contro questa o quella categoria di persone, o questo o quel fatto storico, che a dirle sia una persona di religione protestante che si chiami Charlie Kirk o di religione musulmana che si chiami Mohamed Shahin. La libertà di parola o la si difende sempre, o si accetta che possa costituire un elemento di radicalizzazione da combattere, a prescindere dalla natura del discorso, da chi lo fa e dai suoi destinatari. Non deportate l’imam di Torino di Stefano Galieni L’Unità, 27 novembre 2025 Oggi l’udienza di convalida del trattenimento per l’imam della moschea di via Saluzzo a Torino, Mohamed Shahin, prelevato da casa e portato da Torino nel Cpr di Caltanissetta. Cittadino egiziano, regolarmente residente in Italia da 20 anni, due figli minorenni nati qui, una vita da attivista impegnato in questi ultimi anni nelle mobilitazioni per Gaza e la Palestina intera, Shahin sta per essere espulso in Egitto dove rischia la vita. L’avvocato Gianluca Vitale: “Non sappiamo cosa accadrà dopo l’esito dell’udienza per la convalida, che avverrà da remoto. Si rischia di recarsi in Sicilia - magari quando già Mohamed Shahin è in volo, o quando sta per ripartire, perché, nei disegni del Ministero questa è la sentenza già scritta - unicamente per portare i due figli, di 9 e 12 anni a salutare il papà che forse non vedranno più vivo”. Di vicende come quelle che si stanno svolgendo a Torino, Caltanissetta e purtroppo, presumibilmente Il Cairo, ne sentiremo presto molte altre. Il protagonista stavolta, suo malgrado è l’imam della moschea Omar Ibn Al Khattab di via Saluzzo a Torino, Mohamed Shahin, cittadino egiziano, regolarmente residente in Italia da 20 anni, due figli minorenni nati qui, una vita da attivista impegnato soprattutto in questi ultimi anni nelle mobilitazioni per Gaza e la Palestina intera. Rischia di essere rimandato nel suo Paese in cui corre gravissimi rischi. La vicenda è solo apparentemente semplice e si mescola a tentativi di attuazione di forme di repressione e di intimidazioni politiche su vasta scala, connesse a quello che viene chiamato il Ddl Gasparri, che, recependo altre interpretazioni, trasforma ogni critica verso lo Stato di Israele in atto di antisemitismo e in quanto tale, un reato perseguibile. Proviamo a ripercorrere questa storia, grazie alla segnalazione giunta da “Torino per Gaza”. Mohamed Shahin in passato è stato identificato perché, insieme ad altre centinaia di persone, stava realizzando un blocco stradale di protesta contro il genocidio. Il 9 ottobre scorso durante una delle tante manifestazioni per la Palestina, Shahin aveva dichiarato che l’attacco del 7 ottobre era stato un atto di resistenza dopo anni di occupazione, suscitando ovviamente molte polemiche. Ha espresso una sua opinione, opinabile ma legittima. Meno opinabile, secondo uno dei suoi legali, Gianluca Vitale, è che chi lo voglia cacciare dall’Italia continui a regalare perle di negazionismo di un genocidio accertato dalla Corte Penale Internazionale. E il negazionismo, se si segue questo filo, non è un’opinione ma un reato perseguibile. La deputata torinese di FdI Augusta Montaruli, già nota alle cronache per una condanna passata in cassazione con l’accusa di peculato (1 anno e mezzo) dimessasi da sottosegretaria dopo la vicenda “rimborsopoli”, ha usato lo scranno parlamentare per chiedere, attraverso un’interrogazione parlamentare, la testa di Mohamed Shahin, accusandolo esplicitamente di connivenza col terrorismo e di avere, dal suo pulpito, incitato all’odio. Il motivo: l’imam aveva osato definire Hamas un “movimento di resistenza” e non un’organizzazione terroristica. Che Hamas sia un partito politico, nei valori proclamati molto simile a quello a cui appartiene la deputata, poco conta. Il ministero immediatamente ha obbedito e Matteo Piantedosi ha firmato, di suo pugno, il decreto di espulsione per l’imam. Nessun processo e nessun confronto. Shahin costituisce, secondo il Viminale, un pericolo per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato e quindi deve essere allontanato. Mohamed Shahin è stato prelevato a casa, gli è stata revocata la carta di soggiorno ed è stato portato in aereo al Centro Permanente per i Rimpatri di Caltanissetta. Potevano almeno trattenerlo in quello di Torino che, a quanto ci risulta, aveva posti vuoti. Lo si è allontanato, dalla famiglia e dai suoi due avvocati, oltre a Vitale, la collega Fairus Ahmed Jama. Per un giorno se ne sono perse le tracce poi, grazie al cellulare presente nel modulo del Cpr nisseno, è riuscito a chiamare famiglia e avvocata. Mentre da Torino veniva presentato ricorso contro la revoca della carta di soggiorno, si confermava il decreto di espulsione. A quel punto Mohamed Shahin chiedeva protezione internazionale non essendo il Paese d’origine, l’Egitto, per lui sicuro in quanto considerato oppositore di Al Sisi. Vicende come quelle di Abu Omar, Patrick Zaki e, soprattutto quella di Giulio Regeni, fra loro infinitamente diverse anche negli esiti, danno l’idea di cosa possa significare essere rimandati in Egitto. Per uno che è stato recentemente liberato, l’anglo egiziano Alaa Abd El-Fattah, sono decine di migliaia le persone, la cui vita è sospesa, spesso senza processo e subendo maltrattamenti, torture, sparizioni è normalità in Egitto, Paese da non disturbare. Sindacalisti, intellettuali, giornalisti, persone considerate vicine alla Fratellanza Musulmana, chi è considerato insidioso sparisce nelle viscere delle carceri del Paese e guai, come nella vicenda Regeni, a voler cercare di punire i colpevoli di torture e omicidi. Vitale ci offre una sua ricostruzione degli eventi fortemente critica. “Io non ho ancora formalmente la nomina che è stata conferita alla mia collega. Ma l’espulsione ministeriale è una decisione grave che si attua per fondati elementi di pericolosità sociale e per lo Stato. (art 13 comma 1). Secondo la motivazione l’imam risulta legato alla Fratellanza Musulmana, l’islam moderato con cui molti governi continuano a fare affari, non un’organizzazione terroristica. Meno grave rispetto alle accuse che portarono all’espulsione dell’Imam di Carmagnola e che portarono alla sua espulsione. Almeno in quel caso c’era un radicalismo di stampo islamista che poteva essere equivocato. Qui gira tutto intorno al tema Palestina e al clima instaurato con il ddl Gasparri, attraverso cui si vorrebbe equiparare ogni critica ad Israele come reato di antisemitismo. In nessuna affermazione Mohamed Shahin ha mai rivolto accuse verso “gli ebrei”. Abbiamo scoperto dove era stato trasferito solo grazie all’intervento del deputato Marco Grimaldi (Avs) e la distanza non ci permette di difenderlo adeguatamente, tanto è che stiamo cercando supporti sul territorio. Ieri il nostro assistito ha avuto un primo incontro, on line, con la Commissione territoriale per la richiesta d’asilo competente, a Siracusa, senza il supporto della difesa. A mio avviso il trasferimento in Sicilia non ha alcuna motivazione, è una decisione arbitraria e utile a velocizzare l’espulsione. Giovedì 27 novembre ci sarà l’udienza per la convalida del trattenimento e poi c’è il rischio forte che si proceda al rimpatrio. Noi ci stiamo attrezzando per un ricorso al TAR del Piemonte, rispetto alla revoca della carta di soggiorno, a quello del Lazio, per l’espulsione e siamo pronti a ricorrere alla Corte Europea ma è una corsa contro il tempo. A me è capitato recentemente di seguire il caso di un ragazzo, sempre egiziano, che si è ritrovato condannato, a causa del possesso di alcuni video, per complicità col terrorismo (art 270). Dopo 3 anni ha usufruito dei benefici di sconto di pena ed è uscito dal carcere. Quando la pena è stata considerata estinta lo sono venuti a prendere a casa e lo hanno portato in Egitto lasciando moglie e 3 figli piccoli. Io la mattina stessa ho presentato il ricorso in Corte Europea, la sera ho avuto sentenza positiva ma lui è rimasto in Egitto, in carcere per 6 mesi ed è stato sottoposto a torture. Solo recentemente la famiglia ha appurato che è vivo”. Vitale critica duramente le ragioni di chi lo accusa anche se, quando parla del rischio di incolumità per il suo assistito arrivano risposte del tipo “cosa ne sanno gli egiziani delle ragioni per cui torna a casa?” E il legale tenta di spiegare le tre ragioni fondamentali per cui Mohamed va liberato: “Intanto da noi esiste ancora la libertà di manifestazione del pensiero; poi per il reato di istigazione si apre un procedimento penale qui, non si interrompe la vita di una persona che non ha più legami con l’Egitto, che ha una propria vita personale e familiare qui. Da ultimo c’è un totale disprezzo dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibisce l’espulsione in un Paese in cui si rischia di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Ma evidentemente queste tre motivazioni non sono ritenute sufficienti”. Oggi in contemporanea con la richiesta di convalida del trattenimento, sono previsti presidi davanti al Cpr di Caltanissetta, dove entrerà un consigliere regionale, e a Torino, attivisti stanno cercando di realizzarne in altre città. È partita da ieri una petizione per fermare l’espulsione https://c.org/FxR2QMGFYB che si invita a sottoscrivere velocemente. Come non chiudere con il commento amaro dell’avvocato. “Non sappiamo cosa accadrà dopo l’esito dell’udienza per la convalida, che avverrà da remoto. Si rischia di recarsi in Sicilia - magari quando già Mohamed Shahin è in volo, o quando sta per ripartire, perché, nei disegni del ministero questa è la sentenza già scritta - unicamente per portare i due figli, di 9 e 12 anni a dir loro di andare a salutare il papà che forse non vedranno più vivo”.